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PER ME IL VIVERE È CRISTO! (Fil 1,12-26) (LECTIO)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/de_virgilio_filippesi2.htm

PER ME IL VIVERE È CRISTO!

Una lettura vocazionale di Fil 1,12-2,18

Giuseppe De Virgilio

II. «PER ME IL VIVERE È CRISTO» (Fil 1,12-26) 

II.1 LECTIO (14) 

12 Desidero che sappiate, fratelli, come le mie vicende si sono volte piuttosto per il progresso del vangelo, 13 al punto che in tutto il palazzo del pretorio e dovunque sono divenute note le mie catene in Cristo. 14 In tal modo la maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor più ardiscono annunciare senza timore la Parola (15). 15 Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. 16 Questi lo fanno per amore, sapendo che sono stato incaricato per la difesa del vangelo; 17 quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non rette, pensando di accrescere dolore alle mie catene. 18 Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per convenienza o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene. 19 So infatti che tutto questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, 20 secondo la mia ardente attesa e la speranza che in nulla rimarrò deluso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. 21 Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. 22 Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. 23 Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; 24 ma per voi è più necessario che io rimanga nella carne. 25 Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a voi, per il progresso e la gioia della vostra fede, 26 affinché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio ritorno fra voi.
Dopo l’indirizzo di saluto (Fil 1,1-2) e l’esordio (1,3-11), il nostro testo inizia con l’allusione alla situazione di prigionia dell’Apostolo, che «desidera»informare del progresso del Vangelo i cristiani di Filippi, chiamandoli «fratelli» (adelphoi). È proprio in un clima di familiarità e di confidenza che Paolo presenta la dialettica paradossale dell’ evangelizzazione, mentre egli si trova «in catene per Cristo» (v. 13: oste tous desmous mou phanerous en Christo). L’annuncio di Cristo è indissolubilmente congiunto con la sorte dell’ Apostolo. Egli intende parlare di sé (v. 12: ta kat’eme) non per mettere al centro la propria condizione, piuttosto per esaltare il misterioso progetto di Dio. L’Apostolo ormai non vive più per se stesso, ma solo per Cristo!
D’altra parte la sofferenza e la prigionia non solo non hanno impedito l’evangelizzazione: al contrario, le catene di Paolo hanno perfino favorito la «corsa della Parola». Al v. 12 si impiega il termine prokope che fa da inclusione con quanto si ritro­va al v. 25: il vantaggio (progresso) del Vangelo e dei cristiani di Filippi (eis prokopen …eis ten hy­mon prokopen). Giudicando la sua condizione, Paolo incoraggia i credenti a leggere la volontà di Dio anche nelle sue catene. Nell’ambiente del pretorio e un po’ dovunque è nota la vicenda dell’ Apostolo e la sua testimonianza cristiana (16). Più che es­sere prigioniero degli uomini, Paolo sa di essere il «prigioniero di Cristo» (cf. Ef 3,1,4,1; Fm1) (17) da qui nasce il suo vanto (1,26). Il legame tra la persona dell’ Apostolo e il Vangelo non si è spezzato: le «catene» che lo limitano, contribuiscono ad «unirlo» di più a Cristo.
Leggendo questi versetti scopriamo come al centro delle considerazioni di Paolo c’è la persona del Cristo. Le catene diventano un incoraggiamento per i cristiani della comunità locale dove egli è detenuto. In un clima di ritrovata fiducia nel Signore (en Kyrio) (18) la «maggior parte» dei fratelli (pleiones) ha ripreso a dedicarsi alla predicazione con maggiore intensità (perissoteros) e senza timore (aphobos). Nel v. 14 è interessante l’espressione tolman ton logon lalein che traduce letteralmente la formula «osare di dire la Parola »: occorre riconqui­stare l’audacia della Parola di Dio, la spinta missionaria della predicazione, senza la quale non è possibile edificare la Chiesa.
Tuttavia nei vv. 15-17 questo processo evangelico è segnato da un’ambivalenza strisciante, che mette in luce la divisione tra i buoni operai e coloro che predicano per invidia e spirito di contesa. L’Apostolo conosce le problematiche della divisione nella comunità e le affronta con sapiente equilibrio di giudizio. Commenta Barbaglio: «In altre circostanze egli non si sarebbe dimostrato così tollerante: non una parola polemica, nessun attacco verbale, solo la constatazione di un fatto. Ma ora è in carcere ed ha interesse a dire ai Filippesi come non abbia cessato per questo di essere annunciatore del Vangelo; almeno indirettamente, per fas e per nefas l’annuncio di Cristo si compie e si compie per suo influsso» (19). Si coglie in questo passaggio la solida e serena maturità del pastore: dare la priorità all’annuncio del Vangelo e non al prestigio della sua persona e della sua autorità apostolica.
Possiamo supporre quale situazione si fosse creata nel contesto ecclesiale, durante la prigionia di Paolo. Alcuni credenti, ritenendo Paolo ormai recluso e tramontato (un «personaggio scomodo»), approfittarono della sua condizione per intensificare la predicazione del Vangelo allo scopo di accrescere il proprio prestigio personale nell’ ambiente e far pesare ancora di più il suo stato di detenuto. Il testo definisce bene i due gruppi: alcuni predicano Cristo per invidia e spirito di contesa, con rivalità e intenzioni non pure, pensando di aggiungere dolore alle sue catene (v. 17), altri predicano con buoni sentimenti e per amore, sapendo che Paolo è stato posto per la difesa del Vangelo (v. 15-16) (20).
Al v. 18 si ricava la posizione dell’Apostolo, introdotta dall’interrogativo retorico: ti gar (che cosa dunque?); a significare «che cosa importa?», espressione che ritroviamo in altri contesti argomentativi dell’ Apostolo (21). Anche se alcuni proclamano Cristo in modo negativo, «per pretesto» (v. 18: prophasei) e altri «nella verità-sincerità» (aletheia), Paolo «esulta e permane nella gioia» (en touto chairo… charesomai) per il fatto che Cristo viene annunciato (Christos kataggelletai). Si intro­duce qui il tema dominante di tutta la lettera che è quello della «gioia» (22). Pur stando in catene, l’Apostolo condivide la gioia del Vangelo e della missione, dando una straordinaria testimonianza cristiana all’intera comunità. Commenta Fabris: «Anche nel testo di Fil 1, 18b si può avvertire un implicito invito rivolto da Paolo ai Filippesi a seguire il suo esempio. Non è la condizione esterna o interna di conflitto che deve condizionare lo stato d’animo dei credenti, ma il fatto che l’annuncio di Cristo sia fatto ed accolto» (23).
Nei vv. 19-26 il tono della comunicazione personale di Paolo si fa più intenso e commovente. Paolo ha la consapevolezza fondata (oida) che quanto sta avvenendo nella sua vita non si verifica per caso, ma risponde ad un preciso progetto di Dio «in vista della salvezza» (v. 19: apobesetai eis sote­rian) (24) In questa prospettiva la salvezza è definita non tanto dalla sorte del predicatore, ma dalla sua fede e dall’aiuto dello Spirito Santo. Egli si dichiara convinto di poter contare sulla preghiera della comunità (v. 19: dia tes hymon deeseos), qualunque cosa accadrà nel suo futuro. Di fronte al proget­to di Dio e al suo Vangelo egli vive una «ardente at­tesa e la speranza» (apokaradokia kai elpida): in nulla egli rimarrà confuso, comunque volgeranno gli avvenimenti che lo riguardano.
L’espressione paolina del v. 20 è costruita in una forma antitetica e ricorda la fraseologia salmica dell’uomo fedele che «confida in Dio»25: «Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia» (v. 20). Il cuore di Paolo è segnato da una «piena fiducia» (en pase parresia), che racchiude in sé l’obbedienza a Dio e la forza profetica della sua Parola di salvezza: sia in caso di assoluzione che in quello di condanna a morte, l’Apostolo è persuaso che il suo destino rimarrà indissolubilmente legato a Cristo.
Il notissimo v. 21 costituisce il culmine della dichiarazione dell’ Apostolo: «Per me infatti il vivere (to zen) è Cristo e il morire (to apothanein) un guadagno (kerdos) ». La frase è costituita da due membri accostati senza la copula: ai due verbi antitetici «vivere/morire» corrispondono i termini «Cristo/guadagno». Il pronome iniziale «per me» (emoi), posto in modo enfatico all’inizio della frase, sottolinea il legame profondo che Paolo ha con la persona del Cristo. Il «vivere» nella prospettiva della fede cristologica abbraccia l’intera esistenza dell’ Apostolo, non solo il restare nella carne umana, ma il suo passato e il suo futuro. In Gal 2,20 l ‘Apostolo esprime un simile concetto teologico: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato. e ha dato se stesso per me». Anche in questa espressione ritorna la distinzione tra «Cristo vive in me» e il «vivere nella carne». Si comprende come la vocazione di Paolo è qualificata dalla relazione con Cristo, che è la ragione e il centro della sua persona e della sua missione. Nel «cuore di Cristo» abita l’essere di Paolo, passato, presente e futuro.
In questa piena e totale relazione cristologica Paolo considera la morte come un guadagno, espressione paradossale che richiama un topos comune della tradizione filosofica greco-romana (26). La morte diventa una liberazione e, per questo, un guadagno a favore della persona umana, quando la vita è diventata insopportabile. Tuttavia qui Paolo non intende disprezzare la vita, neppure una vita segnata dalle catene: l’accento viene posto sulla centralità di Cristo, che è la pienezza di vita, al cui confronto tutti i beni, i possedimenti e le conoscenze dell’uomo risultano passeggere. Paolo riprenderà questa argomentazione in Fil 3,7-8 quando affermerà che per guadagnare Cristo egli ha considerato una «perdita» tutto quello che poteva essere per lui un «guadagno».
Nei vv. 21-26 si riprende l’antitesi vivere/morire, in riferimento a quanto Paolo stesso desidera. Egli esprime il suo pensiero in un soliloquio mediante una costruzione ipotetica: la prospettiva di vivere «nella carne» (en sarchi) e di lavorare con frutto (karpos ergou) lo mettono nell’imbarazzo della scelta (v. 22). Tra vita apostolica e unione escatologica con Cristo nella morte (v. 23 «essere sciolto dal corpo») Paolo non sa cosa preferire. Nel contesto di Fil 1,23a il passivo di synechesthai («essere preso») esprime bene la condizione di Paolo, che si trova al «bivio di un’alternativa». Da una parte egli ha il «desiderio» (v. 23: ten epithymian echon) di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo (syn Christo einai). Questo desiderio è interpretato dall’ Apostolo come la migliore soluzione (27). D’altra parte il «rimanere nella carne» è «più necessario» (v. 24: anagkaioteron di ‘hymas) per il bene della comunità. In questa contrapposizione emerge la vocazione dell’ Apostolo al servizio e alla missione nei riguardi della Chiesa.
Nel v. 25 Paolo si dice convinto della necessità di continuare a lavorare nella Chiesa e di «essere di aiuto» a tutti i credenti per il progresso e la gio­ia della loro fede. L’Apostolo ha a cuore il «progresso» (prokope) di tutti i cristiani, come conseguenza del progresso del Vangelo. Allo stesso modo la gioia della fede è inseparabile con l’annuncio del Vangelo. La pericope era iniziata con la menzione delle «catene» e si conclude con il motivo della «gioia della fede» (chara tes pisteos), che ca­ratterizza il tenore spirituale delle relazioni dell’Apostolo con la comunità di Filippi (cf. Fil 1,3; 2,2.29; 4,1) (28). È questo lo stile che i cristiani devono avere: proclamare con fede il Vangelo della sal­vezza e vivere questo impegno in modo gioioso.
La pericope si chiude al v. 26 con una proposizione finale («affinché», ina), che qualifica ulteriormente la dinamica delle sue relazioni con la co­munità di Filippi. Il termine-chiave di questa finale è costituito dal «vanto» (kauchema ) 29. L ‘Apostolo spera di rivedere i Filippesi con una nuova venuta in mezzo a loro, per dare loro un nuovo impulso spirituale. Così la mèta che orienta la speranza di Paolo in carcere non è solo la proclamazione del Vangelo, ma la crescita spirituale e la gioia dei cristiani di Filippi, che in questa ripresa del suo apostolato avranno un ulteriore motivo di fiducia in Cristo Gesù. 

II. 2 MEDITATIO 
In questa prima unità primeggia la figura dell’Apostolo Paolo, che si presenta come esempio e come stimolo per la comunità di Filippi. Stando in carcere, Paolo non intende offrire un resoconto della sua situazione, ma vuole rendere partecipi i Filippesi dei suoi stati d’animo e della sua incrollabile speranza, senza preoccuparsi della sua sorte. Si può ben dire che anche nelle catene e nel rischio di venire processato e condannato, Paolo resta sempre il pastore impegnato nell’evangelizzazione e nella cura amorevole della Chiesa. Emerge dal testo una chiara consapevolezza della sua vocazione, che spinge l’Apostolo a tradurre anche la sua situazione di tribolazione e di sofferenza in «annuncio missionario» ricco di speranza.
L’amore dell’ Apostolo per Cristo e per la Chiesa supera anche le divisioni e gli opportunismi di alcuni predicatori ambigui che si distinguevano nella comunità. Egli riesce a vedere un «guadagno» e un «progresso» anche nelle catene. Chi ha scelto di vivere la propria vocazione per Cristo, impara a leggere il bene anche nei contesti di maggiore sofferenza e prova. Le «catene» sono diventate strumento di diffusione della notizia cristiana, sia nell’ambiente imperiale che nelle piazze della città dove vivono e operano i cristiani (Col 4,19; 2Tm 2,9). Esse non sono segno di sconfitta, ma stimolo ed incoraggiamento affinché i cristiani possano riprendere ad annunciare la Parola di Dio con maggiore zelo e senza timore.
La vocazione di Paolo trova la sua definizione spirituale più toccante nel v. 21: dopo aver esposto le problematiche di divisione della Chiesa, Paolo ri­vela il desiderio del suo cuore e si abbandona nella confidenza di Cristo. Egli è stato scelto, afferrato, conquistato da Cristo: la sua esistenza, la sua vocazione, la sua missione sono interamente configurate alla Sua persona. Il vivere di Paolo è Cristo e perfino il «morire» egli considera un «guadagno». Cogliamo in questo densissimo passaggio spirituale il «criterio cristo logico» per valutare la maturità vocazionale del cristiano. Colui che vive nella fede non ha da temere, ma solo da amare e da offrire.
Inoltre il brano paolino fa emergere la responsabilità per la Chiesa. Tale responsabilità implica un discernimento attento e profondo su ciò che accade nella storia dei credenti. Stando in carcere, Paolo ha la possibilità di valutare la sua missione e la situazione che si è venuta a creare: egli desidera essere «sciolto dal corpo», ma è consapevole della propria responsabilità a cui non può rinunciare. La priorità dell’evangelizzazione e della missione supera ogni altra considerazione: la storia della comunità e l’esito del cristianesimo dipendono anche dalla qualità della risposta vocazionale del singolo credente e del singolo pastore.
Un ultimo motivo di meditazione è dato da due termini che segnano il «progresso» dei credenti: la «gioia» e il «vanto». Annunciare il Vangelo di Cristo significa vivere nella gioia della fede e della comunione con il Signore. Lungi dall’ essere espressione gaudente e scanzonata dei godimenti, la «gioia evangelica» è anzitutto «frutto» dello Spirito (cf. Gai 5,22) e testimonianza di pienezza di vita (cf. Gv 16,24). Mentre sta soffrendo, Paolo intende essere di aiuto alla Chiesa perché i creden­ti progrediscano nella «gioia della fede» (cf. At 5,42; 13,52). È questa gioia, donata e condivisa, che caratterizza la nostra scelta vocazionale e il nostro cammino spirituale. Il secondo termine è il «vanto», che l’Apostolo impiega nelle sue lettere per segnalare la singolarità della scelta di Cristo crocifisso e risorto. Le catene di Paolo avrebbero dovuto essere segno di vergogna e diventano occa­sione di vanto. Il vanto non è espressione di orgo­glio, ma indice di unità spirituale con Colui che ci ha salvati.

II. 3 ORATIO
    «Sono in catene per Cristo» 
Per aver creduto alla Parola di salvezza, ed aver scelto di seguire il Suo esempio, attratto dal Suo coraggio di vivere, e liberato dal mio peccato di morte, «Sono in catene per Cristo»! 
Per aver scoperto che nella mia debolezza opera la Sua grazia, ed essere rimasto fedele al Suo Vangelo, ponendolo al centro della mia vita, ragione ultima e definitiva di ogni mia speranza, «Sono in catene per Cristo»! 
Per aver invocato il Suo nome in mezzo alla comunità con la certezza che Egli ascolta sempre la nostra preghiera, e aver cantato le Sue meraviglie nella storia, che annulla i potenti ed esalta i piccoli, «Sono in catene per Cristo»!
Per aver teso la mano dell’amicizia al nemico, e confuso colui che godeva della mia caduta, aprendo la porta luminosa della speranza fasciando le ferite prodotte dall’orgoglio, «Sono in catene per Cristo»!
Per aver insegnato la trasparenza della Verità, nella continua ricerca del bene comune, imparando dai miei limiti e dalle mie fatiche a crescere senza sentirmi una persona «arrivata», «Sono in catene per Cristo»!
Per aver creduto che l’Amore solo resterà, donando me stesso nel servizio verso l’altro, mendicante di affetto e di comunione, con le mani aperte per donare senza pretese, «Sono in catene per Cristo»! 
Per aver risposto alla Sua inattesa chiamata, che ogni giorno rinnova il mio cuore, facendomi partecipe della meraviglia del suo Regno sulla strada di tanti fratelli e tante sorelle nella fede, «Sono in catene per Cristo»!

II. 4 CONTEMPLATIO
    «Il Padre, origine e fonte della missione»
Gesù Cristo è il «missionario del Padre». In questa definizione cogliamo l’origine di ogni missione nel mistero della paternità di Dio. Il mistero del Padre diventa l’oggetto della nostra contemplazione e della nostra preghiera vocazionale, Entriamo nella paternità di Dio così come è presentata dall’apostolo Paolo nella sua testimonianza spirituale,
In primo luogo Paolo riafferma che il Dio del cielo e della terra, creatore del mondo e signore della storia, da cui proviene ogni paternità è il «padre del Signore nostro Gesù Cristo» (2Cor 1,2) a cui bisogna rendere lode (Rm 15,6). Egli è l’unico Dio (1Cor 8,6), padre misericordioso e Dio di ogni consolazione (2Cor 1,3), che ha risuscitato il suo Figlio dai morti (Gal 1,1).
Credere nell’unicità del Padre, «che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6), significa partecipare della sua grazia e della sua benedizione (Ef 1,3): il progetto del Padre è quello di farci entrare nella salvezza mediante il Figlio, primogenito di ogni creatura (Ef 1,3-11). In questa partecipazione si colloca la missione redentrice di Cristo e della Chiesa.
La missione che nasce dal Padre e si compie nel Figlio Gesù, viene così presentata dall’ Apostolo: 
«Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia infatti siete salvati. Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. Per grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (Ef 2,4-10).
Vivendo nel mondo, con la forza dello Spirito Santo, siamo chiamati a contemplare il Padre e a pregarlo nel nostro cuore con lo stesso gemito spirituale, espresso nel grido di «Abba, Padre» (Rm 8,15). Tale preghiera rappresenta la prima e fondamentale esperienza del credente che si apre alla missione: iniziare dal Padre la nostra avventura vocazionale, vivendo l’unità della fede e della pace (Ef 2,17-18).
Il Padre è dunque il principio da cui prende forma la nostra esistenza, ma è anche il fine a cui tende il nostro «esodo». Dobbiamo continuamente ringraziare il Padre per averci messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce (Col 1,12) e, nella nostra missione, dobbiamo essere «memori davanti a Dio e Padre nostro dell’impegno nella fede, dell’operosità nella carità e della costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo» (cf. 1Ts 1,3).
L’epilogo della missione del Figlio consiste nell’ offerta definitiva della storia della salvezza nelle mani di Colui che ne è stato l’origine, «quando Cristo consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza» (1Cor 15,24). In questo senso tutto inizia, procede e culmina con il mistero del Padre: fac­ciamo nostro il desiderio di Paolo nei riguardi della comunità di Tessalonica: «Voglia Dio stesso, Padre nostro, e il Signore nostro Gesù dirigere il nostro cammino verso di voi!» (1Ts 3,11).
Per vivere questo momento di preghiera e di contemplazione, ti invito a riflettere su un passaggio della lettera enciclica di Benedetto XVI, Spe Salvi: 
«L’uomo viene redento mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito intramondano. Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di « redenzione » che dà un nuovo senso alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l’amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: « Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore » (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza, allora ­ soltanto allora – l’uomo è « redento », qualunque cosa gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù Cristo ci ha « redenti ». Per mezzo di Lui siamo diventati certi di Dio – di un Dio che non costituisce una lontana « causa prima » del mondo, perché il suo Figlio unigenito si è fatto uomo e di Lui ciascuno può dire: « Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20) » (30). 

II. 5 ACTIO
    «La libertà della Parola»
La pagina paolina ha posta in evidenza il motivo della «libertà» della Parola di Dio (Fil 1,14). Mentre l’Apostolo soffre in catene la sua condizione di prigioniero, proclama la «forza liberatrice»della Parola di salvezza. Questa Parala che viene da Dio ed è incarnata in Cristo Gesù non potrà mai essere «incatenata». Da qui nasce il vanto di Paolo: perfino. le sue catene hanno contribuito ad evidenziare la «libertà della Parola» che tocca il cuore degli uomini.
Riflettere sul ruolo che la Parola di Dio assume nella nostra esperienza vocazionale significa assumersi l’impegno di rimettere al centro della nostra esistenza il dono della Parola di salvezza. Riproponiamo alcuni testi paolini relativi al ruolo della Parola e facciamoli diventare «programma» di vita per la nostra missione.
La fede nasce dalla predicazione della Parola di Dia, che raggiunge l’uomo e lo invita ad entrare in dialogo con Cristo. (Rm 10,8.17). Non si tratta di una parola retorica, puramente umana (cf. 1 Cor 2,4), ma della sola «parola significativa» per la nostra vocazione e missione: la «parola della croce»che è «stoltezza per quelli che vanno. in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio» (1 Cor 1,18). La missione paolina consiste anzitutto nel servizio umile e liberante di questa Parola testimoniata nell’amore di Cristo senza mistificazioni: «Noi non siamo infatti come quei molti che mercanteggiano la parala di Dia, ma con sincerità e come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, noi parliamo in Cristo.» (2Cor 2,17; cf. 4,2).
Inoltre la Parola libera nella misura in cui esprime la «riconciliazione» (cf. 2Cor 5,19) e conferisce alla nostra missione il compito di donare la pace e la concordia. Paolo è diventato ministro della Parola «secondo la missione affidata da Dio»(Col 1,25). In tal modo la Parola predicata nella comunità «riecheggia» attraverso la testimonianza credibile del Vangelo. (1 Ts 1,8) e si espande con forza dovunque giunge la missione della Chiesa (2Ts 3,1). L’actio che emerge dalla testimonianza paolina ai Filippesi può essere riassunta nella raccomandazione che viene rivolta a Timoteo dall’Apostolo stesso e che siamo chiamati anche noi ad accogliere e vivere: «Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2Tm 4,2).

NOTE
[14] Seguiamo prevalentemente la traduzione italiana: CEI, La Sacra Bibbia , UELCI, Roma 2008.
[15] Alcuni manoscritti completano l’espressione inserendo l’esplicitazione «di Dio», altri «del Signore»; si tratta di aggiunge successive che devono rimanere implicite, lasciando l’espressione semplicemente con « la Parola » (con la lettera maiuscola).
[16] L’espressione allude probabilmente all’adesione di alcuni liberti della casa imperiale (il pretorio) al movimento cristiano. Tale supposizione trova conferma nella menzione del saluto finale in Fil 4,22, dove si accenna ai saluti inviati da parte di quelli della casa dell’Imperatore (cf. G. BARBAGLIO, La Teologia di Paolo. Abbozzi informa epistolare, 338).
[17] Circa l’identificazione storica della prigionia paolina, sono state avanzate diverse ipotesi (Gerusalemme, Roma, Efeso, Cesarea Marittima). Le indicazioni generiche e lo stato di detenzione vago non permettono di stabilire con certezza il luogo della carcerazione a cui l’Apostolo fa riferimento.
[18] L’espressione «nel Signore» (en Kyrio) ritorna otto volte nella lettera (cf. Fi12,24.29; 3,1; 4,1.2.4.10) ed indica il contesto vitale della scelta e dello stile dei cristiani che vivono nel «dinamismo della vita in Cristo».
[19] G. BARBAGLIO, La Teologia di Paolo. Abbozzi informa epistolare, 339.
[20] Non risulta facile l’identificazione di questi predicatori né della loro interpretazione cristiana. Secondo N. Walter si tratterebbe di fautori di una visione trionfalistica della fede cristiana che considera l’arresto di Paolo e la sua sofferenza un ostacolo al Vangelo (cf. R. FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 74, nota 14).
[21] Espressioni simili si ritrovano in Rm 3,3.9; 4,1; 6,1-15; 7,7; 9,14.30.32; 2Cor 11,11; Rm 11,7; 1Cor 10,9; 14,26.
[22] Per uno sviluppo in senso vocazionale, cf. B. ESTRADA, «Gioia», in Dizionario Biblico della Vocazione, 379-385.
[23] FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 75.
[24] L’espressione è una citazione ripresa da Gb 13, 16LXX, che collega non solo i termini ma anche il contesto critico di Giobbe nei riguardi dei suoi interlocutori.
[25] «Non sarò confuso»: cf. Sal 21,6; 24,2; 68,7; 118,31.80. 116. «Il Signore sarà magnificato, sarà esaltato»: cf. Sal 33,4­6; 34,26-27; 39,17.
[26] FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 78, no­ta 22.
[27] L’argomentazione paolina non sembra considerare il motivo del suicidio, come qualche commentatore ha interpretato, ma piuttosto l’anelito della speranza cristiana che spinge Paolo a continuare a vivere la sua missione con rinnovato impegno per la crescita della Chiesa.
[28] Un simile motivo ritorna in 2Cor 1,24; 2,3; Rm 15,13.
[29] Per l’approfondimento del tema tipicamente paolino, cf. J. ZIMIJEWSKJ, «Kauchomai», in Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, a cura di H. BALZ-G. SCHNEIDER, I, Paideia, Bre­scia 1995, 1987.
[30] BENEDETTO XVI, Spe Salvi. Lettera enciclica, Città del Vaticano 2007, 26.

Lectio: Leggiamo dal cap. 8 della lettera i versetti 14-17 e 31-39

http://www.adonaj.net/old/preghiera/lectio5.htm

LECTIO DIVINA 5

CHI CI SEPARERA’ DALL’AMORE?

Dalla lettera ai Romani

Introductio:

Invocazione dello Spirito Santo
“Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
in essi il fuoco del Tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
e donaci per intercessione di Maria che ha saputo
contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
in noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande: quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo”. Amen.

Lectio: Leggiamo dal cap. 8 della lettera i versetti 14-17 e 31-39

Paolo, dopo aver compiuto tre lunghi viaggi, diffondendo il messaggio cristiano e fondando Chiese nelle province orientali dell’impero romano, si sentiva libero di rivolgersi all’Occidente, avendo come meta finale la Spagna. Prima di intraprendere il viaggio, doveva recarsi a Gerusalemme per consegnare la colletta per i poveri. Solo in seguito poteva rivolgere la sua attenzione alla meta prefissata, ed era intenzionato sostare a Roma, dove poteva finalmente soddisfare il sogno coltivato da qualche tempo e incontrare i cristiani dell’Urbe. Purtroppo non sapeva che tra la lettera e la visita sarebbero trascorsi tre lunghi anni e che quando, alla fine, sarebbe giunto nella città eterna, vi sarebbe giunto prigioniero (Atti 28).

La lettera, scritta a Corinto verso il 57 d.C., occupa un posto privilegiato tra le lettere apostoliche. Cronologicamente viene dopo Tessalonicesi, Corinzi e Galati e precede Colossesi ed Efesini. Essa riprende alcuni temi di quelle precedenti e ci dà l’approfondimento più completo e rigorosamente ragionato che abbiamo delle verità cristiane fondamentali, il manifesto del vangelo di Paolo. Non sappiamo che cosa abbia spinto Paolo a scrivere questo documento unico. Forse egli presentiva già di rischiare la vita andando a Gerusalemme, e temeva che non avrebbe mai potuto comunicare di persona il proprio messaggio ai cristiani di Roma.
Il tema centrale è la fede in Cristo quale unico motivo dell’accettazione da parte di Dio, che tratta tutti gli uomini in modo uguale, ebrei e gentili. Paolo descrive con realismo la condizione del mondo (1,18-32). Ci troviamo tutti in stato di condanna davanti a Dio, anche gli ebrei, che possiedono il privilegio unico di conoscere la legge divina (2,3-20). Dio però ci offre gratuitamente il perdono e una nuova vita. Gesù ha scontato la sentenza per noi (cap.5). Siamo liberi di cominciare da capo, avendo questa volta la potenza di Dio a nostra disposizione (cap. 6-8). Perché allora i gentili rispondono all’offerta salvifica di Dio, mentre gli ebrei la rigettano? Questi agiscono così, perché vedono la salvezza come frutto delle opere meritorie, ma alla fine anch’essi capiranno (cap. 9-11). Il perdono e l’amore divino ci spingono a vivere in conformità alla nostra nuova vocazione, a trasformare tutto il nostro modo di pensare e di vivere. La buona novella di Dio non è fine a se stessa, ma mira a trasformare le relazioni umane – rendendo possibile ad ebrei e gentili di trattarsi come eguali nella Chiesa – e a permeare ogni aspetto della vita quotidiana (cap.12-15). L’influsso esercitato da questa epistola è stato enorme. Essa ha infiammato grandi uomini (S.Agostino, Lutero…) e attraverso essi ha modellato la storia della Chiesa, così come ha influito sulla vita d’innumerevoli individui anonimi, uomini e donne ordinari che l’hanno letta, hanno creduto al suo messaggio e hanno agito di conseguenza.

Meditatio:
Il capitolo 8 della lettera costituisce il punto culminante della lettera. In modo specifico i versetti in oggetto, 14-17, rispondono alla domanda: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio”. Il liberatore è lo Spirito Santo, che altro non è che la potenza e la forza di Gesù risuscitato, presente sulla terra. I credenti vengono a contatto con questa forza vivendo in unione a Cristo Gesù, un’unione già iniziata col battesimo. “E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nelle paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per il quale gridiamo. Abbà, Padre!”. Questo Spirito porta una vitalità che la legge mosaica non può dare. C’è da tenere presenti anche il contrasto Spirito-carne, sviluppato nei vari versetti del capitolo. I termini rappresentano campi di forza o sfere di potere in competizione tra loro. La carne descrive la persona legata alla terra, abbandonata alla capacità individuale, senza assistenza. Lo Spirito descrive la persona legata alla terra, guidata dalla forza vivificante dello Spirito di Gesù. La persona rinchiusa in se stessa e che si basa sulle proprie forze conduce una vita che può portare solo alla morte, cioè alla separazione definitiva da Dio. Una tale persona non ha bisogno di Dio, non si sottomette alla legge di Dio in generale, non può obbedire e non può piacere a Dio. Al contrario, la persona guidata dallo Spirito vivificante trova la vita e la pace. Infatti: “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio”. “E se siamo figli siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se partecipiamo alle sue sofferenze per condividere anche la sua gloria”. Paolo designa lo Spirito in vari modi: Spirito di Dio, Spirito di Cristo, Cristo: espressioni che manifestano tutta la realtà pluriforme dell’esperienza cristiana della partecipazione alla vita divina e alla figliolanza. In definitiva, lo Spirito di Dio, che dimora in noi e che risuscitò Gesù, farà sorgere anche noi nella risurrezione. Così l’inevitabile conclusione è che noi siamo indebitati con lo Spirito Santo. Siamo obbligati a mettere a morte le opere, le azioni, le occupazioni di una persona dominata dalla carne (le passioni del mondo) per vivere invece grazie allo Spirito. Una diretta conseguenza molto importante proviene dall’essere soggetto allo Spirito è che si diventa veri figli di Dio, come abbiamo visto. Lo Spirito che abbiamo ricevuto non ci ricaccerà nel timore, neppure nel timore reverenziale. Questo Spirito dice, anzi, che noi siamo cari a Dio, che siamo i suoi propri figli. Di più: lo Spirito non solo rende possibile questa relazione filiale con Dio, ma dà anche a ciascuno di noi la capacità di riconoscerlo, vale a dire, di esclamare: “Abbà, Padre!”. Tuttavia, perché non si lascino sviare da tutte queste buone notizie, Paolo ricorda ai lettori, con due verbi composti dal significato particolare, che noi dobbiamo soffrire con Cristo per esser glorificati con lui. I versetti conclusivi, 31-39, “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?”; “Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?”…”Cristo Gesù…sta alla destra di Dio e intercede per noi”…”Chi ci separerà da Cristo…la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?…”Noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati”….”né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né profondità, né altezze, né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù, nostro Signore”, sono una celebrazione, in forma di inno, della realtà della vittoria, la realtà dell’essere nello Spirito. Il messaggio principale è che Dio è per noi, e i versetti descrivono che cosa significhi “Dio-per-noi”. Con una serie di cinque domande, Paolo fa un esame approfondito per vedere in che grado siamo realmente sicuri, in che grado dobbiamo essere certi. Questo, beninteso, non significa che la vita è un letto di rose. Abbiamo notato la lista di sette pericoli o difficoltà che ci possono separare dall’amore che Cristo ha per noi. La lista non è puramente immaginaria; essa riassume gli svariati e potenzialmente fatali attacchi ai quali i discepoli di Cristo sono comunemente esposti. Tuttavia la linea fondamentale è positiva, solida e fiduciosamente certa. Nessun altra forza o potenza, neppure il potere personificato delle stelle (altezza..profondità), ci potranno separare dall’amore di Dio che viene a noi in Cristo Gesù nostro Signore.

Contemplatio:
Ti ringraziamo o Dio, perché Gesù, tuo Figlio unigenito, ci ha salvato e redenti, e in virtù del battesimo ricevuto, ci hai donato il tuo Santo Spirito, confermato nel sacramento della Cresima. Ti siamo grati per la grazia che ci hai riservato. “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio”. Tu, Signore Gesù, ci hai trasformato (parola composta di due parti: trans e forma, e significa passare, transitare da una forma ad un’altra), e noi abbiamo acquisito i tuoi stessi sentimenti. Prima che ti conoscessimo realmente e ci convertissimo avevamo le nostre idee su qualsiasi cosa. Anche su Dio stesso e le nostre idee regolavano tutte le scelte e decisioni. Avevamo sentimenti ed emozioni che c’influenzavano, ciò che “sentivamo” era vero e importante, ciò che non “sentivamo” era trascurato ed evitato. Questo era l’uomo vecchio, l’uomo che viveva di se stesso, che se anche credeva in Dio viveva, in realtà, come se Dio non esistesse, senza avere un riferimento a lui. Dal Libro della Genesi sappiamo che Dio Onnipotente, nostro Padre, creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, gli diede una forma simile alla sua (Gn.1,26) e quando l’uomo si è allontanato da Dio con il peccato, questa forma originale, meravigliosa e perfetta, è stata inquinata, contaminata, deformata. Tu Padre celeste hai voluto ricreare in noi la tua immagine, hai voluto riscattarci, rendendoci perfetti secondo il modello di tuo Figlio Gesù Cristo. La Bibbia ci dice che l’uomo creato ad immagine di Dio è formato di tre parti: spirito, anima e corpo (1 Ts. 5,23), ognuna delle quali ha delle funzioni ben precise. Le tre funzioni principali dello spirito sono la conoscenza, la coscienza e la comunione con Dio; quelle dell’anima sono l’intelletto, la volontà e le emozioni; quelle del corpo di agire sotto gli impulsi che gli sono dati. Lo spirito, nel progetto di Dio, doveva avere la supremazia sulle altre parti, e doveva guidare e governare tutta la vita dell’uomo perché era la parte fondamentale che aveva contatto con Dio. Dio, infatti, è Spirito ed è attraverso lo spirito dell’uomo che avveniva la comunione. Attraverso lo spirito dell’uomo doveva avere un contatto diretto con il Padre che gli trasmetteva la vita e la saggezza con cui dirigeva tutta la sua esistenza. Quando l’uomo peccò, il suo spirito si separò da Dio. La Bibbia ci dice che diventò come “morto”, perdendo la supremazia sulle altre due parti. L’intelligenza, le emozioni, la volontà e gli istinti di volta in volta presero il predominio influenzando e guidando l’uomo con risultati negativi e a volte disastrosi, perché l’anima e il corpo non furono creati per governare la vita umana. La trasformazione che la nuova vita ci ha donato col battesimo, ricevendo lo Spirito Santo, è una vita che dobbiamo vivere dipendendo sempre più da te Signore, conformando la nostra mente, il nostro cuore, le nostre scelte a te. Gesù, Signore nostro, solo la tua grazia ci giustifica, perché ci santifichi: grazia che raggiunge l’umanità intera per i tuoi meriti, ed elargita a tutti quelli che in te credono e sperano.
Dice il vaticano II°: “I seguaci di Cristo….nel battesimo della fede sono veramente figli di Dio e compartecipi della vita divina, quindi realmente santi”. Il battesimo ha deposto in noi cristiani il germe della santità, la grazia; germe quanto mai fecondo perché rende noi uomini partecipi della vita divina, e quindi della santità di Dio, germe capace di sbocciare in frutti preziosi di vita santa, di vita eterna quando le creature ne assecondano di buon volere lo sviluppo. Noi cristiani abbiamo ricevuto questo dono: noi cristiani possiamo farci santi e lo diverremo non in proporzioni d’opere più o meno grandi che potremo compiere, ma nella misura in cui sapremo trasformarci in Cristo Gesù. Perché la grazia di Cristo porti frutti di santità, è necessario che investa tutto il nostro essere e il nostro agire in ogni gesto: pensieri, affetti, intenzioni, opere e in ogni particolare della nostra esistenza. E’ in queste condizioni che siamo figli di Dio, per grazia e coeredi di Gesù Cristo. Quindi chi mai potrà accusarci? Chi ci separerà dall’amore di Cristo? La quotidianità con le sue tribolazioni, le angosce, le persecuzioni, la fame, le nudità, i pericoli, la violenza delle armi? Nulla può arrecarci danno per virtù di colui che ci ha amato. Dobbiamo essere persuasi, con l’aiuto della fede in Cristo, che né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né profondità, né altezze, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù, nostro Signore.

Conclusio:

“A quanti però l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”.
Grazie, Signore, per la tua bontà, per le cose meravigliose che hai offerto all’accoglienza e del perdono. Concedimi di vivere in un ringraziamento continuo verso la tua misericordia infinita. La mia fortuna è essere uno dei figli adottivi di Dio. Come figlio della luce, io ricevo da te la vita e sono amato dal Padre con lo stesso amore con cui ama te Gesù, suo eterno e diletto Figlio. Come figlio ho degli obblighi d’un figlio di Dio: ricorrere al mio Padre con fiducia in tutte le mie necessità; preoccuparmi per l’onore del Padre mio: “Sia santificato il tuo nome”; rendergli testimonianza davanti al mondo: “Lo zelo per la tua casa mi divora”. Ubbidire ai suoi ordini, assecondare i suoi desideri, vivere secondo la sua legge: “Venga il tuo regno”; cooperare al suo piano per la redenzione del mondo, compiere la sua volontà anche quando la natura si oppone e freme: “Sia fatta la tua volontà”; dire con Cristo: “Io faccio sempre quello che piace al Padre mio”. Il Padre ha fissato una missione al suo Figlio e anche a me: “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv.4,34). Questo esige la mia attenzione. Padre, in tutto io devo cercare di piacere a te.
Come figlio adottivo, godo delle prerogative d’un figlio di Dio. Il mondo mi appartiene, essendo io il figlio del Re. Posso cercare di scoprire la sua costruzione delicata, la sua complessità, il suo ordinamento. Posso ammirarlo, goderne, governarlo.

Godo della libertà dei figli di Dio.
Sono a casa mia, nella casa del Padre mio, che è la sua Chiesa. Qui, io mi sento felice e in pace pensando a te, Padre, contemplando la tua Maestà e offrendoti il Sacrificio della redenzione. Come un padre insegna ai suoi figli, così tu, o Dio, Padre mio, mi parli di te, della tua natura, del tuo progetto d’amore per me mediante la Sacra Scrittura; mi parli per bocca dei Profeti, del tuo stesso Figlio e degli Apostoli.
Alla mensa del Padre, io mangio il migliore dei cibi, quello che hai preparato per me. Sono erede del Regno dei cieli. Un giorno, Padre, io ti vedrò in cielo così come sei, in tutta la magnificenza della tua gloria. Ti conoscerò, ti amerò ed esulterò in te.
Gesù ci ha detto: “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti” (Gv.14,2) uno di questi è stato preparato per me dal Padre che mi ama. Egli mi attende.
Padre, quanto sei buono verso i tuoi figli! Gloria a te per sempre.

Amen.

Publié dans:LECTIO DIVINA, Lettera ai Romani |on 7 février, 2012 |Pas de commentaires »

La lectio divina esperienza di Israele e della chiesa (Enzo Bianchi)

dal sito:

http://www.monasterodibose.it/content/view/854/343/1/1/lang,it/

ENZO BIANCHI

La lectio divina esperienza di Israele e della chiesa 
 
…tutti i Padri della chiesa d’oriente e d’occidente hanno praticato questo metodo della lectio divina…
Già nell’antica economia di Israele, si pregava con la Parola e si ascoltava la Parola nella preghiera. Puoi vedere la descrizione di questa prassi comunitaria leggendo il c. 8 di Neemia. Tale metodo che prevede la lettura, la spiegazione e la preghiera diventò il modo classico giudaico della preghiera che anche il cristianesimo ha ereditato (cf. 2 Timoteo 3,14-16), metodo non descritto ma testimoniato in diversi luoghi del Nuovo Testamento.
Generazioni di cristiani hanno continuato a pregare così, senza cedere a una pietà non biblica e non riconoscente la signoria assoluta della Parola nella vita di preghiera della chiesa. Tutti i Padri della chiesa d’oriente e d’occidente hanno praticato questo metodo della lectio divina, invitando i fedeli a fare altrettanto nelle loro case, e consegnandoci i loro splendidi commenti della Scrittura che ne erano il frutto essenziale.
Che dire poi dei monaci? Questi ne hanno fatto il centro della loro vita nei deserti e nei cenobi chiamandola l’ascesi del monaco, il suo cibo quotidiano, sicuri che «non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (cf. Deuteronomio 8,3 e Matteo 4,4). A un certo punto si è anche sentita l’esigenza di fissare per iscritto il metodo, in modo da aiutare i neofiti a quest’acquisizione della Parola nello Spirito che non solo santifica ma anche divinizza.
La lectio divina esperienza di Israele e della chiesa   
Origene proponendo la theìa anâgnosis alla scuola dei rabbini ebrei, Girolamo ritmando la lettura con l’orazione, Cassiano illustrando la meditatio, Guigo II Certosino indicandola quale «Scala del Paradiso» per i monaci, Bernardo cantandola come miele per il palatum cordis, Guglielmo di Saint-Thierry nella Lettera d’oro e tanti altri hanno fissato i termini della lectio divina stimolando i credenti a percorrerla come via aurea del dialogo e dell’ineffabile colloquio con Dio.
Fino al 1300 questo metodo ha davvero nutrito la fede di generazioni intere e ancora Francesco d’Assisi la praticava con costanza. Ma poi nel basso Medioevo si assiste a una deformazione della lectio divina con l’introduzione della quaestio e della disputatio. Sono secoli di eclisse di questa preghiera che apriranno alla devotio moderna e alla meditatio loyoliana, orazione più introspettiva e psicologica. Soltanto nei monasteri e presso i Servi di Maria questo metodo sarà conservato integro per riapparire epifanicamente proposto dal concilio Vaticano II nella Dei Verbum 25:
«È necessario che tutti conservino un contatto continuo con le Scritture mediante la lectio divina…, mediante la meditatio accurata e si ricordino che la lettura va accompagnata con l’oratio».
Certamente è stato lo Spirito santo che ha voluto che questa forma di ascolto e di preghiera della Bibbia non andasse persa durante i secoli.

ENZO BIANCHI, Pregare la Parola,
Introduzione alla «lectio divina»,
Piero Gribaudi Editore, Torino, 1990, pp. 88-89

NON SCHIAVI MA FIGLI ED EREDI : Rm 8,14-17 (Lectio)

dal sito:

http://www.sanbiagio.org/lectio/romani7.pdf

Lectio di Sr Maria Pia Giudici 

Casa di Preghiera ‘San Biagio’ – aprile 2009

NON SCHIAVI MA FIGLI ED EREDI

Rm 8,14-17 
 
CONTESTO
Il nostro testo è talmente consolante che andrebbe scritto – ha detto un grande – a lettere d’oro!
S.Paolo focalizza qui in modo ottimale il tema della vera libertà di spirito che è poi la vera libertà del cristiano. Lo fa però dopo averci condotti per mano fino a persuaderci di una realtà esistenziale di fondo: vivere secondo la carne (sarx – le forze che ci trascinano al male) conduce alla morte, mentre seguire ciò che è spirituale conduce alla vita e alla pace (Rm 8,6).

APPROFONDIMENTO DEL TESTO
v. 14  Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio  Chi è questo Spirito? Precisiamolo bene con le stesse parole di S.Paolo: È “Colui che ridestò Gesù dai morti (8,11). È dunque Spirito di vita e di resurrezione. È Colui che ci conduce dentro un  itinerario che non una volta ma in continuazione ci conduce da morte a vita. Ed è a causa del nostro lasciarci guidare dallo Spirito che la nostra adozione a figli di Dio si fa evento concreto, evento trasfigurante le nostre giornate. Non sono solo la “creatura” e Lui il “Creatore”. Io sono “figlio” e Lui mi è “Padre”. C’è un salto di qualità enorme! v. 15a E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura  Come S.Paolo dirà poi: “Lo Spirito è testimone al nostro spirito che siamo figli adottivi”. Questa testimonianza abolisce ogni dubbio: io sono veramente riscattato da quel rapporto errato tra me e Dio che è tipico di uno schiavo ed è all’insegna della paura. No, Dio non è un padrone-giustiziere. Dio mi guarda in Cristo Gesù (di cui lo Spirito è l’Amore di Lui per il Padre e del Padre per Lui e per noi); mi guarda con tenerissimo, infinito amore. È il rapporto sbagliato che mi fa vivere da schiavo; al contrario, il rapporto instaurato in noi dallo Spirito per il Battesimo e per la Cresima è un rapporto da figli verso il padre: un rapporto estremamente libero e liberante, perché dettato dall’Amore. v. 15b Ma avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!».  Giustamente è stato scritto: “Questa affermazione non si può dire con indifferenza! O è l’inno di lode dell’uomo redento o è un sacrilegio blasfemo”. Certo il contenuto profondo di ciò che significa essere figli di Dio non potremo, qui e ora, conoscerlo pienamente. Ma quel poter gridare: Abbà, Padre (Papi!) ci dà di poter passare il ponte sull’abissale diversità del vecchio mondo al nuovo. Se credi, ti si svela la tua identità profonda, il tuo nobilissimo sé, la tua vocazione in Cristo a essere figlio di un Padre che è Dio. v. 16  Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio.  È la stessa persona dello Spirito Santo che in seno alla Trinità Santissima è l’amore sostanziale, è Lui: una cosa sola con Gesù che prende l’iniziativa di “attestare” e dunque persuaderci della verità del fatto: il nostro essere figli di Dio. “È una testimonianza – dice Barth – che ci trae da morte a vita, che abbraccia cielo e terra, la testimonianza in favore di Dio presso di noi e in favore nostro presso Dio”. Parla lo Spirito: la massima autorevolezza! E quel che insieme a Lui (in Lui) lo stesso nostro spirito dice, non è che risposta: la persuasione cioè del nostro cuore credente che, “nella nostra bassezza” l’Altezza ci ha incontrati, nel peccato ci ha liberati la Giustizia (=santità di Dio), nella morte ci ha raggiunti la vita, in noi stessi Gesù Cristo”. Ed è questo che già qui e ora Dio ha preparato per coloro che rispondono con amore al suo amarci per primo. v. 17a E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo.  Che cosa significa essere eredi?. Significa che Dio, proprio come Padre, ha reso attuale possibile la promessa fatta ad Abramo: Benedirò in te tutte le genti, tu stesso sarai una benedizione. Sì, siamo eredi, in Cristo Gesù e in forza del suo mistero salvifico, del mondo che è stato creato buono e anche della vita eterna. Dice bene Barth: “Se siamo con Cristo figli di Dio, siamo anche eredi con Lui, eredi di Dio”. Vivere la consapevolezza del nostro essere non solo “figli” ma anche “eredi” è quello che dà spessore alla nostra consolazione di uomini amati, generati da Dio come figli, e in Cristo Gesù redenti dal peccato.
v. 17b Com’è certo che soffriamo con Lui per essere anche glorificati con Lui. Questa nostra vita nel tempo e nello spazio porta in sé il seme dell’eternità in speranza; però qui è problematica, e non riesce a eludere il dolore. Oltre alle varie sofferenze personali, quel che va guardato in faccia è l’incompiutezza, il limite.. L’essenziale finitezza, in fondo, è il nome della nostra esistenza qui e ora. Anche le gioie (tutt’altro che da sottovalutare!) devono sottostare a questo “finire”. Ma il senso emerge qui: il credente non è mai solo nel dolore: soffre con Gesù. E il suo dolore sopportato consapevolmente nello Spirito può diventare quel salto di qualità che ti rende erede, partecipe, già qui in speranza, della gloria di Dio in cui saremo immersi nel dopo eterno. Questa rivelazio0ne di Dio nel dolore (lontana le mille miglia dal masochismo!) è grazia: opera di Dio in noi.

MEDITIAMO ATTUALIZZANDO
Ciò che nella nostra epoca colpisce è l’affievolimento della speranza. L’uomo di oggi ha tutto, almeno nel nostro Occidente opulento. Ha fin troppo in quanto a benessere materiale! Quel che però manca è la consapevolezza della dignità umana e quell’orizzonte sereno che si prospetta a quanti fraternizzano nel far emergere e rispettare questa dignità. La Parola sacra che Paolo ci ha oggi consegnato focalizza proprio la nostra dignità di donne e uomini; è una dignità di enorme valore proprio se ci riconosciamo figli di Dio nel Figlio Gesù. E quell’umor nero, quel senso di disperazione o di vuoto che si respira in tante aree della cultura contemporanea non è frutto del disattendere la nostra identità di “eredi” con Cristo e per Cristo di quello che la speranza teologale ci offre? E tale speranza è il superamento di ogni finitezza e dolore e problematicità nel consegnarci al Padre, attendendo la vita che non muore più. Non è senza significato che lo scrittore
ateo Cesare Paese, a pochi giorni dal suicidio, lascia cadere nel suo diario un grido: O Tu, abbi pietà!
 
LA PAROLA MI INTERPELLA
• Ho consapevolezza della mia identità di persona umana che, in Gesù, Dio ha elevato alla dignità di “figlio adottivo”? • Resta per me una bella asserzione (magari retorica) o m’insegna a crederla e a viverla?
• Fuori da grettezze e calcoli ma nel sereno realismo della mia fede cristiana penso a quello che vuol dire
essere di fatto “erede” con Cristo?
• Quello che io vivo (gioia ma spesso anche fatica e dolore) lo vivo da solo, arrancando triste nello sforzo di una vita corretta onesta, oppure lo vivo insieme a Gesù?
• Come coltivo speranza fiducia e serenità nel mio quotidiano?
• Ho familiarità con la preghiera del cuore?

PER LA PREGHIERA
Con umile amore chiedo al Padre e a Gesù il dono dello Spirito Santo. Prego perché la ma vita sia guidata da Lui: una vita da figlio di Dio non schiavizzata dall’attaccamento a persone e cose; una vita di libertà vera.

SCOPRIRE IL TESORO DELLA PAROLA DI DIO

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26350?l=italian

SCOPRIRE IL TESORO DELLA PAROLA DI DIO

Intervista all’Arcivescovo di Toronto sulla lectio divina

di Kathleen Naab
 
TORONTO, venerdì, 15 aprile 2011 (ZENIT.org).- Benedetto XVI punta molto sulla lettura orante della Scrittura, nota come lectio divina, tanto da aver dedicato a questa pratica ampio spazio nell’esortazione “Verbum domini” oltre ad aver tenuto egli stesso in più di un’occasione la lectio divina con sacerdoti e seminaristi della sua diocesi.
L’Arcivescovo di Toronto è uno dei presuli che ha risposto all’invito del Santo Padre, non solo a livello personale ma anche coinvolgendo i fedeli della sua comunità.
Mons. Thomas Collins, che tiene incontri di lectio divina nella sua Arcidiocesi da 10 anni, ha pubblicato di recente un libro per condividere la sua esperienza con un pubblico più vasto.

ZENIT ha parlato con monsignor Collins su come promuovere la lectio divina e sul suo libro dal titolo « Pathway to Our Hearts: A Simple Approach to Lectio Divina with the Sermon on the Mount » (Ave Maria Press).

Il suo libro “Pathway to Our Hearts” è un adattamento delle lectiones divinae da lei svolte nella cattedrale della sua diocesi. La lectio divina è pensata per un gruppo di persone, è necessaria una guida, oppure è più idonea per essere fatta individualmente?

Monsignor Collins: Il modo migliore per fare l’esperienza della lectio divina è a livello individuale, ma negli ultimi 10 anni ho sviluppato una sorta di sessione di lectio divina per le prime domeniche del mese, da settembre a dicembre, nella mia cattedrale. L’auspicio è che coloro che partecipano una volta al mese nella cattedrale possano beneficiare di questa esperienza, ma soprattutto che possano adattare la forma pubblica della lectio divina a un uso personale, durante la preghiera quotidiana.
Il libro è descritto come un “adattamento dell’antica pratica della lectio divina ai cattolici di oggi”. Che adattamenti sono richiesti? Quali sono le differenze tra la pratica antica della lectio divina rispetto all’uso odierno?

Monsignor Collins: La lectio divina consiste in sostanza in una lettura orante della Scrittura – diversamente da uno studio biblico (esegesi) – o nella proclamazione della Parola di Dio nella liturgia, o nella lettura di lunghi brani della Bibbia. Lo scopo è quello di fare l’esperienza di un incontro con il Signore, attraverso la lettura orante di una piccola parte della Bibbia. In questi 2.000 anni i cristiani hanno sviluppato diverse modalità per fare questo.
Anche in epoca moderna, questa pratica ha subito diversi adattamenti, sia per la forma pubblica che per quella privata. In pubblico, la lectio divina che io propongo consiste semplicemente nella lettura orante di un brano della Bibbia. E il mio auspicio è che coloro che partecipano siano poi capaci di adattare questo metodo alla loro preghiera privata quotidiana.
Ci può spiegare sinteticamente il metodo che lei propone per la lectio divina? Esiste solo una metodologia definita, o può ciascun lettore – in questo caso l’Arcivescovo di Toronto – avere la propria struttura o il proprio metodo?

Monsignor Collins: Il mio modo di svolgere una lectio divina si basa su metodologie usate da altri, con alcuni adattamenti personali. Ciascuno può farlo in modi diversi. Inizio con le solenni preghiere della sera nella cattedrale, cantando i salmi. Questa è un’antica pratica che arricchisce la nostra vita moderna. Poi mi posiziono ai margini della chiesa e talvolta do qualche breve informazione che possa essere utile nella preghiera del testo.
Vi sono quindi tre fasi nella lectio divina. Anzitutto si fa il Segno della Croce, per iniziare il periodo della lectio divina. Dobbiamo porre noi stessi consapevolmente alla presenza di Dio, chiedendo perdono per i nostri peccati e abbandonando le distrazioni che impediscono di porre la nostra attenzione sulla Parola di Dio. Preghiamo secondo le parole del piccolo Samuele: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”.
La seconda fase è quella della preghiera del sacro testo. Prima leggo l’intero brano lentamente e ad alta voce, chiedendo a ciascuno di considerare cosa ci dice alla nostra testa, al nostro cuore e alle nostre mani, ovvero al nostro conoscere Dio, amare Dio e servire Dio.
Dopo un periodo di silenzio leggo il primo verso del brano e svolgo qualche riflessione invitando le persone a indugiare qualche momento in silenzio per meditare su quanto hanno ascoltato. Seguo lo stesso schema per tutti i versetti – testo, commento, silenzio – e leggo poi nuovamente l’intero brano ad alta voce, per passare poi a un momento di silenzio.
La terza fase consiste nella preghiera del Padre Nostro, dell’Ave Maria, del Gloria al Padre e nel Segno della Croce, per poi entrare nuovamente nelle questioni della nostra vita quotidiana.

Benedetto XVI ha più volte incoraggiato la lectio divina. Nel 2005 ha detto che se fosse “efficacemente promossa” porterebbe ad una nuova primavera della Chiesa. Cosa si può fare in proposito?

Monsignor Collins: Credo che sia una cosa buona che i vescovi e i sacerdoti svolgano la lectio divina in pubblico o illustrino questa forma di preghiera nelle loro conferenze o nei ritiri. È un modo molto semplice e profondo di incontrare Dio nella Bibbia.
Le sessioni che stanno alla base del libro “Pathway” risalgono agli anni 2007-2008, quindi quasi quattro anni fa. Possiamo dire che una promozione della lectio divina si sia già radicata nella Chiesa? E’ un processo in atto in Canada e nel resto del mondo?

Monsignor Collins: Io porto avanti la lectio divina in pubblico da 10 anni, ma altri lo stanno facendo da anni in altri modi. Le sessioni riprodotte in “Pathway to Our Hearts” riguardano l’anno in cui le mie lectiones erano incentrate sul Discorso della montagna. In altri anni i testi utilizzati erano tratti dai Salmi, dalle parabole o da altri brani della Scrittura. Non so come si faceva da altre parti, anche se il cardinale Martini, a Milano, ha svolto una forma diversa di lectio divina molti anni fa.
Infine, come Arcivescovo, come dovrebbe essere la lectio divina nella vita dei sacerdoti?

Monsignor Collins: Credo che possa essere di grande beneficio per i sacerdoti trascorrere un’ora ogni giorno in adorazione davanti a Nostro Signore nel Santissimo Sacramento ed è un bene svolgere una qualche forma di lectio divina durante quell’ora di preghiera quotidiana.

Publié dans:LECTIO DIVINA |on 15 avril, 2011 |Pas de commentaires »

La preghiera cristiana nelle sue tappe (Carlo Maria Martini)

io non sono molto brava, non faccio tutto questo, ma è un grande insegnamento, dal sito:

http://www.fondazionemondomigliore.org/uploads/succede/allegati/LECTIO%20DIVINA%20SETTE%20PASSI%20MARTINI.doc

LA PREGHIERA CRISTIANA NELLE SUE TAPPE

(Carlo Maria Martini)

Cerano nella comunità di Antiochia profeti e dottori: Barnaba, Simeone soprannominato Niger, Lucio di Cirène, Manaèn, compagno d`infanzia di Erode tetrarca, e Saulo. 2 Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: « Riservate per me Barnaba e Saulo per l`opera alla quale li ho chiamati ». 3 Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li accomiatarono (Atti 13,1-3)

In questo testo la comunità raggiunge la pienezza della consapevolezza apostolica mentre la comunità « stava celebrando il culto del Signore ». Su questa attività di preghiera e di ascolto della Parola vogliamo meditare per comprendere la sua relazione con la consapevolezza apostolica. Come premessa cercheremo di definire una certa concezione « semplicistica » della preghiera, per aprirci poi a una più dinamica: quella della preghiera verso il discernimento e verso la vita.

La preghiera cristiana nelle sue tappe

La concezione semplicistica della preghiera si esprime in questo modo: vorrei intraprendere un’azione, mi sembra importante un comportamento da assumere e prego per avere la grazia necessaria. La preghiera appare qui come un sostegno, un aiuto, un rinforzo di decisioni che già riteniamo ovvie ed evidenti. Questo tipo di preghiera può andare bene allorché alcune decisioni sono già chiaramente enucleate dal contesto: rivela invece la sua inadeguatezza quando si tratta di scelte qualificanti la vita, di scelte che dobbiamo operare per rispondere alla chiamata di Dio.

é allora importante riflettere sulla dinamica discrezionale della preghiera, sul rapporto tra preghiera e vita, sulle tappe mediante le quali la preghiera entra nella vita e ne diventa parte. Le tappe successive della preghiera sono conosciute e si possono esprimere con alcuni pochi gradini che, per maggiore utilità, io allargo a sette: lectio, meditatio, contemplatio, consolatio, discretio, deliberatio, actio. Nella loro successione, infatti, esprimono molto bene la dinamica discernimentale della preghiera.

a) La Lectio.

La lectio mette in relazione questa preghiera con la Sacra Scrittura perché è una lectio divina. Consiste nella lettura o nell’ascolto di un passo della Bibbia, cercando di metterne in rilievo gli elementi portanti. È un atteggiamento dinamico è lo sforzo di cogliere, nel testo, i rilievi in modo che da « pianura » diventi un panorama di montagna » con alcune parti in luce e altre in ombra. Sottolineando i verbi, i soggetti, gli oggetti, i vari elementi acquistano valore insospettato. La lectio nel quadro in cui noi la consideriamo, non è fine a se stessa ma si apre alla meditatio: va dunque fatta ogni volta per quel tanto che serve a passare oltre. Non così poco che la meditatio sia sterile e non così tanto da impedirne il dinamismo.

b) La Meditatio.

é la riflessione sui valori del testo soprattutto sui valori permanenti. é un secondo modo di accostare il brano: non più per considerazione analitica dei soggetti, degli oggetti, dei simboli dei movimenti interni ed esterni ma dei valori che il testo veicola e porta con sé.

La meditatio va fatta con la mente e anche con l’affetto perché spesso i valori sono ricchi di risonanze, di sentimenti. Comporta il superamento della quantità verso a qualità, il superamento delle forme esteriori, delle figure geometriche e sintattiche verso i loro contenuti, ed è quindi un passaggio importante. Quali valori esprime Gesù con questo modo di essere? E come posso fare per farli miei? Il mondo della meditatio è molto vario perché l’uomo si confronta dall’interno con la parola e ne fa modello, proposta, regola di vita. C’è tuttavia un rischio ed è quello di prolungare la meditatio all’infinito, compiacendosi di aver capito i valori del testo, di averli ordinati e collegati con la propria vita. Il rischio è di credere di vivere quei valori semplicemente perché si è riusciti a coglierli bene, bloccando così il processo dinamico della preghiera e cadendo nell’autocompiacimento che, in realtà, è l’opposto della religiosità evangelica, pur se si nutre di parole del Vangelo.

La meditatio è dunque un grandissimo valore da imparare, e magari ci si mette anni per impararla, però deve essere superata, a un certo punto, verso la contemplatio. La meditatio infatti può essere fatta, in qualche maniera, anche da un non credente che si compiace dei valori profondi espressi dalla Scrittura.

c) La contemplatio

Con la contemplatio entriamo nella specifica preghiera cristiana che é « in spirito e verità ». é il passaggio dalla considerazione dei valori all’adorazione della persona di Gesù che riassume tutti i valori, li sintentizza, li esprime in sé e li rivela. é un momento orante per eccellenza in cui vengono dimenticate proprio le stesse cose che sono state molto utili per stimolare la coscienza. Si adora e si ama Gesù, ci si offre a lui, si chiede perdono, si loda la grandezza di Dio, si intercede per la propria povertà o per il mondo, per la gente, per la Chiesa. Il centro e il riferimento della contemplatio è sempre la persona di Gesù rivelatore del Padre.

Dal punto di vista più propriamente ontologico o di antropologia soprannaturale, la contemplatio è la disponibilità al dono infuso della carità. L’uomo cioè è nella situazione ideale per accogliere, coscientemente o almeno con piena disponibilità, il dono infuso di carità, a lasciare vibrare in sé lo Spirito di santità.

La contemplatio è, dunque, in parte esercizio attivo, adorante, amante e in parte esercizio passivo, spazio dato allo Spirito di Cristo perché in noi adori, lodi, glorifichi il Padre. Il dono infuso di carità è germinalmente presente, come sappiamo, in ogni battezzato. Molto spesso però non ha spazio espressivo, uno spazio cioè corporeo, mentale, strutturale: la contemplatio è esattamente il momento in cui si dà spazio corporeo allo Spirito Santo. Per questo possiamo anche chiamarla « conversione » dell’uomo che si rivolge totalmente a Dio, che lo sceglie costantemente, attratto da lui, che lo ama con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze elevate soprannaturalmente dallo Spirito.

È veramente il punto culminante delle varie tappe del dinamismo della preghiera ed è la norma, il riferimento delle tappe precedenti. In tanto la lectio è utile, la meditatio è importante, in quanto sfociano nella contemplatio che è vita in senso pieno: è la vita di Cristo che vive in colui che contempla. Da aggiungere, a questo punto del dinamismo della preghiera, ci sarebbe solo l’esperienza infusa mistica, la percezione cioè cosciente dell’agire di Dio: l’unione con Dio a livelli mistici non è però necessariamente parte dell’organismo ordinario della vita cristiana. Vorrei, invece, dire qualcosa sul dinamismo esplicativo della contemplatio ed è per questo che ho indicato altri quattro gradini, anche se non sono un passo avanti perché tutto è già avvenuto.

d) La Consolatio.

Noi facciamo fatica a determinare questo vocabolo mentre è realtà notissima al Nuovo Testamento. Paolo ne fa uso molto grande, sia come verbo – parakaléo – sia come sostantivo – paraklesi – e addirittura lo prevede come un ministero : « Chi ha il ministero della consolazione – parakalòn – attenda alla consolazione paraklései - » (Rm 12,8). Consolazione è un appellativo di Dio, il Dio della pazienza e della consolazione (cf Rm 15,4; 2 Cor 1,3) e il Nuovo Testamento la considera come realtà fondante l’esperienza cristiana. A noi sembra un sostegno aggiuntivo: il bisogno di essere consolati ci appare quasi un segno di debolezza, e questo è abbastanza strano se pensiamo che lo Spirito Santo è qualificato come il Paraclito, il Consolatore.

Che cosa possiamo dunque intendere per consolatio come sviluppo ordinario della contemplatio? Possiamo intendere la gioia profonda, intima che viene dall’unione con Dio, il riverbero luminoso, gaudioso della comunione con Lui. Pensiamo alla gioia che vediamo trasparire dagli occhi di persone particolarmente sante, quel non so che di pace, di serenità, di tranquillità anche nella sofferenza. È il gusto del culto di Dio, il rapporto con Dio vissuto con gaudio.

L’uomo giunto alla contemplazione sa che nessuna forza umana gli potrà strappare quella pace che è dono di Dio. Paolo esprime questa certezza gaudiosa quando esclama: « Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … io sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù nostro Signore! » (Rm 8,35.38-39). La consolazione è la forza che sentiamo uscire, a distanza di duemila anni, dalle parole di Paolo. Ha molti altri nomi la consolatio: in certi periodi della storia della spiritualità è stata chiamata « fervore » oppure « devozione » (S. Francesco di Sales), cioè prontezza gaudiosa e spontanea con cui l’uomo si dona a Dio. Da S. Giovanni Eudes è stata chiamata « il regno di Gesù »: la vita è il regno di Gesù che si sviluppa in noi.

Non dobbiamo dunque trascurare la consolatio. A volte, una certa cultura pseudo-spirituale ci fa credere che ciò che conta è fare il proprio dovere, essere leali e giusti. Ma l’uomo leale e giusto non può non esprimere quella pienezza di sé che è la forza e l’entusiasmo della gioia interiore!

Certo, si tratta di gioia spirituale nascosta nel profondo, spesso è velata e oscurata dalle prove, dall’aridità, dalle desolazioni, dalle tentazioni dalla derelizione, dalla croce, tuttavia non a questa l’uomo è chiamato. Lo stadio a cui è chiamato è la luminosità di Cristo risorto e la consolazione è luminosità del Cristo risorto diffusa nell’esperienza. Non è fenomeno accessorio, pur se va distinta dai puri stati di entusiasmo naturale.

e) La Discretio o discernimento.

La consolatio pone l’uomo in sintonia mirabile con i valori evangelici. è gusto interiore per Cristo, per l’essere con Lui, per la sua povertà, per coloro che sono simili a Gesù nella sofferenza, per la sequela generosa della croce insieme a Lui. Le grandi scelte di Cristo, il suo abbandono al Padre, il suo distacco, la sua dedizione all’uomo diventano valori connaturali nel momento della consolatio.

Il discernimento è la capacità di scegliere, per interiore connaturalità, secondo e come Cristo. La sua relazione con la meditatio è molto stretta perché la meditatio fa emergere i valori di Gesù e la discretio li fa scegliere. Francesco d’Assisi incontra il lebbroso vede in lui Cristo e, nell’impulso dello Spirito, lo bacia pieno di gioia, superando una fortissima ripugnanza naturale: è la discretio che gli ha fatto fare la stessa scelta di Gesù.

f) La Deliberatio

La deliberatio è l’atto interiore con cui l’uomo si decide per le scelte secondo Cristo e necessariamente sfocia nell’ actio.

g) L’actio

L’actio è, dunque, il modo di vivere e di agire secondo lo Spirito di Cristo, è l’accogliere totalmente dentro di noi la coscienza apostolica, è l’averla integrata in noi stessi, l’aver fatto di questa scelta non soltanto un atto di volontà a cui conformarsi a fatica ma una realtà entrata in noi attraverso il dinamismo della preghiera.

In tal modo la preghiera non è più soltanto un pregare in vista del compiere meglio qualcosa: la preghiera è il fare emergere la scelta, il formare la propria vita a partire dalle scelte evangeliche interiorizzate. La coscienza apostolica diventa così l’integrazione in noi dei valori evangelici secondo la chiamata divina.

L’importanza della contemplatio

Prima di concludere, è bene ribadire l’importanza della contemplatio senza la quale tutto diventa insipido, diventa esecuzione faticosa di precetti, volontarismo, moralismo. La mancanza di contemplazione ci impedisce di cogliere globalmente i vari aspetti dell’esperienza cristiana e di vivere realmente il « vieni e seguimi » di Gesù. Nella contemplatio l’uomo raggiunge il massimo di chiarezza e di forza, in essa il progetto-uomo si verifica e si va verificando progressivamente, mano a mano che si integra nelle azioni, nella cultura, nella espressione esteriore della persona.

Il passaggio dalla meditatio alla contemplatio è dunque il momento vitale e determinante dell’esperienza cristiana. Spesso la nostra esperienza cristiana è, al massimo, a livello meditativo, di riflessione, di bei pensieri ma ancora oscura su molti valori del dono di Dio fatto all’uomo. Tale è, spesso, l’esperienza degli apostoli nel Vangelo di Marco che vedono e non capiscono, che hanno occhi e non comprendono. Per questo ci si ritrova incerti, alle prese con continui ripensamenti e con desideri di evasione: perché non si ha come riferimento la contemplazione.

Le domande che possiamo porci, allora, devono essere su come pratichiamo la lectio e la meditatio ma soprattutto se ci apriamo alla contemplatio, se la consideriamo fondamentale per il nostro cammino di fede. lo credo che tutti noi abbiamo avuto dei momenti di vera contemplazione, nei quali abbiamo potuto discernere anche la consolazione di Dio. L’invito è riflettere su questi momenti e valorizzarli giustamente, secondo i disegni del Signore.

(Carlo Maria Martini, Uomini di pace e di riconciliazione, Borla 1985, pp. 33-40)

L’amore paterno di Dio per l’uomo peccatore (Lectio Rm 5,1-11)

dal sito: 

http://www.caritasdiocesisansevero.it/Lectio%20Rm%205,1-11.pdf

Caritas Diocesana San Severo

3 dicembre 2008

don Francesco Armenti

Lectio divina

DIO FONTE DELL’AMORE

L’amore paterno di Dio per l’uomo peccatore

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 5,1-11)

1 Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; 2 per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio. 3 E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata 4 e la virtù provata la speranza. 5 La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. 6 Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. 7 Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. 8 Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. 9 A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. 10 Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. 11 Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto
la riconciliazione.

Commento
I Padri creano l’ambiente ideale per entrare nella ricchezza della sacra Scrittura:(san Bernardo). La luce dei Padri illumina il testo base (Rm 5,1-11) di questa riflessione facendo della nostra mente e del nostro cuore il terreno per la seminagione di “Cristo seminatore”(sant’Agostino). L’Apostolo scrive ai cristiani di Roma, una comunità fin troppo vivace, sulla giustificazione per fede(cfr. cap. I-IV). Precisa che non sono le opere a rendere giusti gli uomini davanti a Dio ma è la fede che abbiamo in lui a creare le condizioni che ci fanno giusti, ci salvano. Si sofferma successivamente (cfr. cap. V-VIII)sulla vita nuova che al credente è donata dalla morte, risurrezione e riconciliazione operata da Cristo. E’ vita nuova perché vita senza peccato, senza morte, vita di pace, riconciliazione, vita d’amore. Con il Crocifisso risorto non vi è più l’amore per la legge ma la legge dell’amore. Paolo continua precisando che la nuova vita nel Signore non è aliena da prove, difficoltà,
tribolazioni. Le avversità, anzi, trovano senso in Cristo e se vissute nella fede producono
virtù come la costanza, la pazienza, la fedeltà e la speranza. Paolo parla di speranza come “virtù provata”,certa, consistente e ben radicata.

La speranza che non delude
Il tema della speranza è ricorrente e fondamentale nella predicazione e nel magistero paolino. Egli è consapevole che predicare e testimoniare la speranza evangelica non è semplice, non è argomento di facile accoglienza poiché non si tratta di speranze umane, di speranza nelle realtà tangibili, provabili ma di annunciare la speranza escatologica: la risurrezione, la vita eterna, l’eredità dei santi, la visione di Dio, la salvezza dell’uomo. Ed è questa speranza che deve ritmare l’attesa del credente, un attendere non sempre facile, sovente faticoso, ma che non deve cedere allo scoraggiamento perché non è di una speranza qualsiasi che stiamo parlando ma della speranza della fede e nella fede. Benedetto XVI nella Spe salvi riflettendo su questi argomenti dice che in questo contesto la fede e la speranza giungono ad essere sinonimi. Nella sua predicazione e nelle sue lettere il convertito di Damasco scrive che è speranza che non delude. Letteralmente deludere vuol dire che non ci fa “arrossire di vergogna” perché è certa, sicuramente realizzabile. Ma cosa e perché è sicura la speranza cristiana? Cosa fa convincere cosi profondamente Saulo? Lo scrive lui stesso quando afferma:< >(Rm 5,5).In queste parole vi è il centro ed il fulcro di tutta la predicazione paolina. La speranza di ed in Dio non ci deluderà perché nasce dal suo amore, dalla provata fedeltà(“virtù provata”) di Dio che nel Figlio, Gesù, il Cristo, ha realizzato tutte le sue promesse. Dio ci ama veramente, sul serio, evidenzia più volte Paolo, ed il suo amore mai inganna. Un’altra garanzia rende certa la speranza evangelica: è fondata nello Spirito santo che ci è stato dato in dono. Altre traduzioni traducono che lo Spirito ci abita e ci possiede. Ed è
questa la sconvolgente novità: con Cristo e per mezzo dello Spirito l’Amore di Dio è in mezzo alla nostra quotidianità fino a possedere la nostra esistenza.1 Si chiede Raniero Cantalamessa:<> anche padre Pio è l’esempio della speranza paolina che è Cristo perché si è lasciato totalmente ardere dall’amore e dal “fuoco stesso che arde nella Trinità”.

La speranza che salva
L’’Apostolo torna con insistenza sul mistero della salvezza che è opera gratuità del Padre. La speranza è fortificata ed autenticata dalla morte del Figlio in croce, dalla morte di Dio stesso nel Figlio. Non una morte per uomini giusti, santi ma peccatori, empi,lontani dal suo amore e dalla fedeltà alla sua legge:<>(Rm 5,6). Dio in Gesù Cristo non è morto per caso, non è morto in un momento qualsiasi ma al “momento opportuno”, nel tempo che è “l’oggi salvifico di Dio”, il tempo opportuno, il kairos della liberazione di Dio. Ciò che rende autentico questo amore di Dio è la nostra condizione di ingiusti, di peccatori. Se è raro che si trovi qualcuno che muoia per un giusto, per l’amico fedele, una “persona dabbene” Dio, invece, ha dimostrato e mostrato il suo amore per noi mentre eravamo peccatori. Anzi, perché eravamo lontani ed infedeli Cristo è morto per noi. Questa è la prova rivoluzionaria dell’amore di Dio: morire per i nemici, i lontani, morire nel Figlio per l’umanità infedele. Ed è la Croce-Amore la motivazione che rende certa la speranza di cui non dobbiamo dubitare perché non potremo vergognarcene. Pensando a queste cose il vescovo Agostino d’Ippona, che nella sua vita sperimentò il peccato e la salvezza per amore, scriveva:<<[…] Ecco che nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Nessuno davvero? Proprio nessuno. E’ verità, lo ha detto Gesù stesso. Interroghiamo l’Apostolo; egli dice:”Cristo morì per gli empi”. E poco dopo:”mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo. E allora in Cristo noi troviamo un amore ancora più grande, perché egli non ha dato la sua vita per degli amici, ma per i suoi nemici. Quanto grande è l’amore di Dio per gli uomini, quanta tenerezza, amare i peccatori fino a tal punto da morire per essi di amore. Egli dimostra il suo amore per noi,sono ancora parole dell’Apostolo, perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. Anche tu dunque credilo, e non vergognarti di confessarlo per la tua salvezza. Si crede infatti col cuore per [ottenere] la giustizia, e si confessa con la bocca per [avere] la salvezza>>3. Paolo continua a parlare dell’amore gratuito del Padre e sottolinea come <>(Rm 5,9). Ragionamento “scontato” per la logica di Dio ma non per quella umana. Se Dio, infatti, ci ha salvati quando eravamo nemici e lontani a maggior ragione ora che, salvati dal suo sangue, resi giusti dalla Croce e riconciliati col Padre per mezzo di Cristo, continuerà a renderci giusti, perdonarci e salvarci per mezzo della vita di Cristo trasmessaci nel battesimo(cfr Rm 5,10). E di questo amore gratuito, l’Apostolo ci esorta a vantarcene pur non avendo alcun merito per glorificare l’amore che Dio ha riversato nei nostri cuori(cfr Rm 5,11). Invito che sottolinea come l’amore di Dio è da apprezzare non per ciò che produce ma per la sua identità, per il suo essere amore e il suo farsi dono sempre e comunque. Dio è da amare perché è l’Amore e perché da continuamente la possibilità di vivere in relazione con lui, con la sua stessa vita. Aveva ragione padre Turoldo quando cantando l’amore di Dio scriveva:.

I “colori” dell’Amore di Dio
Arbitrariamente ma con passione tentiamo di limitare l’infinito, l’inimitabile con le parole povere della nostra intelligenza. Come sfondo, a quest’arcobaleno dell’amore di Dio mettiamoci la certezza e la fede dell’apostolo Paolo che, colpito dall’Amore, ne diventa il messaggero ed il testimone. Difatti le sue lettere iniziano sempre con questo annuncio dell’amore divino:
>(Rm 1,7). L’amore di Dio è una certezza, una realtà per Saulo. Il cristiano, di conseguenza, è colui che è <, che sperimenta, accoglie, vive e trasmette questa certezza di essere amato dal Padre. Amore che diventa anche per lui la speranza che non delude, che non lo fa arrossire dinanzi agli uomini. La vita cristiana deve poter e saper dire ad un mondo e ad un uomo senza amore che Dio ci ama indipendentemente dalla nostra risposta, che l’uomo è amato da Dio pur se non è corrisposto. Gli amici di Gesù dovrebbero dire, con le parole e la vita, che Dio ama l’uomo da sempre e per primo:<>(1 Gv 4,10; 19) Questo la Chiesa deve annunciare, proclamare e vivere: non è primariamente il dovere di amare Dio ma il dono di essere amati da Dio dal quale nasce il bisogno di amarlo4. Questo amore del Padre per le sue creature è il fondamento di tutta la Scrittura. La Bibbia, difatti, non si preoccupa di dimostrare l’esistenza di Dio ma narra il suo amore, la sua attenzione per l’uomo. Scriveva il danese Soren Kierkegaard.5. Ed è proprio il testo sacro a tratteggiare e a dipingere i tratti dell’amore che il Creatore nutre per l’uomo. L’amore divino è amore paterno, che soffre e geme per la lontananza del figlio: (Os 11,1-4; cfr.Os11,8-9). Ma è amore anche materno: >(Is 49,15; 66,13). Amore materno perché amore viscerale, di mediazione, di tenerezza; amore paterno perché amore di padre che ti guida con fermezza, ti riprende per correggerti, ti insegna a vivere, ad amare e a soffrire. La sacra Scrittura presenta l’amore di Dio come amore sponsale, fatto di desiderio e di gelosia(cfr. Es 20,5; Dt 4,24; Ez 8,3-5). Dio ha desiderio e gelosia dell’uomo non per bisogno egoistico o per timore di perdere l’amato ma per necessità di donarsi, di aprirsi, di amare, per zelo. Dio, infatti, non ha bisogno di amare l’uomo per sua soddisfazione ma ama l’umanità per completarla, per realizzarla, per glorificarla e ridarle dignità.
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NOTE

1 Paolo parla dello Spirito santo nel capitolo VIII della lettera ai Romani.
2 La vita in Cristo, Ancora, Milano 1999, p. 21. Cfr. anche, pp.10-29.
3 Discorso 215.
4 Cfr R. CANTALAMESSA, La Vita…, cit. p. 13
5 Discorsi edificanti in diverso spirito, 3: Il Vangelo delle sofferenze, IV, in, R. CANTALAMESSA, La Vita…, cit. p.

Publié dans:LECTIO DIVINA, Lettera ai Romani |on 7 février, 2011 |Pas de commentaires »
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