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BRANO BIBLICO SCELTO – ROMANI 10,8-13

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BRANO BIBLICO SCELTO – ROMANI 10,8-13

Fratelli, 8 che dice la Scrittura? « Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore »: cioè la parola della fede che noi predichiamo. 9 Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. 10 Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza. 11 Dice infatti la Scrittura: « Chiunque crede in lui non sarà deluso ». 12 Poiché non c’è distinzione fra giudeo e greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano. 13 Infatti: « Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato ».  

COMMENTO Romani 10,8-13 L’efficacia della fede Nei cc. 9-11 della sua lettera ai Romani Paolo si pone un problema che doveva interessare direttamente i cristiani provenienti dal giudaismo: come si può dire che Cristo abbia portato la salvezza definitiva se proprio i giudei, ai quali per primi era stata promessa, l’hanno rifiutata. Nel c. 10, riprendendo uno spunto già presente nel capitolo precedente, egli afferma che Israele non ha raggiunto quella giustizia di cui era il primo destinatario perché non ha capito che proprio secondo la Scrittura essa si acquista esclusivamente mediante la fede. Questo malinteso non è frutto di ignoranza, ma di un rifiuto colpevole, che già i profeti avevano preannunziato. Di questa argomentazione la liturgia riprende solo il brano in cui si parla dell’efficacia della fede. Per capirlo correttamente bisogna ricordare che Paolo, in contrapposizione con la giustizia che proviene dalla legge, descrive qui la giustizia che viene dalla fede. A questo proposito egli utilizza anzitutto nei vv. 6-7 un brano del Deuteronomio, riletto alla luce della traduzione aramaica (Targum) che a sua volta si ispira al Sal 107,26: in esso si dice che il comando del Signore «non è nel cielo perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Non è di là dal  mare(Tg: nel profondo del grande abisso), perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare (Tg: chi scenderà nel grande abisso) per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Anzi questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,11-14). In questo testo si vuole esprimere la sintonia della legge con le intime aspirazioni del cuore umano. Secondo Paolo invece la giustizia (personificata) che viene dalla fede esorta a non usare le espressioni «chi salirà al cielo» oppure «chi discenderà nell’abisso» perché esse significano rispettivamente la venuta di Cristo e la sua risurrezione (vv. 6-7), due eventi che si sono già realizzati. Inizia qui il testo liturgico in cui Paolo si pone la domanda: «Che dice dunque?» e risponde: «Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo» (v. 8). In questa risposta egli fa uso di Dt 30,14, riprendendo però solo la prima parte («Anzi questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore»), mentre sostituisce la seconda («perché tu la metta in pratica»). La vera giustizia si limita a dire, con le parole della Scrittura, che la parola di Dio è una realtà non lontana dal credente, ma molto vicina a lui, sulla sua bocca e nel suo cuore. Ma la parola di cui parla il testo biblico non è altro che la «parola della fede» (rêma tês pisteôs) che Paolo predica. Nella sua rilettura dunque il testo biblico non indica più, come nel contesto originale, la legge che il credente è invitato a praticare, ma la predicazione apostolica, il cui compito non è altro che quello di annunziare la venuta di Cristo e la sua risurrezione al fine di suscitare la fede in lui. L’apostolo poi prosegue: «Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (v. 9). Con queste parole egli commenta Dt 30,14 così come è stato da lui citato. Da esso egli ricava il principio secondo cui, facendo con la bocca l’antica professione di fede cristiana («Gesù è il Signore») e credendo con il cuore che egli è stato risuscitato dai morti, si ottiene la salvezza. Le due parti di questo versetto sono strettamente parallele: professione con la bocca e fede del cuore sono due modi diversi per dire la stessa cosa, cioè la piena adesione al Cristo risuscitato. E aggiunge, sempre facendo ricorso al parallelismo: «Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza» (v. 10). In altre parole, la fede nella risurrezione di Cristo, professata con sincerità dalla comunità cristiana, produce la giustificazione che è il primo passo verso la salvezza finale. A sostegno di questa affermazione egli riporta un altro testo biblico: «Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso» (v. 11). Questo testo, già citato nel capitolo precedente, viene ricavato dal libro di Isaia, dove si afferma: «Chiunque crede in lui non sarà deluso» (Is 28,16). Dal testo di Isaia Paolo deduce poi questa conclusione: «Poiché non c’è distinzione fra giudeo e greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano» (v. 12). Il fatto che sia proprio la fede, coltivata nel cuore e proclamata con la bocca, a procurare la giustificazione e la salvezza, è prova e garanzia che questa è accessibile a tutti coloro che lo invocano, siano essi giudei o gentili: poiché è il Signore di tutti, Dio fa a tutti i suoi doni. E di nuovo Paolo fa appello a un testo biblico che conferma questa conclusione: «Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato» (v. 13). Questo testo è ricavato da Gioele, il quale dice: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato» (Gl 3,5). Il «Signore» è Gesù, che viene così identificato con il Signore (JHWH),. L’invocazione del suo nome coincide con l’espressione della fede in lui, che diventa fonte di salvezza per tutta l’umanità.

Linee interpretative In questo brano Paolo vuole anzitutto sottolineare come la giustizia provenga esclusivamente dalla fede in Cristo, come appare, secondo lui, da un testo riguardante la vicinanza della parola di Dio e la sua sintonia con il cuore del credente. Secondo lui il messaggio evangelico della giustificazione mediante la fede in Gesù Cristo è stato predicato al popolo giudaico in modo adeguato, mediante messaggeri inviatigli ufficialmente da Dio. Il rifiuto di Cristo da parte dei giudei è dunque frutto di una scelta deliberata e colpevole: non si tratta quindi di un evento tale da mettere in discussione la fedeltà di Dio, ma di una decisione sbagliata, la cui responsabilità ricade sul popolo stesso. D’altronde il comportamento di questo popolo nei confronti di Cristo corrisponde all’immagine che ne danno proprio le Scritture che esso riconosce come sacre. A sostegno della sua tesi, l’apostolo porta una serie di brani biblici che, in quanto parola di Dio, ritiene più convincenti di qualsiasi rilievo oggettivo, citandoli però al di fuori del loro contesto e dando loro un significato abbastanza diverso da quello che avevano originariamente. Egli dunque interpreta le Scritture con una notevole libertà, della quale d’altronde anche i dottori del suo tempo si avvalevano senza eccessivi scrupoli. Ispirandosi ad alcuni testi biblici molto noti egli attribuisce alla fede, che per lui ha come oggetto la morte e la risurrezione di Cristo, il posto centrale nel processo che porta alla giustificazione e alla salvezza. Egli può fare ciò perché ha presente in modo globale la predicazione dei profeti, i quali pronunziano una dura condanna nei confronti di Israele, considerato come un popolo che per sua natura è infedele a JHWH. In tal modo egli può dimostrare che Dio vuole la salvezza di tutti, senza legarsi alla tradizionale divisione dell’umanità in giudei e gentili. Il passaggio dell’annunzio evangelico ai gentili non rappresenta dunque una sconfessione o un rifiuto dei giudei da parte di Dio, ma piuttosto l’attuazione del suo progetto originario, in quanto esso aveva lo scopo di far sì che mediante i giudei la salvezza giungesse a tutta l’umanità.

BRANO BIBLICO SCELTO – ROMANI 5,12-15

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BRANO BIBLICO SCELTO – ROMANI 5,12-15

12 Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. 13 Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, 14 la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. 15 Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini.

COMMENTO Romani 5,12-21 Peccato e grazia Il c. 5 della lettera rappresenta l’ultimo anello della lunga esposizione riguardante la giustificazione mediante la fede che aveva avuto inizio in 1,16. In esso l’apostolo, dopo aver messo in luce la prospettiva escatologica della giustificazione (vv. 1-11), passa a trattare il tema della vittoria sul peccato che essa comporta (vv. 12-21). Egli aveva già affrontato questo secondo tema quando, dopo aver descritto la rivelazione dell’ira di Dio, causata appunto dal peccato dell’uomo, aveva presentato l’opera di Cristo come una redenzione e una espiazione (Rm 3,21-26). Ora lo riprende sottolineando come la liberazione dal peccato implichi il passaggio dell’uomo dalla solidarietà con l’umanità peccatrice (vv. 12-14) alla solidarietà con Cristo (vv. 15-19). Il brano termina con un confronto tra il ruolo della grazia e quello della legge (vv. 20-21).

Solidarietà con Adamo (vv. 12-14) Il testo inizi con questa affermazione: «Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato» (v. 12). In questo versetto la situazione in cui si trovava l’umanità prima di Cristo viene descritta alla luce di quanto la Genesi dice di colui che è stato il primo peccatore. Il brano inizia con un «quindi» (dia touto, per questo) esplicativo, mediante il quale Paolo ricollega quanto sta per dire al brano precedente, indicando così l’intenzione di dare ulteriori spiegazioni circa il ruolo svolto da Cristo nella riconciliazione dell’umanità con Dio. L’apostolo prosegue con un «come» (hôsper), che introduce un confronto tra due personaggi, Adamo e Cristo. Il primo termine di paragone è Adamo, il quale sarà citato per nome solo in seguito. Il riferimento al progenitore dell’umanità deve essere compreso alla luce di un concetto tipico del mondo biblico designato con l’appellativo di “personalità corporativa”: in base ad esso una collettività viene identificata con una singola persona, la quale rappresenta tutti i suoi membri ed esprime in se stessa quelle spinte che stanno alla base della loro aggregazione. Così Adamo è presentato nella Genesi non solo come il progenitore, ma anche come il simbolo e il rappresentante di tutta l’umanità che da lui deriva. Questa idea è espressa in modi diversi anche nei testi giudaici. Nel Quarto libro di Esdra si afferma che, a motivo del peccato da lui commesso, non fu vinto solo Adamo, ma anche tutti quelli che sono nati da lui (4Esd 3,21); la rovina non è stata solo sua, ma anche di tutti quelli che sono discesi da lui (4Esd 7,118). Secondo l’Apocalisse di Mosè il peccato di Eva ha coinvolto tutta la creazione (n. 32). Nell’Apocalisse siriaca di Baruc si sottolinea che Adamo è stato causa di male solo per sé, mentre ognuno di noi è divenuto Adamo a se stesso (2Bar 54,15). Secondo il libro di Enoc il peccato non fu mandato sulla terra, ma sono gli uomini che l’hanno creato da se stessi (1En 98,4). Infine secondo il libro deuterocanonico della Sapienza «la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo, e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (Sap 2,24). Evocando la figura di Adamo Paolo osserva che «a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte». Questa frase richiama molto da vicino proprio il testo di Sap 2,24 appena citato, con la differenza che il diavolo è sostituito con il «peccato» (hamartia), presentato come un’entità personificata che, a partire dal primo uomo, prende possesso dell’umanità intera. Al peccato viene strettamente associata la morte, che nel racconto genesiaco rappresenta la sua immediata conseguenza; anche qui, come in Gen 3 e più esplicitamente in Sap 2,24, la morte fisica è vista come simbolo di una realtà più drammatica, che consiste nel distacco da Dio. Dopo aver caratterizzato Adamo come colui che ha introdotto il peccato e la morte nel mondo, Paolo prosegue con un «e così» (kai houtôs) con cui non introduce ancora, come ci si sarebbe aspettati, il secondo termine di paragone, cioè la figura e il ruolo di Cristo, ma approfondisce ulteriormente le conseguenze del gesto di Adamo. Egli afferma che, per sua colpa, anche la morte «è entrata» (diêlthen) in tutti gli uomini, cioè ha preso possesso di loro, «poiché (eph’ôi) tutti hanno peccato». In passato l’espressione eph’ôi è stata erroneamente tradotta «nel quale», e di conseguenza si è supposto che «in Adamo» tutti abbiano peccato, cioè che il peccato da lui commesso si sia trasmesso a tutti i suoi discendenti. Nei tempi moderni si è invece accertato che eph’ôi in greco significa semplicemente «poiché»: Paolo vuole quindi affermare che, dopo essere entrata nel mondo con il peccato di Adamo, la morte ha raggiunto tutti gli uomini a motivo del fatto che tutti hanno peccato. In altre parole il peccato di Adamo ha avuto effetti devastanti in quanto tutti gli uomini, con i loro peccati personali, si sono resi partecipi e corresponsabili di quella situazione di morte a cui egli ha dato inizio. La situazione dei bambini che non hanno ancora raggiunto l’età della ragione e quindi non possono peccare personalmente è chiaramente fuori dell’orizzonte di Paolo. Dopo aver segnalato l’ingresso nel mondo del peccato e della morte, Paolo prosegue: «Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire» (vv. 13-14). La situazione di peccato e di morte determinata dal primo uomo si è protratta fino al momento in cui Dio ha conferito la legge a Israele. Alla mente di Paolo sale però un’obiezione: come è possibile ciò «se il peccato non può essere imputato (ouk ellogeitai) quando manca la legge»? Se non c’è una legge che proibisce una certa azione, il commetterla non può essere considerato come peccato, se si intende per peccato la trasgressione di un precetto. Ciò è esattamente quanto aveva affermato egli stesso in Rm 4,15 («dove non c’è legge, non c’è nemmeno trasgressione»). Ma per Paolo non esiste nessun essere umano che non abbia avuto, se non la legge mosaica, almeno qualcosa di simile: tutti infatti hanno conosciuto Dio (cfr. 1,19-20), venendo così a conoscere quella legge morale che hanno trasgredito. Perciò risponde all’obiezione osservando che «la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione (parabasis) simile a quella di Adamo» (v. 14). In altre parole siccome la morte, vista come un fatto non solo fisico ma anche spirituale (lontananza da Dio con tutte le conseguenze descritte in 1,18-33), ha manifestato i suoi effetti devastanti anche su coloro che non avevano ricevuto come Adamo un precetto esplicito, ciò è sufficiente per dire che anch’essi non sono esenti dal peccato. Dopo aver menzionato espressamente due volte il nome di Adamo, che non riapparirà più nella lettera, Paolo aggiunge che egli è «immagine (typos) di colui che doveva venire». Con queste parole riporta il discorso all’intenzione originaria, che era quella di confrontare Adamo con Cristo. Tutti gli uomini si sono resi corresponsabili del peccato commesso dal primo uomo, cioè si sono lasciati liberamente coinvolgere nella situazione che da lui ha avuto origine. Ma la sua persona è solo una «figura» di Cristo: egli parla dunque di Adamo nella misura in cui è utile per capire meglio il ruolo di Cristo.

La comunione con Cristo (vv. 15-19) La seconda parte del brano è dominata dal confronto tra l’opera di Adamo e quella di Cristo. Anzitutto l’apostolo sottolinea la superiorità dell’opera di Cristo su quella di Adamo (vv. 15-17) e successivamente li contrappone l’uno all’altro facendo ricorso al parallelismo antitetico (vv. 18-19). La superiorità di Cristo su Adamo (vv. 15-17) viene messa in luce a partire dal concetto di personalità corporativa, quale appare da due figure bibliche, il Servo di JHWH e il Figlio dell’uomo, che incarnano in se stesse tutto il popolo eletto. Il Servo di JHWH è un personaggio anonimo che annunzia ai giudei esuli in Babilonia la loro imminente liberazione (Is 42,1-7), ma è osteggiato e perseguitato (Is 49,1-6; 50,4-9), finché viene addirittura eliminato fisicamente (Is 52,13 – 53,12). Tuttavia proprio mediante la sua morte porta a termine la sua missione: «Avendo offerto se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore» (Is 53,10); «Il giusto mio servo giustificherà i molti, egli si è addossato la loro iniquità» (Is 53,11). Mediante la sua sofferenza e la sua morte, di cui sono responsabili proprio coloro a cui è diretto il suo messaggio, il Servo diventa dunque il punto di aggregazione degli israeliti (i «molti») dispersi in terra straniera, che in lui riscoprono la loro elezione e ritornano al loro Dio. Il Figlio dell’uomo, di cui si parla nel libro di Daniele (Dn 7), è un individuo (= figlio) appartenente alla razza umana (= «uomo» in senso collettivo): egli è «l’Uomo» per eccellenza, il nuovo Adamo, al quale è affidato, in contrasto con il primo Adamo, il compito di mediatore della salvezza. Il Figlio dell’uomo viene «sulle nubi del cielo», cioè da Dio, e riceve da lui un regno eterno (Dn 7,13-14): egli è dunque il mediatore escatologico per mezzo del quale Dio instaura il suo regno, ma al tempo stesso rappresenta il popolo dei santi dell’Altissimo, cioè l’Israele escatologico (Dn 7,27). Paolo sviluppa la sua dimostrazione mediante tre argomenti. Anzitutto egli afferma: «Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini» (v. 15). È questo un tipico argomento a fortiori, cioè «dal meno al più». La superiorità di Cristo su Adamo appare anzitutto dal fatto che «il dono di grazia» (charisma) non è come la «caduta» (paraptôma, trasgressione, azione peccaminosa): infatti se la caduta di uno solo ha fatto sì che «tutti» (hoi polloi, i molti, la moltitudine) morissero, molto di più grazie a un solo uomo, Gesù Cristo, la grazia di Dio ha abbondato «per tutti» (eis tous pollous, per i molti). In altre parole, proprio per la sua funzione di Uomo (Figlio dell’uomo, nuovo Adamo) e di Servo di JHWH, Cristo ha portato a tutta l’umanità una realtà di segno positivo (grazia) che supera immensamente quella di segno negativo (morte) di cui è stato portatore Adamo. Il secondo argomento è così formulato: «E non è accaduto per il dono di grazia come per il peccato di uno solo: il giudizio partì da un solo atto per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute per la giustificazione» (v. 16). Paolo fa qui un confronto antitetico tra due situazioni analoghe: un solo atto peccaminoso ha procurato la condanna, mentre molte cadute sono state eliminate mediante quella grazia speciale che consiste nella giustificazione (dikaiôma). Infine egli aggiunge un terzo argomento a forziori: «Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo» (v. 17). Se è vero che la caduta di uno solo è stata capace di far regnare la morte, molto più grande è il dono della giustizia, attuata da Cristo, perché in forza di esso quelli che lo ricevono regneranno (un giorno) nella vita. Nell’opera di Cristo, nuovo Adamo, si attua quindi un’opera molto pià grande e potente di quella compiuta dal primo Adamo. Questi infatti ha commesso un’azione peccaminosa (caduta), che è il tipo e il punto di partenza di tutte le altre, e da essa è derivato un danno terribile per l’umanità, la morte. Cristo invece ha vinto la morte, ha effuso la grazia di Dio, ha effettuato la giustificazione e ha instaurato il regno di Dio, aprendo la strada alla risurrezione finale. Egli ha così dimostrato una potenza aggregativa che mette decisamente in secondo piano quella disgregativa di Adamo. Nella seconda parte del brano Paolo prosegue in chiave analogica il confronto tra l’opera di Adamo e quella di Cristo: «Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dá vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (vv. 18-19). Come per la «caduta» (paraptôma) di uno solo (si è riversata) su tutti gli uomini la condanna (katakrima), così anche per l’«opera giusta» (dikaiôma) di uno solo (si riversa) su tutti la «giustificazione che dà vita» (dikaiôsis zôês). Come per la disobbedienza (parakoê) di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così per l’obbedienza (hypakoê) di uno solo tutti saranno costituiti giusti. In altre parole, c’è veramente una somiglianza tra l’opera di Adamo e quella di Cristo. Ma mentre Adamo, con la sua disobbedienza, ha provocato la condanna e la morte di tutti, Cristo, con la sua obbedienza, ne ha causato la giustificazione e la vita. La solidarietà nel male simboleggiata in Adamo può dare solo una pallida idea della nuova aggregazione messa in atto da Cristo. Infatti di fronte alla profonda comunione di affetti e di vita che Cristo ha attuato tra coloro che in lui sono stati riconciliati con Dio, la solidarietà con Adamo, portatrice di condanna e di morte, appare come una specie di caricatura, una connivenza nel delitto, che è fonte non di unità, ma di disgregazione, di odio e di sopraffazione.

Legge e grazia (vv. 20-21) La superiorità di Cristo su Adamo lascia aperto un problema che Paolo affronta alla fine della sua esposizione: «La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (v. 20). Nel periodo che va da Mosè a Cristo, la legge non ha forse posto rimedio, almeno per il popolo giudaico, alla situazione di peccato e di morte introdotta da Adamo? Già precedentemente l’apostolo aveva posto sullo stesso piano giudei e gentili per quanto concerne il loro coinvolgimento nel peccato (cfr. Rm 2,1-3,20; 3,23). D’altra parte aveva già accennato al ruolo in gran parte negativo della legge: essa non solo si limita a dare la conoscenza del peccato (3,20), ma provoca l’ira di Dio (4,15) perché con le sue prescrizioni fa sì che il peccato, in quanto potenza di male che si trova nell’uomo, provochi una molteplicità di trasgressioni. Ora egli afferma che la legge «sopraggiunse» (pareisêlthen) perché abbondasse (pleonasêi, si moltiplicasse) la «caduta» (paraptôma). La legge dunque è venuta in un secondo momento e non ha eliminato il peccato, anzi ha provocato un aumento se non del peccato in quanto tale, almeno delle azioni con le quali l’umanità pecca trasgredendo la volontà di Dio (cfr. Rm 7). Paolo soggiunge però che «dove abbondò (epleonasen) il peccato (hamartia), sovrabbondò (hypereperisseusen) la grazia»: egli suppone dunque che in realtà, con la moltiplicazione delle cadute, si è esteso anche il peccato; tuttavia dall’opera di Cristo si sprigiona una potenza di bene molto più grande, capace di neutralizzare il male che domina il mondo. Infine Paolo afferma che una grazia tanto abbondante è stata conferita «affinché (hina), come regnò il peccato nella morte, così regni anche la grazia mediante la giustizia (dikaiôsynê) per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore» (v. 21). La potenza di Dio, che si manifesta per mezzo di Cristo, appare veramente tale in quanto riesce a eliminare il regno del peccato e della morte, sostituendolo con quello della grazia e della giustizia che conferisce la vita eterna. La legge non ha dunque portato un vero miglioramento, anzi ha aggravato la situazione dell’umanità peccatrice. Ma anche questo è stato previsto da Dio, il quale ha voluto che ciò accadesse affinché potesse meglio apparire la potenza della grazia che intendeva comunicare per mezzo di Cristo. Con questa affermazione Paolo giunge alla conclusione della sua riflessione su Adamo e Cristo e di tutta la prima sezione della lettera.

Linee interpretative In questo brano Paolo mostra come il peccato abbia creato nell’umanità tutta una rete di connivenze e di rapporti sbagliati, che ha la sua origine in Adamo, cioè risale agli inizi stessi dell’umanità; da essi deriva la morte, intesa non solo come cessazione della vita fisica, ma come il fallimento più radicale dell’uomo e della sua umanità. Ogni essere umano, nel momento stesso in cui viene al mondo, si trova già in qualche modo immerso in questa triste realtà, ma ne diventa corresponsabile nella misura in cui anch’egli liberamente si associa ad essa con il suo peccato personale. Paolo non pensa dunque che il peccato di Adamo si trasmetta misteriosamente da lui a ognuno dei suoi discendenti, ma lo considera come l’inizio di una «situazione di peccato» in cui tutti, non senza loro colpa (cfr. 1,19-21) e con le debite eccezioni (cfr. 2,14-15.29), sono coinvolti. Circa Adamo e il suo peccato Paolo non ha dunque una rivelazione speciale da fare, ma riprende questa suggestiva immagine biblica per mostrare come Dio abbia inviato un nuovo Adamo, capostipite di un’umanità riconciliata, al quale ognuno è chiamato ad associarsi mediante la fede. Anche se non affronta direttamente il tema del «peccato originale», così come sarà formulato nella teologia successiva, egli parla effettivamente di un peccato delle origini, in cui si trova immersa l’umanità prima di Cristo. A proposito del rapporto tra peccato e morte, Paolo non vuole certo affermare che, senza il peccato di Adamo, la morte in senso fisico non sarebbe esistita: è chiaro infatti che la morte è un evento naturale, e come tale viene solitamente considerata nella Bibbia. Al contrario egli ritiene che, a causa del peccato, la morte cambi profondamente significato: senza di esso l’uomo avrebbe terminato la sua esistenza terrena nella comunione con Dio e nella serena fiducia di una sopravvivenza in lui; il peccato, invece, fa sì che la morte diventi il simbolo e il marchio del suo fallimento, trasformandola quindi in una realtà ostile, che l’uomo tende continuamente a rimuovere. E proprio nel vano tentativo di allontanare la morte, l’uomo peccatore si chiude sempre più nella difesa egoistica di se stesso e dei suoi privilegi (denaro, potere, gloria), immergendosi così ancora di più nel suo peccato. In questo senso si può dire che il peccato e la morte agiscono simultaneamente per procurare la rovina dell’uomo. Alla dolorosa realtà a cui il primo uomo ha dato inizio Paolo contrappone l’opera di Cristo, che con la sua morte e risurrezione ha sostituito alla condanna la «grazia» di Dio. Questa fa sì che il credente esca dal suo isolamento per ritrovarsi in una profonda armonia con Dio e con i fratelli. In questa sua opera, che lo accomuna al Servo di jhwh, Cristo appare come il nuovo Adamo da cui ha origine un’umanità riconciliata con Dio. Per i piccoli gruppi cristiani presenti allora nella capitale dell’impero questa affermazione, se da una parte metteva in crisi una certa concezione della legge, dall’altra non poteva non comunicare una profonda consapevolezza del loro ruolo a servizio di tutta la società.

Publié dans:Lettera ai Romani |on 10 février, 2016 |Pas de commentaires »

Romani 8,35.37-39: La potenza dell’amore di Cristo

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ROMANI 8,35.37-39

Fratelli, 35 chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? 37 Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. 38 Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, 39 né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

COMMENTO Romani 8,35.37-39 La potenza dell’amore di Cristo

Nel c. 8 della sua lettera ai Romani Paolo spiega come la liberazione dalla legge, operata mediante il dono dello Spirito, comporti per i credenti una salvezza che pervade non solo la loro vita personale, ma anche tutto il cosmo. Nella parte finale della sua riflessione (vv. 31-39) Paolo lancia ai suoi lettori un ultimo messaggio di speranza, che si basa sull’immensità dell’amore che Dio ha rivelato nel suo piano di salvezza. Egli si esprime mediante una cascata di domande retoriche la cui risposta appare scontata. In forza della scelta speciale che ha fatto in loro favore Dio è ormai dalla parte dei credenti (vv. 31-33). Nulla quindi potrà essere contro di loro. Se Dio è giunto fino al punto di non risparmiare il proprio Figlio, anzi di «consegnarlo» (paradidômi) per tutti loro, egli non potrà non donare loro ogni cosa insieme con lui. Sullo sfondo di questa affermazione vi è l’esperienza del Servo di jhwh, il quale è stato «consegnato» da Dio per i peccati di tutto il popolo (cfr. Is 53,6.12 nella traduzione dei LXX). Ricorrendo poi all’immagine del processo, Paolo spiega che nessuno potrà accusare (enkaleô, citare in giudizio) coloro che Dio ha scelto. Non sarà certo Dio, il quale li ha giustificati, a prendere posizione contro di loro. Ma neppure potrà condannarli (katakrinô) Cristo Gesù, che è morto, anzi che è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi (v. 34). Inizia qui il testo liturgico, che si apre con la successiva domanda di Paolo riguardante il superamento degli ostacoli che si frappongono all’amore di Cristo (v. 35-37), e prosegue affermando la vittoria del credente sulle potenze che dominano questo mondo (vv. 38-39).

Il superamento degli ostacoli (v. 35) Mediante le precedenti domande retoriche Paolo ha negato che Dio o Gesù Cristo possano condannare coloro che sono in Cristo Gesù (cfr. 8,1). Questa condanna potrebbe attuarsi solo se costoro perdessero la comunione con lui. Paolo prende in considerazione questa eventualità mediante un’altra domanda retorica: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo?» (v. 35a). La fede in Cristo si configura come un rapporto di amore con lui. Ora proprio questo amore potrebbe essere messo in crisi, come spesso avviene nei rapporti umani, dalle difficoltà della vita: Paolo enumera anzitutto quelle che provengono dai propri simili, concludendo che nessuna di esse può riuscire nel suo intento. Questo elenco, simile ad altri riportati nell’epistolario paolino (cfr. 1Cor 4,11-12; 2Cor 4,8-10; 6,4-5; 11,23-28; 12,10; 1Ts 3,7), contiene una serie di termini in gran parte sinonimi. La «tribolazione» (thlipsis, da thlibô, calcare, premere) indica le angherie a cui uno è sottoposto e, in senso traslato, l’ansia e la preoccupazione che ne deriva; il sinonimo «angoscia» (stenochoria), letteralmente «essere ridotti in uno spazio stretto», indica la reazione psicologica di chi non ha via d’uscita; la «persecuzione» (diôgmos) non è altro che la pressione esercitata su una persona per farle cambiare credo religioso; la «fame» e la «nudità» indicano la mancanza degli elementi fondamentali per la sussistenza, cioè il cibo e il vestito; il «pericolo» rappresenta la mancanza delle più elementari garanzie di sicurezza; infine la «spada» può indicare la violenza in genere oppure più in particolare la sentenza di morte comminata da un tribunale (cfr. Rm 13,4). Da tutti questi mali i credenti non sono esentati: Paolo lo conferma rifacendosi anche alla sua esperienza quotidiana, già descritta in altri testi (cfr. 1Cor 4,11-13), alla quale però allude qui in modo sintetico mediante una citazione biblica omessa dalla liturgia: «Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello» (v. 36; cfr. Sal 44,23). La resistenza a tutte le difficoltà e le sofferenze della vita costituiva l’ideale dello stoico. Ma per Paolo non si tratta di una impassibilità conseguita mediante un diuturno esercizio, bensì di un dono divino: «Ma in tutte queste cose siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (v. 37). La vittoria su tutte le difficoltà sopra elencate avviene mediante la forza dell’amore che Dio ha manifestato ai credenti mediante Cristo. Paolo è cosciente che nessuno può stare in piedi facendo affidamento sulle sue capacità, ma solo lasciandosi pervadere dall’amore che gli è stato dato.

La vittoria sulle potenze (vv. 38-39) Dopo le difficoltà che provengono dai propri simili, Paolo enumera un’altra serie di ostacoli con cui i credenti devono confrontarsi. In questo elenco, simile ad altri presenti nell’epistolario paolino (cfr. Rm 8,35; 1Cor 2,6; 3,22; 15,24-27; Fil 2,10; Ef 1,21; 3,10; 6,12; Col 1,16; 2,10.15), sono indicate, con termini generici e stereotipati, nove realtà terribili e potenti che possono influire negativamente sulla vita dell’uomo. Sei di esse sono disposte in “coppie polari”, le quali, più che le realtà stesse, delimitano gli ambiti entro cui operano. Alla luce dei testi paralleli si intuisce che Paolo pensava veramente a entità personificate che minacciano l’esistenza umana. «Morte e vita» non sono qui aspetti esistenziali dell’esperienza umana, ma potenze antagoniste che cercano di soggiogare l’uomo, la morte con le paure che suscita (cfr Rm 7,9-10; 1Cor 15,26.54-56), e la vita, con i suoi desideri e ambizioni (cfr. 1Cor 3,22); «gli angeli e i principati» sono gli esseri più potenti dopo Dio, che potrebbero in qualche modo volgersi contro l’uomo e minacciare la sua esistenza; «il presente e l’avvenire» indicano le minacce incombenti nella vita quotidiana, indicate spesso con i termini “fatalità”, “destino” (cfr. 1Cor 3,22); le «potenze» (dynameis) sono, come gli angeli e i principati, entità spirituali che dominano in questo mondo: in concomitanza con «le altezze e le profondità» potrebbero essere le potenze che esercitano il loro potere in alto, nei cieli, e in basso, sulla terra o sottoterra (cfr. Fil 2,10). Paolo esprime la sua persuasione che non solo queste realtà, ma nessun’altra creatura potrà mai separare i credenti dall’amore di Dio manifestato e donato in Cristo Gesù, Signore nostro. Se Dio e Cristo sono dalla parte dei credenti, nessun’altra realtà potrà mai condizionare in modo determinante la loro esperienza di fede.

Linee interpretative I nuovi rapporti con Dio che si sono instaurati mediante la giustificazione e l’infusione dello Spirito nel cuore dei credenti comportano una trasformazione radicale di tuttao il loro essere. Essi sono diventati figli di Dio in modo pieno e si proiettano verso il compimento finale, che implica una trasformazione profonda dei loro corpi e di tutto il creato. In altre parole essi hanno avuto la possibilità di dare un senso alla loro vita. In questo modo hanno anche superato la paura che domina l’esistenza quotidiana delle persone. Il sapere che sia Dio che Gesù Cristo sono dalla loro parte, crea in essi un senso di fiducia e di sicurezza che dà loro il coraggio di affrontare con serenità tutte le difficoltà della vita. Tutta la vita del credente si svolge così all’insegna della fiducia in Dio, nella convinzione che nulla potrà mai separarlo dall’amore che Dio gli ha manifestato in Cristo. Le sofferenze della vita sono espresse da Paolo in termini concreti e realistici. Non si tratta semplicemente delle tribolazioni che colpiscono ogni essere umano, ma di quelle che derivano dalle ingiustizie sociali e dall’oppressione da parte dei potenti, provocando reazioni di paura e angoscia. Ad esse si aggiungono quelle legate alla nuova professione religiosa la quale, rendendo le persone coscienti della loro dignità, provocava persecuzioni e violenze. L’essere cristiani non attenua il morso della sofferenza, ma dà la forza di non soccombere, mantenendo intatta la propria sicurezza e dignità. Infine la professione di fede elimina la paura nei confronti di realtà imponderabili e potenti, identificate nella mentalità popolare con entità spirituali superiori che condizionano l’esistenza umana. In questa categoria rientrano morte e vita, angeli e demoni, il fato, il destino. Paolo non fa affermazioni di principio circa l’entità oggettiva di questi poteri che minacciano l’uomo, ma si limita a dire che esse non possono esercitare il loro influsso negativo sui credenti. A costoro si prospetta dunque un’esistenza caratterizzata dalla fiducia e dalla pace, che rappresentano l’anticipazione nell’oggi di quella realtà escatologica che la fede prospetta come coronamento di una vita dedicata a Dio.  

Publié dans:Lettera ai Romani |on 2 février, 2016 |Pas de commentaires »

« PERCHÉ I DONI E LA CHIAMATA DI DIO SONO IRREVOCABILI » (Rm 11,29) (stralcio, ho messo due parti) – RELAZIONI CATTOLICO-EBRAICHE

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/relations-jews-docs/rc_pc_chrstuni_doc_20151210_ebraismo-nostra-aetate_it.html#3._La_rivelazione_nella_storia_come_Parola_di_Dio_nell’ebraismo_e_nel_cristianesimo__

« PERCHÉ I DONI E LA CHIAMATA DI DIO SONO IRREVOCABILI » (Rm 11,29) (stralcio)

RIFLESSIONI SU QUESTIONI TEOLOGICHE ATTINENTI ALLE RELAZIONI CATTOLICO-EBRAICHE IN OCCASIONE DEL 50º ANNIVERSARIO DI NOSTRA AETATE (N. 4)

3. La rivelazione nella storia come « Parola di Dio » nell’ebraismo e nel cristianesimo

21. Nell’Antico Testamento ci viene presentato il piano salvifico di Dio per il suo popolo (cfr. « Dei verbum », n. 14). Questo piano salvifico è espresso chiaramente all’inizio della storia biblica, nella chiamata di Abramo (cfr. Gen 12 ss). Per rivelare se stesso e per parlare all’umanità, redimendola dal peccato e radunandola come un unico popolo, Dio ha iniziato con lo scegliere il popolo di Israele attraverso Abramo, separandolo dagli altri popoli. A questo popolo Dio si è rivelato poco a poco per mezzo dei suoi inviati, dei suoi profeti, come il vero Dio, l’unico Dio, il Dio vivente, il Dio redentore. L’elezione divina è un aspetto costitutivo del popolo di Israele. Soltanto dopo il primo grande intervento del Dio redentore, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto (cfr. Es 13,17 ss) e la stipula dell’Alleanza sul Sinai (cfr. Es 19 ss), le dodici tribù sono diventate una vera e propria nazione ed hanno acquisito la consapevolezza di essere il popolo di Dio, coloro ai quali erano stati trasmessi il messaggio di Dio e le sue promesse, i testimoni della benevolenza misericordiosa di Dio nel mezzo delle nazioni ed anche per il bene delle nazioni (cfr. Is 26,1-9; 54; 60; 62). Per istruire il suo popolo su come adempiere la sua missione e su come trasmettere la rivelazione affidatagli, Dio ha dato ad Israele la legge che definisce come deve vivere (cfr. Es 20; Dt 5) e che lo distingue dagli altri popoli. 22. Come la Chiesa stessa anche ai giorni nostri, Israele trasporta il tesoro della sua elezione in fragili vasi. La relazione di Israele con il suo Signore è la storia della sua fedeltà e della sua infedeltà. Per compiere la sua opera redentrice, nonostante la piccolezza e la fragilità degli strumenti da lui scelti, Dio ha manifestato la sua misericordia e la grazia dei suoi doni, così come la fedeltà alle sue promesse che nessuna infedeltà umana può annullare (cfr. Rm 3,3; 2 Tm 2,13). In ogni tappa del cammino del suo popolo, Dio si è scelto almeno un « piccolo numero » (cfr. Dt 4,27), un « resto » (cfr. Is 1,9; Sof 3,12; cfr. anche Is 6,13; 17,5-6), un’esigua comunità di fedeli che « non hanno piegato le ginocchia a Baal » (cfr. 1 Re 19,18). Attraverso questo resto, Dio ha realizzato il suo piano salvifico. Oggetto costante della sua elezione e del suo amore è sempre rimasto il suo popolo, perché attraverso di esso –come obiettivo finale- tutta l’umanità viene riunita e condotta a Dio. 23. La Chiesa è chiamata il nuovo popolo di Dio (cfr. « Nostra aetate », n. 4), ma non nel senso che Israele, il popolo di Dio, ha cessato di esistere. La Chiesa è stata « mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza » (« Lumen gentium », n. 2). La Chiesa non sostituisce Israele, popolo di Dio, poiché, in quanto comunità fondata in Cristo, rappresenta in Cristo il compimento delle promesse fatte a Israele. Ciò non significa che Israele, non essendo pervenuto a tale compimento, non debba più essere considerato come il popolo di Dio: « E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura » (« Nostra aetate », n. 4). 24. Dio si è rivelato nella sua Parola, così che può essere compreso dall’umanità in situazioni storiche concrete. Questa Parola invita tutti gli uomini a rispondere. Se la loro risposta è in accordo con la Parola di Dio, il loro rapporto con Dio è giusto. Per gli ebrei, questa Parola può essere imparata attraverso la Torah e la tradizione basata su di essa. La Torah è l’insegnamento per condurre una vita riuscita nella giusta relazione con Dio. Chi osserva la Torah ha la vita nella sua pienezza (cfr. Pirqe Avot II, 7). Osservando la Torah, l’ebreo prende parte alla comunione con Dio. Al riguardo, Papa Francesco ha affermato: « Le confessioni cristiane trovano la loro unità in Cristo; l’ebraismo trova la sua unità nella Torah. I cristiani credono che Gesù Cristo è la Parola di Dio fattasi carne nel mondo; per gli ebrei la Parola di Dio è presente soprattutto nella Torah. Entrambe le tradizioni di fede hanno per fondamento il Dio Unico, il Dio dell’Alleanza, che si rivela agli uomini attraverso la sua Parola. Nella ricerca di un giusto atteggiamento verso Dio, i cristiani si rivolgono a Cristo quale fonte di vita nuova, gli ebrei all’insegnamento della Torah. » (Discorso ai membri dell’ International Council of Christians and Jews, 30 giugno 2015). 25. L’ebraismo e la fede cristiana, così come sono presentati nel Nuovo Testamento, sono due modi in cui il popolo di Dio può far proprie le Sacre Scritture di Israele. Le Scritture che i cristiani chiamano Antico Testamento sono dunque aperte ad entrambi i modi. Una risposta alla Parola salvifica di Dio che sia conforme all’una o all’altra tradizione può dunque dischiudere l’accesso a Dio, sebbene spetti all’intervento divino determinare in che modo egli intenda salvare gli uomini in ciascuna circostanza. Il fatto che la volontà salvifica di Dio sia rivolta a tutta l’umanità è testimoniato dalle Scritture (cfr. Gen 12,1-3; Is 2,2-5; 1 Tm 2,4). Pertanto, non esistono due strade diverse che conducono alla salvezza, secondo il motto « Gli ebrei sono fedeli alla Torah, i cristiani a Cristo ». La fede cristiana professa che l’opera salvifica di Cristo è universale e si rivolge a tutti gli uomini. La Parola di Dio è una realtà unica e indivisa che assume una forma concreta nel contesto storico di ciascuno. 26. In questo senso, i cristiani affermano che Gesù Cristo può essere considerato come la « Torah vivente di Dio ». Torah e Cristo sono Parola di Dio, rivelazione di Dio per noi uomini quale testimonianza del suo amore sconfinato. Per i cristiani, la preesistenza di Cristo come Parola e come Figlio del Padre è un’affermazione dottrinale fondamentale; secondo la tradizione rabbinica, la Torah ed il nome del Messia esistono già prima della creazione (cfr. Genesi Rabbah 1,1). Inoltre, nella visione ebraica, Dio stesso interpreta la Torah nell’Eschaton, mentre, secondo il pensiero cristiano, tutto è ricapitolato in Cristo alla fine dei tempi (cfr. Ef 1,10; Col 1,20). Nel Vangelo di Matteo, Cristo è presentato come il « nuovo Mosè ». Matteo 5,17-19 mostra Gesù come l’interprete autorevole ed autentico della Torah (cfr. Lc 24,27. 45-47). Nella letteratura rabbinica troviamo invece l’identificazione della Torah con Mosè. In questo contesto, Cristo quale « nuovo Mosè » può essere collegato alla Torah. La Torah e Cristo sono il luogo della presenza di Dio nel mondo, nel modo in cui tale presenza è sperimentata nelle rispettive comunità di culto. Il termine ebraico dabar significa sia parola che evento – e ciò potrebbe suggerire che la parola della Torah può aprirsi all’evento di Cristo.

« PERCHÉ I DONI E LA CHIAMATA DI DIO SONO IRREVOCABILI » (Rm 11,29) (stralcio) – RELAZIONI CATTOLICO-EBRAICHE

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« PERCHÉ I DONI E LA CHIAMATA DI DIO SONO IRREVOCABILI » (Rm 11,29) (stralcio)

RIFLESSIONI SU QUESTIONI TEOLOGICHE ATTINENTI ALLE RELAZIONI CATTOLICO-EBRAICHE IN OCCASIONE DEL 50º ANNIVERSARIO DI NOSTRA AETATE (N. 4)

5. L’UNIVERSALITÀ DELLA SALVEZZA IN GESÙ CRISTO E L’ALLEANZA MAI REVOCATA DI DIO CON ISRAELE

35. Poiché Dio non ha mai revocato la sua alleanza con il suo popolo Israele, non possono esserci vie o approcci diversi alla salvezza di Dio. La teoria che afferma l’esistenza di due vie salvifiche diverse, la via ebraica senza Cristo e la via attraverso Cristo, che i cristiani ritengono essere Gesù di Nazareth, metterebbe di fatti a repentaglio le basi della fede cristiana. Confessare la mediazione salvifica universale e dunque anche esclusiva di Gesù Cristo fa parte del fulcro della fede cristiana tanto quanto confessare il Dio uno e unico, il Dio di Israele che, rivelandosi in Gesù Cristo, si è manifestato pienamente come il Dio di tutti i popoli, nella misura in cui in Cristo si è compiuta la promessa che tutti i popoli pregheranno il Dio di Israele come l’unico Dio (cfr. Is 56,1-8). Nel documento pubblicato nel 1985 dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Santa Sede « Circa una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica » si afferma dunque che la Chiesa e l’ebraismo non possono essere presentati come « due vie parallele di salvezza » e che la Chiesa deve « testimoniare il Cristo Redentore a tutti » (n. I,7). La fede cristiana confessa che Dio vuole condurre tutti gli uomini alla salvezza, che Gesù Cristo è il mediatore universale della salvezza e che non vi è « altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati » (At 4,12). 36. Dalla confessione cristiana di un’unica via di salvezza non consegue, però, che gli ebrei sono esclusi dalla salvezza di Dio perché non credono in Gesù Cristo quale Messia di Israele e Figlio di Dio. Tale affermazione non troverebbe fondamento nella visione soteriologica di San Paolo, il quale, nella Lettera ai Romani, esprime la sua convinzione non soltanto che non può esserci una rottura nella storia della salvezza, ma anche che la salvezza viene dagli ebrei (cfr. anche Gv 4,22). Dio ha affidato a Israele una missione unica e non porterà a compimento il suo misterioso piano di salvezza rivolto a tutti i popoli (cfr. 1 Tm 2,4) senza coinvolgere il suo « figlio primogenito » (Es 4,22). Vediamo dunque chiaramente che Paolo, nella Lettera ai Romani, risponde in maniera negativa e determinata alla domanda che lui stesso si è posto, ovvero se Dio abbia ripudiato il suo popolo. In maniera altrettanto decisa afferma: « perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! » (Rm 11,29). Il fatto che gli ebrei abbiano parte alla salvezza di Dio è teologicamente fuori discussione, ma come questo sia possibile senza una confessione esplicita di Cristo è e rimane un mistero divino insondabile. Non è dunque un caso che le riflessioni soteriologiche di Paolo in Romani 9-11 circa la salvezza definitiva degli ebrei sullo sfondo del mistero di Cristo culminino in una magnifica dossologia: « O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! » (Rm 11,33). Bernardo di Chiaravalle (De consideratione III/I,3) dice che per gli ebrei « è stato fissato un tempo che non può essere anticipato ». 37. Un altro punto focale per i cattolici deve continuare ad essere l’assai complessa questione teologica di come conciliare in maniera coerente la fede cristiana nel ruolo salvifico universale di Gesù Cristo con la convinzione di fede altrettanto chiara che afferma l’esistenza di un’alleanza mai revocata di Dio con Israele. La Chiesa crede che Cristo è il Salvatore di tutti. Non possono dunque esserci due vie di salvezza, poiché Cristo è il redentore degli ebrei oltre che dei gentili. Qui ci troviamo davanti al mistero dell’agire divino, che non chiama in causa sforzi missionari volti alla conversione degli ebrei, ma l’attesa che il Signore realizzi l’ora in cui tutti saremo uniti, « in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e ‘lo serviranno sotto uno stesso giogo’ » (« Nostra aetate », n. 4). 38. La Dichiarazione sull’ebraismo del Concilio Vaticano Secondo, ovvero il quarto articolo di « Nostra aetate », si situa in un quadro decisamente teologico per quanto riguarda l’universalità della salvezza in Gesù Cristo e l’Alleanza irrevocata di Dio con Israele. Ciò non significa che nel testo siano state risolte tutte le questioni teologiche sorte nelle relazioni tra cristianesimo ed ebraismo. Tali questioni sono state inserite nella Dichiarazione, ma richiedono un’ulteriore riflessione teologica. Naturalmente esistono testi precedenti del Magistero sull’ebraismo, ma « Nostra aetate » (n. 4) presenta la prima panoramica teologica sulle relazioni della Chiesa cattolica con gli ebrei. 39. A motivo della grande svolta teologica apportata, il testo conciliare non di rado è stato sovra-interpretato e vi sono stati letti aspetti che esso in realtà non contiene. Un esempio importante di sovra-interpretazione è la seguente affermazione: che l’alleanza stretta da Dio con il suo popolo Israele è sempre in vigore e non sarà mai invalidata. Per quanto vera sia tale affermazione, questa non si trova esplicitamente espressa in « Nostra aetate » (n. 4). Essa è stata invece espressa per la prima volta con assoluta chiarezza dal Santo Papa Giovanni Paolo II, quando ha osservato, durante un incontro con i rappresentanti della comunità ebraica di Magonza, il 17 novembre 1980, che l’Antica Alleanza non è mai stata revocata da Dio: « La prima dimensione di questo dialogo, cioè l’incontro tra il popolo di Dio del Vecchio Testamento, da Dio mai denunziato […], e quello del Nuovo Testamento, è allo stesso tempo un dialogo all’interno della nostra Chiesa, per così dire tra la prima e la seconda parte della sua Bibbia » (n. 3). La stessa convinzione è affermata anche nel Catechismo della Chiesa del 1993: « l’Antica Alleanza non è mai stata revocata » (121).

« DA VASI DI IRA A VASI DI MISERICORDIA » – (RM 9, 22-23)

http://www.collevalenza.it/Riviste/2008/Riv0108/Riv0108_04.htm

« DA VASI DI IRA A VASI DI MISERICORDIA » – (RM 9, 22-23)  

Estratto dalla Tesina di Licenza presso la Pontificia Università Gregoriana Istituto di spiritualità Roma 2006/2007  

III CAPITOLO   LA MISERICORDIA DI DIO SPERIMENTATA E PROCLAMATA DA SAN PAOLO

« Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione » (2Cor 1,3-4) (seguito)   3.4 – Paolo, vaso di elezione del Dio delle misericordie Saulo perseguita i discepoli di Gesù ed è proprio un discepolo a salvarlo sia dalla cecità sia dalla situazione di morte in cui è venuto a trovarsi. Anania diventa per Saulo il mediatore del Vangelo della Grazia31: non solo va a cercare Saulo per imporgli le mani, ma mette in pratica il Vangelo chiamando « fratello » il persecutore. E così l’incontro con Gesù trasforma Saulo da persecutore a discepolo; l’incontro con Anania lo trasforma da nemico a fratello. Scrive S. Agostino: « È inutile illuderti: hai senz’altro anche tu qualche nemico. E sai cosa farebbe un nemico? Ti aggredirebbe. Ma come potresti vivere in pace, sapendo di avere un nemico? Se vuoi vivere in pace, l’unica cosa da fare è quella di trasformare il nemico in amico. Sai che chi incontra un amico incontra un tesoro. Allora, ecco cosa ti dico. La presenza di un nemico è l’occasione propizia per farti un amico. Infatti, se sei riuscito a perdonarlo, hai acquistato un amico, e perciò un tesoro che ti garantirà una profonda serenità. Se invece non avrai il coraggio di perdonare, il nemico resterà nemico, e tu rimarrai preda della tua angoscia ». Nel racconto di Atti, il perdono ha trasformato il nemico in amico, e lo ha fatto progredire fino al punto di renderlo fratello e anche « un vaso di elezione per portare il nome di Dio dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele » ( cfr. At 9,15b). Colui che portava la morte porterà la vita e la salvezza; colui che perseguitava diventerà il testimone; colui che provocava sofferenza a coloro che seguivano la via di Gesù subirà sofferenza a causa del Nome che porterà sulle proprie spalle. Tutto viene capovolto. La vocazione è una vera conversione!32 La vocazione di Saulo lo impegna ad essere un vaso di elezione: l’argilla dell’umanità di Saulo viene riplasmata dal dito creatore del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo in vaso di elezione che porta un dono immenso, la Bellezza della Trinità, come un vaso di creta, un vaso fragile che contiene la potenza della Grazia trasformante della Trinità. L’elezione non è privilegio ma compito, testimonianza e missione; è strumento di elezione per « portare il Nome » di Gesù dinanzi ai popoli e per questo Nome dovrà soffrire33. Di Saulo sottolinea Gesù « egli è per me un vaso di elezione ». Per Gesù e non per lui stesso, tutto è relativo al Signore. C’è un primato che appartiene unicamente a Gesù, Se « Saulo è per me e deve portare il mio Nome », necessariamente dovrà calcare le orme di Gesù anche nella sofferenza; e così il portare diviene patire che associa al patire di Cristo e a lui conforma ogni discepolo34.

3.5 – Da vasi d’ira a vasi di misericordia « C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! Egli infatti dice a Mosè: Userò misericordia con chi vorrò, e avrò pietà di chi vorrò averla. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia. Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra. Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole. Mi potrai però dire: « Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere? « . O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: « Perché mi hai fatto così? « . Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? (Rm 9,14-21) Dio, nel piano di salvezza, si riserva sempre e in modo esclusivo l’iniziativa e l’azione, trascendendo ogni aspettativa umana. È Dio, con la più assoluta indipendenza da ogni elemento umano, che salva, mantenendo le sue promesse35. A conferma che davanti a Dio non c’è posto per l’ingiustizia, Paolo cita l’autorevolezza dell’oracolo rivolto a Mosè durante la teofania dell’Esodo, incentrato sulla scelta libera della misericordia e della compassione divina (cfr. Es 33,19). Non soltanto Dio sceglie chi vuole ma usa misericordia con chi vuole e in questa libertà non deve rendere conto a nessuno. Per questo davanti a Lui non c’è ingiustizia: l’orizzonte finale sul quale si gioca la giustizia di Dio non è quello di dare a ciascuno il suo ma di riversare la sua misericordia su chi vuole. La misericordia divina non dipende dalla volontà umana né dal suo impegno, espresso con la metafora del correre, ma da Dio stesso che, per definizione, è misericordioso. Con questa priorità della misericordia divina rispetto alla volontà o all’impegno umano, Paolo richiama il disegno elettivo e rimarca il versante positivo dell’elezione, che gli sta particolarmente a cuore: non l’elezione per la condanna o per il peccato, bensì in vista della misericordia divina. Dal punto di vista storico, Paolo compie una sorta di flash-back: dall’oracolo di Es 33,9 a quello di Es 9,16, spostando l’attenzione da Mosè al faraone il quale, conservato in vita dopo la settima piaga della grandine, è stato scelto da Dio per manifestare la sua potenza e perché il suo nome fosse diffuso dovunque36. Il cuore indurito del faraone non è dovuto alla sua libertà e alla sua responsabilità, ma alla volontà divina: Dio è libero di usare misericordia e di indurire il cuore. Il faraone è uno strumento nelle mani di Jhwh e la sua opposizione ha esaltato la potente manifestazione di Dio a favore di Israele schiavo, rivelandolo al mondo come salvatore. Paolo avverte nei vv. 19 e 20 che il suo modo di dire potrebbe essere frainteso. Se Dio è autore di tutto e vuole tutto, se è Lui che indurisce, come può poi lamentarsi, minacciare, biasimare: come può rimproverare l’uomo del suo comportamento peccaminoso, se è Dio che, irresistibilmente, vuole tutto questo? Il problema è posto in termini chiari, ma Paolo avverte subito la difficoltà di una risposta adeguata: quindi, mentre implicitamente afferma che l’uomo è libero e responsabile, e che quindi Dio ha tutti i diritti di rimproverare, situa il problema nel suo contesto naturale, ovvero la trascendenza di Dio. Fa questo anzitutto con una interrogazione retorica: come può l’uomo mettersi a discutere, quasi da pari a pari, con Dio fino a contraddirlo? È la posizione assurda con cui l’uomo pone dei problemi che toccano la trascendenza divina, posizione che Dio rimprovera, ad esempio, a Giobbe (cfr. Gb 38-39). Paolo porta poi l’esempio del vasaio37: il vasaio è padrone assoluto, può costruire i vasi che vuole e come vuole, ha sempre lui l’iniziativa: è assurdo che il vaso d’argilla si metta a discutere col vasaio. L’applicazione a Dio ribadisce la piena libertà di iniziativa e di azione, assoluta e senza alcun limite, che Dio ha nella salvezza. Per quanto l’essere umano possa indagare sulle proprie origini, non può mai esaurire il disegno creativo di Dio; qui tutte le sue domande e le sue contese con Dio sono destinate a fermarsi, come dimostra soprattutto il dramma di Giobbe: « Che cosa ti posso rispondere? » (Gb 40,4). Per Paolo la persona umana, non soltanto la sua carne, è un vaso di creta chiamato a contenere il tesoro inestimabile del vangelo (cfr. 2Cor 4,7). Paolo continua con l’esempio del vasaio e dei vasi e afferma: Se pertanto Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria, cioè verso di noi, che egli ha chiamati non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani, che potremmo dire? » (Rm 9,22-23). La prima parte della frase comincia con una causale, più che con una concessiva: non giacchè o per il fatto che, ma a causa della dimostrazione della sua collera e della sua potenza, Dio ha sopportato con grande pazienza i vasi d’ira. La presenza di vasi d’ira è considerata come dimostrazione dell’ira divina che, in Rm 1,18-3,20, Paolo ha descritto in termini di incompatibilità con il male commesso dagli esseri umani. Per questo la manifestazione dell’ira divina non è che un modo per far conoscere la sua potenza; e questa non si esprime con la distruzione, per quanto le creature umane siano come alcuni vasi destinati al macero, bensì con la grande longanimità di Dio. Non solo, dire che la pazienza di Dio vale anche per i vasi di collera significa, per via positiva, dimostrare la ricchezza della gloria divina per i vasi di misericordia. In pratica, Paolo si sofferma sui vasi d’ira per sottolineare che la gloria di Dio, ossia la sua presenza o la sua potenza si manifestano nei vasi di misericordia. I vasi d’ira sarebbero in concreto degli uomini che, per i loro peccati e la non accettazione del messaggio evangelico, sono oggetto dell’ira divina, sono cioè in assoluta antitesi con Dio che salva. Essi sono stati e permangono approntati per la rovina eterna38, ma Dio li sopporta con molta longanimità e la longanimità di Dio attende un possibile cambiamento. Infatti Dio manifesta, nella situazione attuale in cui essi si trovano, la sua ira, e se essi vi permangono la manifesterà ancora di più nel giorno dell’ira; ma Dio nel sopportare ha anche un altro scopo: mostra ciò di cui è capace, la sua potenza giustificante: potrà cambiare i vasi d’ira in vasi di Misericordia. I vasi di misericordia sarebbero gli uomini che, aderendo a Dio e accettando la salvezza del vangelo, sono oggetto attualmente dell’azione salvifica di Dio. In essi Dio manifesta la ricchezza della sua gloria39. Paolo, inoltre, riporta una serie di citazioni tratte dall’ A.T. e in particolare dalla letteratura profetica. In tal modo il percorso storico-salvifico dell’ A.T. perviene al suo compimento: dalle vicende dei patriarchi (vv. 6-13) a quelle esodali (vv. 14-18) e agli oracoli profetici (vv. 24-29). « Esattamente come dice Osea: Chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo e mia diletta quella che non era la diletta. E avverrà che nel luogo stesso dove fu detto loro: « Voi non siete mio popolo », là saranno chiamati figli del Dio vivente » (Rm 9,25-26). In questo oracolo Osea annuncia il ritorno nella grazia di Israele colpevole. Respinto un tempo da Dio a causa dei suoi peccati, il popolo eletto diverrà di nuovo, nel giorno della conversione e del perdono, il popolo di Jhwh, il suo popolo. Con tranquilla audacia, Paolo applica questo testo ai pagani: essi che non erano il popolo di Dio divengono, in Gesù Cristo, suo popolo40. Paolo non si dimentica di Israele. Cita Isaia, riprendendo un tema caratteristico della predicazione profetica dell’A.T. e applicandolo alla situazione presente: E quanto a Israele, Isaia esclama:

Se anche il numero dei figli d’Israele fosse come la sabbia del mare, sarà salvato solo il resto; perché con pienezza e rapidità il Signore compirà la sua parola sopra la terra. E ancora secondo ciò che predisse Isaia:

Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato una discendenza, saremmo divenuti come Sòdoma e resi simili a Gomorra (Rm 9,27-29). Nella massa del popolo di Israele, infedele al patto, inferiore in ogni caso al livello di impegno morale richiesto da Dio, c’è sempre stata una piccola minoranza, detta appunto dai profeti resto di Israele, che si mantiene all’altezza delle richieste divine e che sarà come il germe dal quale rifiorirà l’intero Israele rinnovato. Il resto non è soltanto considerato da una valutazione negativa rispetto a tutto Israele, ponendo in discussione la relazione con Dio, ma anche da una positiva, come segno di speranza per la maggior parte d’Israele41.

NOTE SUL SITO

Publié dans:Lettera ai Romani, TESI E TESINE |on 16 décembre, 2015 |Pas de commentaires »

“VEDI COME SI AMANO”. ROMANI 16 E LE CONOSCENZE DI PAOLO A ROMA – DI ANDREA LONARDO

http://www.gliscritti.it/index.html

“VEDI COME SI AMANO”. ROMANI 16 E LE CONOSCENZE DI PAOLO A ROMA – DI ANDREA LONARDO

Pubblichiamo un articolo scritto da Andrea Lonardo per la rubrica “Paolo a Roma” del sito www.romasette.it

Il Centro culturale Gli scritti (19/1/2009)

Il fenomeno Facebook – il gesuita Spadaro in un recente articolo pubblicato sulla Civiltà cattolica afferma che l’8,5 per cento della popolazione italiana ha un profilo Facebook – manifesta insieme il desiderio di relazioni che sempre caratterizza l’essere umano e l’utopia che esse possano realizzarsi semplicemente nella virtualità del flusso telematico. Il capitolo finale della lettera ai Romani, il famosissimo capitolo 16, presenta Paolo che, 2000 anni fa, conosce realmente fra le cento e le centocinquanta persone abitanti in una città che non ha ancora mai visitato. Sono, infatti, nominati diciassette nomi di uomini, sette nomi di donne, più due delle quali non compare il nome, più cinque gruppi di persone che si riuniscono nelle case di alcuni di loro. Afferma il prof. Penna, nell’ultimo volume appena uscito del suo commentario alla lettera ai Romani, che le lettere dell’antichità contenevano ovviamente spesso saluti a terze persone, ma il numero massimo di esse attestato è nella lettera papiracea di una certa Diodora che, scrivendo ad un certo Valerio Massimo, lo prega di dare i suoi saluti a sei persone. La lettera ai Romani è così la lettera che contiene il maggior numero di persone da salutare in tutta l’antichità classica, superando di gran lunga il numero di sei. Delle persone nominate Paolo sottolinea innanzitutto la loro attività evangelizzatrice. Febe, probabilmente la latrice della lettera ai Romani, la prima ad essere nominata, è definita “diacono della chiesa di Cencre” (Rm 16,1), dove “diacono” è da intendersi nella sua forza espressiva di servitrice. Paolo chiede ora ai romani di assistere Febe, come lei “ha protetto molti ed anche me stesso” (Rm 16,2). Si parla poi di Maria “che ha faticato molto per voi” (Rm 16,6). Poi di Andronico e Giunia, “apostoli insigni che erano in Cristo già prima di me” (Rm 16,7). Qui Paolo mostra di conoscere un ulteriore significato del termine “apostolo”: se egli sa bene che il ruolo dei Dodici è unico (cfr. ad esempio, 1 Cor 15,5), tuttavia utilizza il termine anche per altri missionari della prima generazione, forse appartenenti ai settantadue di cui parla l’evangelista Luca o agli “stranieri di Roma” presenti il giorno di Pentecoste. Andronico e Giunia potrebbero, forse, essere stati i primi evangelizzatori della comunità romana. Si accenna poi ad Urbano, “nostro collaboratore in Cristo” (Rm 16,9), a Trifena e Trifosa che “hanno lavorato per il Signore” (Rm 16,12), poi a Perside che ha, anch’essa, “lavorato per il Signore” (Rm 16,12). Si ripetono i verbi che indicano il collaborare, il lavorare, l’affaticarsi per il vangelo e la sua diffusione, per il servizio dei fratelli. Se, nel capitolo 16, il numero degli uomini citati è maggiore, si sottolinea maggiormente il ruolo evangelizzatrice delle donne: sette donne e cinque uomini sono detti faticare nel Signore. Anche la persecuzione è stata motivo di fatica: Aquila e Priscilla “hanno messo in gioco il loro collo per la mia vita” (Rm 16,4), con riferimento alla possibilità della decapitazione che era riservata ai cittadini romani, mentre Apelle “ha dato buona prova in Cristo” (Rm 16,10). Si sottolinea di alcuni l’essere punto di riferimento, anche per aver messo a disposizione la propria casa come luogo delle riunioni liturgiche e catechetiche. Sono citati subito dopo Febe, all’inizio del capitolo, Aquila e Priscilla “miei collaboratori in Cristo Gesù” (Rm 16,3) e “la comunità che si riunisce nella loro casa” (Rm 16,5), così quelli della casa di Narciso “che sono nel Signore” (Rm 16,11), Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma “e i fratelli che sono con loro” (Rm 16,14), Filogolo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpias “e tutti i credenti che stanno con loro” (Rm 16,15). Soprattutto, emerge la fraternità che lega i cristiani di Roma e Paolo. La fede cristiana genera un nuovo tipo di relazioni. Non esiste più solo l’amore sponsale o amicale (vedi Aquila e Priscilla o i “diletti” Ampliato e Perside), ma viene esaltato pure il legame che unisce i fratelli in Cristo. Febe è definita “nostra sorella” (Rm 16,1), “fratelli” vengono chiamati coloro che sono con Asincrito e gli altri (Rm 16,14), “credenti” coloro che sono con Filogolo e gli altri (Rm 16,15). Tutti insieme sono “santi” (Rm 1,7) e “chiamati” (Rm 1,6) da Gesù Cristo (chiesa, ekklesia, deriva dal termine greco che indica l’essere chiamati da Dio, l’essere kletoi). Questa fraternità si esprime in un tipico gesto che caratterizzerà da allora la fraternità nelle comunità cristiane: “salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo” (Rm 16,16). Lo scambio della pace, attraverso quel bacio santo, sarà il segno di una relazione di amore nata in Cristo che tutti abbraccia. La fraternità ecclesiale si pone come realtà che contraddistingue i credenti in Cristo. Essa viene offerto al mondo come segno che invita alla fede. Come ricorda Tertulliano, questa era l’espressione di stupore che sorgeva nei pagani che per la prima volta venivano in contatto con i cristiani: “Vedi come si amano fra loro e sono pronti a morire l’uno per l’altro” (Apologetico, XXXIX,7). N.B. Per l’appartenenza di Rm 16 alla lettera ai Romani, contro la tesi che propone di considerarlo un biglietto inviato alla chiesa di Efeso, cfr. su questo stesso sito Paolo ed i cristiani di Roma: Rm 16 appartiene alla lettera ai Romani, di Romano Penna. Per un approfondimento sulla presenza delle donne in Rm 16, cfr. su questo stesso sito Paolo apostolo e le donne nella Chiesa. Febe (Rm 16,1-2) e Lidia (At 16,11-15.40), di Pino Pulcinelli.

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