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ATTI DEGLI APOSTOLI: IL RITORNO A GERUSALEMME (Lectio)

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LECTIO DIVINA: ATTI DEGLI APOSTOLI 2003-04

IL RITORNO A GERUSALEMME                    

di Pino Stancari                                    

Paolo è impegnato oramai nei suoi grandi viaggi missionari. Siamo al suo terzo grande viaggio missionario. Ogni viaggio ha la sua particolare fisionomia pastorale, ogni viaggio diventa occasione di crescita nella contemplazione dell’evangelo, ogni viaggio diventa momento di rivelazione per quanto riguarda la novità di cui Dio è protagonista nella storia degli uomini per la salvezza di tutte le genti.
Paolo è spettatore di quello che succede e diviene testimone che prende su di sé la responsabilità di accompagnare il cammino di coloro che si convertono nell’ascolto della parola di Dio e nell’esperienza della comunione che oramai coinvolge tutti gli uomini con la Pasqua del Figlio di Dio, Gesù Cristo, Signore di tutti.
A EFESO
Partito da Antiochia Paolo è ritornato ad Antiochia (18,22). Dal versetto seguente ha inizio il terzo grande viaggio. Ancora una volta siamo alle prese con una geografia impegnativa, frastagliata, in certi momenti un po’ impervia. In questo caso, nel corso di questo terzo grande viaggio missionario, ci sono momenti di sosta relativamente prolungati in località adatte all’attività pastorale di Paolo. In particolare una lunga sosta che trattiene Paolo ad Efeso, capoluogo della provincia d’Asia. Per quanto riguarda il valore narrativo, che è valore teologico delle pagine che leggeremo, le strade che Paolo percorre si internano sempre più profondamente nel mistero della coscienza umana, del cuore umano, nel mistero della condizione umana che è visitata dall’evangelo, là dove gli orizzonti non sono calcolabili secondo le misure della geografia, ma secondo le misure della teologia. E’ il mistero di Dio che Paolo insegue, che Paolo contempla, di cui Paolo è testimone, è il mistero di Dio nel cuore degli uomini, nella storia degli uomini, è il mistero di Dio nelle vicende che coinvolgono l’attività umana, l’attività professionale, le relazioni domestiche, le relazioni sociali, le dimensioni politiche, e il linguaggio, nel significato più ampio del termine, il linguaggio degli uomini, gruppi, popoli, una moltitudine di culture.
Paolo affronta, in modo sempre più risoluto e anche sempre più maturo, il viaggio missionario come impegno a scandagliare la profondità del cuore umano. Sorprese sempre più affascinanti e sempre più preoccupanti, per altro verso, quelle che si prospettano.
«Trascorso colà un po’ di tempo, partì di nuovo percorrendo di seguito le regioni della Galazia e della Frigia, confermando nella fede tutti i discepoli».
Il terzo viaggio ha avuto inizio. Di nuovo Paolo attraversa la penisola anatolica, le regioni centrali. Nel viaggio precedente non aveva potuto raggiungere Efeso. E’ la meta che invece costituisce l’obiettivo della sua missione nella prima parte del viaggio. Questa volta la meta verrà sollecitamente raggiunta. Paolo punta verso Efeso, capoluogo della provincia d’Asia, vi sosterà per poco più di tre anni.
Nel frattempo l’attenzione si sposta per l’appunto verso Efeso, dal momento che in 18,14 Luca ci fornisce una notizia concernente la presenza e la permanenza ad Efeso di un personaggio singolare, di nome, Apollo, mentre Paolo è in viaggio.
APOLLO
«Arrivò a Efeso un Giudeo, chiamato Apollo, nativo di Alessandria, uomo colto, versato nelle Scritture». Egli era educato alle scuole dell’arte oratoria, alle scuole della retorica ellenistica, personaggio prestigioso. Fatto sta che il caso di Apollo viene messo in evidenza per un motivo particolare. Questo tale era stato ammaestrato nella via del Signore, dunque già è venuto in contatto con i discepoli di Gesù che a loro modo, lo avrebbero evangelizzato, ma questa evangelizzazione ha avuto un effetto molto parziale, non si potrebbe nemmeno parlare di una evangelizzazionema di un complesso di notizie che gli sono state offerte a riguardo di Gesù il maestro e che negli anni precedenti ha svolto una sua preziosa opera di predicazione e di insegnamento nella terra d’Israele. Notizie che Apollo ha recepito restando assai ammirato e si è dato da fare per rilanciare il messaggio, si è reso egli stesso disponibile con tutte le sue competenze di studioso e di biblista, aggiungendo oltretutto la competenza che gli deriva dall’aver frequentato le scuole alessandrine, dunque la competenza nella tecnica espositiva. Egli approfitta di tutto questo per insegnare con grande fervore «ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni». E’ una conoscenza parziale, anzi diremmo che proprio ciò che è essenziale, costitutivo di quella novità per cui l’evangelo è coinvolgimento nell’opera che Dio ha compiuto una volta per tutte nella storia degli uomini, instaurando il suo regno, chiamando l’umanità intera a intraprendere la strada del ritorno alla vita, quella novità evangelica che coincide con l’evento pasquale che si è compiuto una volta per tutte, ebbene di queste cose Apollo non è informato. Egli parla di Gesù e poi con grande stima rilancia l’insegnamento di quel maestro fascinoso di cui ha avuto notizia con grande trasporto, ma è l’insegnamento di un maestro, una dottrina morale, è per di più un insegnamento che ha trovato conferma nella testimonianza integerrima in quel personaggio eccezionale di cui Apollo è ammiratore a distanza. Ma l’evangelo è un’altra cosa. Apollo conosce soltanto il battesimo di Giovanni, è un indizio, quello che stiamo percependo, che poi verrà ulteriormente confermato: l’evangelizzazione è in corso ma poi si dà il caso che l’evangelo venga proposto in modo parziale e quindi in realtà inconcludente, in qualche caso si potrebbe addirittura ritenere che l’evangelo si proposto in modo ambiguo e quindi pericoloso, perché viene barattato come evangelo di Gesù un messaggio che in realtà è ancora ripiegato su moduli antichi, e in sé e per sé radicalmente insufficienti.
Ci accostiamo alla problematica di una evangelizzazione rimasta a metà strada, sospesa per aria. L’evangelo non è passato, non è penetrato, non ha raggiunto il cuore degli uomini, si è trasformato in un prontuario di norme, utili per rispettare un certo ordine morale delle cose. L’evangelo si è ridotto a una proposta di vita generosa e intraprendente, ma indipendentemente da quella che è la novità risolutiva, cioè il coinvolgimento nella Pasqua del Figlio di Dio che è morto e risorto. L’evangelo è rimasto a metà. Il caso di Apollo è già esemplare.

Il viaggio di Paolo si svolge in modo tale da costringerlo a prendere atto di questa situazione. Sono passati ancora pochi anni, ma già viene registrata da Paolo una preoccupante distanza tra la novità evangelica nella sua pregnanza feconda per la salvezza e un certo modo di proporre dei comportamenti, degli impegni di ordine morale. Apollo conosce soltanto l’evangelo di Giovanni. A Efeso sono presenti Priscilla e Aquila, Paolo si è avvicinato a loro a Corinto, hanno lavorato insieme durante quel soggiorno. Adesso si trovano a Efeso, lo ascoltano, mentre Apollo si dà un gran daffare nella sinagoga. Lo prendono in disparte e «gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio. Poiché egli desiderava passare nell’Acaia». Apollo adesso si rende conto di come stanno le cose e Priscilla ed Aquila a loro modo, ma con molta onestà e coerenza, e con l’autenticità della loro testimonianza di discepoli del Signore, comprendendo il valore straordinario del personaggio con cui hanno a che fare, si dedicano a lui per aiutarlo a immergersi nella relazione con il mistero del Signore vivente. E’ la novità Pasquale, è la novità evangelica, la novità della vita cristiana. Apollo riparte da Efeso per recarsi a Corinto, quando Paolo scriverà qualche tempo dopo la lettera ai Corinti segnalerà il passaggio di Apollo a Corinto. Apollo è molto intraprendente, tutto preso dalle sue scoperte, viene da Efeso da parte di coloro che già compongono la ecclesia di Efeso, dove già esiste una comunità di discepoli del Signore, ma con tutte quelle incertezze, quelle soluzioni ancora approssimative, grezze, con tutte quelle forme grossolane ancora proprie di una vita che si propone come novità ed invece ancora è carica di compromessi con gli equilibri antecedenti. Fatto sta che da quella comunità di Efeso Apollo viene aiutato a trasferirsi a Corinto e si dà un gran daffare «confutando vigorosamente i Giudei, dimostrando pubblicamente attraverso le Scritture che Gesù è il Cristo».
I CRISTIANI DI EFESO
Cap. 19, «mentre Apollo era a Corinto», a Efeso giunge Paolo. L’episodio di Apollo adesso sta sullo sfondo di quanto avviene dal momento in cui Paolo si trova egli stesso a Efeso, dopo aver attraversato le regioni dell’altopiano. A Efeso Paolo trova alcuni che sono già discepoli del Signore, già fanno parte di una prima comunità che è stata fondata in seguito a una prima evangelizzazione. Questi discepoli vengono interrogati da Paolo: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede? Gli risposero: Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo».
Ci sono dei cosiddetti discepoli che non hanno l’esperienza della vita nuova. L’esperienza del battesimo di Giovanni, come diceva Apollo. Il battesimo di Giovanni è un battesimo di penitenza, è un battesimo che esprime il ravvedimento di una vita che vuole intraprendere orami un nuovo cammino, ma è ben altra cosa.
“Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo”. Luca fin dall’inizio degli Atti degli apostoli, ci ha aiutati a considerare che proprio in forza dello Spirito Santo si realizza quel contatto vitale tra noi uomini. Il contatto vitale con colui che oramai è passato attraverso la morte, vittorioso, intronizzato, nella gloria, asceso al cielo e tra lui e noi c’è una comunicazione diretta, un coinvolgimento vitale nello Spirito Santo. Paolo continua:«Quale battesimo avete ricevuto?. Il battesimo di Giovanni, risposero». Come nel caso di Apollo poco prima.
«Disse allora Paolo: Giovanni ha amministrato un battesimo di penitenza, dicendo al popolo di credere in colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Gesù».
Paolo interviene per precisare: se il messaggio ricevuto da questi cristiani è stato da qualcuno proposto come un evangelo, si rende conto che è un evangelo menomato, mutilato, avvilito, è un evangelo che non si esprime nella sua autentica novità, dunque non è più un evangelo. E si dà il caso che oramai, e siamo appena all’inizio della storia dell’evangelizzazione, si tratti di fare i conti con una evangelizzazione che si è svolta nei suoi dati empirici, ma che ha ottenuto come risuultato delle situazioni di vita che non realizzano la novità del Signore nella storia umana. L’evangelo è rimasto a metà. Siamo appena all’inizio della storia dell’evangelizzazione e Paolo fronteggia una constatazione del genere, che è più che mai preoccupante, addirittura angosciante, che diventa motivo di ripensamento radicale. Pensate come la questione sia attuale per noi dopo tanti secoli. L’evangelo è passato, ma non ha preso, non ha afferrato, non è sceso, non è penetrato, non ha raggiunto il fondo, non ha coinvolto la radice del cuore umano. L’evangelo è passato, sì, ma è come avere a che fare con una spolverata un po’ superficiale, qualche volta anche con riscontri di generosità interessanti, ammirevolissimi, ma non è la novità evangelica.
PAOLO DI DÀ DA FARE:
«Dopo aver udito questo, si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù e, non appena Paolo ebbe imposto loro le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano».
C’è di mezzo una imposizione delle mani che rinvia a una organizzazione comunitaria, la quale diventa comunicazione tra diversi, c’è una esperienza di gioia intrattenibile, c’è un’ulteriore rilancio della evangelizzazione che rende profeti coloro che sono stati raggiunti dalla profezia che evangelizza, «erano in tutto circa dodici uomini». E’ come se in piccolo, ad Efeso, Luca ci riproponesse la scena della Pentecoste, di quella che è stata la prima pentecoste, ma è sempre pentecoste, è una pentecoste permanente: a Gerusalemme all’inizio, a Efeso, pentecoste sarà sempre dappertutto. La vita cristiana è la vita nuova di coloro che man mano vengono coinvolti nella profezia dell’evangelo là dove con la forza misteriosa dello Spirito Santo gli uomini sono condotti a incontrare il Signore vivente e a vivere oramai in comunione con lui. Gli uomini nella loro precarietà, nella loro debolezza, nella loro miseria, gli uomini che devono ancora affrontare la morte, ma che già sono chiamati a vivere in comunione con il Signore glorioso, intronizzato. E’ il mistero della vita cristiana. Ebbene erano circa 12 uomini come all’inizio, è sempre e ancora pentecoste.
Anche se l’apparenza è così dimessa, anche se ci sembra di avere a che fare con personaggi molto modesti e molto condizionati, è sempre ed ancora la pentecoste. Paolo rimane a Efeso, si dà un gran daffare, qui il suo ministero apostolico si sviluppa, ha a che fare con la sinagoga dei giudei a Efeso. Ci sono momenti di polemica molto serrata.
«Questo durò due anni, col risultato che tutti gli abitanti della provincia d’Asia, Giudei e Greci, poterono ascoltare la parola del Signore».
E’ un ministero molto ricco, un ministero molto fecondo: la evangelizzazione promossa da Paolo si irraggia in tutto il territorio circostante. Efeso è capoluogo della provincia e questo consente anche da un punto di vista tecnico una proiezione su tutto il territorio circostante, di città in città, di villaggio in villaggio, ai bordi delle strade. Così Paolo a Efeso.
MAGHI ED ESORCISTI
L’episodio che segue (18,11-20) ci riporta brutalmente a confermare l’impressione che avevamo avuto fin dall’inizio: una evangelizzazione rimasta a metà. Intanto c’è una crescita, non c’è dubbio. E’ una crescita benefica, una crescita entusiasmante in estensione, ma rimane una problematica a cui non ci si può sottrarre per quanto riguarda la penetrazione in profondità dell’evangelo. Cosa succede qui?
«Dio intanto operava prodigi non comuni per opera di Paolo, al punto che si mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano».
Per le mani di Paolo passano le opere potenti di Dio. Una scena questa che ci affascina in modo clamoroso, ma già percepiamo che affiorano delle ambiguità, si dà spazio a dei fraintendimenti. A riguardo di tutto questo poi, Paolo è più insofferente che mai. Paolo in nessun modo vuole dare adito a soluzioni che equivochino circa l’autenticità dell’evangelo che egli ha ricevuto ed accolto e di cui è profeta con tutta la partecipazione del suo vissuto. Ed ecco un episodio, sintomatico:
«Alcuni esorcisti ambulanti giudei si provarono a invocare anch’essi il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi».
E’ proprio vero, il fraintendimento è all’ordine del giorno. Qui compaiono questi esorcisti giudei, che come evidentemente erano abituati a comportarsi, ancora una volta abusano della superstizione popolare e invocano anch’essi il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, «dicendo: Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo predica». Procedure di tipo magico, approfittano della creduloneria della gente, approfittano di quello che è un animo generoso comunque aperto all’esperienza religiosa, subito compromesso da soluzioni di tipo superstizioso. E questo è un fenomeno che non riguarda soltanto le persone poco acculturate. Questo è un fenomeno che riguarda spesso proprio gli uomini dotati della cosiddetta alta cultura, non meno e non di più, e in modo tragicamente drammatico.
Gli uomini colti sono molto spesso estremamente superstiziosi. Il caso di Apollo già ci é stato presentato in concomitanza con l’inizio del terzo viaggio missionario, come una indicazione programamtica. Fatto sta che questo era il comportamento di «sette figli di un certo Sceva, un sommo sacerdote giudeo». Giudei della diaspora, abbastanza disarticolati nei loro comportamenti. Situazioni più o meno corrotte rispetto alla coerenza della tradizione di fede che è ricchezza inconfondibile e tale rimane, del popolo d’Israele. Questi tali in qualche modo hanno captato qualche cosa della predicazione di Paolo e hanno trasformato quel messaggio in uno strumento di cui adesso si sono appropriati e che intendono utilizzare ad uso e consumo delle loro procedure magiche. E qui succede, v. 15, l’episodio che adesso assume delle movenze un po’ grottesche, se non addirittura ridicole:
«Ma lo spirito cattivo rispose loro: Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?. E l’uomo che aveva lo spirito cattivo, slanciatosi su di loro, li afferrò e li trattò con tale violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e coperti di ferite. Il fatto fu risaputo da tutti i Giudei e dai Greci che abitavano a Efeso».
Giudei e greci, questo è un fatto che riguarda la cittadinanza efesina in tutte le sue componenti. Lo scalpore è generale. L’episodio in sé e per sé è molto circoscritto, però allude a quelle situazioni di ambiguità che dimorano nella coscienza comune degli uomini a causa del linguaggio religioso diffuso, che ottiene il consenso più ampio, se non addirittura generalizzato. E’ quel certo linguaggio religioso che deve fare i conti con un incidente sconcertante e angosciante.
«Il fatto fu risaputo da tutti i Giudei e dai Greci che abitavano a Efeso e tutti furono presi da timore e si magnificava il nome del Signore Gesù». C’è comunque un appello nel nome del Signore, la magnificenza del nome del Signore viene proclamata, c’è un Magnificat che viene cantato al nome del Signore Gesù. Ma c’è un piccolo particolare di cui bisogna tener conto: il Magnificat è cantato dalla Madre del Signore nella sua piccolezza. Come si può proclamare la magnificenza del Signore Gesù senza esporre, senza consegnare, senza affidare la propria piccolezza? Come si può proclamare il Magnificat rimanendo ancorati ad un atteggiamento magico e superstizioso ? Tutto ciò che ha a che fare con la magia o la superstizione riguarda l’uso del potere. Qui viene proclamata la magnificenza del nome del Signore Gesù, ma rimanendo all’interno di un certo dinamismo della coscienza umana per cui gli uomini aspirano in tutti i modi a ottenere quel potere. Questo atteggiamento così ambiguo è quanto mai diffuso.
«Molti di quelli che avevano abbracciato la fede venivano a confessare in pubblico le loro pratiche magiche e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti. Ne fu calcolato il valore complessivo e trovarono che era di cinquantamila dramme d’argento. Così la parola del Signore cresceva e si rafforzava».
Cresceva e si rafforzava, ma Paolo si rende conto che i tempi si allungano, si rende conto che in un primo momento si era prospettata la sua attività di evangelizzazione missionaria come una corsa mirata a ottenere dei frutti definitivi, ora capisce che il cuore umano ancora non è stato penetrato in profondità, la situazione dei credenti è stata condizionata ancora da complicazioni di ordine magico. C’è una religiosità diffusa che non è stata affatto coinvolta nella novità evangelica. Paolo se ne accorge. E qui una svolta.
E’ il terzo grande viaggio missionario, passano alcuni anni. Luca ci dà di Paolo una immagine pensosa, meditativa. Paolo sta ripensando alle sue cose, alla sua attività di evangelizzatore, sta ripensando al suo impegno. Fa bene ogni tanto. Paolo anche in queste cose è esemplare. v. 21, finalmente Paolo ha preso una decisione dopo un ripensamento intenso, drammatico. E’ un nuovo programma apostolico quello che si prospetta.
BISOGNA TORNARE A GERUSALEMME
«Dopo questi fatti, Paolo si mise in animo di attraversare la Macedonia e l’Acaia e di recarsi a Gerusalemme dicendo: Dopo essere stato là devo vedere anche Roma». Invia due dei suoi, Timoteo ed Erasto, e lui si trattiene ancora per qualche tempo ad Efeso, ma ha preso una decisione. C’è una svolta.
Paolo, giunto a questo punto della sua attività missionaria, decide di tornare indietro, bisogna tornare a Gerusalemme. Non è mica una decisione da poco, questa! Fino a questo momento abbiamo l’impressione che Paolo è proiettato verso mete sempre più remote, una periferia sempre più lontana geograficamente e anche culturalmente, sempre passando attraverso le sinagoghe, là dove trova appoggio e possibilità di dialogo, e poi superando la sinagoga per rivolgersi ai pagani, lungo tutte le strade, lungo tutte le direzioni, fino agli estremi confini della terra. Questo sembrava un programma già elaborato da Paolo e dagli altri con lui. Ora Paolo cambia programma: bisogna tornare indietro, bisogna ritornare da capo. Quello che mi sembra importantissimo è diventare anche noi accompagnatori di Paolo in questa sua vicenda, mentre si interroga, appronta delle soluzioni, elabora dei programmi e poi si accorge che i programmi vengono man mano ridimensionati e sconfessati dai fatti. Paolo si trova sempre più esposto alla esperienza di una novità, quella vera novità che appartiene soltanto la Signore e che sbaraglia tutte le possibili programmazioni pastorali. L’evangelo ancora non ha ottenuto i frutti desiderati. Come è possibile questo?
Paolo si rende conto che c’è uno slittamento in avanti. Nel primo periodo Paolo si comporta come se tutto dovesse risolversi nel corso di pochi anni, entro la sua generazione, ora si accorge che i tempi si allungano, che i disegni della storia umana sono altri, che la provvidenza del Signore che si è manifestata a noi attraverso l’incarnazione del Figlio e la potenza dello Spirito Santo, la provvidenza del Signore guida i disegni della storia futura secondo scadenze e mediante modalità di cui Paolo non si era ancora reso conto.
E intanto bisogna ritornare indietro, ritornare a Gerusalemme, ripartire dalla radice, ripartire dalle fondamenta. Bisogna affrontare il fondo del cuore umano. Paolo ha un unico obiettivo davanti a sé che è la salvezza universale. Bisogna che lo sopportiamo con questa sua pretesa. D’altra parte, se noi, nel nostro piccolo, siamo i cristiani al seguito dell’evangelo, è perché abbiamo anche lo stesso problema: la salvezza universale. Paolo, nel suo piccolo, ha pensieri grandi, ha una prospettiva immensa. Ha davanti a sé il problema della salvezza universale, bisogna ripartire da capo, bisogna ripartire da Gerusalemme, bisogna ripartire da Israele. E quando Gerusalemme sarà evangelizzata ecco … Come gli antichi profeti avevano annunciato, Gerusalemme si solleverà verso l’alto, splenderà. Ecco un punto di riferimento, un segnale sulla scena del mondo, e tutti i popoli vi accorreranno. Allora la evangelizzazione dei pagani sarà come una specie di girotondo che risponderà ai ritmi determinati da quel segnale luminoso e inconfondibile. Così si esprimevano già i profeti dell’epoca antica.
C’è ancora qualche incertezza per quanto riguarda il discernimento per quanto riguarda il tempo:
«si trattenne ancora un po’ di tempo nella provincia di Asia». Ed ecco: «Verso quel tempo scoppiò un gran tumulto riguardo alla nuova dottrina».
Mentre Paolo ha ancora qualche incertezza circa il kronos, intanto il kairos, come dice qui, irrompe. In italiano abbiamo un unico termine: tempo, in greco abbiamo kronos e kairos. Paolo si sta ancora interrogando circa la disposizione dei tempi all’interno di un disegno e intanto accade il kairos. E’ un tempo che si impone come una scadenza che interseca i disegni misurati dall’iniziativa umana. Paolo rimane spettatore di un evento sbalorditivo.
GLI EFESINI IN RIVOLTA
A Efeso un bel giorno una sommossa popolare. Tumulto, confusione, è un caos infernale. E’ proprio il caso di usare questo aggettivo. La consorteria degli artigiani, argentieri, dediti alla costruzione di certi oggetti relativi al culto della dea Artemide, la dea degli efesini, protestano. La scena pubblica della città è sconvolta, la folla accorre nel teatro, nessuno capisce più niente di quello che sta succedendo, ma è uno sconquasso generale. Paolo non ha mai assistito a un fenomeno del genere. E’ proprio il mondo dei pagani, il « mondo ». Paolo ha sempre avuto a che fare con i giudei, i suoi avversari, che sono quelli della sua gente. E poi si è rivolto ai pagani, i pagani lo hanno accolto, riconosciuto, accettato, seguito. E’ su quest’onda che Paolo ha impostato il suo ministero apostolico fino a questo momento. E adesso sta ripensando tutto, è come se gli esplodesse la terra sotto i piedi, è come se all’improvviso Paolo si rendesse conto che sta camminando su un vulcano ancora in attività. E il vulcano esplode. Paolo vorrebbe scendere in campo, andare in piazza e lo trattengono. Paolo rimane al suo posto, non perché abbia paura. Ha dimostrato in tanti modi di sapere affrontare la folla. Tra l’altro il tumulto popolare viene sedato perché certi personaggi, responsabili dell’amministrazione pubblica, sanno come gestire la cosa. Ma rimane il fatto in sé come clamorosa espressione di questa infernale ostilità del cuore umano. E’ proprio vero, il cuore umano non si è proprio convertito. Qui abbiamo a che fare con un mostro. E’ proprio vero, qui noi stiamo cavalcando un’onda tempestosa. E’ proprio vero, qui i tempi si allungano. Ma come funziona l’evangelo in questo contesto, in questa storia? Cosa resta di quella corsa fino agli estremi confini della terra per raccogliere tutto e tutti a Gerusalemme? Questo disegno non corrisponde alla realtà, viene smentito in modo sfacciato, in modo violento, demoniaco. C’è di mezzo la città di Efeso, c’è di mezzo l’identità di tutta una popolazione, c’è di mezzo la storia umana, c’è di mezzo il cuore umano. A parte la dea Artemide e le sue prerogative cultuali, c’è di mezzo il cuore umano. Paolo è spettatore di questa improvvisa esplosione di ostilità, di insofferenza, di rifiuto. Babelico rifiuto.
Non si capiscono nelle cose che dicono, eppure schiamazzano, gridano, strepitano e tutta la città è scoppiata come la pancia di un mostro. E’ una storia vecchia questa. Quante immagini nell’AT! Giona nella pancia del mostro. Qui è Paolo che si ritrova improvvisamente nella tempesta che sconquassa la scena pubblica della storia umana. Si ritrova alloggiato nella pancia di un mostro.
LA CRISI DI PAOLO
Il suo programma pastorale deve essere nuovamente registrato in base ad altri riferimenti. E infatti, cap. 20.
«Appena cessato il tumulto, Paolo mandò a chiamare i discepoli e, dopo averli incoraggiati, li salutò e si mise in viaggio per la Macedonia».
Paolo parte, una partenza affrettata. Paolo è accompagnato da molti pensieri, da molti interrogativi. Non è spaventato per quel che è successo. Anzi da parte sua sarebbe pronto ad affrontare la scena pubblica. Non è questo il suo problema. Paolo non sa più esattamente in quale prospettiva deve inserirsi il suo ministero apostolico, all’interno di quale disegno la evangelizzazione che è affidata a lui, e quella che è affidata ad altri accanto a lui, si inserisce. Da Efeso in Macedonia, in Acaia, Corinto. Rimane a Corinto alcuni mesi, sono i mesi in cui scrive la lettera ai Romani. Da Corinto riparte, ritornerà indietro, per tornare a Gerusalemme. Abbiamo a che fare con un Paolo meditabondo, un Paolo che sembra come raccolto nell’impegno di un discernimento interiore che ancora non lo soddisfa. Era giunto a quella soluzione, l’aveva individuata come risposta alla problematica messa a fuoco precedentemente e ora bisogna tornare a Gerusalemme! Gerusalemme è il punto di partenza, ma è anche la meta: il resto sarà soltanto una corsa agevole e disinvolta attraverso i popoli della terra per raccoglierli e convogliarli alla città del Signore. Questo programma è già saltato per aria, è già frantumato, è già esploso insieme con gli eventi di cui Paolo è stato spettatore e in cui Paolo è stato coinvolto a Efeso. Nel cap. 20 il viaggio di Paolo è segnato da un costante riferimento all’eucarestia. Paolo celebra l’eucarestia. Partito da Efeso, Macedonia, Acaia, sosta a Corinto, riparte. Luca non accenna espressamente alla colletta di aiuti che Paolo ha messo insieme per portarli a Gerusalemme, ma è implicita questa attività che Paolo ha promosso nel corso del suo viaggio per portare alla chiesa madre di Gerusalemme quei soccorsi di cui ha bisogno. Qui sono coinvolti i collaboratori di Paolo che provengo da vari luoghi, varie città, come se fossero una piccola avanguardia dei popoli della terra che accorrono a Gerusalemme, che portano i propri doni, che contribuiscono con la propria collaborazione. Un modo per ricostruire immagini che provengono dalla predicazione degli antichi profeti, fino al momento in cui, 20,5: «Questi però, partiti prima di noi ci attendevano a Troade». Si deve notare la prima persona plurale. Luca usa la prima persona plurale quando ciò che scrive comporta un diretto coinvolgimento di lui, scrittore e narratore, e di noi lettori.
Ci attendevano a Troade. Paolo a Filippi e Luca con lui e noi con Paolo. «Noi invece salpammo da Filippi dopo i giorni degli Azzimi». Questo ultimo scorcio del viaggio si svolge adesso tra Pasqua e Pentecoste,«li raggiungemmo in capo a cinque giorni a Troade dove ci trattenemmo una settimana». Più volte Luca accenna alla settimana. La settimana è quel periodo di tempo che è segnato dal rinnovarsi del giorno del Signore, il giorno del Vivente, il giorno dell’eucarestia. Da Pasqua a Pentecoste, 20,16: «Paolo aveva deciso di passare al largo di Efeso per evitare di subire ritardi nella provincia d’Asia: gli premeva di essere a Gerusalemme, se possibile, per il giorno della Pentecoste».
Ed ecco: da Pasqua a Pentecoste, per essere a Gerusalemme a Pentecoste. Pasqua-Pentecoste, di settimana in settimana, mentre viene celebrata l’eucarestia. A Troade, l’episodio del ragazzino che cade dalla finestra e Paolo interviene. E’ un segno di vita non un segno di morte. Tuttavia man mano che Paolo procede lungo il suo viaggio, indizi di morte sempre più vistosi, sempre più invadenti, anche direi sempre più scandalosi, si fanno avanti. E’ il mistero della vita che Paolo cerca, che Paolo testimonia: è la strada del ritorno alla vita, è la strada aperta dal Signore risorto dai morti che ci coinvolge con potenza di Spirito Santo. Questo vale per la storia di tutti gli uomini, per la storia umana, per la storia dei popoli. Paolo intanto vede calare sullo sviluppo del suo cammino un’ombra di morte. Il viaggio, ancora una volta, è caratterizzato da questo atteggiamento pensoso del nostro Paolo. Il cuore degli uomini non si è convertito. L’evangelizzazione prosegue, ma il cuore degli uomini ancora non si converte. Ha approntato una soluzione e si è accorto che era del tutto approssimativa e già svuotata di validità. E adesso sta rielaborando, rimeditando, cercando di mettere a fuoco un altro programma pastorale, perché il povero Paolo, cosa volete mai, di un programma ha bisogno, di un disegno ha bisogno, deve riuscire in qualche modo a chiarire a se stesso come vanno le cose e in quale prospettiva si inserisce la sua fatica quotidiana. Di tappa in tappa, segni di morte. E Paolo celebra il mistero della vita, non c’è dubbio, non ci si può confondere a questo riguardo. Non è l’umore cupo, tetro, amaro, avvelenato, di un uomo deluso. Non è così. Paolo non è un uomo deluso, eppure le cose non sono andate come lui desiderava.
Ritorna in Asia, procede parzialmente per via di terra, poi si imbarca per girare al largo da Efeso. Non può entrare ad Efeso con tutto quello che è successo, sono passati mesi. Sbarca a Mileto, qui vanno a visitarlo gli anziani della chiesa di Efeso. Qui il famoso discorso agli anziani di Efeso, responsabili della comunità, a Mileto (20,17-35). Il discorso è veramente splendido. Paolo parla a cuore aperto anche se in un contesto che di per sé denuncia la fatica del ministero, perché non ha potuto recarsi ad Efeso per evitare disordini e complicazioni. Comunque grande trasparenza nel suo linguaggio, grande lucidità nel suo discernimento.
«Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno.. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà».
Io mi trovo in queste condizioni, non so cosa sta succedendo. Nello stesso tempo però, mi rendo conto che «lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni». Sono incatenato, so questo: che vado incontro a dei guai, ma non so perché, con quali risultati, per quale obiettivo pastorale? Perché corri a
IN VISTA DI GERUSALEMME
Gerusalemme? Nello stesso tempo tutto mi lascia intendere che a Gerusalemme per me le cose si mettono male. Che senso ha questo viaggio, il mio presente.
«Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio».
Paolo è ancora risoluto, nulla e nessuno potrà fermarlo. D’altra parte, in un contesto di oscurità, Paolo si rende conto che dinanzi a lui si delinea un itinerario pericoloso, un itinerario luttuoso. «Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto». Questo è un vero e proprio annuncio di morte, «voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero». E’ un testamento questo discorso. Paolo va a Gerusalemme, non sa come andranno certe cose, però intuisce di andare incontro alla morte. E ne parla in maniera comprensibilissima: non vedrete più il mio volto. E intanto resta a voi l’incarico pastorale di cui Paolo parla qui nei versetti seguenti .
Dal v. 29 l’esortazione che è rivolta a questi anziani della chiesa efesina, perché rimangano vigilanti, perché si assumano il rischio della loro presenza in seno alla chiesa: «Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi ». E poi ancora l’esortazione a mantenersi in un atteggiamento di gratuità, come si è comportato lo stesso Paolo: «Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani», ecc. ecc.
«Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave». Commozione generale, avevano capito bene cosa avesse detto loro. Paolo va incontro alla morte. La tristezza che appanna la vista è come un velo di lacrime, o anche se non piangono non riescono più a sollevare lo sguardo e a guardare in faccia a Paolo, perché Paolo è sottratto alla relazione con loro. Paolo oramai va incontro alla morte.
Così ha dichiarato il nostro apostolo impegnato in questo che dovrebbe essere il suo ultimo viaggio. Le cose non andranno in questo modo. I programmi di Paolo non sono adeguati alla realtà dei fatti. Il disegno delle cose corrisponde a una iniziativa di Dio che rimane gratuita e travolgente rispetto a qualunque tentativo di programmazione umana. E’ vero che Paolo ci ha messo tutto il suo discernimento, ci ha messo tutta la sua partecipazione orante, ci ha messo tutta la sua intelligenza pastorale, è vero. Però ancora una volta il programma di Paolo non corrisponde alla verità del disegno provvidenziale che è nelle mani di Dio.
LE INCOGNITE DEL PIANO DI DIO
Giunti a questo punto siamo almeno arrivati a stringere qualche nodo. Quel grande programma pastorale, di tono un po’ trionfalista diremmo noi, senza giudicare nessuno, si è dimostrato inconcludente già in partenza. Quest’altro programma pastorale sembra essere subentrato: debbo salire a Gerusalemme perché là vado incontro alla morte. E in un modo che io non conosco, in base a un disegno che lo Spirito di Dio gestisce a suo modo, nella economia dei suoi doni, questo mi è chiesto, in questo modo debbo rendere testimonianza, debbo salire a Gerusalemme per andare incontro alla morte. Prospettiva del martirio. C’è una bella differenza. I programmi si sono succeduti capovolgendo in qualche modo l’orientamento. Dalla prospettiva di un disegno pastorale che da Gerusalemme giunge a Roma e di là dilaga fino agli estremi confini della terra e ritorna a Gerusalemme a questa prospettiva di salire a Gerusalemme per andare incontro alla morte.
I programmi pastorali Paolo se li gioca nell’intimo, nel suo discernimento, nella sua preghiera, nella sua ricerca interiore, nella sua partecipazione al vissuto di altri.
E adesso, cap. 21, «Appena ci fummo separati da loro, salpammo e per la via diretta giungemmo a Cos, il giorno seguente a Rodi e di qui a Pàtara. Trovata qui una nave che faceva la traversata per la Fenicia, vi salimmo e prendemmo il largo. Giunti in vista di Cipro, ce la lasciammo a sinistra e, continuando a navigare verso la Siria, giungemmo a Tiro, dove la nave doveva scaricare». Da notare la prima persona plurale: sbarcano, ripartono; tutti passaggi che sono segnati, quand’è il caso, dall’incontro con una comunità di discepoli presenti in quella località, l’eucarestia, giungono a Tolemaide, l’attuale Akko (21,7) «Terminata la navigazione, da Tiro approdammo a Tolemàide, dove andammo a salutare i fratelli e restammo un giorno con loro».
Lungo il percorso parecchi sono intervenuti con Paolo dicendo: non è il caso che tu vada. Cosa vai a fare a Gerusalemme, se le cose stanno così? Già quelli di Efeso che sono andati incontro a Mileto si sono inginocchiati con lui in preghiera, piangendo. Ma perché? Adesso, espressamente, altri si fanno avanti: ma non andare, non andare. Siamo ad Akko e per via di terra, Paolo con altri, Luca è tra quelli, giunge a Cesarea.
«Ripartiti il giorno seguente, giungemmo a Cesarea», là dove per la prima volta un pagano è stato evangelizzato da Pietro. Cesarea è la località nella quale è andato a dimorare Filippo, di cui leggemmo le avventure nel cap. 8. Cesarea è dunque un punto di riferimento. Cesarea è anche la sede del procuratore romano, una città in crescita, un porto famosissimo costruito da Erode il grande. Cesarea è l’ultima tappa prima di salire a Gerusalemme, «ed entrati nella casa dell’evangelista Filippo, che era uno dei Sette, sostammo presso di lui». Paolo sta recuperando, ripassando tutto quello che è successo, sta rileggendo gli Atti degli apostoli, sta rileggendo il vangelo secondo Luca, sta ritornando a Gerusalemme, che vuol dire ritornare all’inizio degli Atti, ritorna per Pentecoste, che poi è la fatica di ciascuno di noi che si mette in questione e cerca di ritrovare il filo conduttore della propria vita cristiana nel proprio servizio. Come facciamo? Ritorniamo la principio degli Atti. E Paolo sta ritornando e man mano affronta gli strati del percorso che si sono oramai trasformati in narrazione. E dunque Filippo, Pietro, e tutti quelli che ha incontrato lungo il percorso, tutti quelli che costituiscono oramai l’antefatto della sua vita cristiana, perché deve entrare alla radice: ma io, che cristiano sono?
Filippo, uno dei sette, a casa sua, «aveva 4 figlie (vergini) nubili, che avevano il dono della profezia. Eravamo qui da alcuni giorni, quando giunse dalla Giudea un profeta di nome Agabo. Egli venne da noi e, presa la cintura di Paolo, si legò i piedi e le mani e disse: Questo dice lo Spirito Santo: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà legato così dai Giudei a Gerusalemme e verrà quindi consegnato nelle mani dei pagani. All’udir queste cose, noi e quelli del luogo pregammo Paolo di non andare più a Gerusalemme».
Cosa vai a fare a Gerusalemme se sarai esposto a questi inconvenienti. «Ma Paolo rispose: Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto a esser legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù». In modo più esplicito di così Paolo non poteva esprimersi. Io salgo a Gerusalemme proprio per questo, perché mi sono reso conto che questo è il senso del mio cammino, che questa è la prospettiva che mi si apre dinanzi, per questo devo salire a Gerusalemme, per morire nel nome del Signore Gesù. Prospettiva del martirio per Paolo a Gerusalemme. C’è solo questo come obiettivo che possa e debba perseguire: il martirio nel nome di Gesù.
In realtà i fatti non vanno in questo modo, ancora una volta Paolo si sbaglia. Anzi, c’è una nota un po’ grottesca, un po’ ironica, un’ironia molto benevola, quell’ironia di cui è capace il nostro evangelista Luca. La storia di un cristiano che man mano elabora programmi e man mano scopre che la novità dell’evangelo.

“SE MORIAMO CON CRISTO…” – 2 Tim. 2,11-13; Tito 3,4-7

http://www.adonaj.net/old/preghiera/lectio12.htm

LECTIO DIVINA 12

“SE MORIAMO CON CRISTO…”

2 Tim. 2,11-13; Tito 3,4-7

Introductio:   Preghiamo la Madonna, con l’Ave Maria, perché ci assista nell’accogliere lo Spirito  Santo.
“Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
e donaci per intercessione di Maria che ha saputo
Contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande, quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo”. Amen.

Lectio.       Leggiamo i testi molto attentamente.

Di Timoteo abbiamo già riferito nella Lectio precedente. Aggiungiamo solo che Paolo lo esorta fedelmente al Vangelo, e per questo gli rammenta di ravvivare il dono di Dio che è in lui per l’imposizione delle mani. Aggiunge, inoltre, che lo Spirito Santo non gli ha donato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. Quindi prosegue dicendogli di non vergognarsi della testimonianza da rendere al Signore, di soffrire con Paolo stesso (si trovava in carcere) per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio, perché il Padre lo ha sanato e lo ha chiamato con una vocazione santa, non in base alle opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia donata da Cristo Gesù fin dall’eternità, ma rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore Cristo Gesù.
Poiché Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del Vangelo, del quale egli è stato costituito araldo, apostolo e maestro.
Tito fu discepolo e compagno di Paolo, prima di Timoteo. Sembra certo che fosse nativo di Antiochia, di discendenza pagana, e chiamato da Paolo “figlio”, il che ci fa supporre che fosse stato battezzato dall’Apostolo. Poiché Tito non era giudeo, a Gerusalemme esigevano che ricevesse il rito della circoncisione, attribuendo il valore di norma a quel caso particolare e mirando con ciò a respingere la dottrina di libertà predicata da Paolo; il quale però non cedette, e Tito rimase incirconciso. Durante il terzo viaggio missionario di Paolo, Tito gli fu a fianco nella sua permanenza ad Efeso e lo coadiuvò nel sedare i torbidi intrighi della comunità di Corinto, prodigandosi nei fatti rammentati nella seconda lettera ai Corinzi.
Per gli ultimi anni qualche isolata notizia si ricava dalle Pastorali. Verso il 65 Tito giunge a Creta con Paolo, e lì lasciato per ampliare l’evangelizzazione dell’isola e provvedere alla sua organizzazione.
Egli doveva nominare presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni di Paolo, il quale aveva specificato che il candidato deve essere irreprensibile, sposato una sola volta, con figli credenti e che non possano essere accusati di dissolutezza o siano insubordinati. Aggiunge ancora che il vescovo, come amministratore di Dio, deve essere correttissimo: non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma, al contrario, ospitale, amante del bene, assennato, giusto, pio, attaccato alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmessogli, perché sia in grado di esortare con la sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono. Quindi spiega a Tito che vi sono, soprattutto fra quelli che provengono dalla circoncisione, molti spiriti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori della gente. Afferma anche che a questi tali bisogna chiudere la bocca, perché mettono lo scompiglio in molte famiglie, insegnando per amore di un guadagno disonesto cose che non si devono insegnare.

Meditatio.
Se moriamo con Cristo, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo. Se lo rinneghiamo, anch’egli rinnegherà noi; se noi manchiamo di fede, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tim. 2,11-13).
Paolo, avendo rammentato la “potenza” di Dio, comunicata a Timoteo nella sua ordinazione, sviluppa il tema dell’assoluta gratuità della “salvezza” mediante la fede in Cristo e nel suo “vangelo”, di cui egli è stato stabilito “araldo, apostolo e maestro”. Si tratta del motivo che ha Timoteo per essere forte e coraggioso; non si può respingere a cuor leggero la “vocazione” di Dio alla salvezza e alla “immortalità, sia nel corpo sia nell’anima, costi quel che costi”.
I versetti citati assomigliano ad un antico “inno” liturgico, usato forse durante il rito battesimale per esprimere il mistero di vita e di morte rappresentato dal battesimo stesso. Esso consta di quattro proposizioni, e tutte iniziano con “se” e rette dalla legge semitica del parallelismo.
L’idea del “morire” con Cristo e del “soffrire” con lui è tipicamente di Paolo. Il proposito del “morire insieme” ci ricorda l’uso in vigore presso qualche popolo antico, dove i soldati più fedeli e amici del re morivano insieme con lui: in tal caso Paolo, riprende l’immagine militare, per enunciare una verità di fede.
“Quando si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna” ( Tito 3, 4-7).
Questi versetti sono molto importanti, giacché costituiscono una forma breve di riassunto della dottrina della salvezza, di cui si descrivono gli elementi costitutivi e le condizioni.
Autore della salvezza è Dio Padre: è lui, infatti, il “Salvatore nostro Iddio” di cui, ad un certo punto della storia “apparve” la “benignità” e lo sviscerato “amore per gli uomini”. Questa “epifania” dell’amore del Padre si è avuta soprattutto nell’Incarnazione. E sono da escludere come causa della salvezza pretese opere di “giustizia”. Infatti, Paolo, afferma: “Noi riteniamo che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della Legge”. La frase va interpretata nel senso che più che sulla fede, insiste sulla necessità del battesimo che ovviamente presuppone, almeno per gli adulti, la “fede”.
Il battesimo è presentato come causa strumentale (“mediante…”) della salvezza: è descritto come “lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo”. Tale purificazione pertanto non è solo esterna, ma attinge le radici stesse dell’essere che è intrinsecamente trasformato e rinnovato: il battesimo opera perciò una vera interiore “rigenerazione”, con conseguente “rinnovamento” di tutta la struttura dell’essere. In quest’intima trasformazione consiste la “giustificazione”, la quale perciò non può essere una mera dichiarazione “forense” d’opere di giustizia.
In possesso di tale giustizia, che, di fatto, ci costituisce “figli di Dio”, è chiaro che abbiamo diritto alla “eredità” della “vita eterna”, la quale non sarà altro che l’efflorescenza della presente vita di grazia. Tale diritto però non è ancora un’effettiva immissione in possesso; infatti, è solo nella “speranza” che siamo già cittadini del cielo. E’ certo però che tale speranza “non delude”, perché abbiamo già la “caparra” della “vita eterna” nella presenza dello Spirito Santo in noi. Infatti, tutte queste meraviglie di “rinnovazione” le opera lo Spirito Santo, “effuso in abbondanza sopra di noi” dal Padre, in virtù dei meriti di Gesù Cristo Salvatore nostro”, nel giorno del nostro battesimo.
Come possiamo notare tutta la S.S. Trinità è all’opera nella realizzazione della salvezza: il Padre, poiché ideatore di questo stupefacente disegno d’amore; il Figlio, in quanto esecutore di tale progetto mediante l’incarnazione e in quanto causa meritoria dell’effusione dello Spirito sopra i redenti mediante la sua morte di croce; lo Spirito Santo , in quanto diretto autore dell’opera di “rigenerazione e di rinnovamento” delle anime.
Paolo, a più riprese, presenta la vita cristiana come una nuova “creazione”, una “vita nuova” in Cristo, una “rinnovazione” della mente; il cristiano ha rinnegato “l’uomo vecchio” ed è diventato “uomo nuovo”.

Contemplatio.
Gesù, Signore nostro, le tue parole, le tue promesse ci sono venute incontro e noi, commossi ed esultanti, le abbiamo interiorizzate nel cuore e nella mente. Per questo ti lodiamo, ti adoriamo, ti benediciamo, ti glorifichiamo, ti contempliamo ed eleviamo a te canti e preghiere di ringraziamento, per il tuo amore che riversi su ognuno di noi. Le nostre vicende di cristiani, membri della nuova umanità, devono ricalcare quella tua Gesù. Se come te e insieme con te noi affrontiamo e sopportiamo la morte, avremo come te e con te la vita e il regno. Al contrario, se non resteremo fedeli, saremo da te giustamente rinnegati; tu invece rimani sempre fedele alle tue promesse. Questa è una realtà che noi non scorderemo, infatti, con la tua resurrezione, la parola più nuova, la forza più rinnovatrice è entrata nel mondo. Tutto ciò ci riguarda personalmente: Gesù, tu sei risuscitato per salvarci. Le nostre immancabili sofferenze, debolezze, prove e peccati sono stati innestati nella tua morte per esserlo nella tua risurrezione; perdendo la loro amarezza. Il nostro essere cristiano è teso fra tre tempi: la morte già realizzata nel battesimo, le sofferenze dell’esistenza, il regno futuro. Gesù, ciò che ci lega è la “speranza”, che è certezza d’attesa operosa. Vivere alla tua sequela è rivivere la tua esistenza pasquale: il presente raccorda e domina il passato e il futuro ne trae energie per il compimento pieno. Perciò mettiamo al bando paure e varie questioni che smorzano la fede e la speranza.
Oggi noi abbiamo rievocato il tempo primo della conversione con le colpe che ci caratterizzavano. Tuttavia, per la misericordia di Dio Salvatore si è verificata mediante il battesimo, la decisiva trasformazione. Il tuo dono gratuito nel battesimo, lo Spirito Santo, con i suoi effetti ci ha rinati e rinnovati. Mansuetudine e dolcezza verso tutti sono due vite squisitamente e appartenenti a noi cristiani. Noi, in genere, non siamo portati alla mitezza: infatti, essa esige continua lotta  contro di noi stessi, dominio di sé, rinnegamento del nostro egoismo; comporta pazienza, costanza e coraggio, rinuncia e sacrificio. Più noi cristiani sviluppiamo la bontà nella nostra vita, più essa diventa contagiosa fino a sommergere l’ambiente che ci circonda. La dolcezza educa alla comprensione, alla clemenza, all’umiltà, alla piena e continua comunanza con Dio, sorgente d’ogni bontà. La mansuetudine ne è l’espressione più alta e delicata, perché dimenticando noi stessi si vive e si spera per gli altri. Di questo noi ti siamo grati, perché tutto proviene da te nel dono effuso con lo Spirito Santo.

Conclusio.
Se Dio non mi avesse fermato, se mi avesse abbandonato ai miei soli pensieri e alle mie sole forze, senza dubbio avrei preso la strada che porta alla morte e alla perdizione. Nel numero dei ribelli, sono vissuto anch’io, un tempo, con i desideri della mia carne, seguendo le voglie della carne e i desideri cattivi; ed ero per natura meritevole d’ira, come gli altri. Ma tu Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale mi hai amato, da morto che ero per i peccati, mi hai fatto rivivere con Cristo a nuova vita: per grazia, infatti, sono stato salvato. Mi hai anche risuscitato nel battesimo e mi hai fatto sedere nei cieli in Cristo Gesù Redentore. Il mio sguardo di fede non si svolge soltanto verso l’avvenire di gioia, ma si sofferma anche a considerare la disgrazia e la sventura che mi sono state risparmiate dal salvatore Gesù, tuo Figlio Diletto.

Grazie, Gesù Signore! Benedetto sia il tuo nome, sempre!

Amen.

«TENENDO ALTA LA PAROLA DI VITA» (Fil 2,12-18) (Lectio)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/de_virgilio_filippesi4.htm

(sono sicura di avere messo le tre prime « lectio » se volete legggerle credo… di avere messo almeno la categoria « Lectio »)

PER ME IL VIVERE È CRISTO!

Giuseppe De Virgilio

Una lettura vocazionale di Fil 1,12-2,18

IV. «TENENDO ALTA LA PAROLA DI VITA» (Fil 2,12-18)

IV. 1 LECTIO

12 Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedenti, non solo quando ero presente, ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e tremore. 13 È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo di­segno d’amore. 14 Fate tutto senza mormorare e senza esitare, 15 per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplende­te come astri nel mondo, 16 tenendo alta la parola di vita. Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non aver corso invano né invano aver faticato. 17 E se io devo essere versato sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi. 18 Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.
Dopo il brano cristo logico di Fil 2,6-11, nel v. 12 l ‘Apostolo riprende il dialogo con i cristiani di Filippi denominandoli «amati» (agapetoi). La ripresa è introdotta dall’ avverbio oste (perciò) e contrassegnata dalla raccomandazione: «attuate la vostra salvezza» (ten heauton soterian katergazesthe). Si tratta del primo dovere dei cristiani, che deriva dall’ obbedienza della fede vissuta in senso religioso «con timore e tremore» (meta probou kai tromou). Si nota il collegamento con il tema dell’obbedienza di Cristo (Fil 2,8), da cui deriva l’obbedienza dei cristiani.
Nel dialogo epistolare l’Apostolo, essendo fisicamente lontano, esprime il desiderio di essere vi­cino alla comunità con lo stesso affetto e la stessa premura di quando aveva soggiornato a Filippi. L’esortazione del v. 12 fa leva sulla frase comparativa: «(…) come sempre avete obbedito (…) ancora di più obbedite ora che sono lontano». Pertanto come nella presenza (parousia), anche nell’ assenza (apusia) dell’ Apostolo i Filippesi non devono venir meno nell’impegno per la loro salvezza. L’imperativo katergazesthe (52) rivolto all’intera Chiesa filippense evidenzia la necessità di lavorare fattivamente e responsabilmente, mediante una stretta e utile collaborazione (53). L’esortazione lascia emergere l’intento di unire la comunità e la preoccupazione circa le divisioni e i personalismi che Paolo percepisce nel contesto ecclesiale di Filippi.
Nel v. 13 l ‘Apostolo adduce la motivazione teologica: è Dio (theos) ad attivare l’energia (o energon) nei Filippesi; cioè a produrre la forza spirituale affinché si possa realizzare nei credenti il Suo disegno di amore. Egli suscita «in voi» (en hemin) il volere e l’operare «per» (hyper) «il disegno di amore» (eudokias). La formulazione dell’espres­sione hyper tes eudokias, nel contesto della frase, lascia aperte due possibili attribuzioni: la benevolenza sarebbe riferita a Dio (la sua benevolenza), ovvero ai destinatari (la vostra benevolenza) (54). Secondo Fabris la particella hyper non indicherebbe la causa ma lo scopo dell’agire di Dio nei credenti; per tale ragione l’esegeta friulano opta per una «lettura antropologica» (Dio attiva in noi il volere e l’operare per [= in vista della] la [vostra] benevolenza) (55). La traduzione CEI preferisce attribuire a Dio il «disegno di amore» della sua azione a favore dei credenti.
Il v. 14 si apre con un secondo imperativo: «fate tutto» (panta poiete). Lo stile che i cristiani dovranno seguire in mezzo ad una generazione «malvagia e perversa» (V. 15: skolias kai diestrammenes) dovrà essere ispirato al modello umile ed obbediente del Cristo. Come il «servo sofferente di Jahvé», il Signore non alzò la sua voce (cf. Is 42,2), non criticò i suoi accusatori, ma come agnello si lasciò immolare per la salvezza del suo popolo (cf. Is 53,7). Allo stesso modo i «credenti in Cristo», de­vono vivere «senza mormorare e senza esitare» (choris goggysmon kai dialogismon): sono proprio questi limiti che producono un clima fazioso e ne­gativo nella Chiesa.
Nel v. 15 si specifica l’invito paolino con la finale introdotta da ina: una vita impegnata sul versante della concordia e dell’unificazione comunitaria rende i credenti persone «irreprensibili e semplici» (amemptoi kai akeraioi). Paolo intende esprimere l’idea di irreprensibilità e di integrità etica: nessuno potrà rimproverare ai cristiani alcunché di male poiché essi si comportano da veri «costruttori di civiltà», come uomini saggi ed «immuni dal male» (cf. Rm 16,19). L’immagine che segue è molto densa: in un contesto sociale segnato da divisioni e malvagità, i cristiani dovranno essere «figli di Dio innocenti» (tekna theou amoma) e per questo devono «risplendere» (phainesthe) come astri nel mondo. È proprio lo «splendore della testimonianza»che accompagna la fede dei credenti. L’allusione alla «generazione perversa e degenere» riporta alla memoria il giudizio del popolo di Israele lungo il cammino del deserto, riproponendo il giudizio divino in Dt 32,5.20: «Peccarono contro di lui i figli degeneri, generazione tortuosa e perversa (…) sono una generazione perfida, sono figli infedeli». Anche Gesù riprenderà questo giudizio nel contesto della sua missione, soprattutto per via dell’incredulità di Israele (cf. Mt 17,17; Lc 9,41; cf. Sal 78,8).
Nel v. 16 si riprende il motivo della «Parola di vita», già evocato nella prima unità (cf. Fil 1,14) (56). Siamo al culmine del messaggio paolino, che sottolinea ulteriormente la missione della Chiesa: far risplendere su tutti gli uomini la Parola di vita (logon zoes). I cristiani non devono distinguersi per ceto sociale o posizioni economiche o usanze tradizionali, ma per il fatto che «tengono alta» (epeehontes) la Parola di vita (57), cioè la priorità dell’annuncio del Vangelo (cf. 2Cor 4,2; 1 Ts 1,6). In questo essenziale messaggio Paolo condensa tutta la sua esperienza apostolica: il Vangelo è parola di vita perché opera efficacemente in coloro che la accolgono (1Ts 2,13), genera riconciliazione (2Cor 5,19), diventa una strada di speranza per ricominciare ogni giorno (2Cor 2,16-17), attesa di compimento futuro in Cristo Gesù (2Tm 1,10).
Agganciandosi al motivo escatologico, Paolo passa a parlare di sé e dell’ esito della sua missione, gettando uno sguardo sul «giorno futuro» di Cristo (eis emeran Christou), cioè sull’ epilogo della sua vita terrena. L’apostolato del Vangelo non è fatica vana: per Paolo l’impegno missionario e pastorale, come per un atleta o un agricoltore, porterà il suo frutto (58). L’apostolato è paragonabile ad una «corsa» (edramon) in vista della mèta, ad un «faticoso lavoro» (ekopiasa) in vista del frutto! Per questo egli può vantarsi (eis kauehema) della sua missione (cf. 2Cor 1,14), anche nel caso gli fosse chiesto di morire mediante il martirio.
Al v. 17 si esplicita questo concetto, mediante la metafora cultica del sacrificio cruento, in connessione con la sua situazione di prigioniero in attesa di giudizio (cf. Fil 1,12-13). Anche se l’Apostolo deve «essere sparso in libagione» (spendomai) (59) «sul sacrificio e sul servizio» (epi te thysia kai leitourgia), tutto questo accadrà «per la loro fede»(tes pisteos hymon), cioè a favore e a beneficio della fede dei Filippesi. L’esempio di una offerta tanto coraggiosa è stato seguito anche da altri missionari: l’Apostolo stesso addita la testimonianza mirabile di Epafrodito, che ha dato prova di un altissimo «servizio sacrificale» avendo sofferto per il V angelo senza cercare i propri interessi ma quelli di Cristo (cf. Fil 2,19-24.30).
La pagina si conclude con il motivo della gioia condivisa: «sono contento e ne godo con tutti voi» (ehairto kai sygehairo pasin hymin). L’Apostolo ha iniziato il suo dialogo epistolare con la gioia e termina questa prima sezione riconfermando di essere un uomo contento della propria missione. Abbiamo potuto constatare come l’espressione gioiosa del cuore di Paolo non è un artificio retorico né una manifestazione esterna e sentimentale. La gioia (chara) è frut­to di un’esperienza spirituale intensa (cf. Gal 5,22) che viene comunicata alla Chiesa di Filippi perché possa maturare la sua crescita in Cristo. Possiamo determinare la gioia cristiana come il metro indicatore del «sentire insieme», del «vivere insieme», del «soffrire insieme», del «servire insieme», dello «sperare insieme»! Si tratta della dimensione ecclesiale del cristianesimo, che vince la solitudine e apre il cuore alla condivisione!
Così nel v. 18 Paolo può rivolgere l’ultima esortazione ai suoi destinatari: «Godete e rallegratevi con me» (ehairete kai sygehairete moi). Possiamo interpretare questa splendida conclusione nella prospettiva pasquale. Anche se non viene espressamente menzionata, la visione paolina della «vita nuova» si ispira alla «risurrezione di Cristo». Il vanto e la gioia sono centrati su questo mistero; allo stesso modo la vocazione e la missione dei credenti non possono che partecipare a questo evento di salvezza e di speranza. L’intera Chiesa di Filippi accomunata dal «sentire comune», è chiamata alla gioia e alla comunione con il Cristo morto e risorto!

IV.2 MEDITATIO
La terza sezione della nostra pericope completa il percorso svolto, introducendo nuovi aspetti parenetici e sottolineando i motivi annunciati precedentemente. In primo luogo l’Apostolo offre una sintesi della vita della Chiesa attraverso la propria esperienza apostolica. La vicenda di Cristo (2,6-11) non rimane isolata e irraggiungibile, ma deve costituire il fondamento dell’obbedienza della fede nell’esistenza dei credenti. Possiamo ben affermare che la vocazione si concretizza nell’obbedienza della fede. Tale obbedienza deve essere condivisa in modo comunitario, sia in presenza che in assenza di Paolo (Fil 2,12).
Il protagonista della nostra vocazione è Dio. L’Apostolo esplicita bene questo concetto, per evitare equivoci nei cristiani. Nessuno si salverà da solo, con le proprie forze. Se ogni iniziativa è ispirata da Dio, allora il cammino della maturità cristiana è mosso dalla consapevolezza della priorità di Dio, della sua Parola di vita. I termini con cui l’Apostolo esorta a vivere il Vangelo esprimono bene la dialettica spirituale che differenzia il credente dal pagano. Attenzione a non trasformare la Chiesa in una sorta di società paganizzante, conformandosi alla generazione perversa e degenere!
Probabilmente le divisioni presenti nell’ambito della Chiesa di Filippi fanno emergere la fragilità del cristianesimo locale e la fatica di «crescere insieme». Paolo parla di una «generazione perversa e degenere», omologata da una vita piatta e senza fede, costruita sugli equilibri degli interessi e delle passioni umane. La sintetica descrizione appare molto attuale. Di contro la Chiesa è chiamata ad un «colpo di audacia», un «salto di qualità» che nasce dalla Parola di vita. Riscoprire la propria vocazione alla santità significa accettare di convertire il proprio cuore a Dio e alla fede del Vangelo.
Un ulteriore compito collegato al cammino della conversione è dato dall’esperienza della figliolanza. L’Apostolo invita i Filippesi ad essere «figli di Dio immacolati», a splendere come «astri nel mondo». Le due immagini possono aiutarci nella verifica del nostro cammino ecclesiale. Riscoprire la figliolanza divina nell’itinerario dello Spirito (cf. Rm 8,16-17) e riflettere su come le nostre comunità vivono questa figliolanza (o vivono forse una «orfananza» ?). La seconda immagine è quella degli astri, che sono capaci di illuminare o per luce propria o per luce riflessa. Lo splendore astrale richiama il tema della testimonianza cristiana, sempre più necessaria nel contesto della nostra cultura in declino.
Tenere alta la «Parola di vita». Si tratta del cuore del messaggio paolino, che ritorna nell’intera lettera. «Tenere alto» può essere attualizzato secondo tre applicazioni. Si tratta anzitutto della «priorità» della Parola che chiede di essere ascoltata e interiorizzata. Una comunità che non rimette al centro la Parola di vita, che non sa ricominciare dalla Parola, rischia di strumentalizzare e confondere la propria vocazione e missione. «Tenere alto» inoltre significa testimoniare in modo coraggioso e visibile la Parola, in forma personale e comunitaria. Infine «tenere alto» significa mirare alla santità, aspirare ad un’ascesi che consenta di «volare alto» sia nelle relazioni ecclesiali che nella vita sociale del mondo.
In questa lettera, forse più che in altri scritti epistolari, Paolo si presenta come un uomo «contento» e le espressioni di gioia e di letizia caratterizzano l’appassionato dialogo con i cristiani di Filippi. Se ripercorriamo con attenzione la vicenda di Paolo e le sue peripezie, possiamo solo minimamente renderci conto delle sofferenze e delle fatiche che l’Apostolo ha dovuto sostenere per la Chiesa (cf. 2Cor 4,11-18; 6,3-12). Eppure Paolo vive la gioia, la condivide, la proclama, la testimonia in modo convincente (Fil 1,25; 2,17-18). Si tratta di un «dono» che Dio fa all’Apostolo; allo stesso tempo la gioia deve caratterizzare la vocazione dei credenti e la loro missione: la lotta gioiosa per il Vangelo è la modalità attraverso la quale anche oggi siamo chiamati a «correre e a proclamare la Parola » lungo le strade del mondo.

IV.3 ORATIO
«Rallegratevi con me»

Quando fin dall’aurora
sperimentate la gioia di vivere,
incrociando gli occhi dei vostri vicini,
pronti a ricominciare una nuova giornata,
con il desiderio di lavorare per il Regno,
«Rallegratevi con me».

Quando siete chiamati
a dialogare nella famiglia,
accogliendo l’altro nella sua unicità,
disposti a servire i fratelli che vi sono accanto
con la stessa gratuità e tenerezza di Cristo,
«Rallegratevi con me».

Quando sperimentando la fatica delle relazioni,
sentite nel vostro cuore le resistenze ad amare,
timorosi di fare il primo passo nell’umiltà,
eppure vi lasciate portare
dalla speranza nel Vangelo,
«Rallegratevi con me».

Quando gli altri, per causa Sua,
diranno male di voi,
accusandovi ingiustamente
a motivo della testimonianza alla verità,
soli di fronte al mondo
e deboli di fronte agli uomini,
nella consapevolezza che lo Spirito
rinnoverà il cuore,
«Rallegratevi con me».

Quando vi passeranno davanti
con la protervia dell’ autoritarismo,
ritenendovi inutili per quello che siete e valete,
e vi relegheranno nei luoghi comuni
della commiserazione,
ma voi continuerete a servire
e a testimoniare la forza di vivere,
«Rallegratevi con me».

Quando i fratelli vi domanderanno
ragione della vostra fede,
e voi senza paura narrerete
le meraviglie di Dio,
mostrando come i superbi cadono
e i piccoli vengono esaltati,
sforzandovi di entrare per la porta stretta
del dono di sé,
«Rallegratevi con me».

Quando avrete compreso
che la vostra missione volge al termine,
e avrete fatto tutto quello che Dio
vi aveva chiesto,
sperimentando di essere stati
«servi inutili»
nella gratuità,
con il cuore grato alla Chiesa
e nell’attesa dell’Ultimo,
«Rallegratevi con me».

IV.4 CONTEMPLATIO
«Lo Spirito Santo, autore della missione»

Nella terza unità, dopo aver focalizzato il mistero del Padre e del Figlio, fermiamoci a contemplare la persona dello Spirito Santo e la sua missione nel mondo. Infatti non ci sarebbe la Parola di vita se non ci fosse l’azione efficace dello Spirito. Allo stesso modo lo Spirito continua a guidare la missione della Chiesa e a sostenere il cammino della Parola.
Un primo aspetto da evidenziare è collegato con l’obbedienza nello Spirito da parte dei credenti. Paolo stesso dichiara ai Corinzi che la sua parola non si è basata su un discorso persuasivo di sapienza, ma sulla «manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (1 Cor 2,4). Riflettiamo sul senso teologico di questo dinamismo che segna la storia della nostra fede e della nostra obbedienza. Non siamo resi schiavi per la violenza di una «parola oppressiva», ma siamo resi liberi per l’attrazione di una «parola liberatrice» (1 Ts 1,8-10).
La missione dello Spirito si manifesta attraverso la storia, i cui punti salienti sono ripresi nella Sacra Scrittura. Fermiamoci a contemplare in modo essenziale la presenza dello Spirito in alcuni contesti biblici: l’atto creativo guidato dall’azione misteriosa dello Spirito di Dio (Gen 1,2; Sap 1,7), il dono dello Spirito di giudizio per la missione dei settanta collaboratori di Mosè (Nm 11,17.25-29), la forza dello Spirito per la parola profetica (Balaam: Nm 24,2; Giosuè: Nm 27,18; Is 61,1), per la missione regale (Davide: 1Sam 26,13).
Lo Spirito di Dio investirà il Messia con i suoi doni (Is 11,2), eleggerà e guiderà il «servo di Jahvé» in vista della salvezza del popolo (Is 42, 1), cambierà il deserto in giardino (1s 32,15), ridarà vita alla comunità di Israele, facendola risorgere dalla morte (Ez 37,1-14) e tutto il popolo finalmente profetizzerà mediante il dono dello Spirito di Dio (Gl 3,1-4), rinnovato nel cuore con una «nuova alleanza» (Ger 31,31-34).
Negli scritti neotestamentari si porta a compimento l’azione dello Spirito, rivelata nella missione del Cristo. È anzitutto il Padre che dona il suo Spirito al Figlio (Mt 3,16) dopo essere stato generato per «opera dello Spirito Santo» nel seno della Vergine Maria (Lc 1,26-38). Gesù «profeta potente in opere e parole» esercita la sua missione nella for­za dello Spirito (Lc 4,1.18; Mt 12,28), rassicurando i suoi discepoli che sarà lo Spirito Santo a sostenerli nella prova e nelle persecuzioni (Mc 13,11) e che Dio concederà lo Spirito Santo a tutto coloro che gliela chiedono (Lc 11,13).
In modo particolare nel Quarto Vangelo si presenta l’azione consolatrice dello Spirito Santo che opera nella storia e nel cuore dei credenti (Gv 1,33), rinnovando li mediante il battesimo (Gv 3,5). È lo Spirito di verità (Gv 4,23-24), protagonista della vocazione e della missione del Figlio (Gv 7,39) per donare la vita al mondo e preparare i discepoli e far conoscere l’amore di Dio mediante la rivelazione del Figlio (Gv 14,17.26; 15,26). Nell’inviare la comunità in missione il Risorto alita sui discepoli lo Spirito (Gv 20,22), segno del compimento della Pentecoste (At 2,1-12) per la quale la Chiesa porterà il Vangelo fino agli estremi confini della terra (At 1,8).
Paolo stesso è consapevole che non si dà missione della Chiesa e dei cristiani senza l’azione dello Spirito di Dio. I cristiani hanno ricevuto lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ha dona­to loro (1Cor 2,12) e per formare un solo corpo (1 Cor 12,13), diventando ministri della nuova Alleanza nello Spirito (2Cor 3,6.8). È lo Spirito il protagonista e l’autore della nostra vocazione e della nostra missione. Dopo aver riletto la presenza dello Spirito nella storia biblica, riscopri l’opera che lo stesso Spirito ha segnato nella tua vita e nella tua vicenda personale.
Per vivere questo momento di preghiera e di contemplazione, ti invito a riflettere su un passaggio della lettera enciclica di Benedetto XVI, Spe Salvi:
«Il giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L’incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmen­te l’uno all’altro – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza « con timore e tremore » (Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro « avvocato », para­kletos (cfr. 1 Gv 2, 1) » (60).

IV.5 ACTIO
«La testimonianza della Parola»
La terza unità che abbiamo presentato si caratterizza per la «testimonianza della Parola». L’Apostolo esorta i suoi destinatari a «tenere alta la Parola di vita». Non si tratta di una pia esortazione spirituale, ma di un invito concreto che deve diventare impegno dentro le nostre scelte quotidiane. Possiamo esplicitare il senso di questa affermazione secondo tre prospettive.
«Tenere alta la Parola di vita» indica la centralità della Parola di Dio. Nella consapevolezza che l’obbedienza della fede sgorga dalla predicazione della Parola, occorre rifare ogni giorno la «scelta» di cominciare dalla Parola. È questa la strada maestra per la missione alle genti che la Chiesa chiede alle comunità e ai singoli cristiani.
«Tenere alta la Parola di vita» significa elevare il livello della nostra vita spirituale, non conformando ci alla mentalità del tempo, ma rinnovando la nostra mente e il nostro cuore. Si comprende bene come la prerogativa della missione implica la «dimensione spirituale» dei credenti e della comunità. Splendere come «astri nel mondo» significa non cedere alla tentazione di omologare i progetti e i mezzi al ribasso, ma di elevare lo stile delle nostre relazioni e delle nostre esperienze. La Parola di vita ci spinge a fare scelte di vita e a rifiutare compromessi di morte.
«Tenere alta la Parola di vita» corrisponde al valore personale-comunitario della testimonianza di Cristo e del suo Vangelo. Donne e uomini scelgono di partire per la missione ad gentes, come religiosi, religiose e laici a servizio del bene degli ultimi e dei più bisognosi. Sacerdoti Fidei Donum lasciano le loro case per essere inviati dalla Chiesa nei confini della terra: perché? La risposta è inscritta nella vocazione fondamentale che ciascuno di noi sperimenta nel donarsi a Dio e ai fratelli. «Tenere alta» vuol dire che non ci si può nascondere, non è possibile mistificare la grandezza e la bellezza di questa Parola di speranza.
La nostra actio può recepire questo messaggio, che chiede di essere tradotto nei contesti in cui viviamo ed operiamo. Dio ha bisogno di te, del tuo «sì», della tua «corsa per il Vangelo». I poveri aspettano il nostro «eccomi» e questo tempo della Chiesa è momento favorevole perché tutto questo accada. Ricordiamo a proposito quello che Paolo scrive ai Corinzi:
«Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! 3 Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga criticato il nostro ministero; 4 ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza: nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, 5 nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; 6 con purezza, con sapienza, con magnanimità, con benevolenza, con spirito di santità, con amore sincero; 7 con parola di verità, con potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; 8 nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama; come impostori, eppure siamo veritieri; 9 come sconosciuti, eppure siamo notissimi; come moribondi, e invece viviamo; puniti, ma non uccisi; 10 come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (2Cor 6,3-10).

CONCLUSIONE
Ripercorrendo l’itinerario proposto cogliamo la dimensione missionaria della testimonianza paolina, espressa attraverso la metafora della lotta atletica (cf. Fil 1,27; 3,12-14). La medesima immagine viene riproposta in Fil 3. Trattando della sua esperienza cristiana e della sua attività apostolica Paolo fa memoria delle sue scelte: dopo aver incontrato Cristo, ha subordinato ogni altro bene alla conoscenza del Signore (Fil 3,8). Egli attende solo da Dio la salvezza e in vista di questo dono egli «cor­re la sua gara», per partecipare alle sue sofferenze, diventando conforme a Cristo nella morte con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti (Fil 3,9-10). Ritornando sulla metafora della «corsa della fede», l’Apostolo dichiara di sé:
«Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,12-14).
La vocazione viene raffigurata alla «corsa verso la meta», alla gara in vista del premio finale, per la quale siamo chiamati ad un coinvolgimento pieno nella consapevolezza di essere stati conquistati da Cristo. Il brano evidenzia tre tappe di questo processo vocazionale, che possono essere applicate all’esistenza di ogni credente.
La prima tappa consiste nell’esperienza di «essere stati conquistati da Cristo». La fede che nasce dall’ascolto ci attrae al Signore e ci guida nella sua logica di amore. La vocazione nasce dall’ esperienza di un «sì» pieno al progetto di Dio per noi. Non per costrizione, ma per conquista di amore, ci sentiamo attratti da Lui e per questo «corriamo verso di Lui».
La seconda tappa è costituita dalla risposta personale all’appello divino, che consta della decisione di alzarsi e correre. La grande gara della vita implica l’impegno personale e il coinvolgimento in un confronto che è sempre faticoso, imprevedibile, aperto alla speranza. La metafora della corsa, ripresa dal contesto ellenistico, ci aiuta a capire come la vocazione sia impegno, fatica, conquista quotidiana, forza di lottare, desiderio di raggiungere la mèta, sfida costante su noi stessi e scommessa sulla fedeltà di Dio.
La terza tappa è costituita dal «premio finale», che Dio concederà «lassù», in Cristo Gesù. La sottolineatura paolina è di tipo escatologico, senza escludere la quotidiana esperienza del «portare frutto» nella missione. Se il premio finale di lassù è la mèta conclusiva della nostra vocazione alla santità, la missione è l’essenza del nostro gareggiare in questo tempo della vita.

È questa la testimonianza vocazionale di Paolo mentre scrive ai Filippesi e condivide con loro l’avventura del Vangelo.
Correre verso la mèta, per conquistare il premio! Vivere la propria vocazione mediante la missione di annunciare il Vangelo a tutti!

Publié dans:LECTIO DIVINA, Lettera ai Filippesi |on 5 septembre, 2012 |Pas de commentaires »

“SE MORIAMO CON CRISTO…” (2 Tim. 2,11-13; Tito 3,4-7) – Lectio

http://www.adonaj.net/old/preghiera/lectio12.htm

“SE MORIAMO CON CRISTO…” (2 Tim. 2,11-13; Tito 3,4-7)

(Lectio divina 12)

Introductio:
Preghiamo la Madonna, con l’Ave Maria, perché ci assista nell’accogliere lo Spirito Santo.
“Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
e donaci per intercessione di Maria che ha saputo
Contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande, quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo”. Amen.

Lectio.
Di Timoteo abbiamo già riferito nella Lectio precedente. Aggiungiamo solo che Paolo lo esorta fedelmente al Vangelo, e per questo gli rammenta di ravvivare il dono di Dio che è in lui per l’imposizione delle mani. Aggiunge, inoltre, che lo Spirito Santo non gli ha donato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. Quindi prosegue dicendogli di non vergognarsi della testimonianza da rendere al Signore, di soffrire con Paolo stesso (si trovava in carcere) per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio, perché il Padre lo ha sanato e lo ha chiamato con una vocazione santa, non in base alle opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia donata da Cristo Gesù fin dall’eternità, ma rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore Cristo Gesù.
Poiché Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del Vangelo, del quale egli è stato costituito araldo, apostolo e maestro.
Tito fu discepolo e compagno di Paolo, prima di Timoteo. Sembra certo che fosse nativo di Antiochia, di discendenza pagana, e chiamato da Paolo “figlio”, il che ci fa supporre che fosse stato battezzato dall’Apostolo. Poiché Tito non era giudeo, a Gerusalemme esigevano che ricevesse il rito della circoncisione, attribuendo il valore di norma a quel caso particolare e mirando con ciò a respingere la dottrina di libertà predicata da Paolo; il quale però non cedette, e Tito rimase incirconciso. Durante il terzo viaggio missionario di Paolo, Tito gli fu a fianco nella sua permanenza ad Efeso e lo coadiuvò nel sedare i torbidi intrighi della comunità di Corinto, prodigandosi nei fatti rammentati nella seconda lettera ai Corinzi.
Per gli ultimi anni qualche isolata notizia si ricava dalle Pastorali. Verso il 65 Tito giunge a Creta con Paolo, e lì lasciato per ampliare l’evangelizzazione dell’isola e provvedere alla sua organizzazione.
Egli doveva nominare presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni di Paolo, il quale aveva specificato che il candidato deve essere irreprensibile, sposato una sola volta, con figli credenti e che non possano essere accusati di dissolutezza o siano insubordinati. Aggiunge ancora che il vescovo, come amministratore di Dio, deve essere correttissimo: non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma, al contrario, ospitale, amante del bene, assennato, giusto, pio, attaccato alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmessogli, perché sia in grado di esortare con la sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono. Quindi spiega a Tito che vi sono, soprattutto fra quelli che provengono dalla circoncisione, molti spiriti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori della gente. Afferma anche che a questi tali bisogna chiudere la bocca, perché mettono lo scompiglio in molte famiglie, insegnando per amore di un guadagno disonesto cose che non si devono insegnare.

Meditatio.
Se moriamo con Cristo, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo. Se lo rinneghiamo, anch’egli rinnegherà noi; se noi manchiamo di fede, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tim. 2,11-13).
Paolo, avendo rammentato la “potenza” di Dio, comunicata a Timoteo nella sua ordinazione, sviluppa il tema dell’assoluta gratuità della “salvezza” mediante la fede in Cristo e nel suo “vangelo”, di cui egli è stato stabilito “araldo, apostolo e maestro”. Si tratta del motivo che ha Timoteo per essere forte e coraggioso; non si può respingere a cuor leggero la “vocazione” di Dio alla salvezza e alla “immortalità, sia nel corpo sia nell’anima, costi quel che costi”.
I versetti citati assomigliano ad un antico “inno” liturgico, usato forse durante il rito battesimale per esprimere il mistero di vita e di morte rappresentato dal battesimo stesso. Esso consta di quattro proposizioni, e tutte iniziano con “se” e rette dalla legge semitica del parallelismo.
L’idea del “morire” con Cristo e del “soffrire” con lui è tipicamente di Paolo. Il proposito del “morire insieme” ci ricorda l’uso in vigore presso qualche popolo antico, dove i soldati più fedeli e amici del re morivano insieme con lui: in tal caso Paolo, riprende l’immagine militare, per enunciare una verità di fede.
“Quando si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna” ( Tito 3, 4-7).
Questi versetti sono molto importanti, giacché costituiscono una forma breve di riassunto della dottrina della salvezza, di cui si descrivono gli elementi costitutivi e le condizioni.
Autore della salvezza è Dio Padre: è lui, infatti, il “Salvatore nostro Iddio” di cui, ad un certo punto della storia “apparve” la “benignità” e lo sviscerato “amore per gli uomini”. Questa “epifania” dell’amore del Padre si è avuta soprattutto nell’Incarnazione. E sono da escludere come causa della salvezza pretese opere di “giustizia”. Infatti, Paolo, afferma: “Noi riteniamo che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della Legge”. La frase va interpretata nel senso che più che sulla fede, insiste sulla necessità del battesimo che ovviamente presuppone, almeno per gli adulti, la “fede”.
Il battesimo è presentato come causa strumentale (“mediante…”) della salvezza: è descritto come “lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo”. Tale purificazione pertanto non è solo esterna, ma attinge le radici stesse dell’essere che è intrinsecamente trasformato e rinnovato: il battesimo opera perciò una vera interiore “rigenerazione”, con conseguente “rinnovamento” di tutta la struttura dell’essere. In quest’intima trasformazione consiste la “giustificazione”, la quale perciò non può essere una mera dichiarazione “forense” d’opere di giustizia.
In possesso di tale giustizia, che, di fatto, ci costituisce “figli di Dio”, è chiaro che abbiamo diritto alla “eredità” della “vita eterna”, la quale non sarà altro che l’efflorescenza della presente vita di grazia. Tale diritto però non è ancora un’effettiva immissione in possesso; infatti, è solo nella “speranza” che siamo già cittadini del cielo. E’ certo però che tale speranza “non delude”, perché abbiamo già la “caparra” della “vita eterna” nella presenza dello Spirito Santo in noi. Infatti, tutte queste meraviglie di “rinnovazione” le opera lo Spirito Santo, “effuso in abbondanza sopra di noi” dal Padre, in virtù dei meriti di Gesù Cristo Salvatore nostro”, nel giorno del nostro battesimo.
Come possiamo notare tutta la S.S. Trinità è all’opera nella realizzazione della salvezza: il Padre, poiché ideatore di questo stupefacente disegno d’amore; il Figlio, in quanto esecutore di tale progetto mediante l’incarnazione e in quanto causa meritoria dell’effusione dello Spirito sopra i redenti mediante la sua morte di croce; lo Spirito Santo , in quanto diretto autore dell’opera di “rigenerazione e di rinnovamento” delle anime.
Paolo, a più riprese, presenta la vita cristiana come una nuova “creazione”, una “vita nuova” in Cristo, una “rinnovazione” della mente; il cristiano ha rinnegato “l’uomo vecchio” ed è diventato “uomo nuovo”.

Contemplatio.
Gesù, Signore nostro, le tue parole, le tue promesse ci sono venute incontro e noi, commossi ed esultanti, le abbiamo interiorizzate nel cuore e nella mente. Per questo ti lodiamo, ti adoriamo, ti benediciamo, ti glorifichiamo, ti contempliamo ed eleviamo a te canti e preghiere di ringraziamento, per il tuo amore che riversi su ognuno di noi. Le nostre vicende di cristiani, membri della nuova umanità, devono ricalcare quella tua Gesù. Se come te e insieme con te noi affrontiamo e sopportiamo la morte, avremo come te e con te la vita e il regno. Al contrario, se non resteremo fedeli, saremo da te giustamente rinnegati; tu invece rimani sempre fedele alle tue promesse. Questa è una realtà che noi non scorderemo, infatti, con la tua resurrezione, la parola più nuova, la forza più rinnovatrice è entrata nel mondo. Tutto ciò ci riguarda personalmente: Gesù, tu sei risuscitato per salvarci. Le nostre immancabili sofferenze, debolezze, prove e peccati sono stati innestati nella tua morte per esserlo nella tua risurrezione; perdendo la loro amarezza. Il nostro essere cristiano è teso fra tre tempi: la morte già realizzata nel battesimo, le sofferenze dell’esistenza, il regno futuro. Gesù, ciò che ci lega è la “speranza”, che è certezza d’attesa operosa. Vivere alla tua sequela è rivivere la tua esistenza pasquale: il presente raccorda e domina il passato e il futuro ne trae energie per il compimento pieno. Perciò mettiamo al bando paure e varie questioni che smorzano la fede e la speranza.
Oggi noi abbiamo rievocato il tempo primo della conversione con le colpe che ci caratterizzavano. Tuttavia, per la misericordia di Dio Salvatore si è verificata mediante il battesimo, la decisiva trasformazione. Il tuo dono gratuito nel battesimo, lo Spirito Santo, con i suoi effetti ci ha rinati e rinnovati. Mansuetudine e dolcezza verso tutti sono due vite squisitamente e appartenenti a noi cristiani. Noi, in genere, non siamo portati alla mitezza: infatti, essa esige continua lotta contro di noi stessi, dominio di sé, rinnegamento del nostro egoismo; comporta pazienza, costanza e coraggio, rinuncia e sacrificio. Più noi cristiani sviluppiamo la bontà nella nostra vita, più essa diventa contagiosa fino a sommergere l’ambiente che ci circonda. La dolcezza educa alla comprensione, alla clemenza, all’umiltà, alla piena e continua comunanza con Dio, sorgente d’ogni bontà. La mansuetudine ne è l’espressione più alta e delicata, perché dimenticando noi stessi si vive e si spera per gli altri. Di questo noi ti siamo grati, perché tutto proviene da te nel dono effuso con lo Spirito Santo.

Conclusio.
Se Dio non mi avesse fermato, se mi avesse abbandonato ai miei soli pensieri e alle mie sole forze, senza dubbio avrei preso la strada che porta alla morte e alla perdizione. Nel numero dei ribelli, sono vissuto anch’io, un tempo, con i desideri della mia carne, seguendo le voglie della carne e i desideri cattivi; ed ero per natura meritevole d’ira, come gli altri. Ma tu Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale mi hai amato, da morto che ero per i peccati, mi hai fatto rivivere con Cristo a nuova vita: per grazia, infatti, sono stato salvato. Mi hai anche risuscitato nel battesimo e mi hai fatto sedere nei cieli in Cristo Gesù Redentore. Il mio sguardo di fede non si svolge soltanto verso l’avvenire di gioia, ma si sofferma anche a considerare la disgrazia e la sventura che mi sono state risparmiate dal salvatore Gesù, tuo Figlio Diletto.

Grazie, Gesù Signore! Benedetto sia il tuo nome, sempre!

Amen.

Genesi 18,1-15: Nomadi verso la vita: c’è di più?

http://www.atriodeigentili.it/lectio/2007_08/01.htm

(il testo è lungo e non posso permettermi spazi, scusate per questa grafica…spartana)

Lectio Divina 2007/08
a cura di Stella Morra

1. Nomadi verso la vita: c’è di più?

Genesi 18,1-15

E’ il primo incontro di un nuovo percorso di lectio e, dopo aver comunicato alcuni avvisi, Carlo augura a tutti noi buon cammino con queste parole di Sant’Efrem siro: “Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori perché ciascuno di noi trovi la ricchezza in ciò che contempla”.
Premessa
Questa raffica di avvisi di Carlo dimostra il lavoro svolto in questi dieci anni; chissà cosa riusciremo a fare nei prossimi!
Come sempre, l’inizio di un percorso di lectio è, almeno per me, un po’ ambivalente. Da una parte sono curiosa di vedere dove andrà a finire: è ovvio, io penso al percorso, scelgo i testi, ma poi nell’interazione che si realizza qui, e con la Parola di Dio che soffia dove vuole, succedono sempre strane cose; dall’altra sono sempre un po’ intimidita e preoccupata, come se non mi fidassi fino in fondo del fatto che, dopo tanti anni, la Parola di Dio possa fare ancora lo stesso effetto.
Negli ultimi tre anni ci siamo occupati di temi molto umani, concreti: il conflitto, il potere, la paura. Come soci dell’Atrio avevamo fatto la scelta – e il fatto che altri si siano aggregati dimostra che i temi interessavano – di ragionare su alcune dimensioni della nostra esperienza quotidiana, e in particolare su quelle un po’ più oscure, di cui non si parla tanto volentieri, verso le quali abbiamo una certa diffidenza, perché ci verrebbe più semplice dire: non si deve! Non si deve andare a conflitto, non si deve esercitare potere, non si deve avere paura. Come se dire non si deve bastasse! In realtà, il fatto che ognuno di noi viva dei conflitti, sia chiamato ad esercitare un potere, viva delle paure, dice che, pur sapendo che non si dovrebbe, questa è una dimensione con la quale bisogna fare i conti, e che bisogna imparare a sapere dove ‘metterla’. E ci siamo chiesti se la Parola di Dio, anche di fronte a queste dimensioni un po’ più oscure, ci avrebbe dato delle buone indicazioni.
In genere abbiamo sperimentato, in questi anni, che la Parola di Dio non cancella, non nega, non butta via niente; nella Parola di Dio c’è veramente tutta la gamma delle esperienze possibili, belle e brutte, buone e malvagie. E ogni cosa ha un suo posto, sta in un certo luogo, ha un suo senso, non nella dimensione di un senso intellettuale – allora capisco – no, la scrittura ci aiuta anche a sperimentare come capire non è l’unica cosa che si può fare di fronte alla vita. A volte capisco, e questo non mi dà nessuna pace; altre volte, di fronte a certe gioie, non capisco, ma mi danno gioia ugualmente..
Dunque, negli anni scorsi abbiamo provato a ragionare intorno a questi tre temi. Chi ha fatto questo pezzo di strada con noi, spero abbia avuto l’esperienza di rendersi conto un po’ meglio di quali sono i confini di queste dimensioni un po’ più oscure dell’umano e di come, tutto sommato, non c’è solo l’oscuro dentro l’oscuro, ci sono anche delle energie positive, delle possibilità, delle questioni aperte…
Confrontandoci sugli argomenti su cui orientarci per quest’anno, ci siamo detti che, dopo anni di temi un po’ scuri, ci meritiamo qualcosa di più luminoso, più costruttivo e positivo, che per un anno ci aiuti a pensare intorno a dimensioni più belle. Questo non vuol dire negare che il miscuglio di oscuro e di luce c’è in tutte le nostre vite, ma ci regaliamo un anno un po’ più arioso. In questo la Parola di Dio è un po’ speciale perché tanto non maledice di fronte all’oscuro, quanto non è tutto rose e fiori, non è una favola di fronte alle cose luminose. La parola di Dio è molto realista, dunque ha sempre dentro tante cose.
L’idea, dunque, era quella di andare su un tema più costruttivo, ma soprattutto di metterci di fronte a una dimensione più apertamente di fede. Non rimaniamo mai solo in una lettura delle dimensioni dell’umano, – in questi anni abbiamo letto la Parola di Dio, quindi non abbiamo letto l’umano senza ciò che Dio dice e fa, ma lo abbiamo fatto tematizzando la nostra vita più che Dio, mettendo a fuoco l’immagine sulla nostra esperienza. Quest’anno ci piacerebbe spostare un po’ il fuoco, non guardarci solo addosso, ma tentare di chiederci un po’ di più che cosa Dio dice e chiede alla nostra esistenza. Così, ragionando, è venuto fuori questo titolo: Solo un Dio ci può salvare: la vita, la fede, l’incontro.
Ci sembra che, senza ingenuità, l’aspetto più positivo e propositivo delle nostre vite sia nel non essere delle vite chiuse, ma delle vite che incontrano gli altri, la storia, il tempo, Dio. Essere delle vite che ci danno delle occasioni, che si aprono al non sé, a qualcosa d’altro e che questa sia la grande dimensione prospettica, costruttiva, quella che ci sorprende ancora rispetto al tran tran quotidiano, alle scelte, a ciò che uno ha fatto. Capita sempre, ad un certo punto della vita, un evento, una realtà che si mostra con qualcosa in più. Questa dimensione dell’incontro e dell’incontro con Dio come la dimensione che struttura l’esperienza di fede.
I primi due testi che affronteremo sono dell’Antico Testamento e sono il tentativo di descrivere la fenomenologia, cioè come funziona la dinamica dell’incontro nell’esperienza umana, ed è soprattutto l’Antico Testamento che ci aiuta a descrivere come funzioniamo e poi ci sono cinque testi del Nuovo Testamento che dovrebbero condurci a guardare un po’ oltre noi stessi.
In testa al programma c’è una poesia che mi pare dica abbastanza bene, almeno per me, dove questi dieci anni di lectio con l’Atrio mi hanno condotto e ciò che mi piacerebbe fosse l’esperienza di questo anno. E’ una poesia di D. Walcott, che è stato anche premio Nobel per la letteratura, e dice così:

Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro
e dirà: siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore ,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. E’ festa: la tua vita è in tavola.

D. Walcott, Amore dopo amore
Questa poesia mi piace molto perché mi sembra dica bene come ci sia un vero, solo, grande incontro importante nella nostra esistenza: l’incontro con noi stessi. E come tutta la nostra vita ci sia data perché uno si possa incontrare con sé. E abbiamo tempo, da parte di Dio, per arrivare alla fine della nostra vita e sentire, come la Maddalena, il nostro nome pronunciato da Dio che ci viene restituito. E possiamo riconoscerlo dicendo sì, sono io in quello specchio! Ma insieme ci sono tutti gli incontri e il tempo della vita che ci è dato per farcela ad amare quello straniero che sono io, a riconoscere e riuscire ad imbandire una festa … “La tua vita è in tavola”. Mi sembra che questa poesia ci dica fino in fondo, con un’immagine molto bella, che il giorno in cui riusciremo ad offrire vino e pane allo straniero che ci ha amato tutta la vita e che spesso abbiamo mal tollerato in noi stessi, in cui riusciremo a fare questa ‘eucaristia’, allora il Signore ci renderà a noi stessi, secondo l’immagine e somiglianza che ci ha posto nel cuore nella creazione, e sarà davvero festa.
Dietro a questo tema dell’incontro c’è questa immagine, almeno per me. Spesso diciamo che l’esperienza della fede è l’incontro con Dio, perché siamo preoccupati del rischio di soggettivismo –ed è vero – ma la fede è l’esperienza di incontrare se stessi rinati, perché Dio ci dona questo, ci dona noi, restituiti a noi stessi nella forma gloriosa nell’immagine posta in noi alla creazione. Certo, è rischioso dire solo questo perché uno può pensare che è tutta una questione interiore, narcisistica, di guardarsi solo dentro. Non è così, perché bisogna passare attraverso tutti gli incontri e in primo luogo all’incontro con quel Dio totalmente altro, radicalmente diverso da noi. Ma il tempo che ci è dato, così almeno ci dice la scrittura, è quello di meritare di diventare ciò che siamo, cioè figli, figli di Dio, e poterlo diventare come una festa, non semplicemente come una ascesi, una disciplina.
Questo è un po’ l’orizzonte che sta dietro a tutto il percorso ed io spero vivamente che, un passo alla volta ci possiamo arrivare, discuterlo, ragionarci.
L’incontro con la vita
Questa sera ci soffermiamo su Genesi, 18,1-15. E’ un testo molto conosciuto, lo abbiamo già commentato, ma mi sembrava adatto per cominciare. E’ chiamato normalmente l’apparizione di Mamre. Fa parte della storia di Abramo e racconta questo misterioso incontro di Abramo e Sara alla tenda con tre personaggi. E’ un episodio molto rappresentato – abbiamo tutti negli occhi l’icona di Rubliev. E’ un testo denso, per alcuni versi inquietante e, dunque, un testo che ha sempre colpito la fantasia, l’immaginazione di poeti, pittori …
Questo racconto, molto famoso, è stato scelto mesi fa come il primo dei testi perché mi pare metta in ballo la prima e anche l’ultima delle questioni che cercavo di accennare prima: la questione è l’incontro con la vita. Non è l’incontro con Dio, come se Dio fosse un’entità astratta, uno strano essere verso cui non sappiamo bene cosa significa incontrarlo, quanto giocano le nostre proiezioni, dove lo troviamo, se lo troviamo dentro di noi,… è sempre un po’ macchinoso. La prima questione è l’incontro con la vita, un incontro molto complesso, come sa chiunque abbia più di dodici anni. Non è un incontro scontato, – uno si sveglia al mattino, respira, è vivo, dunque ha la vita a disposizione. O, poiché uno frammenta la propria giornata in mille azioni, allora incontra la vita perché ha qualcosa da fare ogni cinque minuti, dunque la vita c’è!? Se è per questo ognuno di noi è perfettamente in grado di riempirsi l’esistenza senza troppa fatica, di farsi prendere dalla routine. L’incontro con la vita è una questione seria che non passa solo dalla testa. Per secoli, per millenni, la figura dell’incontro con la vita è stata quella dei figli. L’immagine dell’avere figli, dell’augurare figli, del generare la vita è stata, per secoli, l’immagine del senso primo ed ultimo dell’esperienza umana, cioè dell’incontrare la vita. E per questo, per esempio, si sono costruiti tabù millenari sulle donne. Intere culture si sono strutturate intorno a questo nucleo.
Ma la scrittura, e qui ce lo dice molto bene, è sapiente e ci chiede di non confondere la figura con la sostanza. Conosce che l’esperienza umana passa in modo primario ad incontrare la vita attraverso un’altra vita che misteriosamente è la stessa dei genitori, perchè sono loro che la mettono al mondo ma, contemporaneamente, è una vita diversa, che ha una sua autonomia, e dunque ci pone di fronte a un dato di fatto, inevitabile. Ma, per esempio, la scrittura ha sempre raccontato storie, e spesso messo al centro, storie di vite senza figli. E il cristianesimo farà di più: esalterà la verginità. Questo per dirci: attenzione, non confondete la figura con la sostanza. La questione di fronte a cui ciascuno è posto – e oggi noi diremmo che non è questione biologica – è la questione di incontrare una vita. La propria, innanzitutto e la vita di tutti. E questa è una questione sacra. E’ solo in questa questione si può incontrare l’autore di ogni vita, che è Dio. Senza questa questione anche l’incontro con Dio è fasullo.
La prima questione, dunque dell’incontro con la vita, è il presupposto che noi non siamo la nostra vita; c’è una differenza tra me e la mia vita; quando io dico ‘io’ dico un insieme di cose belle, importanti, la mia storia, la mia identità, le mie scelte, la mia coscienza, la mia consapevolezza, le cose che desidero, le cose che vorrei cambiare, il mio impegno… ma che la mia vita è di più. E questo è il nucleo fondante dell’esperienza di fede, di ogni esperienza di fede possibile. Senza questo non c’è possibilità di fede, perché alla base di ogni ragionamento di fede c’è la convinzione che la mia vita è nelle mani di Dio, non nelle mie! E dunque è di più di me, è più grande, ha più spazio, ha più forza, più possibilità, più capacità di cambiamento, di innovazione.
Vi chiederei davvero di ragionare molto su questa questione che sembra molto scontata: la non identità tra noi e la nostra vita! Credo che questo sia uno dei problemi di quello che normalmente si chiama secolarizzazione. Per secoli la non identità tra noi e la nostra vita passava attraverso l’impotenza. Non si poteva fare tutto, curare tutto… le culture per secoli hanno detto, di fronte a ciò che era impossibile dal punto di vista tecnico, scientifico, medico,… è la volontà di Dio. In modo molto semplice dicevano: la vita è più grande di noi. Noi siamo in un tempo in cui abbiamo la sensazione che possiamo decidere su tutto – tutto tutto non ancora, al novantanove per cento … ma è solo questione di tempo!!! Ciò che oggi non si può ancora curare, si curerà. Siamo tutti in questa logica assoluta di non riconoscimento e, addirittura, abbiamo trasformato l’esperienza di fede all’interno di questa questione: la fede è scegliere. Scelgo di credere; scelgo di non credere: una forma di autogoverno. Peraltro la più raffinata, perché, mentre io scelgo le cose concrete della vita e ne ho delle conseguenze, – se scelgo di fare un mutuo, poi alla fine del mese devo pagare la rata e se non ci riesco, devo chiedermi qualcosa!- se uno sceglie di credere o di non credere, apparentemente non succede niente. E il delirio di onnipotenza è a tremila! Riflettere sulla differenza tra noi e la nostra vita, è una condizione previa fondamentale.
La scrittura sa che l’immagine è troppo unidimensionale: s’incontra la propria vita nei figli e nella direzione del tempo, che va in avanti, come nei propri genitori, col tempo all’indietro. Ma la scrittura ci dice che gli incontri con la nostra vita non sono solo in una direzione, sono a trecentosessanta gradi. E questo racconto lo mostra bene.
La distinzione… il luogo… la fatica… la pluralità… lo squilibrio…
In questi due versetti c’è una mirabile struttura di base di come inizia ogni incontro con la nostra vita.
“Il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra…”
“Il Signore apparve a lui…”, cioè ci vogliono due soggetti, ci vuole il senso di una distinzione: il Signore e lui, – certo per incontrarsi bisogna essere in due, uno che incontra e uno che è incontrato, è chiaro, sembra lapalissiano. Il problema è che, spesso, se noi non cogliamo la distanza tra noi e la nostra vita, non la incontriamo mai! Se non c’è una distinzione, se non siamo due, se io penso che ho la mia vita, la possiedo… non la incontro mai, perché manca questo primo elemento. E allora riusciamo a dire che incontriamo gli altri, – perché gli altri rimangono sempre diversi da noi, e ce lo ricordano in ogni occasione – e Dio perché, diciamo, Dio non sai mai dove aspettarlo. Però rimane sempre abbastanza distante, così distinto, così diverso, che anche lui riusciamo abbastanza ad evitare di incontrarlo. Rimangono solo gli altri –c’è anche nel vangelo: i poveri li avrete sempre con voi, cioè, quello che rimane a portata di mano sono gli altri. Ma, forse per arricchire un po’ questa situazione, bisogna ricordarsi che da una parte bisogna distinguere noi e la nostra vita, bisogna essere in due, io e la mia vita, per poterci incontrare; dall’altra bisogna riavvicinare un po’ Dio e me per poterci incontrare perché ci vogliono tutti e tre gli elementi.
“Il Signore apparve a lui…”. La distinzione è il punto di partenza di ogni incontro. Si potrebbero fare molti ragionamenti in termini concreti. Per esempio gli psicologi insegnano che il meccanismo di proiezione è una delle cose che creano più caos nel rapporto con gli altri, perché proiettare significa non accettare la distinzione –io vedo l’altro, lo trasformo nella mia testa uguale a me, e dunque, alla fine, prima o poi, andiamo a scontro.
“… alle querce di Mamre …”. C’è un luogo concreto, che poi in realtà così concreto non è. Gli archeologi biblici non sono ancora riusciti a definire con precisione il luogo geografico, ma la scrittura ci dà spesso indicazioni di luogo, nel primo versetto di ogni episodio, per dirci che la situazione è molto concreta, è particolare, un luogo specifico, non è… ‘ovunque’: non è come dire ‘c’era una volta un re…’ E’ dire: ‘quel signore che si chiamava…, in quel posto lì…’ Per noi è anche un’altra cosa: sappiamo dove siamo? Se dovessimo mettere oggi qui il cartello di indicazione di dove siamo in questo momento –non materialmente, ma dove ognuno è rispetto alla propria vita, saremmo in grado di dire ‘sono qua?’. Perché, per potersi incontrare, bisogna darsi un appuntamento. Uno deve sapere dove si trova per poter dire all’altro dove lo può raggiungere.
“… mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno”. Questo è il terzo elemento, attraverso cui appare il realismo della scrittura. Non c’è vita senza una fatica, senza un’ora calda. E gli incontri non avvengono mai appena siamo usciti da una clinica di bellezza o dopo una settimana di vacanza, rilassati e con tutte le nostre energie a disposizione, con il massimo della disponibilità ad incontrare qualcuno, avendo il meglio di sé da offrire. Di solito avvengono nell’ora più calda del giorno, perché, lo vedremo subito dopo, è l’ora in cui siamo sbilanciati. L’ora della fatica è quella in cui non siamo totalmente organizzati, autodeterminati.
“Appena li vide, corse loro incontro …”. Il gesto di Abramo è un gesto di squilibrio. Abramo è in sintonia con questa struttura: corre, si squilibra dall’essere seduto. Subito prima si dice: “Egli alzo gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui”. Questa è l’immagine che colpisce sempre di questo brano. Il gesto dello stare in piedi è signorile e servile contemporaneamente. Dopo, Abramo resterà in piedi vicino a loro che, seduti, mangiano; è l’attitudine del servo, di colui che ha cura. Ma coloro che, arrivando in un luogo sconosciuto stanno in piedi, sono coloro che non si inchinano di fronte all’autorità altrui, ma esprimono la propria. I tre sono signorili, e sono il Signore che apparve a lui, e tre! La tradizione cristiana vede in questo particolare già tutta la dottrina della Trinità, Dio uno e trino. Certo c’è una profonda esperienza di ciascuno di noi, e cioè, nessuno di noi è mai uno, siamo tutti un po’ plurali. Quando siamo troppi, e ce lo raccontano i brani evangelici, diventiamo legione, che è un po’ pericoloso. Quando il demonio viene cacciato dice: ‘Il mio nome è legione’ Troppi è pericoloso; uno solo attiene solo a Dio; noi siamo in mezzo. tre, cinque, sette…. Ma nessuno di noi è abitato da un’anima sola e, dunque, nessuno di noi incontra mai un altro come uno solo. C’è una pluralità nell’incontro.
Questi due versetti hanno una struttura di base: c’è una distinzione necessaria, c’è un luogo necessario, c’è una fatica inevitabile, c’è una pluralità signorile che riconosce l’altro come un soggetto, che sta in piedi, e c’è uno sbilanciamento che mette in moto la storia. Se Abramo non corre, non si sbilancia, non succede niente. In tutti gli incontri, nella scrittura, c’è la descrizione di alcune premesse e poi c’è uno che cammina, o corre, uno che rompe l’equilibrio; e allora la storia comincia.
Abramo, però, fa un gesto non signorile: si prostra fino a terra. Di fronte ai tre in piedi non rimane in piedi anche lui. Riconoscere la soggettività dell’altro implica anche metterlo in condizione di debolezza, che è uno dei nostri problemi – lo dico a livello degli incontri umani, ma vale a tutti i livelli – se io riconosco che l’altro è un soggetto, libero a tutti gli effetti, che la mia vita è più grande di me, questo mi rende più fragile ai suoi occhi. Di solito ognuno di noi si difende rimanendo in piedi e cercando di far prostrare l’altro! Qui, però, per incontrare davvero l’altro, bisogna accettare uno spazio di debolezza, di fragilità, bisogna mostrare un fianco, bisogna scoprire l’armatura, perché altrimenti non si incontra l’altro. Questo vale anche rispetto alla nostra vita, che è dunque un’esperienza spesso dolorosa, perché di solito non avviene che io mi scopro, mi indebolisco e l’altro mi tratta benissimo; a volte sì, ma a volte io mi scopro e l’altro mi dà una mazzata; io non sono difeso, e mi faccio male. Non è detto che vada sempre bene. Oppure, io mi scopro rispetto alla vita perché le do fiducia, e mi arriva una roba che vivo come una mazzata, e, siccome io ho tolto lo scudo, mi fa molto male; e tutti pensiamo che sarebbe stato meglio rimanere più difesi.
La vita ci visita per grazia
“ …si prostrò fino a terra, dicendo. ‘Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo”.
Dunque Abramo si prostra e fa questo discorso stranissimo: acqua per lavarsi, cibo e ‘rinfrancatevi il cuore’. Ogni esegeta spiegherà che questo è probabilmente ritagliato da un’altra tradizione, che rimanda a tutta una serie di usi dell’ospitalità – tutto vero, come diagnosi: spiega il perché di questo linguaggio. Ma noi crediamo che la parola di Dio è parola per noi così com’è, nel risultato della sua elaborazione storica.
Dunque qui ci viene detto che misteriosamente, senza un motivo apparente, senza che ci sia stata una richiesta, senza che questi abbiano ancora aperto bocca, Abramo riconosce in questa vita che lo visita, il desiderio di trovare grazia “…è ben per questo che siete venuti”. La vita ci visita per grazia. Prima che questi abbiano detto qualsiasi parola… E mi piace pensare che questo è uno degli elementi per cui San Paolo dice che Abramo è giustificato per la fede. La sua fede ‘prima’ è la fede in questa vita che lo visita e nella scommessa che la vita che lo visita è una vita di benedizione; c’è una grazia in attesa, è per questo che la vita lo visita. Ed è certo, la fede che accompagna tutto il suo racconto. Ma, mentre per noi è molto immediato, perché consono alla nostra cultura, l’idea di Abramo che esce dalla sua terra, lascia tutto – e ci sembra un gran gesto di fiducia perché capiamo che mollare e mettersi in viaggio… è un’immagine che ci suona bene, che riconosciamo – riconosciamo con maggior difficoltà che l’esperienza della fede di Abramo è l’esperienza della fede in una vita potente, in una vita che è grazia e benedizione. La ritroveremo in un altro degli episodi che in genere non ci piacciono della storia di Abramo, che è il sacrificio di Isacco. Anche lì, di fronte ad una parola apparentemente di assoluta morte, quell’unico figlio della vecchiaia, viene chiesto in sacrificio! Per noi è troppo. Anche lì lui ha fiducia che la vita che lo visita è una vita di grazia, di benedizione. Questa è l’esperienza della fede. Non è facile! Nessuno ha mai detto che la fede sia un’esperienza facile. Come abbiamo detto tante volte, è abitare poggiando i propri piedi sul pezzo che non governiamo. L’esperienza della fede non è credere in Dio come un concetto – credo che Dio esista; potrei dire allo stesso modo, credo che Dio non esista, è uguale, è sempre un’affermazione di tipo intellettuale. Il problema non è se, intellettualmente, credo un elenco di verità, quanto piuttosto se io vivo appoggiato su quella grazia e benedizione della vita che non sta in mio potere, che mi visita e a volte mi visita sotto il segno del contrario, per esempio di una vita come quella di Isacco, in attesa, poi arrivata, e che mi viene chiesta indietro. E Abramo riesce a rimanere faticosamente, senza smettere di borbottare, da quella parte, a non ritirarsi nel pezzo della vita che lui governa e decide.
“… se ho trovato grazia ai tuoi occhi non passare oltre senza fermarti…”. Ci sono due espressioni, una è questa, l’altra è una preghiera antica della tradizione cristiana che anche sant’Ignazio riprende, che io amo molto perché, almeno secondo la mia sensibilità, dicono molto bene l’esperienza profonda della fede cristiana: non passare oltre senza fermarti e che io non sia mai separato da te. Sono le due invocazioni di chi attende, e di chi cerca di raccogliere ciò che è un dono, ciò che non può decidere da solo. Sono il correre incontro, l’essere totalmente sbilanciato da sé. Credo che spesso noi fatichiamo ad incontrare Dio, la nostra vita, i fratelli perché raramente sappiamo chiedere ‘non passare oltre senza fermarti’.
Poi Abramo organizza un’ospitalità adatta al tempo e al luogo, mette a frutto le cose che sa, che capisce, quelle che ha in mano, non fa ragionamenti astratti, mette mano a Mamre e all’ora calda, a quello che ha. Non sta a chiedersi cosa vorrà Dio da me, qual è la mia vocazione, cosa devo fare per fare la sua volontà, ma semplicemente fa il meglio che può in quella situazione di fronte a chi ha l’apparenza di un pellegrino e dice: acqua, cibo, e riposo, ‘rinfrancatevi il cuore’. Sono queste le cose in suo potere, il pezzo della vita che gli appartiene, quello su cui lui deve decidere, muoversi, alzarsi, mettere in moto il meccanismo. E’ paradossale come noi spesso rovesciamo le due cose: decidiamo su ciò che non ci compete e poi siamo tutti seduti, calmi e tranquilli su ciò che ci competerebbe.
In fretta
“Allora Abramo andò in fretta…”. Sapete che questa è una delle mie ossessioni. Se uno facesse la recensione di quante volte c’è scritto in fretta nella scrittura, ne rimarrebbe colpito: è una delle parole più costanti, che compare continuamente. C’è sempre un’urgenza, una fretta, un punto del racconto in cui si deve fare in fretta! C’è tutta la storia della salvezza, dura quattromila anni, Dio ha grande pazienza, le cose sono tirate per le lunghe… e poi c’è un punto in cui … allora in fretta … andarono al sepolcro, …si alzò in fretta e andò da Elisabetta, … Ho sentito una volta la spiegazione di un rabbino che parlava delle prescrizioni per la Pasqua in cui si dice: mangerete con i calzari cinti, il pane non lievitato… perché non avrete avuto tempo, siete partiti in fretta… E il rabbino si domandava: ma se le prescrizioni per la Pasqua sono state date molto prima che accadesse, avrebbero avuto tutto il tempo per far lievitare il pane! Cosa vuol dire in fretta? Perché questa simbologia del dover fare in fretta? E la sua spiegazione: ‘Perché, per quanto ci prepariamo, la salvezza ci prende sempre alla sprovvista!!’.
Non c’è modo di non essere presi alla sprovvista dalla grazia di Dio. E il segno della fretta, nella scrittura, è sempre questo. Uno ha pensato, organizzato, e poi… è in ritardo. E questa è un’immagine che noi possiamo capire benissimo, perché il novanta per cento di noi campa in ritardo su qualsiasi cosa o per lo meno con la sensazione del ritardo. Spesso non è nemmeno vero che siamo in ritardo, ma viviamo sommersi, pensando sempre alle dieci cose che dobbiamo fare entro domani. Magari, poi, le facciamo in dieci minuti, ma abbiamo l’ansia perché le pensiamo tutte in fila. La salvezza è l’esatto contrario: per domani devi fare mezza cosa, hai tutto il tempo del mondo e comunque, quando quella mezza cosa sarà necessaria, la dovrai fare in fretta. Quindi, per intanto ti puoi riposare! Questo è il succo: fin che non arriva quel momento, è inutile agitarsi prima!
La custodia
Abramo prepara il pasto e, “mentr’egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono”. Questo versetto chiude la struttura dell’incontro. La seconda parte racconta una piccola storia. L’atteggiamento di Abramo che ha accolto la distinzione, sbilanciandosi nella corsa, si chiude con un atteggiamento di cura. Sbilanciarsi nell’incontro dell’altro non ha come finale, che dunque mi dicono bravo! Se io mi sbilancio nei confronti dell’altro, poi mi tocca prendermi a cuore i suoi mal di pancia. E questa è un’altra delle cose che a noi rimane un po’ indigesta, perché, va be’ io ho fatto il primo passo, adesso un po’ per uno! Invece sbilanciarsi nei confronti dell’altro, della vita, è mettere in moto il primo sassolino di una valanga. Dopo è peggio. Perché dopo non riesci più a liberarti della cura dell’altro. Sbilanciarsi è solo l’inizio della custodia dell’altro. Non è ancora il pranzo della festa, dove Abramo può festeggiare. Questo è il pranzo della custodia della diversità dell’altro, in cui la diversità dell’altro, la sua distinzione viene custodita. Infatti subito dopo, e per i buoni conoscitori della scrittura, l’assonanza è immediata, la domanda è: “Dov’è Sara, tua moglie?”. Immediatamente suona come “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Sono forse io il custode di mio fratello? La risposta è Sì. Questo atteggiamento di custodia ha immediatamente una domanda: Dove? Dov’è l’altro? –non tu, l’altro. E qui: dov’è Sara, tua moglie? E’ come se ogni incontro non potesse mai funzionare se non c’è una domanda su un altrove. Dov’è quello che manca qui? Dov’è tutto il resto della vita? Dove sono i poveri?
“Dov’è Sara, tua moglie? Rispose: ‘E’ là nella tenda”. E’ più preparato di Caino; Abramo che è uomo di fede, dice, lo so dov’è Sara, è nella tenda dove stanno le donne, è nel posto giusto dove deve essere. E dunque questo riconoscimento su un luogo produce una promessa nel tempo: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio”. Qui è l’immagine, la vita fiorirà, c’è una promessa di vita feconda. Ogni incontro è una promessa …in genere non mantenuta. Cioè, a noi sembra che ogni incontro è una promessa, poi però tutti ti deludono, perché non le mantengono. Infatti, il problema degli incontri non è mantenere le promesse, ma farle. Le promesse non sono fatte per essere mantenute. Le promesse della vita sono fatte perché uno possa vivere un altro anno!
Abramo e Sara erano vecchi, e c’è tutta la spiegazione parabiologica, ma, per un buon conoscitore della scrittura, anche qui, l’immagine è quella del vecchio Tobi e il giovane Tobia. Il vecchio Tobi devoto, cieco, che seppellisce cadaveri, e il giovane Tobia che si mette in viaggio e trova moglie, discendenza, salute. Abramo e Sara, prima del passaggio di questi tre personaggi, erano il vecchio Tobi; dopo sono il giovane Tobia, cioè sono capaci di abbandonare tutte le tombe, i cadaveri … e di andare verso una festa.
“Allora Sara rise dentro di sé…”. Questi versetti sono bellissimi. C’è il battibecco sul ridere di Sara. Sapete che il nome Isacco viene spiegato, come etimologia fasulla, come figlio del sorriso, proprio in relazione a questo battibecco. Sara ride. “Perché Sara ha riso? … “non ho riso”.…Come i bambini.
“…Sara negò: ‘Non ho riso!’, perché aveva paura”. La contiguità tra il ridere e la paura è strana. Sara ride un po’isterica, evidentemente, ride d’imbarazzo, ride di incertezza rispetto a questa vita. Ma la sua risata provoca un’affermazione potente: “C’è forse qualche cosa impossibile per il Signore?”. La sua risata ha un bel ruolo: non prendere troppo sul serio la faccenda, e dire: discorsi da uomini, – come avrà commentato Sara – provoca un’affermazione potente che chiude il cerchio con la distinzione dell’inizio. Il fatto che ciascuno di noi non sia la propria vita, non possa governare tutto della propria vita, dice forse che ciò che non governiamo non accade? No. Ciò che non è nelle nostre mani, fortunatamente, accade. E ciò che non è nelle nostre mani sarà benedizione. Nulla è impossibile. E l’esercizio della fede è l’esercizio di non smettere mai di abitare ciò che non è nelle nostre mani, per abitare la benedizione perché nulla è impossibile a Dio. Che non vuol dire che è superman che risolve tutti i problemi. Vuol dire che ciò che sta nella sua mano è fecondo di benedizione. E’ una vita che fiorisce.
DOMANDA: hai detto: le promesse non sono fatte per essere mantenute. E’ una cosa che mi è stata un po’ lì! …Il Signore ce ne ha fatte tante. Non le mantiene?
RISPOSTA: questo non lo possiamo sapere. Lo sapremo solo l’ultimo giorno. E probabilmente, quando lo sapremo, non ci importerà più.
Il problema di una promessa non è nel suo esito, ma nella storia che la promessa produce. E’ come chiedersi, per uno che va in montagna e va a camminare: E’ più bello camminare, o arrivare? E’ una domanda sbagliata. E’ vero che è bello arrivare; però se parti e dopo due passi sei arrivato, non c’è nemmeno gusto! Il bello dell’arrivare è il fatto che dietro ci sta una camminata, hai fatto fatica, hai visto delle cose… Il bello di una camminata in realtà è fare la camminata, e poi anche arrivare. Il bello di una promessa è la storia che quella promessa mette in moto. E quando uno dice: starò con te per tutta la vira, ti amerò per sempre. Non è detto che questo accada, non sappiamo se sarà per tutta la vita. Peraltro, per sempre non può accadere, perché … siamo mortali. Ma è vero che quella promessa è il poi di tutti i giorni, di una vita giocata insieme. Dio non è credibile perché compie le sue promesse, ma perché ci fa vivere nelle sue promesse. Perché le sue promesse tessono una storia che ci consente di continuare a vivere con lui. Così come noi non siamo amabili per Dio perché l’ultimo giorno fa la somma e abbiamo più opere buone che peccati. Siamo amabili per Dio perché abbiamo vissuto ogni giorno la nostra vita più felicemente, o confusamente, o faticosamente, con lui. E dunque alla fine ci sarà detto: Vieni servo buono e fedele. In questo senso la promessa della fecondità della vita non vuol dire che, allora, da domani andrà tutto bene. La promessa sulla fecondità della vita è la possibilità di continuare ad appoggiarsi su quel pezzo di vita che ancora non so, non vedo, non è fiorito …nella certezza che fiorirà … fino all’ultimo giorno; nel dire: c’è ancora uno spazio.

Fossano, 13 ottobre 2007

(testo non rivisto dall’autore)

III. «OBBEDIENTE FINO ALLA MORTE» (Fil 1,27; 2,11)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/de_virgilio_filippesi3.htm

PER ME IL VIVERE È CRISTO! 

Giuseppe De Virgilio

Una lettura vocazionale di Fil 1,12-2,18 

III.  «OBBEDIENTE FINO ALLA MORTE» (Fil 1,27; 2,11) 

III. 1 LECTIO

27 Comportatevi dunque da cittadini degni del vangelo di Cristo, perché sia che io venga e vi veda, sia che io rimanga lontano, abbia notizie di voi: che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del vangelo, 28 senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari. Questo per loro è presagio di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio. 29 Perché, riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in Lui, ma anche di soffrire per Lui, 30 sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora.

2,1 Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2 rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con un medesimo sentire e con la stessa carità. 3 Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. 4 Ciascuno non cerchi il proprio interesse, ma anche quello degli altri.
5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù:
6 egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
7 ma svuotò se stesso,
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
8 umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
9 Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome;
10 perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
11 e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.

La seconda parte della nostra Lectio comprende due unità, introdotte da due particelle avverbiali (1,27: monon «soltanto»; 2, 1: oun «dunque»): Fil 1,27-30, in cui si riporta l’esortazione a «vivere come cittadini degni del Vangelo» e Fil 2,1- 11 in cui Paolo invita i cristiani a «rendere piena la sua gioia» mediante l’adesione a Cristo, che si fece servo obbediente di Dio fino alla morte (31). 
Nel v. 27 l ‘avverbio «soltanto», in posizione enfatica, sottolinea il passaggio ad una sezione esortativa. Dopo aver presentato la situazione del Vangelo e l’incoraggiamento dei cristiani nell’impegno per l’evangelizzazione, Paolo assume un deciso tono esortativo, con una serie di imperativi che spingono i Filippesi a vivere nell’unità e nell’umiltà la testimonianza della fede (32). Il primo imperativo è politeuesthe (comportatevi da cittadini), applicato al modo di vivere degno del Vangelo di Cristo.
L’interpretazione del verbo (33) può intendersi in senso generico di un comportamento sociale nel contesto della città macedone, oppure il verbo può essere interpretato alla luce di Fil 3,20, dove l’Apostolo tratta della «cittadinanza celeste» (to politeuma en ouranon), con un chiaro riferimento alla dimensione escatologica della fede cristiana. Questo invito costituisce il motivo dominante dell’esortazione paolina ai Filippesi: essi sono chiamati a dare una qualificata testimonianza di unità(essere saldi in un solo spirito) e di lotta «per» la fede del Vangelo (34).
Nel v. 28 l ‘allusione agli avversari (antikeime­non) indica la situazione di prova in cui versa la Chiesa filippense. Si tratta di coloro che si oppongono al messaggio della salvezza e che perseguitano i credenti. Paolo esorta tutti i credenti a «lottare insieme», mettendosi dalla parte di Dio. La forza della fede aiuterà la comunità cristiana anche a «soffrire per Cristo» (v. 29: to hyper autou paschein), condividendo il medesimo combattimento (v. 30: ton auton agona echontes) che l’Apostolo sta conducendo nella lontana sua prigionia. Sia nella professione di fede che nella comune lotta contro gli avversari del Vangelo, Paolo e la Chiesa di Filippi devono sentirsi uniti e chiamati a vivere nella comunione vicendevole una coraggiosa presenza cristiana.
In 2,1 con l’avverbio «dunque» (oun) si apre la seconda unità, che raccoglie l’accorato appello di Paolo alla concordia nel «modo di sentire» e nelle relazioni interpersonali. Il tono del discorso è intro­dotto da quattro brevi frasi condizionali («se c’è.. .»), che delineano in modo essenziale lo stile di vita della Chiesa. La consolazione (paraklesis), il conforto (paramytion), la comunione nello spirito (koinonia tes pneumatos) e le viscere e compassione (splagchna kai oiktirmoi) sono le quattro prerogative della vita comune che l’Apostolo chiede ai Filippesi di ravvivare.
La consolazione è la capacità di sostenere l’altro che vive nell’angoscia (cf. Mt 5,4). In questo caso la figura di Paolo è allo stesso tempo bisognosa di consolazione e consolatrice. Il conforto dell’amore completa l’atto del consolare, partecipando all’altro la capacità di amare e di riempire i vuoti della solitudine. Vi è poi la «comunione dello spirito» che implica il coinvolgimento di tutto l’essere che si dona all’altro in modo gratuito ed incondizionato. Infine i due sostantivi plurali «viscere e compassione» indicano i sentimenti profondi che governano la persona umana e le permettono di comunicare la ricchezza interiore delle proprie emozioni.
L’argomentazione paolina culmina nel v. 2 con l’imperativo aoristo plerosate (rendete piena) seguito dal complemento oggetto mou ten charan (la mia gioia). Paolo invita i Filippesi ad un «sentire unanime» (to auto phroneters, a condividere l’amore e ad essere concordi. Questa sottolineatura della comunione e dell’unità si contrappone alle espressioni del v. 3, in cui si citano gli atteggiamenti negativi da evitare: non agire «per rivalità» (kat’ eritheian) né «per vanagloria» (kata kenodoxian), atteggiamenti che generano divisioni e chiusure nella comunità.
Al v. 4 la raccomandazione di Paolo spinge i cristiani alla reciprocità, facendosi partecipi dell’ interesse dell’altro; letteralmente, «non guardando ognuno alle proprie cose» (v. 4: me ta eauton eka­stos skopountes), «ciascuno sappia guardare (anche) alle cose dell’altro» (ta eteron ekastoi). Si costruisce la comunione ecclesiale solo nella capacitàdi saper perdere se stessi e il proprio prestigio personale per il Vangelo (cf. Mt 10,39). In Paolo la parola pronunciata diventa «testimonianza vivente»proprio a motivo della sua condizione di prigionia! I destinatari di questa lettera ne sembrano coscienti, dimostrando una solidarietà senza limiti con l’Apostolo e le sue tribolazioni (36).
Al v. 5 è inserita un’ulteriore breve esortazione, con la ripetizione dell’imperativo phroneite (abbiate un medesimo sentire) che riassume il contenuto essenziale delle precedenti espressioni parenetiche. Il «sentire unanime» dei cristiani deve essere commisurato a Cristo Gesù, la cui persona è presa come modello essenziale su cui « configurare » (syn­morphizo: cf. Fil 3,10.21; Rm 8,29) la vita personale e comunitaria dei credenti37. In tal modo l’Apostolo introduce i suoi lettori al notissimo brano cristologico, mirabilmente incastonato nei vv. 6-11. Va rilevata la formula finale «in Cristo Gesù» che richiama in modo inclusivo l’inizio del brano parenetico di Fil 2,1.
La composizione cristologica (38) si colloca all’interno dell’esortazione paolina, introdotta dal pronome relativo os (il quale) e seguita da tra verbi all’aoristo indicativo: «non considerò» (ouch egesato), «svuotò se stesso» (ekenosen heauton), «umiliò se stesso» (etapeinosen heauton) e successivamente dal soggetto o theos (Dio) che regge altri due verbi in aoristo che hanno come complemento oggetto la persona del Cristo: «lo sopraesaltò» (auton hyperypsosen), «gli donò» (echarisato auto). Si tratta di un testo narrativo assai complesso (39), che ha conosciuto un’articolata storia interpretativa (40), per via della corretta comprensione di alcuni termini collegati alla natura, alla funzione e alla preesistenza del Cristo (41).
Leggendo il brano cristologico appare evidente la divisione in due unità letterarie all’insegna del duplice movimento dell’abbassamento (vv. 6-8) e dell’innalzamento (vv. 9-11) collegate dalla congiunzione «e perciò» del v. 9 (dio kai) e contrassegnate dalla diversità dei soggetti. Nella fase dell’abbassamento il soggetto è Cristo, mentre in quella dell’innalzamento è Dio. Cristo liberamente «discende» dalla sua condizione divina, si abbassa dal suo trono altissimo fino a prendere la forma umana e a morire in modo ignominioso sulla croce. I tre gradini della discesa del Cristo sono: l’umanità, la morte e la croce. Barbaglio sottolinea la libera scelta di Cristo di rinunciare alla sua condizione divina, di svuotarsi volontariamente e di abbassarsi nella completa obbedienza: tutto questo per amore e per ottenere la salvezza dell’umanità (42).
Nei vv. 9-11 viene descritta la «risposta» di Dio all’azione « kenotica » del Figlio: dopo essersi abbassato fino alla morte in croce, Dio ha « superesaltato » il Cristo donando gli il « nome » più eccelso che esista, il nome divino di «Signore» (v. 11: kyrios). La conseguenza di questa esaltazione è duplice: affinché tutti («in cielo, in terra e sotto terra») si inginocchino e facciano la loro confessione di fede nella divinità del Cristo, signore del cosmo e della storia.
Consideriamo più da vicino i singoli versetti. Il v. 6 si apre con il pronome os riferito a Gesù Cristo, il quale «essendo nella condizione di Dio» (en morphe theou) scelse liberamente di entrare nella «condizione di servo» (en morphe doulou). Si nota il parallelismo tra condizione divina e condizione servile (43). La condizione «di Dio» non fu ritenuta un «privilegio» (harpagmon) («qualcosa da trattenere») (44) ma un «dono» per un progetto più grande, che equivale alla sua missione nel mondo. Nel v. 7 con un’avversativa (alla) si dichiara la scelta paradossale e libera del Cristo: «svuotò se stesso» (heauton ekenosen) per prendere la condizione umana. Va notata la singolarità del verbo kenoun (vuotare, annientare) (45), che esprime l’azione della totale spoliazione del Cristo per farsi uno con l’umanità.
L’espressione si rivela intensa e profonda. Sembra richiamare alla mente, pur nella diversità dei termini, la consegna alla morte del «servo sofferente» in Is 53,12.
Nel v. 8 prosegue l’azione dell’abbassamento con un secondo verbo: «umiliò se stesso» (tapei­noun heauton), che esprime lo stile assunto dal Cristo nello scendere attraverso la storia dei piccoli e dei poveri fino all’estremo. È l’azione del farsi po­veri che diventa ricchezza per i credenti (cf. 2Cor 8,9: eptokeusen). Il fatto che il Figlio diventi «obbediente» (genonenos hypekoos) fino alla morte e alla «morte di croce», implica il senso gratuito di questa scelta, che non è frutto di una cieca fatalità né di un meccanismo, bensì di una fedeltà piena a Dio e alla sua missione. L’obbedienza del Figlio culmina nella morte (thanatos): essa indica il massimo grado di sottomissione e la specificazione «morte di croce» esprime il massimo punto di degradazione della condizione umana. Non poteva esserci descrizione più toccante della vicenda del Cristo, fedele al Padre. Rileva Fabris: «Al centro di questa scelta sta la sua radicale ed assoluta fedeltà. Questo elemento contraddistingue il suo essere uomo tra gli uomini, esposto alla miseria della morte crudele ed ignominiosa della condanna alla croce» (46).
    Nel v. 9 il nuovo soggetto diventa Dio il quale, di fronte al dono gratuito e paradossale del Figlio «disceso nell’umanità fragile e mortale», ha scelto di «sopraesaltarlo» (hyperypsosen)(47). L’azione di Dio si concretizza nel dono del «nome sopra (hyper) ogni altro nome»: si tratta del nome di «signore» (kyrios) con cui termina il brano al v. 11 e che designa la dignità e la sovranità della stessa posizione del Cristo, partecipe della signoria universale ed assoluta di Dio (48).
Nei vv. 10-11 si delinea la conseguenza dell’esaltazione del Cristo con due subordinate introdotte dalla finale ina (affinché): «ogni ginocchio si pieghi» (pan gony kampsen) e «ogni lingua proclami» (pasa glossa exomologesethai) (49). In queste immagini viene rappresentata la dignità assoluta che Gesù riceve in modo unico e sommo da tutti gli esseri viventi, in cielo, in terra e sotto terra. Tale omaggio è suggerito dal gesto di prostrazione (cf. 1s 45,23; Rm 11,4) e di proclamazione «cosmica» («ogni lingua», cf. Is 66,18b; Dn 3,4.7) che culmina nell’affermazione finale del brano: Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre (cf. Rm 10,9-10).
Questo titolo cristologico corrisponde nella Bibbia al tetragramma ebraico JHWH, che è il nome di Dio (cf. Es 3,15; Sal 99,3). In altre parole: al Cristo umiliato ed esaltato viene attribuita la signoria unica ed assoluta che nella tradizione biblica era propria di Dio (50). Questa designazione è da considerarsi il punto di arrivo del brano cristologico e allo stesso tempo l’esperienza intima e mistica che Paolo ha vissuto nel mistero della sua missione a servizio del Vangelo. 

III.2 MEDITATIO 
La seconda unità contiene il cuore del messaggio cristologico della lettera. Da appassionato predicatore della Parola, Paolo rivolge ai cristiani di Filippi una fondamentale esortazione: la capacità di «sentire insieme» a Cristo. L’avventura vocazionale a cui è destinata la comunità filippense dipende dall’unione con il Figlio obbediente ed esaltato da Dio Padre. Questa dinamica spirituale consente ai credenti di divenire «cittadini degni del Vangelo» (Fil 1,27). La metafora della cittadinanza indica la dimensione relazionale della vita cristiana. Essa si svolge all’interno di una città, che è abitata da uomini e donne che cercano la pace. Il cristiano deve poter contribuire alla crescita della «città» attraverso la sua personale e comunitaria testimonianza di «unità» .
In collegamento con il precedente brano paolino, un secondo motivo è costituito dall’immagine del «combattimento condiviso» da tutti (synathlountes) «per» (o «per mezzo») della fede. La predicazione della Parola chiede di spendersi personalmente e di pagare il prezzo della sofferenza. Non c’è vocazione che non sia «pagata a caro prezzo», non c’è missione che non comporti un coraggioso coinvolgimento nel donarsi e nel soffrire per il Signore. L’Apostolo chiede ai Filippesi di «stare saldi», di non «lasciarsi intimidire» (Fil 1 ,28) dagli avversari e considera la sofferenza come una «grazia» (1,29: echaristhe) assunta «a favore» (hyper) di Cristo. Paolo stesso rappresenta un «esempio nella lotta»: quelle catene portate per Cristo sono l’eloquente messaggio di come può essere interpretata la missione dei cristiani.
Tuttavia il fondamento della novità del Vangelo va cercato nella stessa persona e missione del Figlio di Dio. In Fil 2,1- 4 l ‘Apostolo invoca la pienezza della gioia cristiana e rinnova l’invito a non interpretare diversamente il cammino della fede: esso deve necessariamente seguire le stesse orme di Gesù Cristo (cf. 1 Pt 2,21). È utile meditare ed attualizzare i termini che l’Apostolo impiega per parlare al cuore dei credenti: la consolazione, il conforto, la comunione, le viscere e i sentimenti che albergano nell’uomo. Tutto l’uomo deve essere per «tutti i credenti» in un solo spirito, senza interessi e prestigi personali. La comunità cristiana può ben definirsi nell’ accoglienza reciproca, soprattutto nel segno dell’ Eucaristia.
Il brano cristologico di Fil 2,6-11 ci chiede di meditare sull’unicità della storia di amore che Dio ha voluto e realizzato attraverso il Figlio. Introdotto al v. 5 con l’invito a condividere i medesimi sentimenti di Cristo Gesù, il brano cristologico costituisce una delle più profonde e ricche sintesi del mistero cristiano. Entrare nella «spoliazione» e nella «umiliazione» del Figlio amato, che per amore sceglie di farsi il più piccolo e il più povero tra gli uomini. Non poteva esserci strada più significativa e tangibile per rivelare la vicinanza di Dio all’umanità. E di questa umanità il Figlio non condivide solo la vicenda dolorosa e la debolezza sofferente, ma Egli si immerge nell’«ultima solitudine» che è la nemica morte. Lo scandalo della morte e della terrificante disfatta sulla croce si consegna agli occhi del mondo come contrassegno di un amore senza limiti e senza compromessi.
Tuttavia la missione del Figlio è accolta dal Padre: egli lo ha esaltato «sopra tutti e tutto». Il servo è diventato «signore», la spoliazione e l’umiliazione si sono tramutate in esaltazione: nel trionfo della risurrezione e della vita, Cristo esercita la signoria dell’amore e la sua missione porta il frutto della riconciliazione e della pace. Pertanto i Filippesi devono guardare al Figlio di Dio, conformando la loro esistenza e le loro scelte con la forza di quello stesso amore che ha mutato la morte in vita, la debolezza in forza, lo scandalo della croce in vanto di gloria.
Emerge dalla nostra essenziale analisi la ricchezza spirituale di questa splendida pagina paolina. Il contesto parenetico dell’unità non deve indurci a ritenere queste considerazioni delle pie esortazioni, ma deve spingerci a conformare tutta la no­stra esistenza vocazionale al progetto di Dio in Cristo Gesù. Misurato con la vicenda del Cristo, umiliato ed esaltato, il cristiano è in grado di interpretare la storia con le categorie e lo stile indicato dal Vangelo. Allo stesso modo ogni scelta vocazionale non potrà che ispirarsi allo schema cristo logico della croce e della gloria, dell’annullamento (kenosi) e della glorificazione (doxa), della concretezza dell’oggi, vissuto nella quotidiana lotta per la fede del Vangelo e della speranza nel domani, atteso in uno stile operoso, nella fiducia che Dio realizzerà le sue promesse. 

III. 3 ORATIO
     «Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo» 
A voi pellegrini che solcate le strade della vita,
mentre questo tempo scorre inesorabilmente,
cercando nell’uomo e nelle sue innumerevoli risorse,
una risposta alla domanda di felicità,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».
A voi ragazzi e ragazze,
speranza di un futuro migliore,
costretti spesso ad inseguire
l’affetto dei vostri cari,
distratti dalle mode e confusi
dai luccichii dei desideri,
desiderosi di capire
e di sedervi alla festa della vita,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo». 
A voi giovani,
coraggiosi interpreti
delle ansie del mondo,
spesso feriti o delusi
dall’atteggiamento degli adulti,
mentre cercate di dare un senso
alla vostra presenza in questa storia,
gridando l’insopprimibile bisogno di amore
e di comprensione,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».
A voi padri e madri,
cittadini di una società stanca ed opulenta,
che nella famiglia e
nel lavoro inseguite sicurezze sfuggenti,
carichi di troppe stanchezze,
logori di insofferenze e di oblii,
volete con tutto il cuore un futuro sereno
per la vostra discendenza,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».
A voi adulti, attenti giudici
delle regole della convivenza,
che muovete le leve della produzione
e della ricchezza,
tra fragili equilibri,
nuove sfide e grandi aspirazioni,
nella ricerca dell’unità e della pace,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».
A voi anziani,
testimoni della sapienza degli anni,
che avete imparato a riassumere
un passato senza rimpianti,
costretti talvolta all’inerzia
e relegati nella solitudine dei giorni,
memori delle fatiche e bisognosi
di nuove rassicuranti presenze,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».
A voi che oggi scorrerete queste pagine,
comunque sia il vostro vivere,
tra incroci e labirinti che segneranno
le vostre giornate,
forse nel servizio appassionato
al Vangelo per l’uomo,
o mossi da una flebile domanda
su Dio e sull’amore,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo». 

III.4 CONTEMPLATIO
     «Il Figlio, servo obbediente della missione»
La focalizzazione cristologica caratterizza questo ulteriore momento della nostra lettura vocazionale. Infatti la missione del Padre si realizza nell’obbedienza del Figlio amato, Gesù Cristo. L’Apostolo tratteggia con una impareggiabile riflessione la vicenda di Cristo. In Fil 2,6-11 siamo chiamati a contemplare Gesù in tutti i momenti del suo donarsi per la salvezza del mondo.
In primo luogo ci soffermiamo sulla dimensione del Cristo come «Figlio» (houios). Scrivendo ai Romani Paolo afferma che il Padre «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi»(Rm 8,32; cf. Gal 4,4). La missione che Dio ha voluto nel Figlio ha una sua chiara finalità: «affinché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). La vocazione a cui Gesù ha risposto nasce dall’amore «filiale», mediante il quale Dio ci ha riconciliati a sé (Rm 5,10).
Una seconda dimensione è significativa nella qualifica di «servo» (doulos). Pur essendo nella prerogativa filiale e nella piena » condizione divina, Cristo ha liberamente deciso di «farsi servo» per amore. Il servo non è colui che esercita un servizio (ministero) rimanendo libero, ma rimane per tutta la vita legato al suo padrone come schiavo. La forma della schiavitù (a cui si collegano alcune metafore paoline quali il «sigillo») è la strada che Cristo ha scelto per amare l’uomo ed annunciare la salvezza. Paolo stesso assume questa metafora per parlare del suo apostolato in favore del Vangelo, come «schiavo per il Vangelo» (cf. Rm 1,1; 1 Cor 9,19; Tt 1,1).
Una terza condizione è data dall’ obbedienza (hypakoe), prerogativa centrale nella riflessione paolina. Dall’ etimologia del termine «obbedienza» (ob-audire) ricaviamo il valore dell’ ascolto della Parola, che un Altro, al di sopra di noi, ci rivolge. Come per Cristo, così anche per noi, l’obbedienza significa anzitutto disponibilità nell’ascolto e capacità di lasciarci colmare nel cuore. In Ef 1,11-14 si registra la dinamica dell’ascolto che produce l’obbedienza della fede e il dono dello Spirito: 
«In lui [Cristo] siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà, perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo. In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria».
Secondo questa prospettiva, la missione del Figlio può realizzarsi unicamente nell’obbedienza totale alla volontà del Padre. Contempliamo Cristo che si consegna eternamente e perdutamente nella volontà e nella libertà a Dio suo Padre. Anche l’autore della Lettera agli Ebrei riassume il senso dell’obbedienza di Cristo nell’affermazione: «Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8). Per la Sua obbedienza noi siamo stati redenti ed è stata distrutta la disobbedienza del peccato. Conclude Paolo: «come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19).
Per vivere questo momento di preghiera e di contemplazione, ti invito a riflettere su un passaggio della lettera enciclica di Benedetto XVI, Spe Salvi (2007): 
«La vera grande speranza dell’uomo, che esiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora « sino alla fine », « fino al pieno compimento » (cfr. Gv 13,1 e 19,30). Chi viene toccato dall’amore comincia ad intuire che cosa propriamente sarebbe « vita ». Comincia ad intuire che cosa vuoi dire la parola di speranza che abbiamo incontrato nel rito del Battesimo: dalla fede aspetto la « vita eterna » – la vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la sua pienezza è semplicemente vita. Gesù che di sé ha detto di essere venuto perché noi abbiamo la vita e l’abbiamo in pienezza, in abbondanza (cfr. Gv 10,10), ci ha anche spiegato cosa significhi « vita »: « Questa è la vita eter­na: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo » (Gv 17,3). La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Co­lui che è la sorgente della vita» (51). 

III.5 ACTIO
     «L’obbedienza alla Parola» 
L’analisi dei messaggi emersi dalla pericope paolina ci induce a proporre come Actio una riflessione sul senso e sull’importanza dell’ «obbedienza alla Parola». Abbiamo sottolineato come nella stes­sa accezione di obbedienza si collochi la dimensione della Parola. Se la decisione di obbedire è il frutto della nostra personale risposta all’appello divino, la forza di esservi fedele proviene dalla grazia divina e dalla sua misericordia. L’obbedienza alla Parola implica tre relazioni costitutive: a) obbedienza al progetto di Dio; b) obbedienza alla verità nella storia; c) obbedienza al servizio dell’uomo.
In primo luogo nell’ascolto e nell’accoglienza della Parola si compie l’obbedienza al progetto di Dio. Tale «progetto» segnala il «mistero» dell’amore misericordioso (cf. Ef 1,9) che Dio ha voluto rivelare all’umanità. Obbedire alla sua Parola significa accogliere il mistero che penetra la storia umana e realizza la redenzione, mediante la ricapitolazione di ogni cosa in Cristo (Ef 1,10).
L’accoglienza della Parola permette di conoscere la verità e di interpretarla nella storia. Questa dinamica ci aiuta a comprendere come la Parola costituisce la «strada» che Dio ha scelto per comunicare la verità di se stesso e del suo amore agli uomini. La conoscenza della verità non implica un’operazione unicamente mentale, ma un’adesione esistenziale e vocazionale che coinvolge l’intera persona. Allo stesso modo la «storia» dice la concretezza delle relazioni e delle situazioni vissute nel tempo. Chi vive l’obbedienza alla Parola vive allo stesso tempo pienamente la verità di Dio e il realismo della vita umana.
Infine l’ascolto obbediente della Parola spinge il credente ad impegnarsi per il servizio a favore degli altri, soprattutto dei più bisognosi. Ad immagine di Cristo-servo, la Parola che penetra nel cuore dei credenti si trasforma in una dinamica di servizio e di amore. Servizio nel dono di sé e della propria vita per un progetto più grande, non pensato secondo una visione umana e limitata, ma aperto alla missione che Dio ha affidato al Cristo e a coloro che ne sono divenuti discepoli.

Atti 1,1-11 – prima lettura di domenica 20, Ascensione del Signore

http://www.atriodeigentili.it/lectio/2007_08/07.htm

Azione Cattolica Diocesana -l’Atrio dei Gentili

Lectio Divina 2007/08

a cura di Stella Morra

7. Cosa fare?

Atti 1,1-11

Premessa

            Ultimo testo su questo percorso – richiamo il titolo iniziale “Solo un Dio ci può salvare: la vita, la fede, l’incontro” – che abbiamo cercato di fare nello scoprire una specie di logica degli incontri in generale, e degli incontri di Gesù, il Cristo, in modo particolare, quasi a tentare di disegnare un contorno, seppure molto delicato, dell’esperienza della fede, cioè di questa esperienza profonda che rende solida la possibilità di tentare più o meno di essere credenti, che è l’esperienza dell’incontro con il Signore. Una delle cose che vorrei dire alla fine del percorso – e io sarei molto felice se così fosse andata – è smontare l’idea che l’esperienza dell’incontro con il Signore sia una specie di vaga esperienza sentimentale interiore – io incontro il Signore – come se fosse un dato impalpabile che ognuno fa nel  chiuso del suo cuore. Mi piacerebbe che questi testi, invece, ci avessero aiutati a ricostruire degli elementi che non sono mai oggettivi, nel senso di materiali, scientifici, e non sono mai nemmeno solo interiori, vaghi, poetici o sentimentali, ma sono degli eventi della vita che in qualche modo costruiscono quella che noi normalmente chiamiamo ‘l’esperienza del Signore’. Se vi capiterà, o avrete voglia di rileggere o risentire il commento a questi testi e di ripercorrerli, potrebbe essere una buona chiave di lettura ‘a posteriori’, cioè veramente l’incontro con il Signore. Quando diciamo, l’esperienza credente si basa sull’aver incontrato il Signore Gesù, non facciamo un’affermazione né generica, né teorica, né sentimentale, psicologica, emotiva, ma, con una frase sintetica come fanno gli apostoli negli scritti evangelici, con un Kerigma, diciamo un pezzo dell’esperienza della vita. E non è vero, la menzogna che oggi  spesso si dice che …’la vita non si può racchiudere dentro le parole’. Sì, è vero che non la si può racchiudere totalmente, ma è altrettanto vero che si possono dire alcune cose. Lo sforzo del percorso di questi testi, facendoci guidare dal vangelo di Giovanni, che ha al suo centro questo tema dell’incontro, ci dovrebbe aver aiutato un po’ a definire un profilo che certo rimane tenue, non assoluto, non scientifico, ma va in questa direzione.
            Qual è l’ultimo passo di questa faccenda? Per dirla con la chiave moralistica che capiamo tutti, ma che vorrei poi abbandonare immediatamente, come dice l’evangelo, vi riconosceranno dai frutti. Cioè l’ultimo passaggio è che, se un incontro accade, qualcosa si deve vedere! Qualcosa deve succedere in noi. Negli ultimi tre o quattro secoli si è pensato che se l’incontro con il Signore davvero accadeva, uno diventava più buono. Si faceva una lettura tendenzialmente di tipo moralistico. Noi, fortunatamente, non usiamo più questo criterio, o almeno, non ci soddisfa più; sarebbe come dire che se uno è innamorato, allora è felice. Sì, è vero, ma uno può avere dei guai ed essere molto triste anche se è innamorato, anche se l’amore che vive è vero. A quindici anni uno si ubriaca del proprio essere innamorato ma, da adulto, la vita c’è, sia che uno sia o meno innamorato. E ci sono le attese, le fatiche, i dolori… e uno può essere anche molto infelice e non per questo non essere veramente dentro un amore. Se uno incontra davvero il Signore, dovrebbe progressivamente assumere uno sguardo di misericordia su sé e sul mondo, soprattutto sui poveri; e dunque, alla lunga, si dovrebbe vedere che uno diventa un po’ più buono. Alla lunga, è un tirare le somme che si può fare solo alla fine della vita, non sui singoli comportamenti, e dunque che cosa dobbiamo cercare nello svolgersi della storia? Questa è la domanda. Il titolo che avevamo messo era banale, un po’ citazione di Lenin: Che fare? Cioè, se un incontro avviene, che cosa c’è da fare?
            Negli ultimi quarant’anni abbiamo spesso detto no al moralismo, no all’efficientismo – solo al fare – è una questione di essere, di cambiamento interiore; no a questo, no a quello e alla fine abbiamo ridotto questo incontro ad una specie di sensazione soggettiva di intenzione interiore. Se io incontro il Signore, beh, io guardo le cose con altri occhi. Che cosa vuol dire? Io credo che questo è troppo poco; è giusto cautelarsi contro i rischi, cautelarsi contro il moralismo, contro l’efficientismo, pensare che, appunto, due più due faccia sempre quattro immediatamente: dopo aver incontrato il Signore divento più buono e tutti riconoscono che io sono più buono! No, non funziona così. Ma detti questi rischi, dobbiamo pur dire qualcosa, provare a dire che cosa si vede di ciò che, anche, facciamo; non solo che cosa sentiamo.
            Da questo punto di vista ho scelto il testo iniziale del libro degli Atti, i primi undici versetti del capitolo uno, che è un testo apparentemente quasi tecnico, una specie di riassunto – dal punto di vista del genere letterario si chiama sommario – è un testo composito, varie volte rimaneggiato, in cui vari pezzi sono stati aggiunti, perché, secondo me, rispondendo esattamente alla domanda che fare, non è lineare. Cioè, quando gli evangelisti raccontano dell’esperienza stravolgente della risurrezione del Signore sono sotto l’impressione di questa esperienza che è stata data loro da altrove e dunque sgorga un’immagine letteraria che ha  una sua unitarietà, che è un quadro, perché, in qualche modo è come se io fossi stato messo di fronte a qualcosa che ho visto. Quando devono provarsi a dire che fare, bisogna pensarla, non tutte le idee ti vengono insieme, la scrivi, poi vedi che in un punto manca un pezzo, aggiungi… il testo è molto più faticoso, è meno costruito come un affresco.

            Struttura del testo, domanda e risposta
            Come al solito lo leggo. “Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzione agli apostoli che si era scelto nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo”.  Probabilmente, se fosse dipeso da noi, qui sarebbe finito, perché noi abbiamo l’idea che, se devo raccontare, ti racconto ciò che è successo, e basta. Qui l’hanno detto: Gesù ha insegnato, ha dato istruzione, poi è asceso al cielo, fine. Il problema è che nessuno vive di descrizioni; la descrizione non ci nutre la vita, e giustamente, qui il testo prosegue.
            “Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre ‘quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni”. Qui c’è una piccola seconda unità del testo descrizione degli eventi, di quegli eventi se ne piglia uno, che è la risurrezione e si fa una specie di zoom, si allarga e si racconta una scena molto particolare: Gesù seduto a tavola che dice una cosa in risposta ad una domanda precisa: attendere che la promessa del Padre si compia. Non è una domanda qualsiasi, ma è: quand’è che torneranno i conti? Sì, va bene, detto, insegnato, fatto, e adesso cosa succede? Che è la nostra domanda. E c’è una risposta specifica, data a tavola dal risorto. Questa è la scena.
            Terza unità del testo: “Così  venutisi a trovare insieme gli domandarono. ‘Signore, è questo il tempo in cui ricostruirai il Regno di Israele?’ Ma Egli rispose: ‘Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra”.  Questa è la terza piccola unità del testo. Cioè: la domanda implicita viene esplicitata: è questo il tempo? E c’è ancora una risposta. Due unità su quattro sono dedicate alla nostra domanda: e adesso cosa succede? Che dobbiamo fare? Non solo ma, poiché i vangeli normalmente sono costruiti a prova di stupidi, caso mai non avessero capito, l’evangelista aggiunge la quarta unità che, senza discorsi ma di nuovo con un’azione, un racconto, ridice esattamente la stessa cosa. “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: ‘Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”.
            Il riassunto, la domanda implicita, la domanda esplicita, il fatto: questa è un po’ la struttura del testo che, come costruzione, è abbastanza lineare. Commento un po’, poi provo a tirare le fila in fondo.

            L’incontro non nasce mai dal nulla
            “Nel mio primo libro ho già trattato, o Teofilo, …”  Questo versetto è sempre citato tutte le volte che si parla di tradizione, di trasmissione della fede, perché è chiaro che questo libro presuppone, al di là della sua materialità, un dialogo che è iniziato e che continua; questo è il secondo libro; ce n’è uno prima, tradizionalmente è il vangelo di Luca, di cui questo è il seguito, la seconda parte; c’è questo Teofilo, di cui non sappiamo nulla, oltre al fatto che compare qui – non sappiamo perché Luca gli indirizza questa messaggio, non sappiamo se è un personaggio reale, o un nome scelto come simbolo  – questo nome vuol dire amante di Dio – come indicativo di tutti coloro che hanno un desiderio circa Dio, ma non è così importante, perchè ciò che questo versetto ci dice è: il dialogo circa l’esperienza della fede comincia sempre a metà. C’è sempre un prima, non comincia mai dall’inizio. Quando dialoghiamo tra di noi rispetto a questa esperienza, non possiamo mai dire, questa è pagina uno; è sempre il secondo libro, perché c’è sempre qualcosa, che è una premessa, qualcosa che abbiamo ricevuto, che non ci siamo dati da soli, che non abbiamo pensato noi, che non abbiamo inventato oggi. Tutte le volte che, pensando all’esperienza del vostro incontro con il Signore, vi viene in mente che siete i primi ad aver pensato quella cosa lì, o che avete capito qual è la soluzione, e nessuno l’aveva mai capita prima, che la storia comincia quel giorno, la Chiesa comincia quel giorno, la soluzione dei problemi comincia quel giorno…diffidate! C’è sempre qualcosa che non funziona, siamo sempre dei secondogeniti, non solo perché teologicamente il primogenito è uno solo, ma perché, storicamente, nella nostra esperienza di incontro, l’incontro non nasce mai dal nulla. Nessuno si dà la propria fede da sé. Questo incontro immediato, senza mediazione tra noi e il Signore, ha sempre alle spalle un incontro mediato. Che sia una nonna che ci ha insegnato a fare il segno della croce quando avevamo tre anni, un catechista che ci ha spiegato qualcosa per la prima comunione, un animatore, un vice parroco… qualsiasi di queste situazioni, compreso un amico a cui non importava niente delle cose di fede, che però si è posto con noi in un modo tale che ci ha fatto venire in mente che Dio esisteva e gli angeli pure, siamo sempre al secondo capitolo. Nessuno di noi scrive il primo capitolo. Questo è un primo, ma fondamentale criterio circa il che fare: la prima cosa da fare è non credere mai di essere al primo capitolo; non credere mai di essere l’origine, il punto di partenza, la pagina uno.
            Spero di essere stata sufficientemente chiara, perché questo è proprio quello che ci viene dato come elemento di partenza. Quando Gesù ha fatto la sua parte, la prima cosa che spetta a noi è dire: c’era un primo libro e noi siamo il secondo – ribadisco, per motivi teologici, perché il primogenito è Gesù, perché questo innanzitutto è il modo per riconoscere che solo Dio è universale, solo Dio inizia, è creatore. Lo sto dicendo con le parole del catechismo, ma è una cosa molto concreta; e noi siamo sempre figli adottati, secondogeniti, creature parziali, un pezzo di….

            Gesù ha fatto e insegnato
            Che cosa Luca ci ha detto nel primo libro: “…ciò che Gesù fece e insegnò dal principio”. Anche qui la scelta di questa coppia di verbi non è da poco. Noi pensiamo sempre che il problema della fede sia ciò che Gesù ha insegnato. Al massimo, se siamo molto concreti, ciò che Gesù ci ha insegnato a fare – siamo noi che facciamo! Invece, ciò che Gesù fece e insegnò; è Gesù che fa! Questo è un tema fondamentale: ciò che noi crediamo non è una dottrina, un insegnamento morale, un fatto di valori o di principi, ma ciò che Gesù ha fatto e insegnato. Quando Luca deve fare dei riassunti nel corso del vangelo su ciò che Gesù ha fatto, dice: Gesù passò beneficando, guarendo, nutrendo.
            “…fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelto nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo”. Le istruzioni si danno agli apostoli – Luca è uno degli evangelisti che fa distinzione tra gli apostoli e la folla. Gli apostoli sono i funzionari della ditta, devono fare delle cose, a loro vengono date le spiegazioni, devono far funzionare il tutto; la folla, nel novanta per cento dei casi, viene nutrita, alla folla si insegna, viene guarita, accolta, si raccolgono le sue esigenze. Negli ultimi due secoli noi abbiamo radicalmente identificato l’esperienza della fede non l’esperienza degli apostoli; per una serie di questioni culturali, abbiamo sovrapposto l’esperienza degli apostoli con l’esperienza dell’incontro con il Signore. Invece, in realtà, in ognuna delle nostre vite, ci sono tanti livelli di incontro con il Signore, ma il livello primario è quello della folla; innanzitutto noi siamo accolti, nutriti, perdonati, ci vengono insegnate delle cose e siamo rimandati alla nostra vita. Questa prima unità disegna quasi il contenitore dell’esperienza della fede, mette i paletti fondamentali e anche il suo profilo di umiltà: siamo secondi, siamo una folla affamata, che ha bisogno di essere accolta, e siamo a bocca aperta come dei bambini di fronte a ciò che Gesù ha fatto e insegnato. Essenziale.

            Vivo dopo la passione
            Secondo momento del testo, zoom su questa faccenda. “Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio”. Vivo dopo la sua passione: questo è l’elemento, noi lo chiameremmo, di frattura. Nella prima unità Gesù può essere un qualsiasi rabbi che insegna; già sul fare sposta un po’, è più che un rabbi, fa, o meglio, come dicono gli altri evangelisti, parla con autorità – che vuol dire: parla con la stessa parola creatrice di Dio che dice ‘sia la luce e la luce fu’;  una parola che fa, che rende reale ciò che dice, e non è già cosa da ogni maestro. Ma qui si introduce una frattura radicale detta con questo tono umile, ma bellissimo: “Egli si mostrò ad essi vivo dopo la sua passione”. La parola chiave è vivo! La questione è la vita. Qui è il superamento della morte, della morte in croce di Gesù, ma il correlativo di vivo in questa frase, non è morto, dopo la sua morte, ma dopo la sua passione. Si mostrò vivo dopo la sua passione. Luca ci sta dicendo che nessuno di noi può autonomamente risorgere dai morti, ma possiamo essere vivi dopo le nostre passioni. Quello che si vede nella storia è: sei capace di essere vivo dopo la tua passione, qualsiasi essa sia?
            “…con molte prove… e parlando loro del regno di Dio”. Questo è, ancora una volta, un’aggiunta: non parla di sé, della sua morte o della sua risurrezione, ma del regno di Dio. Il tema è la questione, diremmo noi oggi in termini teologici, di una nuova creazione. Cioè Luca qui ci sta, in tutti i modi, orientando – lo dico con uno slogan – a non fare pensieri religiosi su Gesù; ci sta storcendo perché il ‘che fare’ corrisponda alla vita com’è, al mondo come dovrebbe essere secondo il regno di Dio. La questione non è un pensiero pio, devoto; non è che se uno ha incontrato il Signore, allora diventa molto religioso, ma se ha incontrato il Signore è vivo dopo le proprie passioni, o dentro le proprie passioni e si occupa del regno di Dio, non solo di sé.
            In questa seconda unità c’è una piccola costruzione su tre elementi: un luogo, una promessa e un battesimo. “Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò di non allontanarsi  da Gerusalemme, ma di attendere  che si adempisse la promessa del Padre ‘quella, disse, che avete udito da me: … sarete battezzati nello Spirito Santo…”.  Questo piccolo disegno è la trasposizione nettissima dell’ultimo capitolo del vangelo di Luca, quello dei discepoli di Emmaus. C’è la tavola, la promessa del Padre – che è l’ascolto delle scritture nel testo di Emmaus – e c’è il battesimo nello Spirito Santo. Questo è il disegno della Chiesa, non nella sua forma istituzionale, ma la tavola dell’eucaristia;  siamo uniti dall’eucaristia; siamo uniti da una promessa – per questo non ce ne andiamo da Gerusalemme – e i discepoli torneranno di corsa a Gerusalemme  nella notte – e quella promessa è la promessa del battesimo nello Spirito Santo. Cioè – lo dico con termini tecnici – della trasformazione del nostro statuto ontologico, del diventare figli adottivi, o, se volete, di ritrovare nello spirito una libertà  rispetto alla nostra stessa vita che non sarebbe data dalle premesse della nostra vita – detto in termini esistenziali. E’ sempre lo stesso contenuto detto con registri diversi. Cosa vuol dire battesimo nello Spirito Santo? Non è mica semplicemente il dato giuridico dell’essere battezzati! Certo, quello è il luogo liturgico dove noi celebriamo quella cosa lì. Ma qual è il mistero che celebriamo? Che nella morte e risurrezione del Signore noi sperimentiamo una libertà rispetto alla nostra stessa vita, che ci consegna una eccedenza – ne abbiamo parlato più volte. Cioè, poiché siamo battezzati, noi mettiamo il desiderio della nostra stessa vita, o della vita del piccolo che affidiamo a Dio, il desiderio di una vita piena, di una vita amata, sana, felice, di una vita che compie le aspettative, lo mettiamo nelle mani di Colui che è il solo che può compiere quella aspettativa. Nel battesimo noi ci appoggiamo su quel pezzo della nostra vita che non è in nostro potere gestire, perché siamo convinti che quel pezzo sta in mano a Dio e, dunque, sarà un pezzo benedetto. Più volte, scherzando, abbiamo detto: il sacramento è: il meglio deve ancora venire. E riguardo al battesimo è: il meglio deve ancora venire, sulla totalità della nostra vita. Per questo il segno del nome, il segno dell’acqua – nell’eucaristia, il cibo; nel battesimo è proprio la totalità, ci danno un nome, ci dicono chi siamo. Questa seconda unità ci dice: attenzione, la prima faccenda è un’eccedenza. La prima cosa da fare è costruire la propria vita su un’eccedenza, che è l’eccedenza della Chiesa, sul pezzo che non governo, che ricevo.

            Forza … per essere testimoni
            Terza unità: “Venutisi a trovare insieme gli domandarono: ‘Signore, è questo il tempo in cui ricostruirai il regno di Israele?’ Ma egli rispose: ‘Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti, … ma avrete forza … mi sarete testimoni fino agli estremi confini della terra…”.  Anche qui gli elementi che tornano sono enormi; la domanda è: allora, ci siamo? Risolviamo? Il nostro problema, rispetto a qualsiasi realtà, è sempre una soluzione, una risposta! E’ questo il tempo? Siamo arrivati? E la risposta di Gesù è: “Non spetta a voi conoscere i tempi … ma avrete forza per essere testimoni fino agli estremi confini della terra …”.  Quattro elementi: non è la vostra competenza: il tempo non è nelle vostre mani. Ma questo non vuol dire che non avete niente – buoni e zitti perché non spetta a voi – avrete forza. Questo versetto è incredibile: avrete forza! Che altro aggiungere? Mi sembra talmente visibile: non sappiamo, non si dice avrete risposte, né avrete spiegazioni, né capirete, ma avrete la forza necessaria a sopportare di stare senza una spiegazione, di non saper se il tempo è compiuto, per avere fiato per arrivare fino a che i tempi si compiranno. Ancora una volta, questo è un altro modo per dire che siamo secondi, che non è il primo capitolo. Non sappiamo quanto bisogna tener duro, però sappiamo che avremo tutta la forza che serve per tener duro fino a quando sarà necessario.
            “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni…”. Forza per che cosa? Per essere testimoni. Di che? L’idea della testimonianza è molto strana, per noi, perché ci pone sempre il problema tra integralismo, rispetto, tolleranza… Cosa faccio? Affronto chi non la pensa come me? O sto sempre zitto, lascio che facciano? E’ un po’ un groviglio perché, appunto, tutta questa difficoltà nasce dall’esserci centrati tutto sul dire, sui concetti. Cioè, se il problema è idee, c’è un’idea vera e le altre sono false, una giusta e le altre sono sbagliate. Se il problema è la soluzione, è come in matematica: ad un problema c’è una sola soluzione giusta. La questione non è così: la vita è più complessa, ma soprattutto l’incontro con il Signore è molto più complesso. “Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se non fosse così ve l’avrei detto”  fanno dire a Gesù gli evangelisti. E cioè: una soluzione è giusta, ma un’altra pure, e poi ce n’è una terza che è anche giusta. Sono diverse tra loro, e sono tutte giuste, perché la vita è complicata, perché, che cos’è un matrimonio giusto? In genere possiamo solo dire che cos’è un matrimonio ‘scassato’, poi ci sono tanti modi di essere una famiglia, di volersi bene. Qual è il modo giusto di voler bene? Ah, saperlo! Ci sono mille modi di volersi bene e uno, comunque, ha sempre il dubbio che non sia abbastanza. E’ chiaro, nel campo delle teorie, se una teoria è giusta, il suo contrario è sbagliato; nel campo del volersi bene, se un modo di volersi bene è giusto, forse anche il suo contrario è giusto. Bisogna dirsi sempre la verità. Oppure, no, non bisogna dirssi proprio tutto tutto, ci sono alcune bugie che sono necessarie, e così via. Consigli da rivista femminile. Sono tutti veri e tutti falsi, nel senso che tendenzialmente sì, bisogna dire sempre la verità, soprattutto con chi considera la verità così decisiva  che si sentirebbe ferito e tradito da una menzogna; poi ci sono tante volte in cui preferiamo non sapere. Se uno non mi dice la verità, è meglio. Mi fai una carità, se non mi dici la verità. Questo lo puoi sapere solo dentro.
            Essere testimoni sta dalla parte della vita, non dei concetti e, dunque, che cosa testimoniamo? Noi non testimoniamo una soluzione, un’ideologia, un prodotto a scapito di un altro, noi testimoniamo che ciò che è accaduto a noi, poiché Dio è grande, non può non accadere anche a te. E ciò che è accaduto a noi è che Dio ha benedetto la nostra vita e l’ha fatta fiorire e, che tu ci creda o no, che tu ci speri o no, che tu abbia perso ogni fiducia nel fatto che la tua vita possa ancora fiorire, poiché Dio è buono ed è grande, ciò che è accaduto a me non si vede perché non dovrebbe accadere anche a te. E testimoniare questo significa rimanere lì a far fiducia sulla possibilità di fioritura della vita di un altro quando lui stesso non ci crede più. E non è una faccenda da poco!
In questo senso, “ … fino a Gerusalemme, in tutta la Giudea, la Samaria e fino agli estremi confini della terra” non è solo un’indicazione geografica, come per molti secoli abbiamo pensato.                                      E’ come dire, la crisi del milleduecento, quando i cristiani avevano esaurito il mondo allora conosciuto, si sono chiesti: e adesso, a chi dobbiamo testimoniare? Rivolgiamoci agli eretici, a cui abbiamo già testimoniato, ma loro testoni… non hanno ancora aderito, allora, crociate, ecc. E poi Dio, ovviamente, ha scombinato tutte le carte in tavola e con l’inizio dei grandi viaggi del millequattrocento, dice, no, non avete finito, c’è ancora un sacco di roba, le Americhe, l’Asia… Allora uno ricomincia a cercare gli estremi confini della terra… Il problema non è solo geografico; forse oggi abbiamo raggiunto gli estremi confini della terra, ma la questione è: in lungo, in largo e in profondità, nella totalità di ogni vita, che può avere ogni fioritura possibile. Testimoniare la fiducia che Dio farà fiorire qualsiasi pezzo di qualsiasi vita, secondo la propria fioritura possibile.
            Il primo di questi tre elementi metteva in luce questo tema di eccedenza, di appoggiarsi su ciò che sporge; questo secondo ci dice di una pratica, non nel senso di pratica religiosa – di andare molto a messa, dire molti rosari – e nemmeno nel senso moralistico di concretizzare, essere coerenti, applicare; ma ci dice di una pratica perché accettare e vivere che non spetta a noi conoscere i tempi, esercitare la forza che ci è data per tenere duro, per tenere la posizione che si occupa, il massimo livello di felicità possibile nella propria esistenza, non arretrare nemmeno di un passo rispetto al massimo livello della possibilità di felicità della propria esistenza, ci va forza! E testimoniare che questo è per ognuno, fino agli estremi confini della terra, queste non sono chiacchiere, questo è un agire l’esistente e l’esistenza! Sant’Ignazio dice, negli esercizi, che nel tempo della desolazione, quando uno è confuso, triste, addolorato, non deve prendere nessuna decisione, perché la desolazione è pessima consigliera ma una decisione la deve prendere: non arretrare, non mollare il posto che ha! Fino a che non capisce verso dove deve andar, uno deve piantarsi sui piedi e tenere quel posto lì, che vuol dire le mille cose che uno fa nella sua esistenza, ma che pigliano tutto un altro suono: lavorare, cucinare, mangiare, parlare, avere cura di coloro che amiamo, ascoltare, tutto quello che facciamo normalmente. Forse fino all’ultimo giorno non sapremo in che direzione dobbiamo andare, perché non spetta a noi conoscere i tempi, forse non avremo questo attimo di visione, come ad alcuni santi è dato, di intuire il carisma della loro vita e di sapere esattamente cosa fare per servire il Signore, forse questo ci sarà dato solo nell’ultimo giorno, perché i tempi non spettano a noi, ma avremo la forza di tenere i piedi piantati nella vita in cui siamo e di non arretrare sul livello massimo di felicità possibile, di fioritura possibile, di benedizione e misericordia possibile di quella vita lì e di testimoniare a tutti coloro che incontriamo, che se per me questo è possibile, se ho la forza di non arretrare e di benedire, questo accadrà a chiunque, perché Dio non fa differenza di persone. Un’eccedenza e una pratica.

            Un’assenza
            Ultimo nucleo. “Detto questo, fu elevato in alto…” C’è questa bella immagine che, credo, in tanti amiamo, degli apostoli che restano con il naso per aria a  guardare – qui la citazione dell’Antico Testamento “…una nube che copre lo splendore” E’ la nube che guidava gli ebrei nel cammino nel deserto e faceva loro ombra, la storia della grande traversata del deserto, quarant’anni dalla schiavitù alla terra promessa, e una nube ci guida, ci copre; una nuvola come tappeto, dice il testo ebraico, come tappeto sopra le loro teste perché nel deserto, col sole a picco, quel filo d’ombra è provvidenziale.  Allora c’è questa nube che copre lo splendore di Gesù elevato sotto i loro occhi. Ma, come tutte le nubi, fa ombra, è un segno, ma oscura anche, non vediamo più cosa c’è dietro, perché la vita funziona così, ogni grazia è anche un po’ una disgrazia, ogni dono è anche un costo, ciò che mostra, nasconde anche. E gli apostoli stanno lì, come degli scemi, a guardare le nuvole; e appaiono due uomini in bianche vesti, “…uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?”…ma non avete proprio niente da fare? Perché rimanete proiettati su ciò che è stato? Il Signore è venuto, ha beneficato, ha insegnato, è risorto, ha detto, se n’è andato. Tornerà un giorno… Per questo, per secoli, i cristiani hanno interpretato il tempo della storia fino a sminuirlo radicalmente, come un tempo di passaggio, una valle di lacrime, una realtà non del tutto vera; la vera vita, il riposo, la pace – tutti i termini che si attribuiscono al dopo la morte, alla fine della nostra vita – sono tutti termini di benedizione, perché in fondo era chiaro ai cristiani che qua era tosta! Noi, giustamente, abbiamo detto: non sminuiamo così tanto la storia – la storia è il tempo che ci è dato per imparare tutto questo, per frequentare Dio, il nostro fidanzamento, che è sempre un tempo glorioso, un tempo magico e un po’ romantico, poi il matrimonio diventa più ordinario, ma la storia ha degli aspetti belli. Tutto vero, ma anche qui non dobbiamo dimenticarci che per contrastare un rischio caschiamo nell’altro e in fondo immaginare cosa succede dopo la morte mi interessa poco, perché…va a sapere, se c’è qualcosa, o nulla … poi l’idea delle nuvole, delle arpe per tutta l’eternità… una noia mortale. Invece no. Ha ragione Bonhoeffer, quando dice: il vero cristiano ama la meta e ama la terra, la strada che lo porta alla meta. La storia è questa strada che ci porta alla meta, ci riporta a casa e dunque la amiamo, ogni passo ci è grato, ogni passo è un’occasione perché il viaggio non è solo tempo di spostamento; il viaggio è già parte della vacanza, è già l’aria di casa. Ma, contemporaneamente, di riposarsi non se ne parla, adesso bisogna camminare, poi quando si arriva ci si riposa, ma adesso è la strada, non è ancora la casa. Le due cose bisogna amarle entrambe, ma anche ricordarsi della loro differenza. E qui gli dicono, tornerà un giorno, ma adesso non è tempo di stare a guardare il cielo, non bisogna, ancora una volta, occuparsi delle cose religiose; adesso bisogna camminare, bisogna avere la forza dello Spirito Santo.
            Qui c’è la terza grande questione che costruisce il nostro incontro con il Signore, un’eccedenza, una pratica, ma la terza è la più dura, ed è un’assenza! Noi abbiamo costruito la grande riflessione negli ultimi quindici secoli – teologicamente – sulla teologia della presenza – diciamo, Gesù è qui, Gesù è con noi nell’Eucaristia… Tutte cose verissime, ma ancora una volta, come sempre succede agli umani, oscilliamo, esageriamo troppo da una parte o dall’altra; abbiamo molto insistito sulla presenza dimenticandoci che è uno strano tipo di presenza, Gesù è con noi… sì, in che  senso? Non è che lo incontri, apri la porta e lo vedi, né che la presenza eucaristica sia così evidente. Gesù è con noi, se io, in una relazione con lui lo sento presente. Ma è una forma di presenza che dobbiamo imparare, come quando muore qualcuno che amiamo; sappiamo che non è perduto per sempre, ma non ci è mai capitato, con quella persona lì, di dover imparare a sentirlo presente nel modo misterioso in cui si è presenti senza un corpo. Ed  è per questo che, di fronte a qualsiasi lutto, anche se uno crede alla vita che continua, lo sa, ha un tempo di stordimento, perché bisogna imparare delle presenze che non passano più per le cose per cui per tanti anni della nostra vita sono passate, per i gesti, le parole, gli atteggiamenti, comprese le ripicche, le difficoltà a capirsi, che ci hanno detto che l’altro c’era, che l’altro era lì e che ci hanno detto, per uguaglianza o per distanza, che ci voleva bene, che gli stavamo a cuore, che eravamo presenti alla sua vita. E imparare tutto un altro linguaggio, un’altra grammatica;  non è cosa da un giorno; il dolore ha il suo tempo, non è sinonimo della disperazione; uno ha speranza e ha lo stesso dolore, perché il dolore è la fatica che si fa ad imparare un altro linguaggio, altri gesti, altri modi. E non si imparano in un giorno, e per molto tempo i gesti, la grammatica, le cose che ti hanno ‘detto’ per anni la presenza di coloro che ami, poiché oggi non te lo dicono più, ti fanno impressione, perché quelli sapevi come funzionavano e quegli altri non lo sai ancora.
            Da questo punto di vista, abbiamo poco riflettuto su ‘l’assenza’; e questa cultura in cui siamo, che è una cultura della presenza e della visibilità – esiste solo ciò che si vede – non ci aiuta a trovare la grammatica di come si vive con un’assenza. Forse noi credenti dovremmo cercare di impararlo, perché siamo in un tempo in cui …’Dio non c’è’ … Non c’è nel senso che non lo incontriamo come un rabbi o un maestro sulle strade, che non fa più miracoli, che non insegna, che non è sulle nostre strade, che non ci accompagna… Ma dovremmo ricostruire la grammatica del suo modo di essere presente; e certamente ne abbiamo un filone molto chiaro, quello della liturgia, che è l’unico luogo certificato di una presenza, ma che, guarda caso, ha una grammatica propria, che non è la grammatica della vita quotidiana, e ad un certo punto ci fa un po’ problema. Usciamo da una messa e diciamo, va beh, e che differenza c’è rispetto a quando sono entrato, cos’è successo? Niente. Perché con la grammatica di che cosa è successo, forse non è davvero successo niente, perché c’è un’altra grammatica. Quello che i due uomini vestiti di bianco dicono ai discepoli, “perché rimanete a guardare in alto?” è esattamente questo: c’è da imparare un’altra grammatica, quella dell’assenza. La fede segue un’altra grammatica.
            Mi sembra che, a conclusione di tutto questo percorso, l’immediatezza dell’incontro e dell’esperienza del Signore di cui andavamo in cerca, superando l’idea ‘io sento, nel mio cuore c’è questo movimento emotivo…’, ma andando più in profondità nella dinamica di un incontro che ha lo spessore dell’esistenza, ci viene detto da Luca, deve vedersi attraverso tre cose – che ho chiamato con queste tre parole molto moderne per farle ‘vedere’, ma se volete poi ve le traduco anche in antico, sono cose che i cristiani hanno sempre saputo – l’eccedenza, la pratica e l’assenza. Noi viviamo come coloro che sono appoggiati fuori di sé; viviamo come coloro che sanno che le cose contano, ma non sono l’assoluto e che le cose sono il tessuto dell’eternità; viviamo come coloro che sanno abitare un’assenza. Dette in antico, il linguaggio classico della teologia diceva che i cristiani vivono per grazia; che i cristiani si vedono dalle opere buone; e che i cristiani sperano in una vita dopo la morte, nella risurrezione. Questa è la traduzione antica, ma spero che con parole nuove si veda meglio che non è solo una dottrina, un contenuto – tu credi alla risurrezione? Sì, certo. Io invece credo nella reincarnazione… come un mazzo di carte che si sfoglia e si sceglie la situazione più simpatica o convincente. Non è questo il problema. Il problema è una vita conformata e convincente.
            Domanda: “Lei ha detto che Dio ci dà la forza. Citando sant’Ignazio diceva che nei momenti di depressione occorre puntare i piedi e non retrocedere. Ma allora perché tante storie di oggi finiscono in tossicodipendenza, suicidio, violenza…?”.
            Risposta – Onestamente non capisco molto la connessione del tuo ragionamento, nel senso che infatti, non a caso hai sostituito desolazione con depressione – Sant’Ignazio parla di desolazione, non di depressione – ma – no, non hai sbagliato, hai fatto un lapsus che dice cosa pensi tu e come hai ascoltato le cose che ho detto, cioè hai sovrapposto  un quadro di lettura che è quello che hai tu nella testa rispetto ad una cosa che io ho detto. Io non ho detto che Dio dà la forza come se fosse il valium che distribuisce a pioggia e niente di male può accadere. Io ho detto che, in un percorso credente, noi sappiamo che Dio dà la forza. Che poi riusciamo ad averla tutti i giorni e tutta quella che serve è un’altra questione. E poi, se tu mi stai dicendo che io penso che le persone si drogano, sono depresse o si suicidano perché non hanno la forza, la risposta è no. Io non penso questa cosa. Penso che la vita è complicata, e che avere tutta la forza che serve è una questione molto seria  e che io posso al massimo, forse, intuire per me quale forza mi serve o mi servirebbe; non oserei mai dire qualcosa sul mistero di un altro. Il mistero di ciò che accade a chi nella sua vita ha o non ha la forza, e sceglie o non sceglie di comportarsi in alcuni modi e mettere in relazione questo e dire che uno si è suicidato perché non aveva la forza, non compete veramente a me. Noi siamo secondi. A mala pena so qualcosa di me, figurarsi sugli altri. Io sono a me stessa un grande mistero. Il mistero di ciascuno di noi è davvero il capitolo n° 1 che sta solo nelle mani di Dio, non di noi.

Fossano, 12 aprile 2008
 (testo non rivisto dall’autore)

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