PER ME IL VIVERE È CRISTO! (Fil 1,12-26) (LECTIO)
http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/de_virgilio_filippesi2.htm
PER ME IL VIVERE È CRISTO!
Una lettura vocazionale di Fil 1,12-2,18
Giuseppe De Virgilio
II. «PER ME IL VIVERE È CRISTO» (Fil 1,12-26)
II.1 LECTIO (14)
12 Desidero che sappiate, fratelli, come le mie vicende si sono volte piuttosto per il progresso del vangelo, 13 al punto che in tutto il palazzo del pretorio e dovunque sono divenute note le mie catene in Cristo. 14 In tal modo la maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor più ardiscono annunciare senza timore la Parola (15). 15 Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. 16 Questi lo fanno per amore, sapendo che sono stato incaricato per la difesa del vangelo; 17 quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non rette, pensando di accrescere dolore alle mie catene. 18 Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per convenienza o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene. 19 So infatti che tutto questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, 20 secondo la mia ardente attesa e la speranza che in nulla rimarrò deluso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. 21 Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. 22 Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. 23 Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; 24 ma per voi è più necessario che io rimanga nella carne. 25 Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a voi, per il progresso e la gioia della vostra fede, 26 affinché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio ritorno fra voi.
Dopo l’indirizzo di saluto (Fil 1,1-2) e l’esordio (1,3-11), il nostro testo inizia con l’allusione alla situazione di prigionia dell’Apostolo, che «desidera»informare del progresso del Vangelo i cristiani di Filippi, chiamandoli «fratelli» (adelphoi). È proprio in un clima di familiarità e di confidenza che Paolo presenta la dialettica paradossale dell’ evangelizzazione, mentre egli si trova «in catene per Cristo» (v. 13: oste tous desmous mou phanerous en Christo). L’annuncio di Cristo è indissolubilmente congiunto con la sorte dell’ Apostolo. Egli intende parlare di sé (v. 12: ta kat’eme) non per mettere al centro la propria condizione, piuttosto per esaltare il misterioso progetto di Dio. L’Apostolo ormai non vive più per se stesso, ma solo per Cristo!
D’altra parte la sofferenza e la prigionia non solo non hanno impedito l’evangelizzazione: al contrario, le catene di Paolo hanno perfino favorito la «corsa della Parola». Al v. 12 si impiega il termine prokope che fa da inclusione con quanto si ritrova al v. 25: il vantaggio (progresso) del Vangelo e dei cristiani di Filippi (eis prokopen …eis ten hymon prokopen). Giudicando la sua condizione, Paolo incoraggia i credenti a leggere la volontà di Dio anche nelle sue catene. Nell’ambiente del pretorio e un po’ dovunque è nota la vicenda dell’ Apostolo e la sua testimonianza cristiana (16). Più che essere prigioniero degli uomini, Paolo sa di essere il «prigioniero di Cristo» (cf. Ef 3,1,4,1; Fm1) (17) da qui nasce il suo vanto (1,26). Il legame tra la persona dell’ Apostolo e il Vangelo non si è spezzato: le «catene» che lo limitano, contribuiscono ad «unirlo» di più a Cristo.
Leggendo questi versetti scopriamo come al centro delle considerazioni di Paolo c’è la persona del Cristo. Le catene diventano un incoraggiamento per i cristiani della comunità locale dove egli è detenuto. In un clima di ritrovata fiducia nel Signore (en Kyrio) (18) la «maggior parte» dei fratelli (pleiones) ha ripreso a dedicarsi alla predicazione con maggiore intensità (perissoteros) e senza timore (aphobos). Nel v. 14 è interessante l’espressione tolman ton logon lalein che traduce letteralmente la formula «osare di dire la Parola »: occorre riconquistare l’audacia della Parola di Dio, la spinta missionaria della predicazione, senza la quale non è possibile edificare la Chiesa.
Tuttavia nei vv. 15-17 questo processo evangelico è segnato da un’ambivalenza strisciante, che mette in luce la divisione tra i buoni operai e coloro che predicano per invidia e spirito di contesa. L’Apostolo conosce le problematiche della divisione nella comunità e le affronta con sapiente equilibrio di giudizio. Commenta Barbaglio: «In altre circostanze egli non si sarebbe dimostrato così tollerante: non una parola polemica, nessun attacco verbale, solo la constatazione di un fatto. Ma ora è in carcere ed ha interesse a dire ai Filippesi come non abbia cessato per questo di essere annunciatore del Vangelo; almeno indirettamente, per fas e per nefas l’annuncio di Cristo si compie e si compie per suo influsso» (19). Si coglie in questo passaggio la solida e serena maturità del pastore: dare la priorità all’annuncio del Vangelo e non al prestigio della sua persona e della sua autorità apostolica.
Possiamo supporre quale situazione si fosse creata nel contesto ecclesiale, durante la prigionia di Paolo. Alcuni credenti, ritenendo Paolo ormai recluso e tramontato (un «personaggio scomodo»), approfittarono della sua condizione per intensificare la predicazione del Vangelo allo scopo di accrescere il proprio prestigio personale nell’ ambiente e far pesare ancora di più il suo stato di detenuto. Il testo definisce bene i due gruppi: alcuni predicano Cristo per invidia e spirito di contesa, con rivalità e intenzioni non pure, pensando di aggiungere dolore alle sue catene (v. 17), altri predicano con buoni sentimenti e per amore, sapendo che Paolo è stato posto per la difesa del Vangelo (v. 15-16) (20).
Al v. 18 si ricava la posizione dell’Apostolo, introdotta dall’interrogativo retorico: ti gar (che cosa dunque?); a significare «che cosa importa?», espressione che ritroviamo in altri contesti argomentativi dell’ Apostolo (21). Anche se alcuni proclamano Cristo in modo negativo, «per pretesto» (v. 18: prophasei) e altri «nella verità-sincerità» (aletheia), Paolo «esulta e permane nella gioia» (en touto chairo… charesomai) per il fatto che Cristo viene annunciato (Christos kataggelletai). Si introduce qui il tema dominante di tutta la lettera che è quello della «gioia» (22). Pur stando in catene, l’Apostolo condivide la gioia del Vangelo e della missione, dando una straordinaria testimonianza cristiana all’intera comunità. Commenta Fabris: «Anche nel testo di Fil 1, 18b si può avvertire un implicito invito rivolto da Paolo ai Filippesi a seguire il suo esempio. Non è la condizione esterna o interna di conflitto che deve condizionare lo stato d’animo dei credenti, ma il fatto che l’annuncio di Cristo sia fatto ed accolto» (23).
Nei vv. 19-26 il tono della comunicazione personale di Paolo si fa più intenso e commovente. Paolo ha la consapevolezza fondata (oida) che quanto sta avvenendo nella sua vita non si verifica per caso, ma risponde ad un preciso progetto di Dio «in vista della salvezza» (v. 19: apobesetai eis soterian) (24) In questa prospettiva la salvezza è definita non tanto dalla sorte del predicatore, ma dalla sua fede e dall’aiuto dello Spirito Santo. Egli si dichiara convinto di poter contare sulla preghiera della comunità (v. 19: dia tes hymon deeseos), qualunque cosa accadrà nel suo futuro. Di fronte al progetto di Dio e al suo Vangelo egli vive una «ardente attesa e la speranza» (apokaradokia kai elpida): in nulla egli rimarrà confuso, comunque volgeranno gli avvenimenti che lo riguardano.
L’espressione paolina del v. 20 è costruita in una forma antitetica e ricorda la fraseologia salmica dell’uomo fedele che «confida in Dio»25: «Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia» (v. 20). Il cuore di Paolo è segnato da una «piena fiducia» (en pase parresia), che racchiude in sé l’obbedienza a Dio e la forza profetica della sua Parola di salvezza: sia in caso di assoluzione che in quello di condanna a morte, l’Apostolo è persuaso che il suo destino rimarrà indissolubilmente legato a Cristo.
Il notissimo v. 21 costituisce il culmine della dichiarazione dell’ Apostolo: «Per me infatti il vivere (to zen) è Cristo e il morire (to apothanein) un guadagno (kerdos) ». La frase è costituita da due membri accostati senza la copula: ai due verbi antitetici «vivere/morire» corrispondono i termini «Cristo/guadagno». Il pronome iniziale «per me» (emoi), posto in modo enfatico all’inizio della frase, sottolinea il legame profondo che Paolo ha con la persona del Cristo. Il «vivere» nella prospettiva della fede cristologica abbraccia l’intera esistenza dell’ Apostolo, non solo il restare nella carne umana, ma il suo passato e il suo futuro. In Gal 2,20 l ‘Apostolo esprime un simile concetto teologico: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato. e ha dato se stesso per me». Anche in questa espressione ritorna la distinzione tra «Cristo vive in me» e il «vivere nella carne». Si comprende come la vocazione di Paolo è qualificata dalla relazione con Cristo, che è la ragione e il centro della sua persona e della sua missione. Nel «cuore di Cristo» abita l’essere di Paolo, passato, presente e futuro.
In questa piena e totale relazione cristologica Paolo considera la morte come un guadagno, espressione paradossale che richiama un topos comune della tradizione filosofica greco-romana (26). La morte diventa una liberazione e, per questo, un guadagno a favore della persona umana, quando la vita è diventata insopportabile. Tuttavia qui Paolo non intende disprezzare la vita, neppure una vita segnata dalle catene: l’accento viene posto sulla centralità di Cristo, che è la pienezza di vita, al cui confronto tutti i beni, i possedimenti e le conoscenze dell’uomo risultano passeggere. Paolo riprenderà questa argomentazione in Fil 3,7-8 quando affermerà che per guadagnare Cristo egli ha considerato una «perdita» tutto quello che poteva essere per lui un «guadagno».
Nei vv. 21-26 si riprende l’antitesi vivere/morire, in riferimento a quanto Paolo stesso desidera. Egli esprime il suo pensiero in un soliloquio mediante una costruzione ipotetica: la prospettiva di vivere «nella carne» (en sarchi) e di lavorare con frutto (karpos ergou) lo mettono nell’imbarazzo della scelta (v. 22). Tra vita apostolica e unione escatologica con Cristo nella morte (v. 23 «essere sciolto dal corpo») Paolo non sa cosa preferire. Nel contesto di Fil 1,23a il passivo di synechesthai («essere preso») esprime bene la condizione di Paolo, che si trova al «bivio di un’alternativa». Da una parte egli ha il «desiderio» (v. 23: ten epithymian echon) di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo (syn Christo einai). Questo desiderio è interpretato dall’ Apostolo come la migliore soluzione (27). D’altra parte il «rimanere nella carne» è «più necessario» (v. 24: anagkaioteron di ‘hymas) per il bene della comunità. In questa contrapposizione emerge la vocazione dell’ Apostolo al servizio e alla missione nei riguardi della Chiesa.
Nel v. 25 Paolo si dice convinto della necessità di continuare a lavorare nella Chiesa e di «essere di aiuto» a tutti i credenti per il progresso e la gioia della loro fede. L’Apostolo ha a cuore il «progresso» (prokope) di tutti i cristiani, come conseguenza del progresso del Vangelo. Allo stesso modo la gioia della fede è inseparabile con l’annuncio del Vangelo. La pericope era iniziata con la menzione delle «catene» e si conclude con il motivo della «gioia della fede» (chara tes pisteos), che caratterizza il tenore spirituale delle relazioni dell’Apostolo con la comunità di Filippi (cf. Fil 1,3; 2,2.29; 4,1) (28). È questo lo stile che i cristiani devono avere: proclamare con fede il Vangelo della salvezza e vivere questo impegno in modo gioioso.
La pericope si chiude al v. 26 con una proposizione finale («affinché», ina), che qualifica ulteriormente la dinamica delle sue relazioni con la comunità di Filippi. Il termine-chiave di questa finale è costituito dal «vanto» (kauchema ) 29. L ‘Apostolo spera di rivedere i Filippesi con una nuova venuta in mezzo a loro, per dare loro un nuovo impulso spirituale. Così la mèta che orienta la speranza di Paolo in carcere non è solo la proclamazione del Vangelo, ma la crescita spirituale e la gioia dei cristiani di Filippi, che in questa ripresa del suo apostolato avranno un ulteriore motivo di fiducia in Cristo Gesù.
II. 2 MEDITATIO
In questa prima unità primeggia la figura dell’Apostolo Paolo, che si presenta come esempio e come stimolo per la comunità di Filippi. Stando in carcere, Paolo non intende offrire un resoconto della sua situazione, ma vuole rendere partecipi i Filippesi dei suoi stati d’animo e della sua incrollabile speranza, senza preoccuparsi della sua sorte. Si può ben dire che anche nelle catene e nel rischio di venire processato e condannato, Paolo resta sempre il pastore impegnato nell’evangelizzazione e nella cura amorevole della Chiesa. Emerge dal testo una chiara consapevolezza della sua vocazione, che spinge l’Apostolo a tradurre anche la sua situazione di tribolazione e di sofferenza in «annuncio missionario» ricco di speranza.
L’amore dell’ Apostolo per Cristo e per la Chiesa supera anche le divisioni e gli opportunismi di alcuni predicatori ambigui che si distinguevano nella comunità. Egli riesce a vedere un «guadagno» e un «progresso» anche nelle catene. Chi ha scelto di vivere la propria vocazione per Cristo, impara a leggere il bene anche nei contesti di maggiore sofferenza e prova. Le «catene» sono diventate strumento di diffusione della notizia cristiana, sia nell’ambiente imperiale che nelle piazze della città dove vivono e operano i cristiani (Col 4,19; 2Tm 2,9). Esse non sono segno di sconfitta, ma stimolo ed incoraggiamento affinché i cristiani possano riprendere ad annunciare la Parola di Dio con maggiore zelo e senza timore.
La vocazione di Paolo trova la sua definizione spirituale più toccante nel v. 21: dopo aver esposto le problematiche di divisione della Chiesa, Paolo rivela il desiderio del suo cuore e si abbandona nella confidenza di Cristo. Egli è stato scelto, afferrato, conquistato da Cristo: la sua esistenza, la sua vocazione, la sua missione sono interamente configurate alla Sua persona. Il vivere di Paolo è Cristo e perfino il «morire» egli considera un «guadagno». Cogliamo in questo densissimo passaggio spirituale il «criterio cristo logico» per valutare la maturità vocazionale del cristiano. Colui che vive nella fede non ha da temere, ma solo da amare e da offrire.
Inoltre il brano paolino fa emergere la responsabilità per la Chiesa. Tale responsabilità implica un discernimento attento e profondo su ciò che accade nella storia dei credenti. Stando in carcere, Paolo ha la possibilità di valutare la sua missione e la situazione che si è venuta a creare: egli desidera essere «sciolto dal corpo», ma è consapevole della propria responsabilità a cui non può rinunciare. La priorità dell’evangelizzazione e della missione supera ogni altra considerazione: la storia della comunità e l’esito del cristianesimo dipendono anche dalla qualità della risposta vocazionale del singolo credente e del singolo pastore.
Un ultimo motivo di meditazione è dato da due termini che segnano il «progresso» dei credenti: la «gioia» e il «vanto». Annunciare il Vangelo di Cristo significa vivere nella gioia della fede e della comunione con il Signore. Lungi dall’ essere espressione gaudente e scanzonata dei godimenti, la «gioia evangelica» è anzitutto «frutto» dello Spirito (cf. Gai 5,22) e testimonianza di pienezza di vita (cf. Gv 16,24). Mentre sta soffrendo, Paolo intende essere di aiuto alla Chiesa perché i credenti progrediscano nella «gioia della fede» (cf. At 5,42; 13,52). È questa gioia, donata e condivisa, che caratterizza la nostra scelta vocazionale e il nostro cammino spirituale. Il secondo termine è il «vanto», che l’Apostolo impiega nelle sue lettere per segnalare la singolarità della scelta di Cristo crocifisso e risorto. Le catene di Paolo avrebbero dovuto essere segno di vergogna e diventano occasione di vanto. Il vanto non è espressione di orgoglio, ma indice di unità spirituale con Colui che ci ha salvati.
II. 3 ORATIO
«Sono in catene per Cristo»
Per aver creduto alla Parola di salvezza, ed aver scelto di seguire il Suo esempio, attratto dal Suo coraggio di vivere, e liberato dal mio peccato di morte, «Sono in catene per Cristo»!
Per aver scoperto che nella mia debolezza opera la Sua grazia, ed essere rimasto fedele al Suo Vangelo, ponendolo al centro della mia vita, ragione ultima e definitiva di ogni mia speranza, «Sono in catene per Cristo»!
Per aver invocato il Suo nome in mezzo alla comunità con la certezza che Egli ascolta sempre la nostra preghiera, e aver cantato le Sue meraviglie nella storia, che annulla i potenti ed esalta i piccoli, «Sono in catene per Cristo»!
Per aver teso la mano dell’amicizia al nemico, e confuso colui che godeva della mia caduta, aprendo la porta luminosa della speranza fasciando le ferite prodotte dall’orgoglio, «Sono in catene per Cristo»!
Per aver insegnato la trasparenza della Verità, nella continua ricerca del bene comune, imparando dai miei limiti e dalle mie fatiche a crescere senza sentirmi una persona «arrivata», «Sono in catene per Cristo»!
Per aver creduto che l’Amore solo resterà, donando me stesso nel servizio verso l’altro, mendicante di affetto e di comunione, con le mani aperte per donare senza pretese, «Sono in catene per Cristo»!
Per aver risposto alla Sua inattesa chiamata, che ogni giorno rinnova il mio cuore, facendomi partecipe della meraviglia del suo Regno sulla strada di tanti fratelli e tante sorelle nella fede, «Sono in catene per Cristo»!
II. 4 CONTEMPLATIO
«Il Padre, origine e fonte della missione»
Gesù Cristo è il «missionario del Padre». In questa definizione cogliamo l’origine di ogni missione nel mistero della paternità di Dio. Il mistero del Padre diventa l’oggetto della nostra contemplazione e della nostra preghiera vocazionale, Entriamo nella paternità di Dio così come è presentata dall’apostolo Paolo nella sua testimonianza spirituale,
In primo luogo Paolo riafferma che il Dio del cielo e della terra, creatore del mondo e signore della storia, da cui proviene ogni paternità è il «padre del Signore nostro Gesù Cristo» (2Cor 1,2) a cui bisogna rendere lode (Rm 15,6). Egli è l’unico Dio (1Cor 8,6), padre misericordioso e Dio di ogni consolazione (2Cor 1,3), che ha risuscitato il suo Figlio dai morti (Gal 1,1).
Credere nell’unicità del Padre, «che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6), significa partecipare della sua grazia e della sua benedizione (Ef 1,3): il progetto del Padre è quello di farci entrare nella salvezza mediante il Figlio, primogenito di ogni creatura (Ef 1,3-11). In questa partecipazione si colloca la missione redentrice di Cristo e della Chiesa.
La missione che nasce dal Padre e si compie nel Figlio Gesù, viene così presentata dall’ Apostolo:
«Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia infatti siete salvati. Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. Per grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (Ef 2,4-10).
Vivendo nel mondo, con la forza dello Spirito Santo, siamo chiamati a contemplare il Padre e a pregarlo nel nostro cuore con lo stesso gemito spirituale, espresso nel grido di «Abba, Padre» (Rm 8,15). Tale preghiera rappresenta la prima e fondamentale esperienza del credente che si apre alla missione: iniziare dal Padre la nostra avventura vocazionale, vivendo l’unità della fede e della pace (Ef 2,17-18).
Il Padre è dunque il principio da cui prende forma la nostra esistenza, ma è anche il fine a cui tende il nostro «esodo». Dobbiamo continuamente ringraziare il Padre per averci messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce (Col 1,12) e, nella nostra missione, dobbiamo essere «memori davanti a Dio e Padre nostro dell’impegno nella fede, dell’operosità nella carità e della costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo» (cf. 1Ts 1,3).
L’epilogo della missione del Figlio consiste nell’ offerta definitiva della storia della salvezza nelle mani di Colui che ne è stato l’origine, «quando Cristo consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza» (1Cor 15,24). In questo senso tutto inizia, procede e culmina con il mistero del Padre: facciamo nostro il desiderio di Paolo nei riguardi della comunità di Tessalonica: «Voglia Dio stesso, Padre nostro, e il Signore nostro Gesù dirigere il nostro cammino verso di voi!» (1Ts 3,11).
Per vivere questo momento di preghiera e di contemplazione, ti invito a riflettere su un passaggio della lettera enciclica di Benedetto XVI, Spe Salvi:
«L’uomo viene redento mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito intramondano. Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di « redenzione » che dà un nuovo senso alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l’amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: « Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore » (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza, allora soltanto allora – l’uomo è « redento », qualunque cosa gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù Cristo ci ha « redenti ». Per mezzo di Lui siamo diventati certi di Dio – di un Dio che non costituisce una lontana « causa prima » del mondo, perché il suo Figlio unigenito si è fatto uomo e di Lui ciascuno può dire: « Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20) » (30).
II. 5 ACTIO
«La libertà della Parola»
La pagina paolina ha posta in evidenza il motivo della «libertà» della Parola di Dio (Fil 1,14). Mentre l’Apostolo soffre in catene la sua condizione di prigioniero, proclama la «forza liberatrice»della Parola di salvezza. Questa Parala che viene da Dio ed è incarnata in Cristo Gesù non potrà mai essere «incatenata». Da qui nasce il vanto di Paolo: perfino. le sue catene hanno contribuito ad evidenziare la «libertà della Parola» che tocca il cuore degli uomini.
Riflettere sul ruolo che la Parola di Dio assume nella nostra esperienza vocazionale significa assumersi l’impegno di rimettere al centro della nostra esistenza il dono della Parola di salvezza. Riproponiamo alcuni testi paolini relativi al ruolo della Parola e facciamoli diventare «programma» di vita per la nostra missione.
La fede nasce dalla predicazione della Parola di Dia, che raggiunge l’uomo e lo invita ad entrare in dialogo con Cristo. (Rm 10,8.17). Non si tratta di una parola retorica, puramente umana (cf. 1 Cor 2,4), ma della sola «parola significativa» per la nostra vocazione e missione: la «parola della croce»che è «stoltezza per quelli che vanno. in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio» (1 Cor 1,18). La missione paolina consiste anzitutto nel servizio umile e liberante di questa Parola testimoniata nell’amore di Cristo senza mistificazioni: «Noi non siamo infatti come quei molti che mercanteggiano la parala di Dia, ma con sincerità e come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, noi parliamo in Cristo.» (2Cor 2,17; cf. 4,2).
Inoltre la Parola libera nella misura in cui esprime la «riconciliazione» (cf. 2Cor 5,19) e conferisce alla nostra missione il compito di donare la pace e la concordia. Paolo è diventato ministro della Parola «secondo la missione affidata da Dio»(Col 1,25). In tal modo la Parola predicata nella comunità «riecheggia» attraverso la testimonianza credibile del Vangelo. (1 Ts 1,8) e si espande con forza dovunque giunge la missione della Chiesa (2Ts 3,1). L’actio che emerge dalla testimonianza paolina ai Filippesi può essere riassunta nella raccomandazione che viene rivolta a Timoteo dall’Apostolo stesso e che siamo chiamati anche noi ad accogliere e vivere: «Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2Tm 4,2).
NOTE
[14] Seguiamo prevalentemente la traduzione italiana: CEI, La Sacra Bibbia , UELCI, Roma 2008.
[15] Alcuni manoscritti completano l’espressione inserendo l’esplicitazione «di Dio», altri «del Signore»; si tratta di aggiunge successive che devono rimanere implicite, lasciando l’espressione semplicemente con « la Parola » (con la lettera maiuscola).
[16] L’espressione allude probabilmente all’adesione di alcuni liberti della casa imperiale (il pretorio) al movimento cristiano. Tale supposizione trova conferma nella menzione del saluto finale in Fil 4,22, dove si accenna ai saluti inviati da parte di quelli della casa dell’Imperatore (cf. G. BARBAGLIO, La Teologia di Paolo. Abbozzi informa epistolare, 338).
[17] Circa l’identificazione storica della prigionia paolina, sono state avanzate diverse ipotesi (Gerusalemme, Roma, Efeso, Cesarea Marittima). Le indicazioni generiche e lo stato di detenzione vago non permettono di stabilire con certezza il luogo della carcerazione a cui l’Apostolo fa riferimento.
[18] L’espressione «nel Signore» (en Kyrio) ritorna otto volte nella lettera (cf. Fi12,24.29; 3,1; 4,1.2.4.10) ed indica il contesto vitale della scelta e dello stile dei cristiani che vivono nel «dinamismo della vita in Cristo».
[19] G. BARBAGLIO, La Teologia di Paolo. Abbozzi informa epistolare, 339.
[20] Non risulta facile l’identificazione di questi predicatori né della loro interpretazione cristiana. Secondo N. Walter si tratterebbe di fautori di una visione trionfalistica della fede cristiana che considera l’arresto di Paolo e la sua sofferenza un ostacolo al Vangelo (cf. R. FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 74, nota 14).
[21] Espressioni simili si ritrovano in Rm 3,3.9; 4,1; 6,1-15; 7,7; 9,14.30.32; 2Cor 11,11; Rm 11,7; 1Cor 10,9; 14,26.
[22] Per uno sviluppo in senso vocazionale, cf. B. ESTRADA, «Gioia», in Dizionario Biblico della Vocazione, 379-385.
[23] FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 75.
[24] L’espressione è una citazione ripresa da Gb 13, 16LXX, che collega non solo i termini ma anche il contesto critico di Giobbe nei riguardi dei suoi interlocutori.
[25] «Non sarò confuso»: cf. Sal 21,6; 24,2; 68,7; 118,31.80. 116. «Il Signore sarà magnificato, sarà esaltato»: cf. Sal 33,46; 34,26-27; 39,17.
[26] FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 78, nota 22.
[27] L’argomentazione paolina non sembra considerare il motivo del suicidio, come qualche commentatore ha interpretato, ma piuttosto l’anelito della speranza cristiana che spinge Paolo a continuare a vivere la sua missione con rinnovato impegno per la crescita della Chiesa.
[28] Un simile motivo ritorna in 2Cor 1,24; 2,3; Rm 15,13.
[29] Per l’approfondimento del tema tipicamente paolino, cf. J. ZIMIJEWSKJ, «Kauchomai», in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, a cura di H. BALZ-G. SCHNEIDER, I, Paideia, Brescia 1995, 1987.
[30] BENEDETTO XVI, Spe Salvi. Lettera enciclica, Città del Vaticano 2007, 26.