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Filippesi 2,6-11 – « lectio »

dal sito:

http://www.adonaj.net/old/preghiera/lectio9.htm

LECTIO DIVINA 9 
 
“CRISTO GESU’, PUR ESSENDO…”

Filippesi 2,6-11

Introductio:   Preghiamo la Madonna, con l’Ave Maria, perché ci assista nell’accogliere Lo Spirito Santo.

“Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
E donaci per intercessione di Maria che ha saputo
Contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande; quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo”. Amen.

Lectio:     leggiamo il testo con attenzione

La lettera fu scritta a Roma, quando la prigionia di Paolo stava per finire ed egli prevedeva di essere nuovamente libero entro poco tempo: dunque, verso la metà dell’anno 63, dopo le lettere ai Colossesi, a Filemone.
La cristianità di Filippi, importante città della Macedonia, era stata la prima fondata da Paolo in Europa, allorché durante il suo secondo viaggio missionario era sbarcato in Macedonia tra la fine dell’anno 50 e gli inizi dell’anno 51. A questi suoi primogeniti europei egli rimase sempre attaccatissimo, e concesse loro un privilegio non concesso ad altri: e fu che, mentre Paolo nella sua fierezza non accettava mai soccorsi materiali dai suoi neofiti, li accettò invece più di una volta dai Filippesi. Ciò avvenne anche durante la prigionia romana degli anni 61-63. Quando i Filippesi seppero che il loro amatissimo maestro si trovava in tale stato, inviarono a Roma Epafrodito, uno dei membri più autorevoli della loro comunità, con l’incarico sia di assistere Paolo sia di reali soccorsi materiali da parte loro. Ma, durante la sua permanenza  aRoma, il buon Epafrodito fu colto da grave e lunga malattia, tantoché la notizia della malattia giunse a Filippi e di là si rispose a Roma che tutta la comunità era in trepidazione per il malato; più tardi, come Dio volle, Epafrodito guarì completamente e si preparò al ritorno.
In questa occasione Paolo gli affidò la presente lettera. In essa l’Apostolo risponde alle buone notizie recategli da Epafrodito, e mostra la sua riconoscenza per i soccorsi ricevuti; ma soprattutto egli intavola una serena ed affettuosa conversazione con quei suoi figli amatissimi, che sperava rivedere assai presto. Ma è anche una conversazione cristiana, di evangelizzatore ed evangelizzati: e perciò contiene, fra altri punti dottrinali, insegnamenti cristologici di particolare importanza.

Meditatio.

Paolo rileva la prima e fondamentale virtù sociale, l’umiltà, e canta il più luminoso esempio che ci è fornito dal capo stesso del corpo mistico: le membra perciò non possono fare a meno di nutrire “gli stessi sentimenti” del loro capo: Gesù Cristo.
Tuttavia, convinto di quanto difficile fosse il programma spirituale e morale proposto ai fedeli, Paolo vuol dimostrare che però è possibile, se imiteremo “l’esempio” di Cristo: infatti, lo stato di umiltà assunto da Cristo presuppone una rinuncia infinitamente più grande di quella che noi cristiani dobbiamo fare nei confronti dei nostri fratelli. “Pur essendo nella forma di Dio”(v.6), Cristo rinunciò a tutto lo splendore e alla gloria che competevano a questa sua condizione, per assumere l’ordinaria “forma di servo, diventando (in tutto) simile agli uomini” (v.7). Nella sua umanità, esclusa la parentesi della trasfigurazione, mai rifulse lo “splendore”, accecante della divinità; anzi, questo apparve come eclissato, cancellato, addirittura “svuotato” (v.7). E ciò non bastò a Cristo: dopo l’umiliazione dell’incarnazione, ecco l’umiliazione della morte di croce, accettata in piena “obbedienza” alla volontà del Padre (v.8).
Come ricompensa però di questa catena d’umiliazioni, Dio “sovraesaltò” (v.9) la “umanità” di Cristo nella resurrezione, dandole una dignità, una gloria e uno splendore (“nome”) che la pone sopra d’ogni essere creato (v.9), umano, angelico o demoniaco (v.10. Cifr. Efes.1,21; Ebr.1,4; 1Pt. 3,22). E questo perché è la “umanità” dello stesso Verbo di Dio, che tutti gli esseri ragionevoli finalmente proclameranno a piena voce “Signore”, Dio eterno e immutabile, dominatore dei secoli e “giudice dei vivi e dei morti” (2 Tim.4,1). Tale “confessione” di fede costituirà  la “gloria” più grande che si potrà dare al “Dio Padre” (v.11), perché implica la piena accettazione del suo disegno d’amore e di saggezza. Notiamo che manca una espressa conclusione di carattere ascetico-morale, tuttavia essa è implicata nel contesto: come Cristo dalla sua “umiliazione” ha ricavato la massima “gloria”, anche noi cristiani ritrarremo dalle nostre rinunce una grande gloria e ricompensa per noi stessi e per tutto il corpo mistico, il quale, proprio dai buoni sentimenti di tutti, crescerà più splendente e vitale.
Ne conviene che i vv. 6-11, del capitolo 2 della lettera sono dunque di una eccezionale importanza teologica. Non solo il contenuto è altamente poetico e come percorso da un fiotto di commozione, ma anche la forma esterna è poetica, un vero “inno” con un certo ritmo melodioso che ci eleva a vette spirituali immense.
Dal punto di vista teologico vi si afferma la preesistenza del Verbo e la sua divinità ( ricordiamo il prologo del Vangelo di Giovanni, 1,1-11), l’incarnazione e la morte di croce, la glorificazione di Gesù e il suo dominio universale come ricompensa dell’abbassamento della sua umanità. Dal punto di vista ascetico è la gran lezione dell’umiltà e dell’obbedienza che è proposta a tutti i credenti d’ogni tempo, perciò tali virtù non possono essere marginali nel cristianesimo, se costituiscono l’essenza della vita e dell’opera di Gesù.
La prima parte dell’inno (vv.6-8) tratta più direttamente di alcuni argomenti che ci riguardano più da vicino (come ai Filippesi), poiché vi troviamo un ritratto di Gesù, il quale non si è attaccato egoisticamente alla sua elevata condizione di vita “di natura divina”.
Gesù è colui che fece tutto il contrario di Adamo che, uomo, volle diventare Dio e, creatura, ardì ribellarsi e disobbedire al suo Creatore (Gn.3,5 il serpente dice: “ diventerete come dei”).
Rigettando il peccato di Adamo, Gesù liberamente rinuncia alla sua posizione elevata e assume la condizione di Adamo di schiavitù al peccato e alla corruzione; egli ha accettato “la condizione di servo”. Trovandosi in questa corrotta situazione umana, di cui noi siamo tutti partecipi, Gesù ha portato a compimento il cammino di Adamo umiliando maggiormente se stesso in obbedienza al Padre fino a patire la morte in croce ( “non c’è amore più grande, che dare la vita per i propri amici”). Esempio luminoso d’altruismo e, poniamo l’accento ancora, di umiltà, che indica la morte stessa. La morte di “croce”, per Paolo, non è simbolo d’infamia, ma di gloria.
Sebbene egli possa essere stato più specificatamente interessato alla prima parte dell’inno, la seconda (vv.9-11) è altrettanto espressiva, perché ciò che è accaduto a Gesù Cristo, il quale si è umiliato e morto e risorto, è importante come esempio di ciò che accadrà a noi (come ai Filippesi), che umiliandoci e, forse, subiremo la morte rendendo testimonianza al Vangelo. Come Dio Padre ha esaltato Gesù, il secondo Adamo, così anche noi cristiani che soffriamo e moriamo con la fede possiamo sperare di essere risuscitati a nuova vita quando il Signore glorioso tornerà (1 Ts.4,13-18). Il resto dell’inno esamina l’esaltazione di Gesù e la sua unicità: gli è stato dato un nome che è al di sopra di ogni nome, così che quando è pronunciato il cosmo risponde genuflettendosi e glorificando Dio Padre, confessando e pregando che “Gesù Cristo è il Signore”. La frase è allo stesso tempo un’invocazione e una professione di fede della sua identità.

Contemplatio.

Signore, noi ti lodiamo, ti adoriamo, ti benediciamo, ti glorifichiamo e ti rendiamo grazie per averci rivelato la tua persona divina. Se c’è uno che potrebbe a buon diritto chiudersi in se stesso e accontentarsi della propria autosufficienza, se c’è uno che potrebbe conservare gelosamente il “tesoro” inestimabile della propria esistenza, senza avere bisogno di entrare in rapporto con niente e  nessuno al di fuori di sé, questi sei tu Signore. L’aspetto sconvolgente e “scandaloso” della nostra fede cristiana è proprio questo: tu, uomo Gesù Cristo, sei Dio per natura, eppure tutta la tua vita è stata un uscire da te, un curare la prossimità con noi uomini peccatori. Senza l’affermazione della tua uguaglianza col Padre la tua vicenda sarebbe magari commovente e potrebbe essere esaltante, ma non più di quanto lo fossero le vicende di tanti eroi e benefattori dell’umanità. E l’immagine del Padre resterebbe un enigma insolubile, un mistero occulto e incomprensibile: Dio Padre potrebbe ancora essere un geloso custode della propria inarrivabile divinità.
Gesù ti sei “svuotato” della tua divinità e non ti sei accontentato di condividere la nostra condizione umana, ma ti sei spinto fino ad assumere la condizione di servo. Su questa strada sei andato sino in fondo: ti sei consegnato nelle mani dei peccatori; hai offerto liberamente la tua vita, in obbedienza al Padre, affrontando la più meschina e infamante delle morti per amore nostro. Dall’incarnazione alla crocifissione il tuo progetto è stato un atto d’obbedienza alla volontà divina che ti chiedeva di manifestare a tutta l’umanità l’abissale amore del Padre per i suoi figli. Questo è l’unico modello cui anche noi dobbiamo ispirarci Signore nostro. E’ il modello assoluto. Su di esso e solo su di esso saremo misurati, perché come tutti siamo stati chiamati ad essere perfetti come tu Gesù, fin da prima della creazione del mondo.
Gesù crocefisso e risorto noi ti proclamiamo Signore della voce del Padre. Il tuo nome è destinato ad essere ripetuto da ogni lingua, perché ogni creatura sia condotta a riconoscere la tua signoria, piegando il ginocchio di fronte alla tua regalità sul mondo. Noi non intendiamo tutto questo come una rivincita o un “pareggio dei conti”. Tu, Signore, non prendi una posizione di dominio e di prevaricazione che hai abbandonato solo nel fugace momento della morte in croce. Una volta per tutte, Gesù uomo Dio, ti manifesti proprio nella dedizione incondizionata di te, nell’amore sconfinato con cui ti sei posto al servizio della salvezza di tutti. Tu “regni” proprio dalla croce: questo è il segno tracciato sulla storia. Nella carità divina espressa attraverso il segno della croce vediamo insieme la gloria del Padre e il significato pieno d’ogni vicenda umana. Grazie, Gesù. Lode e gloria a te, sempre!

Conclusio.

Gesù, mio Signore, tu sei la sorgente della vita, venuto sulla terra per comunicare questa vita a tutti gli uomini. Tu mi porti la vita vera: spirituale, soprannaturale, divina. Tu mi dai la vita della grazia; mi rendi partecipe della vita della S.S. Trinità. La vita che mi porti è l’unica cosa che conta realmente. Coloro che la possiedono regnano per essa. Coloro che non l’hanno o l’hanno perduta, sono come morti, come se si trovassero nella Geenna. Ti sono veramente riconoscente e grato, Gesù mio, per il dono meraviglioso che mi consacra al mio Dio e fa di me un erede del Regno. “A fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap.1,6).
Gesù mi doni questa vita di grazia per mezzo dei sacramenti. Entro in essa col battesimo: “Dovete nascere dall’alto”. Questa vita si sviluppa grazie all’Eucaristia, la carne che vivifica: “Io sono il pane di vita”. Nella Messa, l’acqua mescolata al vino per il sacrificio eucaristico, perde la sua identità e si confonde col vino. Così, quando ricevo te Signore, io prendo parte alla tua divinità e possiedo la tua vita.
Tu mi dai la vita, o Signore. Io l’accolgo e la faccio sviluppare in me. Tu sei la vita e io sono il tralcio. La tua linfa penetra in me e mi spinge a dare frutto. Tu mi hai esortato a non trascurare né sprecare i benefici di Dio. La grazia di Dio che è destinata a me personalmente dovrebbe essere ricevuta con rispetto, conservata con gelosa cura e assecondata. Devo riflettere sull’avvertimento che lo Spirito Santo fece dare all’angelo della Chiesa di Laodicea: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap.3,15-16).
Gesù, mio Signore, se è necessario, scuotimi dalla mia autosufficienza. La vita è breve. Non permettere che ne sprechi una parte. Concedimi piuttosto di ricavare il massimo profitto dalle grazie che mi metti a disposizione.
Con te “abbiamo in abbondanza”. Signore Gesù, tu dai senza misurare. Tu vuoi che io viva pienamente la mia vita spirituale. “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia” (Gv.1,16). La tua grazia non viene a me come un rivoletto, ma come l’onda abbondante e possente dei grandi fiumi che danno vita e prosperità. Quando procurasti il vino alle nozze di Cana, tu Signore, non ne desti qualche brocca, ma sei grandi giare riempite fino all’orlo ed erano i recipienti più grandi della casa. Quando moltiplicasti i cinque pani, tutti quelli che erano presenti mangiarono a sazietà e furono raccolti dodici canestri d’avanzi. Quando ordinasti agli Apostoli di gettare la rete al lato destro della barca, essa si riempì immediatamente di tale quantità di pesci, che i pescatori non riuscirono più a sollevarla e la dovettero trascinare a riva. Quando donasti il pane di vita – l’Eucaristia – tutti gli uomini furono invitati a mangiare di questo cibo celeste quanto più spesso volessero. Tu, Signore, dai sempre grazie abbondanti, nella misura in cui io le possa portare.
La grazia è venuta per mezzo tuo Gesù. Signore, che la tua grazia inondi l’anima mia fino a che io ti appartenga totalmente.

Tu sia benedetto in ogni istante della giornata, Signore Gesù. Amen. 

Publié dans:LECTIO DIVINA, Lettera ai Filippesi |on 31 octobre, 2010 |Pas de commentaires »

DIO PADRE NOSTRO (Mt.6,9-13) lectio

dal sito:

http://www.sanbiagio.org/lectio/vangelo_matteo/dio_padre_nostro_lectio.htm

DIO PADRE NOSTRO

Mt.6,9-13

Approfondire il « Padre Nostro » può sembrare scontato. E’ una preghiera cui siamo abituati fin da bambini. Ed è proprio dall’ « abitudine » che ci deve trar fuori la nostra Lectio Divina, per poter scoprire le inesplorate profondità della preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato. Allora e solo allora arriveremo a cogliere la densità del termine « Padre » a cui corrisponde il mistero di Dio come Padre di noi che, in Gesù, siamo suoi figli. Sarà importante confrontare Lc 11, 1-4 e cogliere le differenti modalità della stesura dentro però un’identica sostanza. La formula di Matteo è più solenne e rivela uno stile più liturgico.

Il brano è collocato in quel « discorso della montagna » che è un po’ la « magna-Charta » di tutto l’insegnamento di Gesù. In questo capitolo 6 è puntualizzata soprattutto la necessità di non orientare la propria vita all’ « apparire », ma all’ « essere ». Quell’entrare nella camera (=il cuore) e « chiudere la porta » (= del cuore), quel sapere che il Padre vede nel « segreto » (del cuore), quel credere che non lo spreco di molte parole, ma l’apertura a credere che il Padre sa di che cosa abbiamo bisogno ancor prima che chiediamo: tutto questo è richiamo forte a un cammino di fede-essenzialità che ha radici all’interno del nostro cuore, non fuori. Non a caso poi, immediatamente dopo aver consegnato il Padre Nostro, Gesù scandisce l’inderogabilità del perdono; il Padre perdonerà a noi, solo se noi perdoniamo (cf al riguardo in Mt. 18, 21-35 l’importantissima parabola del servo a cui molto è perdonato, ma che diventa strozzino verso il debitore). E’ dunque evidente che una condizione di fondo per pregare è il sapersi perdonati da Dio e voler perdonare ai fratelli.

Cogliamo nettamente una introduzione invocatoria e sette domande divise in due nuclei di tre con la quarta al centro. Le prime tre domande riguardano direttamente Dio, la quarta il pane, le altre tre il perdono e la vittoria sul male. Sono 7 le domande. E non a caso! Il 7 dice, biblicamente, perfezione.

v. 9 Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli
L’appellativo « padre » si può trovare in tutte le religioni, ma è il contesto che conta! Nel Vangelo (anche a differenza del Primo Testamento) la parola Padre si coglie come la chiave interpretativa per avvicinarsi al mistero di Dio. Dio è Onnipotente. Certo! Ma la sua onnipotenza è tale per salvarmi, per volermi bene. E’ dominatore. Certo! Ma il suo è il dominio dell’amore in cui come Padre si dona. E’ giudice. Certo! Ma esercita la sua giustizia di Padre che mi sollecita a scelte che mi permettano di essere salvato. Capire questo è di fondamentale importanza. Nostro cioè « Padre di noi che siamo chiamati a riconoscere il mistero di Dio nel volto dei fratelli ». « Che sei nei cieli » sottolinea non la lontananza ma la trascendenza. Questo Dio che è Padre (ma anche Madre, Sposo, Amore senza limiti) è presente in tutto. Non posso però dire che « tutto è Dio ». E la sua è « Presenza-Mistero »; Dio non è catturabile, non è da banalizzare. Nel suo commento San Francesco esclama: « Santissimo Padre nostro: creatore, redentore, consolatore e salvatore nostro ».

v. 9b-10 Sia santificato il tuo nome
Dio è la santità per eccellenza, infinita. Che dunque significa questa petizione? Lo capiamo contemplando Gesù. Il nome è biblicamente « presenza » Gesù ha santificato (=glorificato) il Nome del Padre fino alla Croce e il Nome (=Presenza del Padre) ha santificato Lui (=glorificato) fino alla Resurrezione. Santificare il nome di Dio Padre per noi significa accettare la croce di Gesù nelle nostre giornate e credere che la Presenza di questo Padre-Amore opera continuamente risurrezione in noi, come in Gesù, se gli diamo fiducia. Da questo punto di vista capisco come tutto nel mio quotidiano può essere « santificato »: il dolore e la gioia, il lavoro manuale e intellettuale, la padronanza serena dell’intelligenza incorporata nel computer, in internet, ecc. Proprio tutto. Quel che importa è che io viva intero il mistero di Cristo dentro la mia realtà, sotto lo sguardo del Padre e per la sua gloria.

v. 10a Venga il tuo regno.
Un’antichissima variante in Lc. Diceva: « Venga il tuo Spirito Santo ». In effetti il Padre vuol darci lo Spirito Santo (cfr. Lc 11, )Proprio perché penetrati dalla sua grazia che libera e illimpidisce la vita, noi rifiutiamo il compromesso. Chiediamo in sostanza il Regno di Dio come giustizia, gioia e pace nello Spirito Santo. Già si affermi in noi e nel mondo. Allora, fuori dalle brame del possesso egoistico e dall’avidità di un piacere narcisistico, fuori dall’ingordigia carnale e dall’orgoglio spirituale, il nostro vivere Cristo diventa verità, bellezza, l’emergere del mio e dell’altrui « SE » in cammino verso la comunione. Non c’è più « esteriorità separante », ma la terra intera diventa « sacramento » e fiducia rappacificante e unitiva.

v. 10b Sia fatta la tua volontà come in cielo come in terra
Per volontà di Dio si intende tutto il « progetto » di Dio. Qui chiediamo che il progetto-grazia di Dio (che è salvezza) si realizzi attraverso le nostre scelte di vita. « Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli , ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli (Mt 7, 21-23) Ancora una volta Gesù, proprio nell’nsegnarci chi è il Padre e come rivolgerci a Lui, c’insegna a saldare la fede e la preghiera alla vita. Fuori da questa modalità la fede diventa spiritualismo e la preghiera illusione. Non per nulla Lui, nostro modello, ha detto di sé: « Mio cibo è fare la volontà del Padre mio » (Gv.4, ) Come in cielo così in terra. Significa che il progetto di Dio è per tutti e per tutto: cielo, terra, universo. Viene in mente il canto nei cieli di Betlemme: « Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà » La gloria di Dio nei cieli, quando è cercata anche dalla buona volontà umana, produce quello che è desiderabile in terra: la pace del cuore, delle relazioni, della vita.

v. 11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano 
Collocata al centro della preghiera, questa petizione ci dice che è fondamentale avere il pane, ogni giorno: è un bisogno materiale ma, se non è soddisfatto, il resto o è devozionalismo o non è realizzabile. Abbiamo però anche fame del Pane « sovrasostanziale » che è la Parola di Dio e l’EUCARISTIA. Bisogna dunque che ci sfamiamo del pane materiale, ma questo bisogno non deve ingigantire al punto da soffocare o sopprimere la fame più profonda, di ordine spirituale. Attenzione poi a quell’aggettivo « nostro »! Non solo il padre è di tutti noi che siamo fratelli, ma anche il « pane » è una realtà di tutti. Non sono cristiano se non vivo la necessità di « spezzare » il pane (non mio, ma « nostro ») con chi non ne ha. Gesù ci insegna la negatività dell’accumulo: « Non potete servire a due padroni: o odierà l’uno e disprezzerà l’altro (…) Non potete servire Dio e mammona (Mt 6,24)

v. 12 E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori
Se la domanda del pane è al centro, per le ragioni espresse, bisogna però coglierne lo stretto rapporto con questa petizione che è chiaramente la più importante. Avessimo infatti anche tutto il pane del mondo ma non ci sentissimo perdonati, riconciliati, la vita sarebbe un inferno. Qui la verità della domanda esige la verità della convinzione di fondo: siamo veramente peccatori e non è il caso di scivolare in « pura » retorica o vuoto di parole. L’immagine del debito riguarda due realtà: 1) ti ho fatto torto; 2) Non ti ho dato ciò che ti dovevo. Chi infatti può sentirsi « giusto » di fronte a Dio? Eppure Dio è DIO-PADRE NOSTRO perché mi perdona. La parabola del servo a cui è molto perdonato e che non vuol perdonare (Mt 18, 21-35) ci aiuta a « scavare » il senso di queste domande. Scrive O. Clement: « Non è perché io rimetto i debiti ai miei debitori che Dio rimette i miei. Io non condiziono il perdono di Dio. E’ invece perché Dio mi predona, mi riconduce a Sé, libero nella sua grazia, è perché sono invaso dalla gratitudine che estraggo gli altri dalle sabbie mobili del mio egocentrismo e permetto anche a loro di esistere nella libertà della grazia ». (Il Padre nostro – E:Q:igajon. Bose 1988 p. 111)

v. 13 E non ci indurre in tentazione
Dio non ci provoca al male, non gioca a vederci cadere, « Dio non tenta nessuno » (Gc 1,13) Però non vuole risparmiare la tentazione perché è la prova necessaria alla nostra Fede che è una realtà viva e dinamica. La tentazione dunque in se stessa non è un male. Chiediamo però al Padre di ogni bene di opporre alla tentazione la forza della Parola di Dio come fece Gesù, quando fu tentato nel deserto. Gli chiediamo pure di non perdere mai la certezza che il Padre ci sostiene, ci aiuta e ci salva, anche se sembra non intervenire. « Ha salvato gli altri non può salvare se stesso. E’ il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo » (Mt 27,42) Così fu tentato Gesù. Potremo noi non essere tentati?

v. 13b Ma liberaci dal male – Sostanzialmente significa dal « maligno »
« Il male non è solo assenza di essere: è piuttosto intelligenza perversa che, a forza di cose assurde, vuol farci dubitare di Dio e della sua bontà » (O.Clement, o.c., 116) Il male dunque non è solo « privazione di bene » come dicevano i Padri, ma è il Maligno. Al maligno interessa sostanzialmente una cosa: farci perdere la speranza, farci colpevolizzare Dio dei nostri guai (cf Gn 3), edulcorare, diluire e vanificare la fede nel Dio Padre di Gesù: Dio di amore e di perdono, Dio che si è rivelato a noi, « amandoci talmente da darci il Figlio Gesù (cf Gv3)

Benevolenza e bontà: Lettera agli Efesini 4,20-32; 5,1.8-10

dal sito:

http://www.sanbiagio.org/lectio/libri_storici/tobia_1_lectio.htm

BENEVOLENZA E BONTÀ

Lettera agli Efesini 4,20-32; 5,1.8-10

Quando il giovane ricco si rivolge a Gesù, gli dice: Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna? Egli risponde: « Perché mi dici buono. Nessuno è buono, se non uno solo: Dio » (Lc 18,18-19). Veramente il « buono » per antonomasia è il nostro Creatore e Padre. La nostra bene-volenza e bontà non sono che una partecipazione alla bontà di Dio, se però siamo docili allo Spirito, cercando in tutto di comportarci come Gesù « il quale – dicono gli Atti degli Apostoli – passò beneficando e risanando tutti » (10,37-38). In questa pericope, tratta dalla lettera agli Efesini, Paolo ci dà indicazioni preziose circa il « fruttificare » benevolenza e bontà nella nostra vita.
Paolo ha scongiurato i suoi destinatari di non vivere alla maniera dei pagani. E va subito sottolineato che il loro modo d’essere: « accecati nella mente, estranei alla vita di Dio sia ‘per l’ignoranza’ (delle cose di Dio) che ‘per la durezza del cuore’ non riguarda solo i pagani contemporanei dei cristiani d’un tempo, ma forse è ancora più tipico dei pagani di oggi. Quello che Paolo dice del comportamento dei pagani d’ogni tempo fa come da sfondo: uno sfondo tenebroso che dà però risalto al comportamento dei cristiani pure d’ogni tempo. Chiamati a « comprendere la volontà di Dio » « ricolmi dello Spirito », Paolo li esorta dicendo: « Intrattenetevi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio, Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo (5,18-20). Subito dopo (5,21-33 e 6,1-8), Paolo viene precisando quelle che devono essere le nuove relazioni dei cristiani all’insegna di quell’amore reciproco che soprattutto si esprime in benevolenza e bontà.
4,20-21 Non così voi avete imparato a conoscere Cristo, se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti secondo la verità che è in Gesù
Ecco: Paolo, dopo aver denunciato la tenebra del comportamento dei pagani, esprime con forza la bellezza luminosa del vivere da cristiani. L’espressione originale è più forte: « voi non così avete imparato Cristo ». « Imparare Cristo » non significa quindi solo imitare la condotta di Gesù, il suo modo di pensare e di agire, ma – a monte! – significa conoscere, penetrare il suo mistero d’un amore che è infinito dono di sé nella morte e risurrezione: la vera salvezza per ciascuno di noi. « Imparare Cristo » è avere gli occhi del cuore illuminati dalla sua presenza-amante, dal suo fascino che immette di continuo nella storia energie salvifiche, colmando il suo corpo mistico (=la Chiesa) della pienezza della vita divina che è grazia e bontà. Si tratta dunque di « dare ascolto » a Lui (a tutto il suo messaggio) e lasciarsi ammaestrare da tutta la verità della sua persona divina che però si è fatta « carne »: in una vita pienamente umana, come la nostra.
v. 22 Per questa verità che è in Gesù dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dentro le passioni ingannatrici
Paolo allude all’antico rito del Battesimo, dove chi stava per diventare cristiano « deponeva » la sua veste simbolo di una vita all’insegna di passioni devastanti e menzognere. Subito veniva immerso nell’acqua e poi si rivestiva, ma di una veste candida.
vv. 23-24 Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera.
Perché dice « spirito della vostra mente »? Secondo la migliore esegesi si tratta della nostra facoltà intellettiva chiamata qui « spirito » in quanto aperta all’influsso dello Spirito Santo. Si tratta dunque del pensare con criteri di fede, pensare da cristiani opposto alla « vanità del pensare ». Interessante! Il rinnovamento, il diventare « uomo nuovo » investe anzitutto l’ambito del pensare: la mente. È di lì infatti che procede il vivere in quella giustizia-progetto di Dio per l’uomo appunto nuovo. Tale progetto non è illusione ma « santità vera ». Da notare: la TOB traduce: « santità che viene dalla Verità ». C’è dunque una grande pregnanza di significato in questo termine « verità » collegato alla persona di Gesù.
v. 25 Perciò bando alla menzogna: dite la verità al vostro prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri.
Paolo aveva parlato della « verità che è in Cristo Gesù », e di « santità vera », ora, dando indicazioni concrete di vita e di relazioni, mette al primo posto sincerità e lealtà: quell’essere « veri » nel proprio modo di pensare e d’agire, che è la premessa in dispensabile a un agire retto che « fruttifichi » amore e bontà all’interno non solo di una qualsiasi società ma di quella che è il Corpo Mistico di Gesù: la Chiesa, di cui ogni cristiano è membro.
vv. 26-27 Nell’ira, non peccate; non tramonti il sole sulla vostra ira e non date occasione al diavolo
C’è un adirarsi che non è peccato: quello scattare improvviso e momentaneo nel contrasto di opinioni e di sentimenti. L’importante è che l’ira non perduri. Perché se non è prontamente superata (prima che « tramonti il sole ») dà adito al diavolo (il « divisore » per eccellenza) che si vale di questa passione per incrinare e rompere il rapporto coniugale, filiale, fraterno ecc.
v. 28 Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani per farne parte a chi si trova in necessità
Può stupire che anche tra i primi cristiani ci fossero ladri. È però opportuno riflettere come ci siano molti modi di rubare. Anche la trascuratezza, la pigrizia nel proprio lavoro come nel gestire le realtà pubbliche è furto. L’apostolo poi ci spinge ben più in alto. Non solo invita a rendersi responsabili nella diligenza e nell’onestà del proprio lavoro ma chiede che si faccia parte del proprio guadagno a chi si trova in necessità. E non è questo uno stile di vita impregnato di benevolenza e bontà?
v. 29 Dalla vostra bocca non esca nessuna parola cattiva, ma piuttosto quelle buone che servono alla necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano
Abbiamo visto com’è importante e prioritario l’ambito di un pensare totalmente aperto alla verità. Qui ci è indicato l’ambito che subito ad esso si collega: quello del parlare. Si tratta di capire che il nostro parlare non solo non deve essere infestato da parole cattive, ma neppure può essere un parlare « neutro ». Dal nostro parlare deve fluire bontà: qualcosa che edifica, che fa del bene, che guarisce il cuore di chi ascolta.
vv.29-31 Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio col quale foste segnati per il gran giorno della redenzione. Scompaia da voi ogni amarezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza insieme a ogni forma di malignità
Da un punto di vista strettamente teologico come si può parlare di « rattristare » lo Spirito Santo di Dio? Egli è l’AMORE e dunque la GIOIA sostanziale all’interno della Trinità. Ma qui Paolo parla col suo cuore di uomo al nostro cuore. Dare gioia e non dispiacere a una Persona che ci ama e a cui dobbiamo moltissimo qualifica il nostro essere uomini. Del resto quel che Paolo qui ci chiede di far scomparire è ciò che distrugge la pace e la gioia del nostro vivere: quella pace e gioia che (l’abbiamo visto) sono in noi il frutto dello Spirito.
v. 32 Siate anzi benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi perdonandovi a vicenda come Cristo ha perdonato a voi in Cristo.
Denunciata e messa al bando ogni cattiveria come non compatibile col modo di vivere del cristiano, ecco l’esaltazione luminosa di quella benevolenza-bontà che anzitutto esplode dall’atteggiamento tipico del cristiano: l’essere misericordiosi. È Gesù stesso che lo ha chiesto con un imperativo che ci spalanca agli orizzonti di Dio. « Siate misericordiosi com’è misericordioso il vostro Padre » (Lc 6,36). « Amate i vostri nemici, se davvero volete essere figli del Padre vostro che è nei cieli » (Mt 5,44 ss)
5,1 Fatevi dunque imitatori di Dio quali figli carissimi e camminate nella carità nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.
La meta è molto alta: imitare Dio! Però la posta in gioco è la carità vista attraverso quell’evidenziatore che ci aiuta ad essere concreti nel nostro modo di essere benevoli e buoni. Ciò significa: non riesco ad amare se non imparo a sacrificarmi, a mettere K.O. il mio ego. Imitare Dio vuol dire dunque passare come Gesù dalla porta stretta della croce, ma sprigionando un « soave odore » di bontà, che allieta e cielo e terra.
v. 8 Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce
Il passaggio dall’essere stati tenebra ad essere « luce nel Signore » dice che è avvenuta una « nuova creazione »; è nato l’uomo nuovo in Cristo che è la luce del mondo (cf Gv 1,5; 8,12). Ecco perché anche dei cristiani è detto: « Voi siete la luce del mondo » (Mt 5,14). Quanto all’espressione « figli della luce » è importante ricordare che è una tipica espressione semitica per esprimere un’intima appartenenza. Già nella sua prima lettera, Paolo aveva scritto ai Tessalonicesi: « Voi tutti siete figli della luce e figli del giorno » (1 Tess 5,5). Certo, provenire dalla luce, essere noi stessi luce scandisce una grande dignità; però quanto c’impegna!
v. 9 Poiché il frutto della luce consiste in ogni sorta di bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore.
Eccoci, come in Gal 5,22, al termine tanto significativo: « frutto ». La tenebra ha opere (cf Gal 5,21) non frutti. E le sue sono opere infruttuose, anzi devastanti. Un esegeta dice: « Quelle opere che vivono di tenebra generano e diffondono solo tenebra e quindi il nulla nullificante » (H. Slhier). Il « frutto » della luce è un fruttificare che viene dallo Spirito Santo su quell’albero vivo che è Cristo e il suo Vangelo. È un fruttificare ogni sorta di verità: ciò che risponde alla realtà del progetto di Dio, e proprio per questo diventa ogni sorta di giustizia (=santità), la quale si manifesta in bontà e benevolenza. Norma e misura di questo fruttificare che cos’è in concreto da parte nostra? L’esaminare, scegliere e decidersi per quello che è gradito a Dio, indipendentemente da quello che può piacere a noi stessi o agli altri.

La nostra lectio ci ha portato a cogliere il processo di questo fruttificare bontà: un processo estremamente vitale. Anzitutto perché viene dalla vita dello Spirito in noi a cui ci affidiamo, lasciandoci guidare da Lui. Per questa bontà e benignità nel cristiano autentico si manifesta come una sorgiva di tutto ciò che procura e sostiene il bene dell’altro e nostro. Proprio perché è luminosità di bene noi lo vogliamo con spontaneità, volentieri, senza bisogno di essere precettati. La persona buona è l’opposto di quella che pecca di « buonismo », paurosa di scomodarsi e di scomodare, più passiva e negligente che attiva e creativa. La persona buona non si lascia prendere nell’onda del permissivismo. È forte nel volere il bene, che non è mai equivoco, compromesso, un patteggiare con le tenebre. La persona buona vuole il bene, in quella gioia che nasce dal non cedere agli ostacoli che si oppongono al suo attuare bontà e benignità. La persona buona, infatti, davvero è « figlia della luce », perché se « il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità » (Ef 5,9), lei sperimenta che la luce della gioia interiore è interamente frutto del suo essere unita al Signore e del suo donarsi per lui e con lui. Come riportano gli Atti degli Apostoli, Gesù ha detto: « C’è più gioia nel dare che nel ricevere » (Atti 28,35). Risulta così ben chiaro il salto di qualità tra altruismo e bontà. La bontà « frutto dello Spirito » edifica, viene costruendo anzitutto la mia persona. È la forza dell’amore con cui Dio mi ama. Perché mi percepisco avvolto e penetrato dalla bontà di Dio, m’impegno a essere buono con gli altri.

- Ho ben capito (cioè ho capito esistenzialmente) che la bontà è anzitutto fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi? (cf Mt 7,12). O sono di quelli che hanno bei pensieri sulla bontà, ma all’atto pratico vanno dietro ai propri comodi, esigendo che gli altri siano buoni?

- Sono uno/a che esce dalla confusione dilagante e non si lascia intrappolare nel buonismo, nel permissivismo ma persegue una bontà generosa, invocata dallo Spirito?

- Mi lascio affascinare da questo ideale: voglio vincere il male col bene, con la bontà? Non mi limito dunque a essere buono con quelli che mi dimostrano affetto e stima, ma anche con chi mi è avverso?

Nel silenzio rileggo lentamente questo ricco brano della Sacra Scrittura. Invoco lo Spirito Santo. È a Lui che chiedo di aprirmi a quelle parole che sento più decisive perché il cuore si converta e, da egoista e indurito, diventi veramente un cuore buono, che accoglie quella parola di Gesù: « Così come io vi ho amato, anche voi amatevi » (Gv 13,34).

NELLA CHIESA CHIAMATI: Atti 13, 1-3

(è una lectio) dal sito:

http://www.sanbiagio.org/lectio/lectio_introduzione.htm

NELLA CHIESA CHIAMATI

Atti 13, 1-3

Si tratta di una pericope molto breve ma importante perché prepara la partenza per il primo viaggio missionario di Paolo. Inoltre ci presenta, pure attraverso una scarna essenzialità, la giovane chiesa di Antiochia viva di fervore e di entusiasmo.

Siamo all’inizio del capitolo XIII che, col 14°, descrive il primo viaggio missionario di Paolo. Egli andrà a Cipro, poi sull’altopiano dell’Anatolia e presso alcune città della Galazia.
Il suo viaggio farà emergere un problema importante: la convenienza che anche i pagani, non solo i Giudei, possono essere ammessi alla Fede cristiana. Siamo alle origini storiche della UNIVERSALITA’ della chiesa.
Nel 15° capitolo viene poi narrato come ciò avvenga.
Da notare che, al concludersi del capitolo 12° Luca racconta la tragica fine del re Erode Agrippa (il persecutore di Pietro) e, con suggestiva espressione, dice che « la Parola di Dio cresceva e si moltiplicava » (12,24)
Nella struttura di questi capitoli degli Atti è interessante cogliere come tutto è narrato in ordine al primo concilio: quello di Gerusalemme in cui una chiesa vivace sotto l’impulso dello Spirito Santo, è già missionaria e realizza la propria espansione verso tutti gli uomini.

Il brano si struttura in tre nuclei:

1. C’erano nella Chiesa stabilita ad Antiochia profeti e dottori: Barnaba, Simeone (…) Saulo »
Di come si stabilì la chiesa ad Antiochia, parla Atti 11,19 ss
Antiochia era una notevolissima città della Siria (ora Turchia). Con i suoi 500.000 abitanti rappresentava la terza città, per importanza, dell’Impero Romano.
Dopo la persecuzione che aveva infierito ai tempi del primo martire Stefano, i cristiani erano giunti fin lì, oltre che a Cipro e in Fenicia.
Presto Antiochia divenne il primo centro di evangelizzazione ai pagani. Lo stesso Paolo, nel suo primo viaggio, parte da Antiochia e ad Antiochia ritorna
I profeti cristiani sono uomini docili allo Spirito che incoraggiano la comunità dei credenti e la esortano a discernere e vivere la volontà di Dio
I dottori sono più dediti all’insegnamento che trasmettono, interpretando e approfondendo il rapporto tra l’Antico Testamento e il ricordo ben vivo dell’insegnamento di Gesù.
Luca fornisce un elenco di nomi, non si sa se completo (cfr altri elenchi in At 1.13 e At 6,5). Il primo e l’ultimo: Barnaba e Saulo, sono già noti e quindi vengono solo nominati; gli altri tre hanno una piccola nota di presentazione.
Gli esegeti vedono in Simeone detto Niger un oriundo dell’Africa, in Lucio (in greco Louka) probabilmente lo stesso Luca autore degli Atti, in M a n a è n (nome ebraico che significa « figlio della consolazione ») un uomo di nobile famiglia, data la sua amicizia con Erode Antipa, il tetrarca della Galilea.
Sono dunque uomini diversissimi tra loro, questi che erano le persone guida della giovane chiesa: a volte profeti e dottori, a volte apostoli itineranti.

2. Mentre essi prestavano servizio di culto al Signore e facevano digiuno, lo Spirito Santo disse…
Luca ci parla di un servizio liturgico a cui ovviamente prende parte tutta la comunità antiochese, ma presieduto dai cinque.
E’ l’antica chiesa radunata in preghiera, che si è preparata all’ascolto della Parola (interpretata dai profeti) con l’ascesi del digiuno. Il senso di questo esercizio ascetico?
« Col digiuno meglio si rendono evidenti gli attaccamenti del cuore. Quando si è pervenuti a libertà, si può attendere e ricevere tutto da Dio. Preghiera e digiuno possono essere vie per percepire lo Spirito di Dio e per capire ciò che Dio vuole fare con noi » (KURZINGER – citato in: Gerard ROSSE’ – Atti degli apostoli. Commento Esegetico teologico – città Nuova 1998 p 486)
Attenzione però: L’iniziativa è divina e del tutto gratuita. La sottolinea bene Luca, facendo intervenire lo Spirito Santo.

3. Lo Spirito Santo disse: Mettetemi da parte Barnaba e Saulo per l’opera a cui li ho destinati »
Nella scelta dei due apostoli, i profeti, i dottori e la comunità mandano i due in missione, ma coscienti di concretizzare ciò che lo Spirito di Dio ha deciso.
Al redattore interessa, di fatto, evidenziare lo stretto legame tra volontà-azione di Dio e decisione dei responsabili, in sintonia con la comunità (cf At. 15, 23.28)
Risulta che questo importantissimo inizio dell’attività missionaria universale non è affatto dovuta all’iniziativa di un singolo (fosse pure del calibro di Paolo!), ma alla decisione della Chiesa sotto la guida dello Spirito.
Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li lasciarono partire.
Interessante! La prima celebrazione liturgica è seguita da una nuova celebrazione solenne che, nel resoconto di Luca, appare come scena di commiato, con tre elementi importanti: di nuovo il digiuno
e la preghiera,
inoltre quell’imposizione delle mani come atto di speciale
benedizione e raccomandazione a Dio, non come comunicazione di poteri (cfr invece Atti 6,6)
Quello che a Luca sta a cuore sottolineare è che l’azione liturgica della chiesa garantisce che l’opera degli evangelizzatori sarà sotto la guida e la protezione dello spirito Santo.
Sentirsi uniti e mandati dalla Chiesa è vera fonte di benedizione per il singolo.

MEDITATIO

Come ci provoca esistenzialmente questa pericope degli Atti? Ci rende avvisati, per nostra gioia, che il Signore ci chiama in seno alla sua chiesa, ci fa chiesa insieme ai fratelli, cioè ci vivifica e ci rinvigorisce con la Sua Parola e coi Sacramenti (Eucaristia e Riconciliazione), ci rende veramente « beati » perché tendiamo ad assimilare, giorno dopo giorno, la realtà del Vangelo: tutta la gioia, la ricchezza di orizzonti che esso ci offre. Al di là di tutte le difficoltà, le sofferenze, le delusioni che la vita comporta, questo lasciarsi evangelizzare nel cuore, mi abilita a capire che, proprio come Chiesa, io che ho provato in Cristo il senso profondo del mio esistere (e dunque la mia pace) non posso tenere per me questa ricchezza. Quando hai fatto una scoperta esaltante, quando hai il sole al centro del tuo cuore, puoi startene neghittoso e rannicchiato in te stesso?
Oggi molti (giovani e non) si lasciano vivere nella confusione esistenziale realizzando poi angoscia, pessimismo, noia, accusa di tutti e di tutto, da cui raccolgono solo disimpegno, frustrazione e la voglia mai sazia di evasioni di ogni tipo, con ricorrente senso di vuoto che spesso sfocia in disperazione.
A questa gente, quanto bene può fare il mio essere un laico convinto, seguace di Gesù che anzitutto crede in quel che fa: in famiglia, nel lavoro, nello studio, nell’azione sociale e poi vive lo stile delle beatitudini, con gli altri (fossero anche pochi); il coraggio delle scelte semplici, sobrie, della vita onesta e casta, il coraggio del perdono facile, del rendere bene per male e di vincere il male col bene, fino a tendere a cambiare le strutture sociopolitiche in cui vivo.
Questo è il senso dell’essere « chiamato » oggi a evangelizzare.

Due notazioni forti:

1.L’attenzione allo Spirito Santo e l’intimità con Chi invia ed assiste l’evangelizzare. Senza « pregare la Parola » ogni giorno si può fare del proselitismo ma non si comunica il Vangelo che è vita vissuta in chi annuncia.
2.Pregare con la Chiesa, sentirsi gioiosamente, umilmente Chiesa viva. L’individualismo spirituale non evangelizza. Io « servo » con Cristo e come Cristo, se servo la chiesa santa perché è corpo del signore che ha Lui per capo, la Chiesa da cui sono chiamato e da cui sono inviato.

Per la preghiera

Signore, Ti chiedo, fammi chiesa viva e dammi un cuore cattolico, dove questa espressione coincida con quanto ha detto un grande Papa:
« Cuore cattolico vuol dire cuore dalle dimensioni universali, cuore che ha vinto l’egoismo, l’angustia che esclude l’uomo dalla sua vocazione ad amare.
Cuore cattolico è cuore magnanimo, cuore ecumenico, cuore capace di accogliere il mondo intero, cuore cattolico non significa cuore indifferente alla verità delle cose e alla sincerità della parola.
Il cuore cattolico non confonde la debolezza con la bontà, non colloca la pace nella viltà e nell’apatia. Ma vivendo il Vangelo e annunciandolo, saper pulsare della mirabile sintesi di San Paolo: fare la verità nell’amore. »

Paolo VI

Tessere mariane : 2 Cor 5,19: lectio divina

dal sito:

http://servedimaria.diocesi.rovigo.it/documenti/rivista3-09/3_09-pag17-18.pdf

Tessere mariane

In ascolto della Parola

2 Cor 5,19: lectio divina

San Paolo, come Maria, ha accolto il dono della Parola come vocazione e come missione. La Parola infatti, viene inviata all’umanità non perché diventi un cibo da consumarsi e gustare in privato, o un gioiello dicui ornarsi per potersi rimirare egoisticamente. La Parolava condivisa, comunicata, scambiata: chi la riceve e l’accoglie viene inviato a servire gli altri.

Chiediamo la luce dello Spirito:

Donaci la tua luce, Spirito d’amore, perché anche noi, come Paolo e Maria, apriamo il cuore all’ascolto, ci lasciamo trasformare dalla Parola e sappiamo comunicarla alle sorelle e ai fratelli con trasparente semplicità. Fa’, o Santo Spirito, che le nostre vite siano davvero riflesso trasparente del desiderio mai sazio di comunione con Dio.

Dalla Sacra Scrittura leggiamo:

«Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliaticon sé in Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,19).

Il dono della Parola, dicevamo, è dono libero di Dio che siautocomunica all’umanità, a ciascun essere umano, in maniera personalissima e irripetibile. A ciascuno Dio si donacome Parola, in Gesù Cristo, per mezzo dello Spirito Santo. La storia della salvezza, narrata dalla Bibbia, è appuntola storia di questa autocomunicazione. Certo, la Bibbia usalinguaggi, forme e generi letterari diversi, alcuni dei qualiassai lontani dalla nostra sensibilità. Per esempio, non faun discorso scientifico o logico-formale per informarci delpensiero di Dio. Pensiero che, d’altra parte, è assai lontanodal nostro (cf Is 55,8-9) e richiede solo accoglienza liberae disponibile. Tuttavia, se impariamo a leggere i linguaggie le forme letterarie usate dalla Sacra Scrittura, possiamoaccostarci, con l’aiuto dello Spirito che ha ispirato quellerighe e quelle pagine, al contenuto teologico che il Signoreci vuole comunicare.

In maniera analoga, il Signore Gesù ha istituito la Chiesa,
perché potesse continuare nella storia e in ogni luogo,

la sua opera di salvezza e misericordia, di comunicazionedell’amore infinito di Dio che crea, salva e santifi ca chiamando alla piena comunione con sé ogni essere umano. Perciò, chiunque riceve il dono della Parola, in qualsiasimodo ciò avvenga – per rivelazione diretta come accaddeper i dodici, in visione come per Paolo, o nell’Incarnazionecome per Maria – è nello stesso momento chiamato ad andare per annunciare a tutti la bellezza e la ricchezza di quella stessa Parola. Essa non può restare nascosta, chiusa in uncassetto, o seppellita sotto un po’ di terra (cf Mt 25,25). «Infatti la Parola di Dio è viva, efficace» (Eb 4,12) e, seaccolta e assorbita gradualmente in profondità, germogliasempre (cf Is 55,10-11), anche in condizioni impossibili (cfMc 4,3-9). Se poi non riesce a produrre i suoi frutti, o neproduce solo pochi, ciò dipende da fattori esterni, soprattutto dalla scarsa capacità di accoglienza, quando non dallatotale chiusura del cuore di chi la riceve. La storia della salvezza è storia di riconciliazione con Dio-Trinità, che a poco a poco si rivela alle sue figlie e ai suoi figli, chiamandoli a tornare al rapporto di amoree comunione per il quale erano stati creati e dal qualesi erano allontanati con il peccato. Perciò, l’Apostoloquasi grida alla comunità di Corinto: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Egli ha compreso ilproprio servizio (“ministero”) come strumento di riconciliazione tra l’umanità e il Creatore. Egli sa bene diavere «questo tesoro in vasi di argilla» (2Cor 4,7), sabene di essere peccatore come gli altri e bisognoso diriconciliazione come tutti (cf 1Cor 15,8-11), perciò comunica innanzitutto la propria esperienza della misericordia gratuita del Signore: «Tutto questo però viene daDio, che ci ha riconciliati con sé in Cristo» (2Cor 5,19a), perché Dio «ci ha amati per primo» (1Gv 4,19; cf vv. 9-10). Dio ci ama a tal punto da non temere di chiederea noi, peccatori, di collaborare, anzi di farci protagonistidella sua opera di redenzione e santificazione (uno pertutti, l’esempio di Levi-Matteo: Mc 2,13-17 e paralleli).
La logica dell’incarnazione, del Dio che si fa uomo, limitato, piccolo e fragile, determina anche la logica ela struttura del ministero cristiano. Non potrebbe esserediverso da così, se si pensa al dono della libertà che Diostesso ci ha fatto creandoci. 


Visitazione -Giovanni Brunelli (1650)
Rovigo, Tempio della B. V. del Soccorso

¦ Tessere mariane
In che modo Maria è serva della Parola?

Il ministero della Parola è ministero profetico e di testimonianza,
servizio d’amore, perché altri possano riceverel’annuncio dell’amore di Dio. Anche Maria si è messa a
piena disposizione della Parola, così come Paolo si è fatto
«tutto per tutti» (1Cor 9,22).

La Vergine non ha viaggiato molto, non è andata in missione
come l’Apostolo, eppure anche lei ha accolto il progettodi Dio, che le sconvolgeva la vita, per donare all’umanitàil Salvatore. Maria non ha tremato, se non per un attimo,
di fronte all’immane prospettiva di diventare la madre delMessia. Non si
è chiusa in casa,
come aveva
fatto la parenteElisabetta (cfLc 1,24), anziè partita «in
fretta per unacittà di Giuda»
(Lc 1,39), proprio
per andarea servire quellaparente più anziana,
intimorita
dal dono non
più sperato di
un figlio. Il racconto
dell’incontro
delle due
gestanti, e dellaconseguentedanza di gioiadel bambino
nel grembo diElisabetta, ci
espone in forma

narrativa e drammatica la forza vitale della parola di Dio,
capace di comunicarsi al di là di ogni barriera, di ogni limite,
di ogni incapacità umana. Maria in quel momento èstrumento attivo dell’incontro, che va ben oltre il visibilee l’immediato. Ella stessa diventa evangelizzatrice e profeta.

Maria non si è vergognata delle stranezze di Gesù (cfMc 3,20-21) e tanto meno della sua condanna: lo ha seguito
e ascoltato sempre, fin sotto la Croce (cf Gv 19,25).
Ha continuato a seguirlo e ad ascoltarlo sempre (cf Gv2,1-12; Mc 3,31). Anzi, proprio nel tragico e impossibilemomento della crocifissione, Maria ha ricevuto da Gesù

in dono tutti i suoi discepoli, tutta l’umanità (cf Gv 19,2627),
quell’umanità per la cui riconciliazione e santificazione
aveva rinunciato alla propria vita privata. AncheMaria, pur consapevole della propria piccolezza – «haguardato all’umiltà della sua serva» (Lc 1,48) – non hatemuto di portare e comunicare la Parola ricevuta, conservata
e meditata nel cuore (cf Lc 2,19.51), consapevoleche la Parola con la sola propria forza compie meraviglie.
Maria, accogliendo la chiamata del Padre e in sé il donodel Figlio, si è resa permeabile allo Spirito; in lei si ècompiuto in maniera mirabile quel mistero di comunione,
che la teologia ha chiamato “inabitazione trinitaria” (cfGv 14,23-24). La Vergine di Nazaret è infatti la tutta santa,
colei che meglio d’ogni altra creatura ha potuto accogliere
il dono di Dio e comunicarlo all’umanità sofferentee afflitta dall’arida solitudine, conseguenza dell’assenzadi Dio.

Preghiamo

Maria, serva della Parola, ti sei messa a disposizione
della Trinità, perché a tutti giungesse
il richiamo dell’amore. Hai donato il corpo,
la vita, la personalità, perché il tuo Figlio
nascesse nell’umanità e si unisse a ciascuno di
noi, in virtù del suo amore. Aiuta anche noi a
mettere le nostre povere vite a disposizione
del Signore, perché possa incontrare tutte le
persone che troveremo sul nostro cammino ed
esse si lascino riconciliare con Lui, per iniziare
quel dialogo di comunione e d’amore che,
solo, dà la vita.

Impegno: Abbiamo ascoltato, meditato e pregato
la Parola; lasciamoci interpellare da essa. Come
segno dell’accoglienza e della disponibilità a lasciarci
cambiare, ci mettiamo, come Paolo e Maria, al suo servizio,
perché chi ci incontra possa ricevere il suono della
Parola e percepirne la bellezza, così che, lasciandosi
attrarre da essa, possa accogliere la riconciliazione e
l’amore che Dio dona a tutti. Impegniamoci ad accogliere
e perdonare coloro che in un modo o nell’altro ci
hanno fatto del male, perché dal nostro comportamento
intuiscano quanto Dio li ami e li chiami.
Giovanni Grosso o. carm.

«Institutum Carmelitanum» – Roma

Il primato della Lectio Divina

io non mi trovo molto con la « Lectio Divina », mi piace lo studio, la meditazione e la preghiera, ma separatamente, tuttavia è bene conoscerla meglio, dal sito:

http://www.geocities.com/centrotobagi/lectio.html

Il primato della Lectio Divina


     Credo opportuno richiamare alcuni principi sul significato, sul valore, sull’importanza della Lectio Divina.

     Anche di questo si parla molto, ma non c’è niente di scontato neanche qui. Rivisitando questa prassi, si vede come non è una tecnica, ma è un reale cammino spirituale, una metodologia di vita spirituale cristiana. Ho scritto sul foglio di presentazione del corso: “Bisogna guardare al nuovo millennio aggrappandoci all’unica parola che saprà traghettarci verso la sponda della salvezza”. E questa parola va affrontata seriamente. E lo vedremo ora.

     Perché questa importanza? Perché, nonostante nel nostro tempo ci sia un primato dell’occhio, della visione, dell’immagine, la Bibbia, il mondo semitico, ha sempre privilegiato l’udito rispetto alla vista. Dio incontra l’uomo, gli si manifesta specialmente attraverso la Parola. Il Dio dell’Antico Testamento è per definizione l’Invisibile, Colui che l’uomo non può vedere in faccia, non può raffigurare, farsene un’immagine. A Mosè che gli chiede di poter vedere la sua gloria, Dio risponde: “Tu non potrai vedere il mio volto. Nessuno può vedermi e restare vivo”. Potrà solo vederlo di spalle (Es. 33).

      Ma se Dio è l’Invisibile, l’uomo può udirne la Parola. La religione biblica è fondata sulla Rivelazione di Dio. Dice la Dei Verbum: “Questa Rivelazione avviene attraverso eventi e parole intimamente connessi”. Questa è una frase del cap. 1 della Dei Verbum: la rivelazione di Dio avviene mediante eventi e parole intimamente connessi. E Dio interviene o agisce nella storia dell’uomo e spiega il senso del suo intervento. Dio parla all’uomo, lo chiama ad un rapporto di comunione, di vita con sé e per questo diviene di primaria importanza da parte nostra l’ascoltare. Quindi per la Bibbia, il vero credente è la persona che si apre all’ascolto, accoglie questa parola e poi risponde, c’è un coinvolgimento, risponde a questo invito. Paolo ai Romani dice che la fede nasce dall’ascolto (Rm 10). Nel Vangelo, la voce di Dio che si fa udire alla Trasfigurazione di Gesù, comanda: Ascoltatelo! Perché la sua è Parola di Vita, Parola di Verità, Parola di Salvezza.

      Quindi se la fede nasce dall’ascolto, il pericolo più grave per noi diventa il non ascoltare, il non avere come metodologia di vita cristiana l’ascolto. Sottolineiamo al riguardo l’insistenza del Salmo 94 che la Chiesa ci fa dire ogni mattina nella Liturgia delle Ore: “Ascoltate oggi la sua voce, non indurite il vostro cuore”.

     Questa importanza prioritaria dell’ascolto è stata ribadita nell’episodio di Marta e Maria proprio da Gesù. Maria, seduta ai piedi Gesù ascoltava le sue parole. Si è scelta la parte migliore che non le sarà tolta. Non è questione di discutere qui su Marta e Maria, ma qui c’è un’affermazione categorica: tutto il resto ci viene tolto, l’ascolto non ci viene tolto. Perché? Perché l’ascolto è l’inizio di un cammino quotidiano in cui tu interiorizzi la Parola, interiorizzi Dio stesso. E noi sappiamo che alla fine, Dio sarà tutto in tutti. Quindi l’ascolto è un processo di assimilazione di Dio, è un processo di divinizzazione. Maria ha scelto questa parte che non le sarà tolta.

      Questo perché? Perché la Parola ha una sua carica intrinseca, non ne facciamo una magìa, ma ha una sua efficacia intrinseca:

è presentata, descritta come parola creatrice, da cui dipende la conservazione stessa del mondo, come dice il salmo 39.

E’ una Parola salvifica capace di risanare, rinnovare l’uomo: La tua parola Signore che tutto risana (Salmo 15).

E’ una Parola fedele, veritiera, perché Dio non può mutare: la tua Parola, Signore, è stabile come il cielo (Salmo 188).

E’ una parola che è vicina: questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca, è nel tuo cuore (Dt.); fa da luce e guida nella tua vita : Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino.

     Questo solo per sottolineare la carica intrinseca che c’è in questa parola. Pensate al testo di Is. 55 (“Come la pioggia, come la neve…”), c’è veramente una fecondità assicurata, non ritorna senza aver irrigato la terra; così è della parola. Il Vangelo la paragona al seme che il contadino getta nel solco della terra: sia di notte che di giorno, che vegli o dorma, il seme germoglia e cresce. La lettera agli Ebrei la paragona ad una spada a doppio taglio, capace di penetrare a fondo, di mettere a nudo la coscienza dell’uomo, di svelarne i pensieri. Questo solo per sottolineare l’efficacia intrinseca di questa parola.

      Però non agisce magicamente, ci vogliono delle disposizioni. Questa Parola di Dio, proprio perché rivolta e fa appello alla persona, come essere intelligente e libero, non fa violenza alla libertà della persona, né agisce in modo magico, cioè senza un nostro attivo coinvolgimento, ma richiede delle condizioni, delle disposizioni da parte nostra. E tutto questo è già stato messo in evidenza da Gesù stesso nella parabola spiegata ai discepoli da Gesù stesso, quella del seminatore. Dove il seme produce frutti differenti a seconda della qualità del terreno su cui cade. Quindi diventa molto importante il “come” si ascolta.

      Quali possono essere queste disposizioni perché la parola possa risanarci, rinnovarci?

Una prima disposizione è che l’ascolto non sia semplicemente esteriore, superficiale, ma anche interiore, profondo. Molte volte la parola entra da una parte e esce dall’altra, scivola via; si ha un ascolto superficiale quando può produrre qualche emozione momentanea, passeggera, ma non è assimilata, non è scesa dentro in modo che diventi adesione del mio cuore. Da qui un discernimento critico.

Un’altra disposizione è che l’ascolto non sia semplicemente teorico, mentale, intellettuale, ma anche pratico, si traduca nella vita, diventi testimonianza coerente. Il pericolo di un ascolto a livello soltanto teorico è quello di un’adesione verbalistica, velleitaria; non basta ascoltare, direbbe S. Giacomo, non è sufficiente conoscere la Parola, bisogna anche viverla. San Giacomo dice: “Mettete in pratica la Parola, non vi accontentate di ascoltarla ingannando voi stessi con falsi ragionamenti”.

Un’altra disposizione è che sia un ascolto non selettivo, non riduttivo della Parola, ma rispettoso della sua integrità, della sua purezza. Tante volte mutiliamo questa Parola, accogliamo solo ciò che ci aggrada, oppure si prende a caso, si apre la Bibbia a caso e leggiamo a caso. Può anche essere vero che il Signore ci voglia dire una certa cosa, però c’è un rispetto della Scrittura, c’è un disegno in ogni libro: aprire a caso mi sembra poco rispettoso.

     E poi nella Bibbia noi troviamo dei casi esemplari di reale ascolto della Parola con queste disposizioni, con questa disponibilità, con questa obbedienza alla Parola. Cito sempre il caso di Samuele che ancora giovane, nel cuore della notte sente una voce che lo chiama per nome. All’inizio non la riconosce come voce di Dio, riesce a riconoscerla attraverso il Sacerdote Eli che l’invita a rispondere: “Parla, o Signore, che il tuo servo ti ascolta”. E il libro dirà che Samuele “acquistò nella sua vita grande autorità di profeta presso il suo popolo perché non lasciò andare a vuoto una sola delle parole di Dio”.

      Un altro caso emblematico è quello di San Paolo, quando è fulminato sulla via di Damasco: Paolo sente una voce: “Saulo Saulo perché mi perseguiti?”. Al che cosa risponde? “Che devo fare, Signore?” Come dire: ti ascolto, sono a tua disposizione. E il persecutore Saulo sotto l’azione di questa parola accolta, diventerà Paolo l’apostolo dei pagani, il testimone fedele di Cristo. E come non citare Maria, la Madre di Gesù che Luca ci presenta come la donna dell’ascolto, dell’accoglienza, della contemplazione della Parola di Dio, a cominciare dalla risposta che dà all’Angelo: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”.

     Sono tutti casi esemplari che segnano, hanno segnato un orientamento nuovo di vita. Quindi, da quanto abbiamo già detto sull’importanza dell’ascolto della Parola, deriva veramente un bisogno di educarci all’ascolto. E’ sempre necessario questo educarci all’ascolto, ma forse lo è ancor più urgentemente oggi in cui viviamo in questa pseudo civiltà dell’immagine, del computer, dell’internet, immagini che ci bardano, ci sommergono; parole messaggi più diversi si moltiplicano e si sovrappongono, rendono più difficile un discernimento. Il ritmo vorticoso della vita ci toglie spazio, tempo, rende veramente sempre più arduo questo ascolto, a scapito della nostra fede.

      Quindi in questa situazione si sente proprio il bisogno di promuovere una pastorale di ascolto, di creare anche una liturgia occasione di ascolto.

     Come si impara ad ascoltare, che cosa favorisce e sviluppa una capacità di ascolto?

Volendo tentare alcune risposte, mi pare che dovremmo riservare il primo posto al silenzio, alla concentrazione, a stare un po’ con se stessi. Penso che Dio faccia fatica a entrare nel nostro cuore nel frastuono; affaccendati e distratti come siamo, anche se sentiamo non ascoltiamo veramente! Per cui, nonostante tutto, non bisogna temere, non bisogna aver paura del silenzio. Trovare momenti, spazi di meditazione, anche durante il lavoro. Caterina da Siena parlava della sua “cella interiore”.

Ci si educa all’ascolto anche prendendo coscienza del bisogno che si ha di apprendere. E’ importante anche questo. Io ho bisogno di essere ammaestrato da Dio ogni giorno e chi crede di sapere non è aperto all’ascolto, e nemmeno al dialogo.

Ci si educa ancora all’ascolto coltivando la purezza del cuore, cioè una libertà interiore. Quanti piccoli attaccamenti abbiamo! A volte sono cose molto banali, che ci portano via un sacco di tempo. Se il nostro cuore non è sgombro, ma è ripieno di questi attaccamenti, piccoli idoli, non siamo in situazione seria di ascolto. Sono le “spine” della parola che finiscono per soffocare questo seme germogliato, impedendone la maturazione, la fruttificazione.

Ci si educa all’ascolto attraverso un’umile pazienza. Dare spazio e tempo da innamorati della Parola, lasciandola veramente lavorare nel cuore; e sapere anche accettare la propria debolezza, la propria sconfitta, ma senza venir meno a questo impegno.

      Su questa base accenniamo a quella che chiamiamo “Lectio Divina” e che è realmente un cammino. Già gli antichi non avevano dei metodi molto rigidi, molto dettagliati. Era una specie di avvertimento discreto a non soffocare mai la spontaneità, la crescita del cammino di ciascuno verso la libertà e il dialogo dei figli con il Padre.

      Nel corso della tradizione si è sviluppata una lettura sapienziale, meditata, che comunemente è chiamata la “Lectio Divina”, secondo la celebre lettera del Priore Guido II della Grande Certosa.

La “lectio”

      Il punto di partenza è la lettura, anche perché la nostra fede è una storia di salvezza. Una lettura fatta dopo aver invocato lo Spirito Santo, quindi non è casuale il nostro canto iniziale. Bisogna credere nella presenza viva dello Spirito nella nostra Assemblea, perché noi siamo qui in ascolto di Dio che ci parla. E’ un momento di intensa esperienza religiosa anche questa preghiera allo Spirito, perché l’azione dello Spirito che ha ispirato i libri sacri continua anche in colui che legge. Forse non lo avvertiamo sempre, ma questa azione dello Spirito continua anche in colui che legge; e così il testo; l’uno e l’altro si trovano sotto il tocco dello stesso e medesimo Spirito. E’ veramente un momento di intensa esperienza religiosa!

      In questo senso, l’azione rivelativa della verità da parte dello Spirito è tutt’altro che esaurita. Potremmo dire che l’ispirazione è un processo permanente nella vita dei credenti, nella vita della Chiesa e raggiunge chiunque nella fede si accosta alla Parola. E la Bibbia è parola ispirata non solo perché fu scritta nel passato sotto l’azione dello Spirito, ma anche perché nel presente si rivela come libro vivo capace di comunicare, rivelare le verità nascoste. E’ il dono di Dio da conoscere. “Se tu conoscessi il dono di Dio”, dice Gesù alla samaritana. Scegliendola, si sceglie la vita, dice il Deuteronomio. E prima ancora di riflettere, bisogna metterci in questo atteggiamento di preghiera, di ascolto, di disponibilità, di tranquillità interiore, senza fretta.

      Il grande Ambrogio ricordava: “Quando preghi, sei tu che parli con Dio, ma quando leggi è Dio che ti parla!” e questo dialogo essenziale per la nostra vita è la Lectio! Un dialogo tra Dio che parla e tu che gli rispondi. E’ una lettura fatta in due. In questo rapporto dialogico di un amico con l’amico. “Non vi chiamo più servi, ma amici, perché conoscete tutto quello che ho udito dal Padre mio”. E San Giovanni ricorda con molta chiarezza il ruolo dello Spirito in rapporto alle parole di Gesù: “Ho ancora molte cose da dirvi, ma ora sarebbe troppo per voi, ma quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà verso tutta la verità. Non vi dirà cose sue, ma quelle che avrà udito e vi rivelerà le cose che stanno per venire.” (Gv 16). Queste parole mettono in luce la funzione dello Spirito, la sua missione specifica che sarà quella di condurre verso la pienezza della verità. E’ lo Spirito che ci rivelerà il senso vero, autentico della Parola che leggiamo. Ci aiuterà a comprenderla dal di dentro, col cuore, oltre che con l’intelligenza, ce la farà comprendere come rivelazione nuova, personale, in modo che diventi luce, forza, coraggio di testimonianza. Parola e Spirito. Il n. 8 della Dei Verbum dice: “Nella Chiesa, sotto l’azione dello Spirito Santo, la comprensione tanto delle cose, quanto delle parole trasmesse cresce, sia con la riflessione e lo studio di tutti i credenti”. Qui ci sarebbe un discorso da fare sul deposito della fede, sulla tradizione che cresce, continua a crescere attraverso la riflessione e lo studio di tutti i credenti. Questo n. 8 è molto importante. Per questo motivo nel momento dell’ascolto della Parola siamo invitati a pregare. E c’è una bellissima preghiera che risale al IX secolo – è un testo siriaco – che dice: domanda con insistenza a Dio di illuminare gli occhi della tua intelligenza, della tua anima, per essere capace di percepire la forza intima, nascosta nelle parole del Signore. Poi mettiti in piedi, prendi il santo Vangelo nelle tue mani, bacialo, posalo affettuosamente sui tuoi occhi, sul tuo cuore e pieno di sacro rispetto, pregalo così: o Cristo, nostro Signore, io che sono tanto indegno ti stringo nelle mie mani impure attraverso il tuo Santo Vangelo. Dimmi, te ne prego, le parole di vita e di consolazione, per la bocca e per la lingua del tuo santo Vangelo. Donami di ascoltarlo con orecchi interiori rinnovati e cantar la tua gloria con la lingua dello Spirito Santo. E’ quindi importante recuperare nella lettura questo senso vivo di una presenza e chiedere come Salomone: “Donami Signore un cuore sapiente, un cuore in ascolto”

      Quindi non è sufficiente leggere, bisogna leggere ascoltando, ricevendo l’insegnamento della fede, attraverso una lettura metodica, regolare, quotidiana, magari fissando un tempo strategico nella mia giornata, che può influenzare il resto del giorno: il tempo dell’appuntamento con la Parola; magari anche in un luogo appartato – “quando preghi entra nella tua stanza…” – dove la Bibbia ci attende, ci dà appuntamento durante il giorno. Da qui nasce il senso della nostra vita.

      S. Anselmo ci suggerisce di leggere non nel tumulto, ma nella calma, non in fretta, ma lentamente, poco alla volta, sostando in attenta riflessione. Allora il lettore sentirà che è capace di infiammare l’ardore della preghiera.

      Questo solo per dire come ci si accosta alla lettura.

      Ma, giustamente, non ci fermiamo qui. Perché la nostra fede non rimanga incompleta e superficiale, perché ci sia un’adesione più vitale, più personale al Signore, perché la Parola raggiunga il suo scopo, Gesù ci ammonisce che bisogna sostare, bisogna rimanere sulla Parola: è questa la condizione per diventare autentici discepoli.

      “Se rimanete nella mia parola diventerete veramente miei discepoli.” (Gv 8, 30) E aggiunge: “conoscerete la verità…”, indicando così la necessità di una penetrazione profonda della Parola, di un progresso nella conoscenza della Sua Persona, Lui che è “la Verità”. Basta leggere Giovanni 8, 31-32; e rimanere sulla parola significa anche rimanere accanto a Gesù per diventare suoi discepoli. Pensate all’episodio dei discepoli che sono col Battista e passa l’Agnello di Dio. Il Battista indica Gesù: andarono con lui, lo seguirono per tutta la vita, videro dove abitava… è un colloquio molto interessante. Vedono Gesù e lui si volta: “Chi cercate?… Dove abiti?” Sono un po’ imbarazzati e Gesù non può dire dove abita, perché Lui non ha un recapito, non ha dove posare il capo, la sua dimora è il Padre e non può spiegare, devono andare: “Venite e vedrete”. (v. Gv 1, 35-39). Fecero l’esperienza della sua intimità profonda col Padre, dei suoi orientamenti vitali, dei suoi interessi più profondi, della sua dimora abituale e abbandonarono tutto e lo seguirono.

      Spesso non si può dire, non si può esprimere, è indicibile questo luogo, non lo si può spiegare a parole. Ecco che rimanere sulla parola, rimanere in Gesù, perché le sue parole trovino spazio in noi, vi dimorino in continuità.

      Questo potrebbe essere l’obiettivo della lectio: sostare, rimanere sulla parola, che equivale rimanere in Gesù, perché le sue parole trovino spazio in noi e vi dimorino in continuità.

      Ed è ancora attraverso la parola – ricorda Giovanni – che il discepolo rimane contemporaneamente nel Figlio e nel Padre (1a lettera di Giovanni, 2, 24-25).

     
La meditatio

     Però questa parola bisogna accoglierla, assimilarla, interiorizzarla, in modo che diventi regola ispiratrice di vita.

      E’ un esercizio tutt’altro che pietistico, non è una pia pratica. Origene dice: questo è il modo attraverso il quale Gesù cresce dentro di noi.

      C’è una specie di equazione tra questo masticare questa parola e il crescere di Cristo in noi nel suo Regno. Se ci fermiamo vediamo l’importanza di quanto stiamo dicendo.

      Questo esercizio consiste nel riprendere questa parola, nello sminuzzarla, renderla assimilabile, comprendendone le sue tematiche; è un lavoro paziente, laborioso, anche lungo, da svolgere con un minimo di tranquillità interiore.

      La tradizione orientale dice infine che la ripetizione prolungata di certi passi lascia dei segni nel cuore del credente. In fondo la tradizione monastica ha imparato a ruminarla in continuità, facendola poi germogliare nella preghiera, nei gesti, nelle parole.

      Silvano del monte Athos dice che se il cuore non medita la legge del Signore giorno e notte non può aver pace. Cosa voleva dire? Voleva dire che questa parola iscritta dallo Spirito, dalla Scrittura passa nel discepolo. E in chi ha la capacità di sostare a lungo si crea veramente questa osmosi fra lo Spirito che vibra nelle Scritture e il nostro Spirito e si realizza concretamente quello che dice Paolo in 2 Cor 3, 2-3: “a nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. E’ noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con l’inchiostro, ma con lo spirito del Dio vivente; non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori”

      E’ un testo formidabile. E i Corinti, nella misura in cui hanno accolto la parola di Paolo e l’hanno interiorizzata, sono diventati l’espressione di Cristo. Come ha potuto avvenire tutto ciò? Hanno incontrato la parola del Vangelo annunciata da Paolo, l’hanno accettata, l’hanno accolta, ora la riesprimono nella vita personale, comunitaria, in termini leggibili, perché sono diventati come una lettera. Quasi a dire che nella maturità dell’ascolto esprimono chiaramente il mistero di Gesù.

     Questa dimensione cristologica della vita comincia proprio con l’ascolto della Parola. E questa parola poi viene incisa dallo Spirito che Paolo paragona all’inchiostro; cosa fa l’inchiostro? Ha il potere di rendere chiaro, leggibile un pensiero. Sembra dire: senza l’azione dello Spirito la Parola non prende carne nelle persone, non è leggibile, non affiora. Ecco l’importanza di sostare sulla parola invocando lo Spirito. Che rimane sempre un po’ lo sconosciuto. Mentre qui emerge come figura straordinaria importantissima, perché la Parola si incida veramente nel nostro cuore. E certamente quando Paolo dice queste cose, ha tutto un suo retroterra veterotestamentario. Pensate al Sinai, quando Dio dà il Decalogo: c’è la versione del Targum, la versione che troviamo nell’Esodo: la Parola, quando uscì dalla bocca del Santo era come frecce, come fulmini, come dardi di fuoco che andavano ad incidere sulle tavole dell’Alleanza. Esodo 19 parla di tuoni, di lampi, di suoni di tromba. Il Targum esplicita il mistero del Sinai assimilando le dieci parole a lingue di fuoco. E noi conosciamo la rilettura che fanno gli Atti degli Apostoli alla Pentecoste: e lì è evocata questa pagina. Quindi il dono della nuova legge, della Parola, scende sotto forma di lingue di fuoco e va a incidersi sul cuore delle persone lì radunate. “Metterò dentro di voi uno spirito nuovo…” Così lo Spirito interiorizza il mistero della Parola, della volontà divina, del suo Regno e lo rende leggibile nella nostra vita.

      Mi sembra legittimo pensare che dal momento in cui leggiamo la Parola nello Spirito, si rinnova questa Pentecoste nel nostro cuore e mediante la ripetizione cerchiamo di assimilarla più intensamente.

      C’è quel famoso testo del Grisostomo che può essere paradossale ma rende l’idea: “quando in un’assemblea si legge un testo, chi non era presente, vedendo uscire la gente dall’assemblea, dovrebbe capire che testo è stato spiegato, dal volto delle persone”. Quasi a dire: Paolo dice che voi siete una lettera di Cristo e queste persone che hanno assimilato questa Parola escono dall’Assemblea con un certo volto che richiama il testo spiegato. E’ esagerata la cosa, ma rende l’idea. I medioevali chiamavano questo discorso “masticazione” della Parola.

      Di Antonio il Grande si diceva che la sua maturità era talmente grande da non lasciare più cadere alcuna delle parole che leggeva o udiva. Un modello di tutto questo è Maria, nel testo dell’Annunciazione. Si domandava cosa potesse significare tale saluto. Maria, come Mosè, riflette sulla Parola: “Come avverrà tutto questo?… Lo Spirito Santo verrà su di te, la potenza dell’Altissimo ti coprirà…. Eccomi sono la serva del Signore, avvenga in me secondo la tua Parola”. (Lc 1, 34-38).

      Origene commenta l’evento e fa parlare Maria: Ecco sono una pagina per essere scritta, su cui scrive il Signore dell’universo. E a questa Parola subentra anche l’atteggiamento meditativo di Maria. Maria serbava queste cose meditandole nel suo cuore. Non è un esercizio pietistico; è Cristo che matura, è Cristo che cresce, è Cristo che nasce.

      Per quanto riguarda Maria vorrei toccare un altro breve testo: Luca 11: “Beato il ventre che ti ha portato e il petto che hai succhiato”. E’ una donna che grida. Gesù risponde: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la Parola e la custodiscono”. Cosa voleva dire? Non negare l’affermazione entusiasta di questa donna, ma orientarla verso un indirizzo nuovo, misterioso, affascinante. In altre parole Gesù fa questa analogia tra l’esperienza della maternità, dell’allattamento se vogliamo, e la delizia dell’ascolto, della custodia meditativa della Parola paragonabile al succhiare di un bimbo al seno della mamma. Una esperienza tutt’altro che meccanicistica, è il momento in cui il bimbo senso l’affetto vibrante, sensibile della madre ne assapora tutta la dolcezza, un’esperienza ricca di amore, non fredda, non abitudinaria. D’ora in poi dice Gesù, c’è un altro grembo che genera, c’è un altro seno che allatta, la cui beatitudine assomiglia alle delizie della maternità, assorbire la parola, ascoltarla, per custodirla, farla crescere nella meditazione, metterla in pratica.

      Questo è un orizzonte nuovo.

La oratio

      A questo punto, abbiamo invocato lo Spirito, abbiamo letto il testo, abbiamo sostato sulla Parola. A questo punto nasce la preghiera, necessariamente.

      La preghiera non è un fatto volontaristico, a volte facciamo fatica a pregare, non sappiamo cosa dire. Facciamo parlare il Signore. Quindi a questo punto rispondo a tono, a Lui che mi ha parlato e gli restituisco la Parola. Dopo che l’ho incontrato, dopo che la Parola dentro si è fatta carico dei miei problemi, delle mie situazioni, delle mie ansie, anche delle mie gioie, cioè di tutto il mio mondo interiore. Questa Parola è entrata dentro, si è fatta carico di tutta la mia vita e ritorna come parola nostra, nella cui risonanza tutta la mia vita cerca di diventare quella Parola. Dio dice, Dio parla, la persona ascolta in silenzio, medita, cerca di far scendere nel proprio cuore ciò che ha ascoltato, magari mediante la ripetizione litanica di una parola chiave e quando questa si è radicata dentro, ritorna a Dio, portando a Dio tutta la mia vita. Come un grido, magari come un momento di disperazione o di lamento – i Salmi sono fatti anche di queste cose – ritorna a Lui come una lode, come una intercessione, cioè dal cuore la Parola germoglia sulle labbra, diventa voce. E’ questo il gemito dello Spirito. Ecco perché la preghiera è frutto dello Spirito. Quando è entrata dentro e ha preso possesso, ritorna come gemito dello Spirito, Parola da Lui scritta nel nostro cuore, luce interiore della fede, dono di preghiera in noi, forza trasformante la nostra esistenza. Quando la parola germoglia interiormente con questa ricchezza, vuol dire che veramente Dio ha deposto un germe vivo dentro di noi, una preghiera interiore profonda, non più a fior di labbra, distratta; potremmo dire che il segnale, la soglia è vicina: si è formata un’atmosfera spirituale in cui la nostra interiorità viene liberata da pensieri inutili e sottomessa alla verità di Gesù da cui sgorga, come da sorgente di acqua viva, questa parola che esce, questo canto, questa preghiera.

      Agostino ammoniva: quando preghi, cerca di non dire niente senza di Lui. Così ci si educa anche alla preghiera che nella sua fase terrena sarà laboriosa, a volte anche dolorosa, però non dobbiamo mai stancarci, perché ha lo scopo di piegare il nostro cuore, renderlo idoneo a ricevere questo dono della preghiera frutto dello Spirito.

La contemplatio

      E naturalmente a questo punto nasce la contemplazione che è imparare a vedere le cose come le vede Dio.

      Non è un processo puramente tecnico. Se c’è questa prassi, necessariamente si arriva alla contemplazione, cioè a vedere le cose come le vede il Signore. La Parola poi deve diventare la nostra vita. Anche noi siamo questa lettera di Cristo scritta dallo Spirito. Si tratta di tradurre in conversione, collaborando per l’avvento sulla terra del suo Regno.

      Questa parola alla fine nutre la preghiera, ci rende trasparenti di Cristo che ci comunica la sua forza attiva, che poi tende ad irradiarsi sulla nostra vita come spinta verso un di più, verso un meglio, verso Dio. E’ una parola che ci mette dentro degli ideali, degli stimoli, cioè tutta la ricchezza dinamica di Cristo Risorto. Questa parola è resa viva dallo Spirito e crea una perenne situazione di conversione, per cui nutrirsi di essa vuol dire mettere dentro di noi cibo solido che alimenta la crescita, ci conduce a quella preghiera che alla fine non è né voce, né immagini, né parole, ma è unicamente gioia dello Spirito, potremmo dire, tensione infuocata della mente, rapimento dell’anima che si effonde davanti a Dio con gemiti inenarrabili come dice Paolo.

     Ho cercato soltanto di presentare un itinerario di vita spirituale, un cammino di fede, di vita di Gesù che cresce dentro di noi, in sapienza, in età e grazia, soprattutto cresce come testimonianza dentro di noi proprio mediante lo Spirito che tende ad attualizzare nella nostra vita queste realtà contenute nella Parola. Gregorio Magno dirà: l’intelligenza della Scrittura, la conoscenza della Parola segna il cammino di ogni credente nella ricerca del Dio vivente.

      Mi sembrava opportuno recuperare questo discorso per affrontare i testi che vi offrirò con maggior consapevolezza e concentrazione, soprattutto invocando continuamente il dono dello Spirito; è Lui che l’ha ispirato, è Lui che ce la farà conoscere.

Don Franco Mosconi
Eremo di San Giorgio,
Bardolino (Verona)

Publié dans:LECTIO DIVINA |on 7 septembre, 2009 |Pas de commentaires »
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