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LUNEDÌ 5 SETTEMBRE – COMMENTO DEL SITO: LA CHIESA IT (Col)

LUNEDÌ 5 SETTEMBRE – COMMENTO DEL SITO: LA CHIESA IT

http://www.lachiesa.it/calendario/Detailed/20110905.shtml

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossési

Fratelli, sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria.
È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza.
Voglio infatti che sappiate quale dura lotta devo sostenere per voi, per quelli di Laodicèa e per tutti quelli che non mi hanno mai visto di persona, perché i loro cuori vengano consolati. E così, intimamente uniti nell’amore, essi siano arricchiti di una piena intelligenza per conoscere il mistero di Dio, che è Cristo: in lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza.

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COMMENTO DEL SITO

Nella prima frase della prima lettura di oggi le traduzioni sono di solito inesatte. L’ha fatto osservare a ragione l’ultimo commento pubblicato sulla lettera ai Colossesi, quello di padre Aletti, professore all’Istituto Biblico. Per migliorare lo stile della frase di Paolo, i traduttori infatti modificano un po’ l’ordine delle parole. Sembra poca cosa; in realtà cambia il senso. Traducono: « Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo ». Con questa traduzione fanno dire a Paolo che la passione di Cristo è stata manchevole; manca qualche cosa ai patimenti di Cristo, e Paolo ha l’ambizione di completare ciò che manca. Questa idea non poteva certamente venire in mente a san Paolo. Egli in realtà non parla dei patimenti di Cristo in questa frase. Dice « tribolazioni », il che già indica una sfumatura; ma soprattutto l’espressione « nella mia carne » non si trova prima, ma dopo le parole « che manca alle tribolazioni di Cristo ». La frase si deve tradurre: « Completo quello che manca nella mia carne alle tribolazioni di Cristo », oppure: « quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne ».
Alla passione di Cristo non manca niente, è sufficiente per salvare il mondo intero; però la passione di Cristo deve essere applicata alla vita di ciascun credente e questo comporta una certa dose di tribolazioni: « Dobbiamo soffrire con lui dice altrove san Paolo per poter essere glorificati con lui ». Ogni vocazione cristiana comprende quindi una parte di tribolazioni, che deve essere attuata. In questo senso Paolo dice che completa ciò che manca all’applicazione della passione di Cristo nella sua esistenza. E una vocazione alta, questa applicazione alla nostra vita della passione di Cristo. Paolo la vede in modo molto positivo, al punto di dire:
« Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi ». Egli è convinto della fecondità di questa partecipazione alla passione di Cristo; vede la passione nella luce della risurrezione; sa che la partecipazione alla passione è condizione per partecipare alla risurrezione. Parla quindi di letizia, di gioia anche nelle sofferenze.
E non è il solo ad avere questa prospettiva. San Pietro nella sua prima lettera invita tutti i cristiani a rallegrarsi quando hanno parte alle sofferenze di Cristo:
« Quando avete parte alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, affinché anche quando si manifesterà la sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare ».
La nostra vocazione cristiana ci porta a riconoscere la grazia nascosta nelle sofferenze e nelle prove della vita, grazia preziosa di unione a Cristo nella sua passione, grazia dell’amore autentico, che accetta di pagare di persona. Se il valore supremo è quello dell’amore autentico, occorre accogliere i mezzi necessari per progredire nell’amore non soltanto con rassegnazione, ma con gioia.
Chiediamo allora al Signore di aiutarci a riconoscere la grazia nascosta nei momenti difficili. Se l’apprezziamo al suo giusto valore, potremo dire con san Paolo:
« Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa ».
È chiaro che la partecipazione alla passione di Cristo si fa sempre in un orientamento d’amore. Paolo scrive: « Le sofferenze che sopporto per voi… Completo quello che manca a favore del coTpo di Cristo che è la Chiesa ». Soltanto se accogliamo la sofferenza in questa prospettiva di offerta generosa di amore potremo provare in noi la gioia stessa del Signore.

Giovanni Paolo II [24.11.2004]: Cantico cfr Col 1,3.12-20

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2004/documents/hf_jp-ii_aud_20041124_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 24 novembre 2004

Cantico cfr Col 1,3.12-20
Cristo fu generato prima di ogni creatura,
è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti

Vespri del Mercoledì della 2a settimana (Lettura: Col 1,3.12.15-17)

1. È risuonato ora il grande inno cristologico con cui si apre la Lettera ai Colossesi. In esso campeggia appunto la figura gloriosa di Cristo, cuore della liturgia e centro di tutta la vita ecclesiale. L’orizzonte dell’inno, tuttavia, ben presto s’allarga alla creazione e alla redenzione coinvolgendo ogni essere creato e l’intera storia.
In questo canto è rintracciabile il respiro di fede e di preghiera dell’antica comunità cristiana e l’Apostolo ne raccoglie la voce e la testimonianza, pur imprimendo all’inno il suo sigillo.
2. Dopo una introduzione nella quale si rende grazie al Padre per la redenzione (cfr vv. 12-14), due sono le strofe in cui si articola questo Cantico, che la Liturgia dei Vespri ripropone ogni settimana. La prima celebra Cristo come «primogenito di ogni creatura», ossia generato prima di ogni essere, affermando così la sua eternità che trascende spazio e tempo (cfr vv. 15-18a). Egli è l’«immagine», l’«icona» visibile di quel Dio che rimane invisibile nel suo mistero. Era stata questa l’esperienza di Mosè che, nel suo ardente desiderio di gettare uno sguardo sulla realtà personale di Dio, si era sentito rispondere: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo» (Es 33,20; cfr anche Gv 14,8-9).
Invece, il volto del Padre Creatore dell’universo diventa accessibile in Cristo, artefice della realtà creata: «Tutte le cose sono state create per mezzo di lui… e tutte sussistono in lui» (Col 1,16-17). Cristo dunque, da un lato, è superiore alle realtà create, ma dall’altro, è coinvolto nella loro creazione. Per questo può essere da noi visto come «immagine di Dio invisibile», reso a noi vicino attraverso l’atto creativo.
3. La lode in onore di Cristo procede, nella seconda strofa (cfr vv. 18b-20), verso un altro orizzonte: quello della salvezza, della redenzione, della rigenerazione dell’umanità da lui creata ma che, peccando, era piombata nella morte.
Ora, la «pienezza» di grazia e di Spirito Santo che il Padre ha posto nel Figlio fa sì che egli possa, morendo e risorgendo, comunicarci una nuova vita (cfr vv. 19-20).
4. Egli è pertanto celebrato come «il primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (1,18b). Con la sua «pienezza» divina, ma anche col suo sangue sparso sulla croce, Cristo «riconcilia» e «rappacifica» tutte le realtà, celesti e terrestri. Egli le riporta così alla loro situazione originaria, ricreando l’armonia primigenia, voluta da Dio secondo il suo progetto d’amore e di vita. Creazione e redenzione sono, quindi, connesse tra loro come tappe di una stessa vicenda di salvezza.
5. Secondo il nostro solito, facciamo ora spazio alla meditazione dei grandi maestri della fede, i Padri della Chiesa. Sarà uno di essi a guidarci nella riflessione sull’opera redentrice compiuta da Cristo nel suo sangue sacrificale.
Commentando il nostro inno, san Giovanni Damasceno, nel Commento alle Lettere di san Paolo a lui attribuito, scrive: «San Paolo parla di « redenzione mediante il suo sangue » (Ef 1,7). È dato infatti come riscatto il sangue del Signore, che conduce i prigionieri dalla morte alla vita. Non era proprio possibile, per quelli che erano soggetti al regno della morte, essere liberati in altro modo, se non mediante colui che è diventato partecipe con noi della morte… Dall’operazione svolta con la sua venuta abbiamo conosciuto la natura di Dio che era prima della sua venuta. È infatti opera di Dio aver estinta la morte, restituito la vita e ricondotto a Dio il mondo. Perciò dice: « Egli è l’immagine del Dio invisibile » (Col 1,15), per manifestare che è Dio, anche se egli non è il Padre, ma l’immagine del Padre, e ha l’identità con lui, benché egli non sia lui» (I libri della Bibbia interpretati dalla grande tradizione, Bologna 2000, pp. 18.23).
Giovanni Damasceno poi conclude con uno sguardo d’insieme all’opera salvifica di Cristo: «La morte di Cristo salvò e rinnovò l’uomo; e riportò gli angeli alla primitiva gioia, a motivo dei salvati, e congiunse le realtà inferiori con quelle superiori… Fece infatti la pace e tolse di mezzo l’inimicizia. Perciò gli angeli dicevano: « Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace sulla terra »» (ibid., p. 37).

Giovanni Paolo II (Udienza 5.5.2004): Cantico cfr Col 1,3.12-20

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/2004/documents/hf_jp-ii_aud_20040505_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 5 maggio 2004

Cantico cfr Col 1,3.12-20

Cristo fu generato prima di ogni creatura, è il primogenito di coloro che risuscitano dai morti

Vespri del mercoledì della 1a settimana (Lettura: Col 1,3.12-15.17)

1. Abbiamo ascoltato il mirabile inno cristologico della Lettera ai Colossesi. La Liturgia dei Vespri lo propone in tutte le quattro settimane nelle quali essa si snoda e lo offre ai fedeli come Cantico, ripresentandolo nella veste che forse il testo aveva fin dalle sue origini. Infatti, molti studiosi ritengono che l’inno potrebbe essere la citazione di un canto delle Chiese dell’Asia minore, posto da Paolo nella Lettera indirizzata alla comunità cristiana di Colossi, una città allora fiorente e popolosa.
L’Apostolo, però, non si recò mai in questo centro della Frigia, una regione dell’attuale Turchia. La Chiesa locale era stata fondata da un suo discepolo, originario di quelle terre, Epafra. Costui fa capolino nel finale della Lettera insieme all’evangelista Luca, «il caro medico», come lo chiama san Paolo (4,14), e con un altro personaggio, Marco, «cugino di Barnaba» (4,10), forse l’omonimo compagno di Barnaba e Paolo (cfr At 12,25; 13,5.13), divenuto poi evangelista.
2. Poiché avremo occasione di tornare a più riprese in seguito su questo Cantico, ci accontentiamo ora di offrirne uno sguardo d’insieme e di evocare un commento spirituale, elaborato da un famoso Padre della Chiesa, san Giovanni Crisostomo (IV sec. d.C.), celebre oratore e Vescovo di Costantinopoli. Nell’inno emerge la grandiosa figura di Cristo, Signore del cosmo. Come la divina Sapienza creatrice esaltata dall’Antico Testamento (cfr ad esempio Pr 8,22-31), «egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui »; anzi, «tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (Col 1,16-17).
Si dispiega, dunque, nell’universo un disegno trascendente che Dio attua attraverso l’opera del Figlio. Lo proclama anche il Prologo del Vangelo di Giovanni quando afferma che «tutto è stato fatto per mezzo del Verbo e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,3). Anche la materia con la sua energia, la vita e la luce portano l’impronta del Verbo di Dio, «suo Figlio diletto» (Col 1,13). La rivelazione del Nuovo Testamento getta una nuova luce sulle parole del sapiente dell’Antico Testamento, il quale dichiarava che «dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore» (Sap 13,5).
3. Il Cantico della Lettera ai Colossesi presenta un’altra funzione di Cristo: Egli è anche il Signore della storia della salvezza, che si manifesta nella Chiesa (cfr Col 1,18) e si compie nel «sangue della sua croce» (v. 20), sorgente di pace e di armonia per l’intera vicenda umana.
Non è, quindi, soltanto l’orizzonte esterno a noi ad essere segnato dalla presenza efficace di Cristo, ma anche la realtà più specifica della creatura umana, ossia la storia. Essa non è in balía di forze cieche e irrazionali ma, pur nel peccato e nel male, è sorretta e orientata – per opera di Cristo – verso la pienezza. È così che per mezzo della Croce di Cristo tutta la realtà è «riconciliata» col Padre (cfr v. 20).
L’inno traccia, in tal modo, uno stupendo affresco dell’universo e della storia, invitandoci alla fiducia. Non siamo un granello di polvere inutile, disperso in uno spazio e in un tempo senza senso, ma siamo parte di un sapiente progetto scaturito dall’amore del Padre.
4. Come abbiamo annunziato, passiamo ora la parola a san Giovanni Crisostomo, perché sia lui a coronare questa riflessione. Nel suo Commento alla Lettera ai Colossesi egli si sofferma ampiamente su questo Cantico. All’inizio egli sottolinea la gratuità del dono di Dio «che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce» (v. 12). «Perché la chiama « sorte »?», si domanda il Crisostomo, e risponde: «Per mostrare che nessuno può conseguire il Regno con le proprie opere. Anche qui, come il più delle volte, la « sorte » ha il senso di « fortuna ». Nessuno mostra un comportamento tale da meritare il Regno, ma tutto è dono del Signore. Per questo egli dice: « Quando avete fatto ogni cosa, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare »» (PG 62, 312).
Questa benevola e potente gratuità riemerge più avanti, quando leggiamo che per mezzo di Cristo sono state create tutte le cose (cfr Col 1,16). «Da lui dipende la sostanza di tutte le cose – spiega il Vescovo -. Non soltanto le fece passare dal non essere all’essere, ma è ancora lui che le sostiene, cosicché, se fossero sottratte alla sua provvidenza, perirebbero e si dissolverebbero… Dipendono da lui: infatti, anche solo l’inclinare verso di lui è sufficiente a sostenerle e a rafforzarle» (PG 62, 319).
E a maggior ragione è segno di amore gratuito quanto Cristo viene compiendo per la Chiesa, di cui è il Capo. In questo punto (cfr v. 18), spiega il Crisostomo, «dopo aver parlato della dignità di Cristo, l’Apostolo parla anche del suo amore per gli uomini: « Egli è il capo del suo corpo, che è la Chiesa », volendo mostrare la sua intima comunione con noi. Colui, infatti, che è così in alto e superiore a tutti, si unì a coloro che sono in basso» (PG 62, 320).

La preghiera di chi si fida : (Col 2, 6-12

dal sito:

http://www.terrasantalibera.org/PREGHIERA%20E%20RESPIRO.htm

Preghiera e respiro

Stefano Maria Chiari

15/09/2007

La preghiera di chi si fida : (Col 2, 6-12)

«Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie.
Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.
E’ in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni Potestà.
In lui voi siete stati anche circoncisi, di una circoncisione però non fatta da mano di uomo, mediante la spogliazione del nostro corpo di carne, ma della vera circoncisione di Cristo.
Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti». (Col 2, 6-12)

La preghiera è il respiro dell’anima; come accade per il corpo, chi volesse vivere senza ossigeno, privandosi di un elemento principe nella dinamica delle funzioni fisiologiche dell’essere umano, resterebbe prima o poi privo di vita, così anche nel mondo dello spirito, colui che decida deliberatamente o per pigrizia o inerzia di prescindere dall’orazione finirebbe col giacere morto.
La ragione fondamentale di questo inevitabile esito risiede nella medesima struttura esistenziale dell’uomo; esso non possedendo alcun fondamento ontologico in se stesso, procede da Dio, nell’ordine dell’esistenza e delle sue finalità.
L’armonia tripartita (ma unitaria) della natura umana – costituita, come insegna San Paolo, da corpo, anima e spirito – implica necessariamente un equilibrio gerarchico delle sue parti costitutive: all’anima (psychè) deve soggiacere il corpo e la prima allo spirito (pneuma); a sua volta, quest’ultimo (nephesh) – creato per comunicare (vivendolo partecipativamente) con lo stesso Spirito di Dio nell’uomo (Rouah) – da Lui dipende totalmente, attingendo gioia piena, potenza di vita e di immortalità.
La preghiera si colloca proprio in quest’ottica comunicativa di effusione del cuore nel Cuore di Dio, subordinando il nulla del proprio essere al tutto infinito dell’Essere.

Lo stato originale di innocenza contemplava questa piena assonanza esistenziale: Dio e l’uomo in colloqui frequenti ed intimi, la natura umana, sovrana e signora dell’intero creato, capace di porre il nome agli animali, libera dalle pastoie del dolore e della morte e dal vincolo inesorabile di un servigio estremo, quello del ritorno alla terra, della polvere del proprio niente, chiaro segno del perduto dominio sugli elementi materiali della creazione.
L’uomo pecca e la corruzione del male commesso, rompendo l’armonia gerarchica menzionata, fraziona l’interiorità della persona (discorsività del pensiero, incapacità di concentrazione, dissonanze cognitive, illusioni legate alla errata percezione della propria corporeità) e proietta nel mondo sensibile la radice dell’essere stesso (la vita dello spirito), la quale, priva della sua unica Sorgente eterna ed infinita (Dio stesso), finisce con lo scagliare la sua ragion d’essere fuori del luogo ad essa deputato (la vita trinitaria), per restare assorbito e legato inesorabilmente al disfacimento progressivo della parte che di sé appartenga al transeunte.
L’uomo è ormai completamente servo del mondo creato (che invece era chiamato a dominare nell’amore), della materia nella quale egli si ingabbia sempre di più; peccato chiama peccato e il male paga con il male; ne ricava una vita precaria e una morte certa.
La corporeità cambia radicalmente il proprio modo di essere: da tempio vivo dello Spirito divino, diviene semplicemente «carne», che non mantiene la propria esistenza se non nell’ordine naturale (materiale).
In questo senso San Paolo parla di essa e della necessità di una sua mortificazione, ossia del bisogno estremo che le tendenze mortifere, che con sé medesima rechi, vengano uccise, purificate e sublimate nella divinizzazione che procede dallo Spirito Santo.
«Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l’ira di Dio su coloro che disobbediscono.
Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi.
Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca.
Non mentitevi gli uni gli altri.
Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore.
Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti». (Col 3, 5-11).

Il combattimento contro la carne è dunque reviviscenza per il corpo; l’ascesi di mortificazione, tuttavia, non ha senso se non nella misura in cui implichi anche un’esperienza mistica attiva (alla quale tutti sono chiamati e mistica che non dipende da se stessi o dai meriti personali, ma essenzialmente dalla propria collaborazione all’iniziativa dello Spirito divino), un’apertura del cuore all’azione di Dio, che ci renda capaci di ricevere la vita divina e di vivere del Logos eterno del Padre; in altri termini che ci apra all’ascolto autentico della Parola e ci faccia atti alla ricezione trasformante della persona.
Per questo alle pratiche dell’ascesi deve essere associata quella dell’orazione.
La preghiera ed il sacrificio devono sempre agire congiuntamente, sotto la guida dello Spirito del Padre che predispone all’accoglienza, alla purificazione ed alla santificazione.
I diversi elementi dell’ascesi (digiuni, astinenze, veglia, continenza, elemosina, lavoro, ossia fatica fisica e dedizione corporale) devono procedere simultaneamente ed essere coronati e corroborati dall’interno da un’intensa vita di preghiera.
L’ascesi verte e riguarda l’essere intero: l’uomo, decaduto in tutte le sue facoltà, deve rialzarsi integralmente, mediante l’applicazione di ogni sua potenza unita all’azione dello Spirito di Dio.
Questo ritrovato equilibrio, in Cristo Signore ed in virtù dell’effusione del suo sangue, comporta e genera una profonda pace interiore: l’uomo che prega e si sacrifica, mortificando se stesso, con l’aiuto della grazia, diviene dimora stabile dell’Altissimo, imperturbabile.
Ora, si vede bene quale sia la necessità di una vita d’orazione: la preghiera è il mezzo principe per instaurare nuovamente un rapporto con Dio.
Questa possibilità esiste solo perché è Dio, che per primo cerca tale rapporto.
Se non fosse così a nulla varrebbero tutti gli sforzi dell’umano potere.
In quest’ottica dobbiamo collocare le esperienze «mistiche» delle religioni orientali, legate al compimento di pratiche ascetiche ed ancora nell’ambito di tale visione dobbiamo leggere le differenze profonde tra preghiera e meditazione yoga, per esempio.
L’iniziativa di Dio è il sigillo della preghiera cristiana, che resterebbe altrimenti sempre arenata all’insufficienza di mezzo inadeguato per accedere al Mistero.
Che dire, dunque, di una possibile fisiologia della preghiera?
Che ruolo può o deve avere il corpo nel percorso ascetico dello spirito in Dio?
Che utilità vi può essere nell’utilizzo di posizioni fisiche o di specifici esercizi respiratori?
Riteniamo che sia sempre valido un principio aureo di Sant’Ignazio di Loyola: avvalersi di tutto quel che sia utile per unirci di più a Dio, prescindere da tutto quel che allontana o divide da Lui.
E’ chiaro che anche universalizzare un metodo rischia di essere restrittivo per la sensibilità spirituale di ognuno.
Procediamo per gradi.

In primis, dobbiamo rilevare un’evidenza: è certo che i portamenti, le posizioni ed i movimenti del corpo possano favorire, o addirittura provocare, stati psichici, come è anche vero che ogni attività mentale comporti ripercussioni somatiche; il corpo, in modo sensibile o impercettibile o perfino involontario, partecipa ad ogni moto dell’anima, di qualunque natura esso sia (sentimentale, intellettivo o spirituale).
E’ altresì verissimo che uno stato timico a volte possa essere quasi localizzato organicamente: un particolare stato umorale può esercitare una specifica attrazione ed influenza su certe parti dell’organismo più che su altre.
Solo il pensiero errante e discorsivo – necessariamente non legato ad una individuabile vena timica e solitamente determinato dal meccanismo complesso delle associazioni d’idee autogene, e/o delle impressioni ricevute dall’ambiente esteriore e/o delle onde subcoscienti messe in moto a caso dalla meditazione – difficilmente è in grado di trovare una propria collocazione fisica «residenziale». Tanto assertiamo per mostrare come indubbiamente la preghiera abbia una influenza notevole anche sul corpo e non soltanto sullo spirito.
Conosce bene questo, chi, abbandonato ad un tempo di preghiera, al terminare la stessa, si ritrovi con un nuovo insospettato senso di benessere, di pace e di vigore, che, seppur passando per lo spirito, ha notevoli ripercussioni anche sul corpo; come è anche semplice sperimentare come uno stato fisico di trambusto (arrivare di corsa in chiesa, per esempio) non deponga a favore di una calma concentrazione, certamente utile al momento orante.
Come dunque potersi avvalere del corpo per pregare con maggiore efficacia?
Uno dei modi può essere proprio quello di controllare il respiro, calmandolo nel suo vagabondo errare.
Il consiglio che chi scrive si sente di dare non concerne l’acquisizione di una specifica tecnica o l’utilizzo si procedure tramandate dalla tradizione esicasta, ma quello di un prudente ascolto dei messaggi del corpo.
La posizione di chi si dedichi alla preghiera prolungata deve essere necessariamente quella che riesca a conseguire il migliore stato di concentrazione per l’orante; il respiro scandito, ma non forzato (1) ritmicamente aiuta da un lato a fissare il pensiero, a canalizzarlo, come sosteneva Evagrio, verso il centro d’attenzione prefissato, e dall’altro, a sedare l’eventuale nervosismo, anche latente, che possa disturbare l’avvenimento dell’incontro.
Occorre preliminarmente sapere che questo è il momento, il tempo sacro, preziosissimo, in cui l’uomo creatura si deve trovare con il suo Creatore, per essere pienamente se stesso.

Non esiste istante di maggior valore di quello in cui la persona «si perda» nelle Persone.
Per questo è assolutamente indispensabile, come recita la divina liturgia greco-cattolica di San Giovanni Crisostomo, «deporre ogni mondana preoccupazione».
L’orazione deve procedere mentalmente da uno spirito libero e da un cuore arreso del tutto al Pensiero divino.
Qualunque turbamento, di qualsiasi natura, quand’anche fosse lecito, deve sciogliersi come cera al fuoco dello Spirito dimorante nel cuore.
Presupposto di tale atteggiamento intimo è la consapevolezza brillante e rassicurante di sperare tutto da Dio ed in Dio, affidando tutto e confidando per tutto.
Del resto la stessa coroncina della Divina Misericordia di santa Faustina vede il suo culmine in  questa medesima fiducia filiale: «Gesù, confido in te».
Il corpo seguirà l’anima in questo percorso di totale rasserenamento; il battito cardiaco decelererà, il respiro diverrà regolare, una sensazione di benessere e di rilassatezza pian piano prenderanno possesso dell’orante; ma tutti questi segni restano sempre nella sfera dell’accidente.
Una preghiera efficace può anche nascere nelle corsie di un letto d’ospedale, nell’offerta silenziosa di un cuore fiducioso, che palpita all’interno di un corpo lacerato o martoriato dal dolore.
Elemento essenziale infatti non è tanto la tecnica che si abbia deliberato di adottare (o che lo Spirito abbia suggerito) per rendere più viva la Presenza, quanto la necessità impellente che tale preghiera «divenga respiro»; per usare una sorta di gioco di parole, il respiro può essere utile alla preghiera, ma soprattutto la preghiera che deve essere respirata.
In questo si torna forse allusivamente a certa prassi della fisiologia orante, ma da cui tranquillamente possiamo prescindere: la preghiera deve divenire stato abituale dell’uomo, comunque costui riesca a realizzare tale evento.
Quindi torniamo all’essenziale: primo, assenza di preoccupazioni o di distrazioni; offerta di quel che c’è dentro di noi.
Gesù dice di dare in elemosina quel che v’è dentro e tutto sarà puro.
Quindi effusione del cuore davanti al Signore (come recitano alcuni salmi), cioè fiducia estrema e totale nella bontà infinita ed imperscrutabile dell’eccellenza divina.

Secondo: fede forte, irremovibile, piena consapevolezza di essere alla presenza di Dio, che stabilmente dimora nell’anima in grazia; o che si occulta nelle Specie Eucaristiche.
Stare presenti a se stesso, per dimorare alla Presenza, sapendo che Dio prescinde dalla mia poca o molta capacità e che Lui è in grado di fare tutto.
Piena certezza della parola di Cristo: «Rimanete in me ed io in voi», «siete tempio dello Spirito Santo»; «il Padre lo amerà e noi verremo a lui»; «il regno di Dio è dentro di voi» ecc., sapere che Dio non mente; l’anima che lo cerca ed è in grazia (confessata e senza peccato grave) vive di Dio, anche nella incoscienza di questo persistere «dentro».
Fede nella permanenza di Cristo, che va adorato nel cuore (come dice San Pietro) e che prega in noi, come capo, per noi, come sacerdote ed è pregato da noi come Dio (come meravigliosamente sintetizza Sant’Agostino).

Terzo: fede di essere esauditi, secondo il compimento della sua volontà.
Abbandono alla volontà divina e piena certezza che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio»; quindi, pregare, sapendo che il Padre mai rifiuta cose buone e lo Spirito Santo, all’anima perseverante, umile e colma di amore.
Pregare, sapendo che se si chiede bene e come si conviene, si ottiene sempre il meglio per sé e per gli altri, anche quando questo non corrisponda al nostro volere.
Quarto: umiltà! Essa deve costituire sigillo interiore della preghiera e manifestazione esteriore di solennità sacra; riconoscimento dell’infinita maestà sovrana di Dio, di fronte alla quale l’adorazione del corpo e dello spirito deve essere sentita come ineluttabilmente obbligatoria.
Il timore di Dio, questo amore adorante e tremante dell’uomo che si scopre nudo, senza grazia, incapace di ottenere alcunché, se non gli viene concesso dalla mano amorosissima dell’Altissimo, deve percorrere come un onda tutto l’essere ed impregnare di sé la coscienza.
Per questo ben si colloca, in quest’ottica, un’invocazione di carattere penitenziale, che chieda misericordia a Dio, per l’iniquità di cui si è profondamente impastati e che rende immensamente indegni di chiamare a sé il Santo.
Dall’umiltà discende senza equivoci il bisogno di essere convertito.
Recidere la complicità con il male, nell’intimo di una orazione penitente e di una supplica continua e colma di speranza, può essere il farmaco più dolce per il peccatore incallito che voglia, però, redimersi (e tutti siamo peccatori, nessuno si chiami fuori).
Ma come può questa preghiera così praticata divenire abitudine dell’anima, perenne presenza dello Spirito Santo nel cuore?
Come può l’uomo pregare sempre, per beneficiare della potenza e della dolcezza e della misericordia infinita del Santo dei santi?
Forzando, per quanto possibile e con serenità, la volontà a compiere una preghiera attenta; non tralasciando mai questo momento sacro, esclusivamente dedicato a Dio; richiamando alla memoria, incessantemente, come sottofondo musicale che accompagni in ogni dove ed in ogni tempo, il Divino che ci circonda, in cui viviamo e ci muoviamo; saper scorgere dietro ogni circostanza o apparenza della vita la mano divina della Provvidenza.

L’esperienza della preghiera come respiro diviene allora quasi un simbolo: come l’aria non può non avvolgere e contenere la persona, così la luce santificante e la grazia divinizzante dello Spirito non può non voler possedere un’anima; Dio, nella sua libertà infinita, vuole certamente, ma l’uomo deve consentire questo lasciarsi possedere; deve aprirsi seriamente al mistero che lo trascende, sapendo scorgere sempre un segno dell’amore che Dio ha per lui.
Non esisterà mai una tecnica che obblighi Dio a donarsi; soltanto l’amore è in grado di «costringere l’Eterno».
La preghiera diviene respiro quando lo sguardo si volge con frequenza al Cuore di chi dimora nel cuore; chi ama, non fatica a pensare alla persona amata; anzi il pensiero sorge in lui spontaneo; quasi riesce a percepirne l’odore e a carpirne lo sguardo.
Così, chi trova Cristo, sa incrociare i suoi occhi, oltre il visibile percorso dell’esistenza, nella certezza di sentirsi amato, voluto, protetto e benedetto.
Le giaculatorie possono essere di aiuto in tal senso; ponti attraverso i quali giungere al faccia a faccia nelle tenebre (per usare un’espressione ripresa da Beata Elisabetta della Trinità) in un istante, un momento, un attimo.
Altro mezzo può essere quello di un’attenzione parallela che ci consenta di vivere ad un tempo in qualunque luogo o accadimento, però assaporando intimamente (senza che ciò significhi sentire sensibilmente, ma soltanto prenderne coscienza) la dolcezza estrema del soffiare di Dio nell’anima.
Tutto questo premesso, non possiamo che evincere la seguente verità: «la preghiera nasce in un atto di fede che ci mette a confronto con l’Increato, il Dio personale e vivente: essa non dipende da alcun artificio e non può essere conquistata nè con l’astuzia nè con la violenza; è libero dono di sè, da una parte e l’altra. Il corpo non è dunque un organo produttore, ma un criterio oggettivo; ciò che si esige da esso, come pure dal pensiero discorsivo, è il silenzio ed il ritorno all’unità; è attivo, ma non creatore: è, come tutto nell’uomo, una terra fertile in attesa del seme; parte integrante dell’uomo totale, anche esso porterà i suoi frutti di santità, poichè è chiamato alla trasfigurazione, alla resurrezione e alla vita eterna» (2).

In questo netta è, pertanto, la differenza che intercorre tra un autentico atteggiamento orante e la pratica di un esercizio yoga.
«Nello yoga indiano, il fine dell’asceta è l’annullamento totale della propria individualità in Icvara, se si accetta la versione teista delle tecniche yogiche, e nella vacuità (vuoto), secondo la versione buddhista.
L’asceta, nella fase detta di samadhi (= unione), tende a passare dalla samadhi detta con sostegno a quella senza sostegno. E, mentre nella prima ha fissato il pensiero in un punto dello spazio o in un’idea (concentrazione in un solo punto, ekagratà), nella seconda deve annullare ogni precedente stadio di pensiero.
Ancora più esplicitamente, nello yoga buddhistico, quale è esposto nei testi del Dìghanikaya, il monaco, attraverso i quattro ultimi stadi di coscienza (samapatti), deve raggiungere la ‘regione della non-esistenza’, cioè una condizione che è totale soppressione di ogni presenza meditante e conoscitiva (…) lo yoga tende alla soppressione mentale e fisica del meditante, e, nelle sue forme tibetane, all’abolizione progressiva di tutte le figure divine, come forme ingannevoli della conoscenza (una sorta, cioè, di fagocitazione mentale degli dèi, come inutili schermi fra il meditante e la realtà» (3).
Nella preghiera cristiana, l’uomo deve riconoscere la propria creaturalità sia in relazione alla propria assoluta dipendenza da Dio (che, quindi, non è in grado di raggiungere da sè) sia come oggettivo riconoscimento del fatto che, pur peccatore, per superare il suo stato di decadenza, non deve rinnegare il proprio essere (quindi annullare se stesso), ma ottenere la divinizzazione di quel che è, per grazia e misericordia.
In appendice, un’ultima considerazione.
Esistono parole verbali, che debbano di preferenza utilizzarsi nella preghiera?
Ad una domanda simile, rispose Gesù.
Cosa insegnò?

Monte degli Ulivi, Gerusalemme, una delle decine di tabelle, scritte in tutte le lingue, che si trovano all’interno del chiostro della Chiesa del Pater, attigua alla Grotta del Pater, dove la tradizione vuole che N.S. Gesù Cristo abbia predicato per la seconda volta l’orazione al Padre ai suoi discepoli (nota e foto di www.jerusalem-holy-land.org)
 
Non sprecare parole, non pensare che la ripetizione cieca di un mantra possa essere di qualche ausilio; ma pregare il Padre, con la più bella preghiera mai scritta o inventata.
Il «Padre nostro» è preghiera eccelsa, contenente in sé tutto quel che si debba chiedere o domandare, nel debito ordine e secondo il divino compiacimento.
Il Pater è preghiera ricchissima, che può terminare anche solo al suo principio: «Padre».
Così pregava Gesù; non serviva altro.
Non posizioni yoga, non particolari respirazioni, non astrusi ragionamenti di canali energetici, in grado di migliorare l’equilibrio interno dell’essere.
Padre!
Così come chiunque può già esaurire e far consistere tutta la propria orazione nel pronunciare semplicemente il nome dolcissimo di Gesù oppure di Maria Santissima.
«Carissimi, non crediate a ogni spirito, ma provate gli spiriti per sapere se sono da Dio; perché molti falsi profeti sono sorti nel mondo. Da questo conoscete lo Spirito di Dio: ogni spirito, il quale riconosce pubblicamente che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce pubblicamente Gesù, non è da Dio, ma è lo spirito dell’anticristo. Voi avete sentito che deve venire; e ora è già nel mondo». (1Giovanni 4:1-6)

Stefano Maria Chiari

«IO COMPLETO NELLA MIA CARNE CIÒ CHE MANCA ALLA PASSIONE DI CRISTO PER IL SUO CORPO CHE È LA CHIESA» (Col. 1, 24)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_f.htm#

«IO COMPLETO NELLA MIA CARNE CIÒ CHE MANCA ALLA PASSIONE DI CRISTO PER IL SUO CORPO CHE È LA CHIESA» (Col. 1, 24)

San Gregario Nazianzeno *

Gregorio Nazianzeno (329-390) è, con san Basilio, suo amico, e Gregorio di Nissa, fratello di questi, uno dei tre grandi Padri della Cappadocia. Contemplativo e poeta, ebbe un’esistenza molto tormentata. Monaco con Basilio, divenne contro volontà vescovo di Sasima, e fu elevato in seguito alla sede di Costantinopoli. Stancatosi degli intrighi di questa città, si ritirò dapprima a Nazianzo, e in seguito nella solitudine, dove scrisse le sue opere più importanti. Il brano che leggeremo è tratto da due suoi sermoni per la Pasqua.

Stiamo per prender parte alla Pasqua: per il momento questo avverrà ancora in figura, anche se in modo più manifesto che nella legge antica. Potremmo dire infatti che allora la Pasqua era un simbolo oscuro di ciò che tuttavia resta ancora simbolo. Ma fra poco vi parteciperemo in modo più perfetto e più puro, quando il Verbo berrà con noi la nuova Pasqua nel regno del Padre (cfr. Mt. 26,29). Egli, facendosi nostro maestro, ci svelerà allora quello che attualmente ci mostra solo in parte e che resta sempre nuovo, anche se lo conosciamo già. E quale sarà questa bevanda che gusteremo? Sta a noi impararlo:lui ce lo insegna, comunicando ai discepoli la sua dottrina; e la dottrina è nutrimento anche per colui che la dispensa.
Partecipiamo dunque anche noi a questa festa rituale: secondo il Vangelo però, non secondo la lettera; in modo perfetto, non incompleto; per l’eternità, non per il tempo. Scegliamo come nostra capitale non la Gerusalemme di quaggiù, ma la città che è nei cieli; non la città che ora è calpestata dagli eserciti, ma quella che è glorificata dagli angeli. Non immoliamo a Dio giovani tori o agnelli che mettono corna e unghie, vittime prive di vita e di Intelligenza, ma offriamogli un sacrificio di lode sull’altare del cielo insieme con i cori angelici. Apriamo il primo velo, avviciniamoci al secondo e fissiamo lo sguardo verso il Santo dei santi. Dirò di più: immoliamo a Dio noi stessi; anzi, offriamoci a lui ogni giorno e in ogni nostra azione. Accettiamo tutto per amore del Verbo; imitiamo con i nostri patimenti la sua passione. Rendiamo gloria al suo sangue con il nostro sangue. Saliamo coraggiosamente sulla croce: dolci sono quei chiodi, anche se fanno molto male. Meglio soffrire con Cristo e per Cristo che vivere con altri nei piaceri.
Se sei Simone i,l Cireneo, prendi la croce e segui Cristo. Se sei stato crocifisso ‘come un ladro, fa’ come il buon ladrone e riconosci Dio. Se per causa tua e del tuo peccato Cristo fu trattato come un fuorilegge, tu, per amor suo, obbedisci alla legge. Appeso tu pure alla croce, adora colui che vi è stato inchiodato per te. Sappi trarre profitto dalla tua stessa iniquità, acquistati conia morte la salvezza. Entra in paradiso con Gesù, per comprendere quali beni hai perso con la caduta. Contempla le bellezze di quel luogo e lascia pure che il ladrone ribelle, morendo nella sua bestemmia, ne resti escluso.
Se sei Giuseppe d’Arimatea, richiedi il corpo di Cristo a chi lo ha fatto crocifiggere e sia tua così la vittima che ha espiato il peccato del mondo. Se sei Nicodemo, il fedele delle ore notturne, ungi,lo con aromi per la sepoltura. Se sei l’una o l’altra Maria, o Salo me, o Giovanna, piangi su di lui, levandoti di buon mattino. Cerca di vedere per primo la pietra sollevata, d’incontrare forse gli angeli o la persona stessa di Gesù.

* Eis ton aghiovpascha, XLV: P.G. 36, 653 C-656 D.

DOMENICA 1 MAGGIO 2011 – II DI PASQUA

DOMENICA 1 MAGGIO 2011 – II DI PASQUA

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/pasqA/PasqA2Page.htm

MESSA DEL GIORNO

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla lettera ai Colossesi di san Paolo, apostolo 3, 1-17
 
La vita nuova in Cristo
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria.
Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l’ira di Dio su coloro che disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti.
Rivestitevi dunque, come eletti di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti!
La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre.

Responsorio   Col 3, 1. 2. 3
R. Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; * pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra, alleluia.
V. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio;
R. pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra, alleluia.

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di sant’Agostino, vescovo
(Disc. 8 nell’ottava di Pasqua 1, 4; Pl 46, 838. 841)

Nuova creatura in Cristo
Rivolgo la mia parola a voi, bambini appena nati, fanciulli in Cristo, nuova prole della Chiesa, grazia del Padre, fecondità della Madre, pio germoglio, sciame novello, fiore del nostro onore e frutto della nostra fatica, mio gaudio e mia corona, a voi tutti che siete qui saldi nel Signore.
Mi rivolgo a voi con le parole stesse dell’apostolo: «Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri» (Rm 13, 14), perché vi rivestiate, anche nella vita, di colui del quale vi siete rivestiti per mezzo del sacramento. «Poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più Giudeo, né Greco; non c’è più schiavo, né libero; non c’è più uomo, né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 27-28).
In questo sta proprio la forza del sacramento. E’ infatti il sacramento della nuova vita, che comincia in questo tempo con la remissione di tutti i peccati, e avrà il suo compimento nella risurrezione dei morti. Infatti siete stati sepolti insieme con Cristo nella morte per mezzo del battesimo, perché, come Cristo è risuscitato dai morti, così anche voi possiate camminare in una vita nuova (cfr. Rm 6, 4).
Ora poi camminate nella fede, per tutto il tempo in cui, dimorando in questo corpo mortale, siete come pellegrini lontani dal Signore. Vostra via sicura si è fatto colui al quale tendete, cioè lo stesso Cristo Gesù, che per voi si è degnato di farsi uomo. Per coloro che lo temono ha riservato tesori di felicità, che effonderà copiosamente su quanti sperano in lui, allorché riceveranno nella realtà ciò che hanno ricevuto ora nella speranza.
Oggi ricorre l’ottavo giorno della vostra nascita, oggi trova in voi la sua completezza il segno della fede, quel segno che presso gli antichi patriarchi si verificava nella circoncisione, otto giorni dopo la nascita al mondo. Perciò anche il Signore ha impresso il suo sigillo al suo giorno, che è il terzo dopo la passione. Esso però, nel ciclo settimanale, è l’ottavo dopo il settimo cioè dopo il sabato, e il primo della settimana. Cristo, facendo passare il proprio corpo dalla mortalità all’immortalità, ha contrassegnato il suo giorno con il distintivo della risurrezione.
Voi partecipate del medesimo mistero non ancora nella piena realtà, ma nella sicura speranza, perché avete un pegno sicuro, lo Spirito Santo. «Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio. Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3, 1-4).

Responsorio   Col 3, 3-4; Rm 6, 11
R. Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. * Quando si manifesterà Cristo, vostra vita, anche voi sarete manifestati con lui nella gloria, alleluia.
V. Consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.
R. Quando si manifesterà Cristo, vostra vita, anche voi sarete manifestati con lui nella gloria, alleluia.

MERCOLEDÌ 5 GENNAIO 2011 – II SETTIMANA DOPO NATALE

MERCOLEDÌ 5 GENNAIO 2011 – II SETTIMANA DOPO NATALE

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura    
Dalla lettera ai Colossesi di san Paolo, apostolo 4, 2-18

Esortazione alla vigilanza. Conclusione della lettera
Fratelli, perseverate nella preghiera e vegliate in essa, rendendo grazie. Pregate anche per noi, perché Dio ci apra la porta della predicazione e possiamo annunziare il mistero di Cristo, per il quale mi trovo in catene: che possa davvero manifestarlo, parlandone come devo.
Comportatevi saggiamente con quelli di fuori; approfittate di ogni occasione. Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito di sapienza, per sapere come rispondere a ciascuno.
Tutto quanto mi riguarda ve lo riferirà Tìchico, il caro fratello e ministro fedele, mio compagno nel servizio del Signore, che io mando a voi, perché conosciate le nostre condizioni e perché rechi conforto ai vostri cuori. Con lui verrà anche Onèsimo, il fedele e caro fratello, che è dei vostri. Essi vi informeranno su tutte le cose di qui.
Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, il cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni —se verrà da voi, fategli buona accoglienza —e Gesù, chiamato Giusto. Di quelli venuti dalla circoncisione questi soli hanno collaborato con me per il regno di Dio e mi sono stati di consolazione. Vi saluta Epafra, servo di Cristo Gesù, che è dei vostri, il quale non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere, perché siate saldi, perfetti e aderenti a tutti i voleri di Dio. Gli rendo testimonianza che si impegna a fondo per voi, come per quelli di Laodicèa e di Geràpoli. Vi salutano Luca, il caro medico, e Dema.
Salutate i fratelli di Laodicèa e Ninfa con la comunità che si raduna nella sua casa. E quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che venga letta anche nella Chiesa dei Laodicesi e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi. Dite ad Archippo: «Considera il ministero che hai ricevuto nel Signore e vedi di compierlo bene».
Il saluto è di mia propria mano, di me, Paolo. Ricordatevi delle mie catene. La grazia sia con voi.

Responsorio    Col 4, 3; cfr. Sal 50, 17
R. Preghiamo gli uni per gli altri, perché Dio ci apra la porta della parola, * per annunziare il mistero di Cristo.
V. Il Signore ci apra le labbra, e la bocca proclami la lode di Dio,
R. per annunziare il mistero di Cristo.

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di sant’Agostino, vescovo
(Disc. 194, 3-4; Pl 38, 1016-1017)

Saremo saziati dalla visione del Verbo
Chi potrà mai conoscere tutti i tesori di sapienza e di scienza che Cristo racchiude in sé, nascosti nella povertà della sua carne? «Per noi, da ricco che era, egli si è fatto povero, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà» (cfr. 2 Cor 8, 9). Assumendo la mortalità dell’uomo e subendo nella sua persona la morte, egli si mostrò a noi nella povertà della condizione umana: non perdette però le sue ricchezze quasi gli fossero state tolte, ma ne promise la rivelazione nel futuro. Quale immensa ricchezza serba a chi lo teme e dona pienamente a quelli che sperano in lui!
Le nostre conoscenze sono ora imperfette e incomplete, finché non venga il perfetto e il completo. Ma proprio per renderci capaci di questo egli, che è uguale al Padre nella forma di Dio e simile a noi nella forma di servo, ci trasforma a somiglianza di Dio. Divenuto figlio dell’uomo, lui unico figlio di Dio, rende figli di Dio molti figli degli uomini. Dopo aver nutrito noi servi attraverso la forma visibile di servo, ci rende liberi, atti a contemplare la forma di Dio.
Infatti «noi siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3,2). Ma che cosa sono quei tesori di sapienza e di scienza, che cosa quelle ricchezze divine, se non la grande realtà capace di colmarci pienamente? Che cosa è quell’abbondanza di dolcezza se non ciò che è capace di saziarci?
Dunque: «Mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14, 8). E in un salmo una voce, che ci interpreta o parla per noi, dice rivolgendosi a lui: «Sarò saziato all’apparire della tua gloria» (cfr. Sal 16, 15). Egli e il Padre sono una cosa sola e chi vede lui vede anche il Padre. «Il Signore degli eserciti è il re della gloria» (Sal 23, 10). Facendoci volgere a lui, ci mostrerà il suo volto e saremo salvi; allora saremo saziati e ci basterà.
Ma fino a quando questo non avvenga e non ci sia mostrato quello che ci appagherà, fino a quando non berremo a quella fonte di vita che ci farà sazi, mentre noi camminiamo nella fede, pellegrini lontani da lui, e abbiamo fame e sete di giustizia e aneliamo con indicibile desiderio alla bellezza di Cristo che si svelerà nella forma di Dio, celebriamo con devozione il Natale di Cristo nato nella forma di servo.
Se non possiamo ancora contemplarlo perché è stato generato dal Padre prima dell’aurora, festeggiamolo perché nella notte è nato dalla Vergine. Se non lo comprendiamo ancora, perché il suo nome rimane davanti al sole (cfr. Sal 71, 17), riconosciamo il suo tabernacolo posto nel sole. Se ancora non vediamo l’Unigenito che rimane nel Padre, ricordiamo «lo sposo che esce dalla stanza nuziale» (cfr. Sal 18, 6). Se ancora non siamo preparati al banchetto del nostro Padre, riconosciamo il presepe del nostro Signore Gesù Cristo.

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