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LECTIO DIVINA : ROMANI 11,33-36 « O PROFONDITÀ »

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LECTIO DIVINA

O PROFONDITA’

ROMANI 11,33-36

Introductio:          
Gesù ha detto:
“Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sarò in mezzo a loro”.
In silenzio, per qualche istante, ringraziamo e lodiamo la presenza
di Gesù in mezzo a noi.

Preghiamo la Madonna, con l’Ave Maria,
perché ci aiuti ad accogliere lo Spirito Santo.

“Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del Tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
E donaci per intercessione di Maria che ha saputo
Contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo , una grazia ancora più
Grande; quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo”. Amen.

Lectio: 

La lettera ai Romani non è sbocciata all’improvviso nella mente di Paolo, ma è stato piuttosto un frutto maturato in lunghe ed appassionate riflessioni. La prova è la sua affinità con la Lettera ai Galati, la quale è certamente anteriore alla presente ( di pochi mesi). Dunque in quel tempo, più che mai, Paolo era preso dagli argomenti trattati nella sua lettera, e che toccano le sue più intime fibre di fiero Ebreo, di apostolo cristiano, al semplice uomo.
Gli argomenti, infatti, sono i seguenti: C’è una salvezza per l’umanità? E’ offerta questa salvezza dalla Legge giudaica? E per i pagani, che non conoscono quella Legge, non esiste salvezza? La Legge giudaica appresta la forza morale necessaria per osservare i suoi precetti? La Legge è fine a se stessa, ovvero è una disposizione provvisoria che mira ad un ordinamento futuro ben più alto?
Tutte questi interrogativi, poi, si complicano con altri quesiti che sorgevano dall’esame spirituale dell’uomo e dalla contemplazione parsimoniosa della rivelazione divina. Non solo l’umanità intera è in stato di rovina per i danni cagionati dalla caduta di Adamo, ma anche nell’uomo singolo si ritrovano due leggi in perpetuo contrasto fra loro, perché uno lo spinge al male e l’altra lo richiama al bene.
Come restaurare la rovina dell’umanità intera, e come comporre il dissidio connaturale nei singoli uomini? E ancora: se la Legge giudaica è stata data al popolo eletto quale preparazione al Cristo, perché mai questo popolo eletto respinge oggi in massa il Cristo? Avrebbe forse Dio ritirato le promesse fatte ad Abramo, capostipite del popolo eletto, e respinto da sé i discendenti di lui?
Probabilmente in Paolo, fin dai tempi della conversione, questi tormentosi quesiti turbinavano nella sua mente, ed egli li aveva sempre più scrutati ed approfonditi, portato a ciò non solo dalle esigenze del suo spirito ma anche da quelle del suo ministero apostolico. Per le sue comunità della Galazia egli aveva dovuto, poco prima, trattare la questione della validità della Legge giudaica di fronte al Vangelo di Cristo: adesso, rivolgendosi agli universalisti Romani, Paolo tratta nuovamente la questione ed altre cose con essa collegate. Così nacque questa lettera, eminentemente ecumenica: è infatti una specie di storia spirituale del genere umano, esposta nelle sue relazioni con la redenzione del Cristo.
La Lettera è la più lunga dell’epistolario paolino e dovette stare in lavorazione molto tempo, forse un paio di anni. Conosciamo anche l’amanuense, che pazientemente stette per lunghe serate a vergare con faticosa lentezza sul proprio papiro le frasi che Paolo nervosamente gli dettava: questo umile e nobile cooperatore si chiamava Terzo (16,22). La lettera fu portata da Corinto a Roma da una diaconessa della comunità di Cencree, e si chiamava Febe (16,1). La Provvidenza volle che questo impareggiabile documento del pensiero cristiano fosse per vari mesi affidato esclusivamente ad una donna.

Meditatio:
La lettera rappresenta il vertice più alto della dottrina e della riflessione di San Paolo. Essa spazia su un vastissimo campo di argomenti attingenti i più diversi aspetti della vita cristiana, riunificabili tutti però nel pensiero dominante: il Vangelo di Cristo come forza di Dio per la salvezza di chiunque crede e come suprema rivelazione di grazia giustificante e vivificante da parte di Dio. Uno solo è il protagonista dell’immenso dramma storico abbozzato con allucinante coraggio dall’Apostolo in questa lettera: Dio Padre. Egli intende assolutamente salvare l’umanità “caduta sotto il peccato”, senza distinzione di Ebrei e pagani, comunicandole la sua stessa giustizia, partecipandole cioè la sua vita di santità: Dio ha “rinchiuso tutti nella disubbidienza per usare verso tutti misericordia”.
Cristo è lo strumento di questa universale riconciliazione, in quanto con la sua incarnazione ci assume e quasi assorbe nella sua divina umanità. Soprattutto mediante il battesimo egli ci inserisce addirittura nel mistero della sua morte e della sua resurrezione. Questo palpito di vita soprannaturale è quindi approfondito e dilatato, reso più cosciente e operante dallo Spirito stesso di Cristo, il quale non è altri se non lo Spirito del Padre che ci è stato dato come pegno e frutto del suo amore: “Perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato donato”.
Di fronte a queste sublimi forze di amore che hanno ormai fatto irruzione nella storia si attende solo che l’uomo dia la sua risposta: l’assenso della fede. Fede che è adesione intellettuale a tutte le verità soprannaturali salvanti, conosciute attraverso la predicazione del Vangelo, soprattutto alla persona di Gesù Cristo. Ma anche fiducia nella bontà del Padre che alimenta la santa speranza fino a che non siano salvati definitivamente tutti gli uomini; fede che è anche obbedienza interiore, docilità del volere umano che si piega al volere di Dio e lo traduce in atto diventando così carità operante.
“Non il bene che vorrei, questo io faccio, ma piuttosto il male che non vorrei, quello io faccio”. Sulla base di questo umile riconoscimento si costruisce l’edificio della salvezza: Dio non può e non vuole essere debitore verso nessuno, salvo verso il suo amore sovranamente e liberamente dispensato. Neppure la fede, in fin dei conti, è il prezzo giusto della salvezza: è solo una condizione preliminare per la quale l’uomo riconosce la sua impotenza a salvarsi e accetta di essere salvato da Dio per mezzo di Cristo.
Per la meravigliosa alchimia celeste, i peccati stessi degli uomini contribuiscono a rendere più luminosa la carità del Padre. Tutto quanto Paolo ha detto circa i disegni di Dio è già qualcosa di commovente e di sconcertante nello stesso tempo. Ma non è nulla in confronto dell’abisso inesplicabile della “ricchezza” dell’amore e della “sapienza”, con cui Dio ha disposto la trama segreta dei fatti di cui è intessuta la storia dell’umanità. Chi ha mai potuto conoscere “il pensiero di Dio”, o essergli “consigliere”?
E’ chiaro che la risposta sottesa agli interrogativi delle citazioni bibliche (Is.40,13; Ger.23,18; Giob.15,8) è totalmente negativa. Dio sta sempre “oltre”. Tutto in lui è inesplorabile e inconoscibile: egli è il principio “da cui” tutto dipende, il respiro “per mezzo” del quale tutto vive, il mare “verso cui” corrono tutti i rivoli dell’esistenza.

Perciò, esterrefatto e smarrito, il contemplante si limita ad esporre i pochi fatti che ha riscontrati, senza averne potuto rintracciare le ultime ragioni, e conclude prostrandosi ad adorare e ringraziare Dio, in Cristo Gesù, perché:

- “Da lui”, provenienza;
- “Grazie a lui“, sussistenza;
- “Per lui“, finalità.

Contemplatio:
Signore Dio, tutta l’umanità da sempre, è sotto la tua collera divina, ma i nostri peccati danno maggiore rilievo alla tua bontà e misericordia, perché tu, Padre Onnipotente, apri a tutti, nessuno escluso, la porta della salvezza. A noi, con le nostre miserie e debolezze, non rimane che innalzare a te un inno di lode per celebrare il piano meraviglioso, misterioso e provvidenziale della salvezza che rivela l’infinita tua sapienza e amore, umanamente incomprensibili, di te, o Dio, che sei il principio, il centro e il fine di ogni cosa.
Umanamente la prima cosa che ci colpisce, nell’esperienza della nostra debolezza, è il peccato. Solo in un secondo momento pensiamo alla tua misericordia Signore, come una specie di rattoppo, di salvataggio della situazione.
così davanti a te Signore proviamo sì riconoscenza, ma anche una certa umiliazione per non avere saputo fare le cose per bene e di avere avuto bisogno di chi rimettesse tutto in armonia. Invece nella tua sapienza Signore è esattamente il contrario: prima viene la misericordia, poi il peccato ( ma abbiamo compreso, con questa preghiera divina, oggi, che esso non annulla mai il tuo disegno misericordioso).
In te, o Dio, tutte le strade conducono alla misericordia.  “Tutto è grazia”; le circostanze diventano sacramenti della misericordia. E noi ne gioiamo esultanti in Cristo Gesù, perché non si tratta di compassione, ma di grandezza di cuore. Il tuo è così aperto e grande che nessuna grettezza umana può mai chiuderlo. Tu non ci ami perché siamo buoni, ma affinché lo diventiamo.
Siamo certi che verrà il momento in cui tutte le cose operate da te nell’arco dei secoli, incomprensibili oggi, come ieri, si sveleranno, ed allora, insieme ai Patriarchi, ai Profeti, agli Apostoli e,soprattutto, con Cristo Gesù esulteremo osannandoti: “ O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi, e inaccessibili le sue vie!”.

Conclusio:
Padre, è meraviglioso: tu dai a me povero, umile, peccatore, quello che hai di meglio, quello che ami maggiormente, il solo soggetto degno del tuo amore, il tuo Figlio unico, il Diletto nel quale hai posto le tue compiacenze da tutta l’eternità.
Padre, io sono sommerso nella tua generosità infinita, illimitata e insondabile. In silenzio mi lascio invadere dall’ammirazione, dalla commozione, per la tua sapienza, per il tuo piano di redenzione del mondo, per la tua magnanimità.
Padre, sono stupefacenti i tuoi pensieri, i tuoi progetti, e le tue opere che nessuno può sondare, e immenso è il tesoro del tuo amore.
Padre che cosa ti renderò per il grande amore che mi porti, per la cura che per di ciascuno, in ogni istante, per la tua Provvidenza e per avermi donato Gesù, il tuo Figlio unigenito? Padre, voglio anche ringraziarti per avermi chiamato qui e grazie all’Apostolo Paolo, ho potuto approfondire e meditare la sua epistola che mi conduce ad una migliore comprensione di me stesso.

Grazie Padre, grazie Gesù, grazie Spirito Santo. Lode e gloria nei secoli. Amen. 

Publié dans:LECTIO DIVINA, Lettera ai Romani |on 5 septembre, 2013 |Pas de commentaires »

Per la XIII domenica del T.O. – Lectio divina su Lc 9, 51-62

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/13-Domenica-2013-C/13-Domenica-2013_C-JB.html

30 GIUGNO 2013  | 13A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C  |  PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA SU: LC 9, 51-62

Oggi il Vangelo ci ricorda uno dei momenti più trascendentali della vita di Gesù: dopo aver percorso le strade di Galilea, annunziando il vangelo e curando gli infermi, un bel giorno Gesù decise di salire a Gerusalemme. Questa decisione avrebbe fatto scatenare una serie di avvenimenti che sarebbero culminati nella sua tragica sorte. Gesù, che lo prevedeva, approfittò del suo viaggio per preparare i suoi discepoli; trasformò così la convivenza e l’intimità che gli permetteva il camminare insieme per diversi giorni, in scuola esclusiva per i suoi accompagnatori: consapevole che camminava verso la sua morte, ha voluto fare dei suoi discepoli, seguaci che lo accompagnavano fino alla fine. Ricordando episodi di questo viaggio e i contenuti dell’insegnamento di Gesù, ci offre così la possibilità unica, di accettare il suo insegnamento, di trasformarci in suoi discepoli. Rispetto ai primi, che con Lui hanno fatto il cammino, abbiamo la fortuna di sapere come finì il suo viaggio: sapendo già prima che la sua istruzione è previa alla sua morte, potremo assumerla con maggiore interesse e con meno resistenze. Ci troviamo, allora, in migliori condizioni per capire Gesù di quanti prima lo ascoltarono lungo la strada di Gerusalemme.

51 Quando venne il tempo dell’ascensione, Gesù decise di andare a Gerusalemme. 52 E mandò messaggeri davanti a lui.
Lungo la strada, entrarono in un villaggio di Samaritani per preparare l’alloggio. 53Però non fu ricevuto, perché era diretto verso Gerusalemme. 54 Al vedere questo, Giacomo e Giovanni, e i suoi discepoli lo interrogarono: « Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi »?
55 Ma egli voltatosi li rimproverò. 56E andarono in un altro villaggio.
57 Mentre camminavano, uno gli disse: « Ti seguirò dovunque tu vada ».
58 Gesù rispose: « Le volpi hanno tane e gli uccelli nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo ».
59 A un altro disse: ‘Seguimi’.
Gli rispose: « Lasciami andare prima a seppellire mio padre ».
60Gesù diss: « Lascia che i morti seppelliscano i loro morti, tu va ‘e annunzia il regno di Dio ».
61 Un altro gli disse: « Ti seguirò, Signore. Ma prima permettetemi di dire addio alla mia famiglia « .
62 Gesús rispose: « Chi mette mano all’aratro e guarda indietro non è adatto per il regno di Dio ».
1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice

La narrazione del viaggio a Gerusalemme (Lc 9,51-19,29) si apre in modo solenne: essendo cosciente del fatto che si avvicina il momento di « ascendere » al cielo, Gesù decide di « salire » a Gerusalemme, seguendo un preciso piano divino, non la sua volontà (cfr. Lc 9,31).
E non è un caso che questo cammino, che risulterà essere una via crucis, inizi con un rifiuto e con un rifiuto finirà: sarà portato in cielo chi è stato respinto dagli abitanti del villaggio della Samaria (Lc 9,53), dalle autorità e dal popolo, a Gerusalemme (Lc 23,13-23). Come buon Ebreo, Gesù avrebbe potuto scegliere di passare attraverso la Valle del Giordano, evitando di passare per la Samaria. Dal momento che il suo viaggio a Gerusalemme non è una libera scelta, non è possibile nemmeno scegliere la strada. E approfitta dell’incidente per istruire i suoi discepoli arrabbiati (i « figli del tuono »: Cfr. Mc 3,17). E lo fa con severità e flessibilità: rimprovera i suoi e prende un’altra strada. Chi è vittima di violenza rifiuta la violenza dei ‘suoi’!
I tre brevi incontri di persone che vorrebbero seguirlo hanno però altre giuste priorità, esemplificano che tipo di seguaci desidera il Gesù che cammina verso la sua ‘ascensione’. Luca non li identifica con i loro nomi, ma per il loro desiderio: i tre vogliono andare con Gesù. Di nessuno conosciamo la reazione che suscitano le dure parole di Gesù. La cosa importante per il narratore non è la buona volontà dei pretendenti ad essere discepoli, ma gli avvertimenti che Gesù fa, attraverso loro, a chi sogna di essergli seguace.
Il primo (Lc 9,57) e il terzo (Lc 9,61), dichiarano a Gesù la loro volontà di seguirlo. Solo il secondo è quello che Gesù invita a seguirlo (Lc 9,59). La risposta di Gesù al primo volenteroso seguace non può essere più devastante: voleva seguirlo ovunque, ma Gesù lo avverte che non ha nessun posto dove andare, nessuna casa dove riposare (Lc 9,58); decisivo nella sequela non è il posto dove andare, ma la persona di Gesù, che si vuole accompagnare.
Gli altri due, tanto lo scelto (Lc 9,59) come quello che vuole scegliere (Lc 9,61), fanno riferimento ad una situazione familiare che rende ‘secondaria’ la sequela. Anche se seppellire il padre era un dovere ineludibile di pietà e congedarsi dalla famiglia una logica decisione personale, Gesù non le considera vere ragioni: il regno deve riempire il tempo e il cuore di chi lo avrebbe seguito. I seguaci di Gesù non avranno un posto dove andare, ma non potranno occuparsi di nessuno che non sia Lui e il regno di Dio.
2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo!

Luca inizia il suo racconto del viaggio di Gesù a Gerusalemme. Ed è abbastanza significativo che ricordi che iniziò male quello che sarebbe finito male: la via che lo condurrà alla morte a Gerusalemme, inizia con un clamoroso rifiuto. Gli viene negata ospitalità nel suo passaggio per la Samaria. Gesù non reagisce allo sgarbo, ma non si lascia sfuggire l’occasione e trasforma l’episodio in istruzione per i suoi discepoli: ciò che è successo a loro non è un semplice aneddoto, è un segno che anticipa quanto sta per accadere. Gesù nega a chi lo segue il ricorso all’uso della violenza verso gli altri, ma impone la violenza verso se stessi. Per quanto logico sia rispondere all’insulto, non è questo un buon inizio per il cammino che si sta per percorrere. Non si tratta solo di assumere il rifiuto dei forestieri, ma bisogna anche allontanarsi dai propri cari; chi lo vuole seguire non avrà né casa propria, né propria famiglia. E’ degno di accompagnarlo solo chi si occupa del Regno di Dio. Qualsiasi altra preoccupazione, anche se ragionevole e virtuosa, non è valida per Gesù: la casa del discepolo è, come per il suo Signore, la predicazione del vangelo; e il suo destino, il dono della vita. Chi segue Gesù, in cammino verso Gerusalemme, dovrebbe sapere dove lo porterà.
Va notato che Gesù ha iniziato questo suo ultimo viaggio con il piede sbagliato. Un villaggio gli ha negato ospitalità perché si dirigeva a Gerusalemme. La reazione dei discepoli è più che comprensibile; avrebbero desiderato il castigo di Dio per coloro che rifiutavano chi andava alla sua ricerca. Gesù, invece, li rimprovera. Non perché avrebbero fatto ricorso alla violenza, ma solo perché lo avevano desiderato. Non volevano attuarla loro, ma pensavano lasciare questa decisione nelle mani di Dio. Credevano che fosse sufficiente chiedere a Dio la vendetta contro chi aveva offeso Gesù, per ottenere una risposta positiva da parte di Dio. Non era questo il metodo di Gesù; e non sopporta che lo vogliano utilizzare i suoi discepoli: il Dio di Gesù non ascolterà mai preghiere nate con spirito di vendetta. Nonostante le loro buone intenzioni – cercavano di salvare l’onore oltraggiato di Gesù -, la loro preghiera non è stata autorizzata. Non è una preghiera degna di un cristiano chiedere il male per coloro che non sono stati buoni con lui. Neanche Gesù offeso è una buona ragione per desiderare il male per l’oltraggiatore.
L’unica violenza che il discepolo deve desiderare è quella che viene dalla sequela di Gesù: non ha tempo da perdere a pensare a punizioni per gli altri chi deve occupare il suo tempo nell’andare dietro a Cristo. L’unica violenza che i cristiani devono attuare è quella che ha a che fare con se stessi. Troppo spesso, i discepoli di Gesù diventiamo duri con gli altri, solo per dimenticare meglio l’asprezza delle esigenze di Gesù. Rispondendo con prontezza alle ingiustizie che ci fanno, per essere cristiani, crediamo di essere liberi di rispondere degli impegni propri del cristiano. Solo perché dobbiamo affrontare il rifiuto di alcuni, ci crediamo in diritto di rifiutare quelli che non sono d’accordo con le nostre idee o persone.
Il fatto è che Gesù ci ha già avvertito: seguirlo non sarà facile. Non basta entusiasmarsi momentaneamente di Lui. A chi gli ha promesso di seguirlo ovunque, Gesù rispose che non aveva un posto dove andare. Sulla strada per Gerusalemme, Gesù non aveva una casa o un letto da offrire a chiunque. E non lo nascose a chi desiderava accompagnarlo: per sé non aveva nemmeno ciò di cui dispongono gli animali per il loro riposo. A chi desidera accompagnarlo, ma gli chiede di poter seppellire suo padre, Gesù risponde che non c’è alcun ritardo possibile per coloro che sono chiamati ad annunciare il regno di Dio. Anche i morti devono aspettare, quando si tratta di predicare il Dio vivente: un genitore da seppellire non va prima della proclamazione del Vangelo. E a chi desidera solo salutare i suoi amici prima di entrare nella cerchia dei suoi discepoli, Gesù dice che non è adatto ad occuparsi del Regno chi si volge a guardare ciò che si è lasciato alle spalle. Niente è più degno di Dio e il suo regno per essere servito.
Peccato che tali risposte ci risultino già tanto conosciute! Non captando lo scandalo che palpita nelle sue parole, non percepiamo l’incredibile delle richieste che Gesù pone a coloro che vogliono seguirlo più da vicino. Siamo entusiasti di sapere che cosa Gesù si aspetta di tutti coloro che vogliono essere suoi discepoli senza rendersi conto di quanto sono disumane le sue pretese. Essere compagno di Gesù è una sfida che pochi osano affrontare. Se ci sono ancora molti che si dicono suoi discepoli, lo sono perché hanno capito ben poco le sue parole.
Come può chiederci di seguire un maestro che non ci offre neanche un posto per riposare? Gesù non ha ingannato chi si è dichiarato pronto a seguirlo: non avendo casa né cuscino, potranno condividere il sonno e la fatica, mettere in comune la povertà e la solitudine, mentre si gode della sua parola e della sua convivenza. L’unico privilegio del seguace di Gesù è quello di avere il suo maestro come compagno di fatica e di riposo. Non promettendo niente di più, avvertendo chiaramente che in sua compagnia non avrà nemmeno ciò che gli animali ottengono, Gesù ci insegna a non illuderci di ottenere qualche beneficio dalla nostra vita cristiana. E vuole che prima che ci impegniamo a seguirlo da vicino, ci fermiamo a pensare se vale la pena seguire chi ci può promettere tanto poco. Faremmo bene se ce lo prospettassimo oggi.
Come non sorprendersi dinanzi a un maestro che impedisce al suo discepolo di andare a seppellire suo padre? Nel tempo di Gesù, seppellire i morti era un’opera di misericordia, tanto più nel caso del Vangelo, se il defunto era il padre. Era un obbligo imprescindibile. L’urgenza che sente Gesù per la predicazione del regno di Dio impone una situazione eccezionale: coloro che non sono stati chiamati ad annunciare Dio, possono occuparsi dei nostri morti. E’ degno di Dio solo chi lo pone al di sopra di ogni altro dovere, per quanto sacrosanto sia. Chiunque voglia seguire Gesù deve essere disposto a sacrificare ogni obbligo, pur di non rimandare l’annuncio di Dio: tutto può essere rimandato per il discepolo di Gesù, meno la predicazione del Regno. A chi non sembra eccessivo, fuori di logica, tale requisito? E si merita di essere seguito un maestro che insegna tale dottrina?
E come non inorridire per la durezza di un maestro che non permette che un semplice saluto possa ritardare la sequela volontaria? Come ci potrà capire chi non comprende che dobbiamo qualcosa anche ai nostri? Eppure, Gesù continua a volere solo discepoli che non perdono tempo a coltivare relazioni che non hanno futuro. Solo ciò che sta per venire, il regno di Dio, deve occupare il cuore e le mani del discepolo di Gesù; tutto il resto non conta. Gesù non vuole nient’altro che non sia Dio a preoccupare veramente coloro che vivono accompagnandolo. Non si tratta di rompere con nessuno per seguire Gesù; lui non vuole che ci inimichiamo i nostri se abbiamo deciso di seguirlo; ma non permette che ci sia qualcosa né qualcuno che faccia ritardare la sua consacrazione a Dio e al suo regno: i discepoli di Cristo non trovano un buon motivo per rimandare la propria dedizione al lavoro missionario. Faremmo bene se ce lo prospettassimo oggi.
Se Gesù è stato abbastanza onesto da dirci le condizioni, noi possiamo, almeno, corrispondere riflettendoci un po’ di più. Seguirlo senza considerare a che cosa ci impegniamo, è abbassare le sue richieste a semplici suggerimenti. Chi segue Cristo, segue il suo cammino e le sue condizioni. E’ facoltativo seguirlo. Ma una volta dietro di lui, non sono più liberi né il modo né la meta della sequela. Conviene che ci riflettiamo: possiamo lasciarlo oggi, ma se non lo facciamo, saremo costretti a percorrere la via che lui sceglie per noi e con le condizioni che lui ci pone. E una cosa è certa: né il suo cammino né le circostanze saranno molto diversi dal cammino che lui ha fatto né dal modo come lo ha percorso.


  JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

IL SIGNIFICATO DELL’AUTENTICA LIBERTÀ – INTERVENTO DEL PATRIARCA ECUMENICO DI COSTANTINOPOLI…

http://www.zenit.org/it/articles/il-significato-dell-autentica-liberta

IL SIGNIFICATO DELL’AUTENTICA LIBERTÀ

L’INTERVENTO DEL PATRIARCA ECUMENICO DI COSTANTINOPOLI NELLA LECTIO MAGISTRALIS A DUE VOCI A PALAZZO REALE DI MILANO

Milano, 15 Maggio 2013 (Zenit.org)

Riprendiamo l’intervento del Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, durante la lectio magistralis a due voci con il cardinale arcivescovo di Milano, Angelo Scola, organizzata oggi nella Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale a Milano. L’evento fa parte delle celebrazioni per il 1700° anniversario della pubblicazione dell’Editto di Milano.
***
« Cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos »
(Secundum Ioannem, 8, 32)

E’ per la nostra Umile Persona una benedizione e motivo di gioia trovarci oggi a Milano per i festeggiamenti in occasione dei millesettecento anni dalla pubblicazione dello storico Editto di Milano, che ha rappresentato una tappa fondamentale nella storia della umanità.
L’Editto ha costituito anzitutto una svolta importante per la vita del suo autore, l’imperatore Costantino il Grande, conducendolo verso la fede cristiana e la vita ispirata dal Vangelo. Ora è tra i Santi ed è protettore e benefattore della Chiesa. Con l’Editto Costantino ha reso il Cristianesimo una religione libera nel grande Impero Romano e ha posto le basi del primo stato cristiano.
Ci rallegriamo, dunque, perché ci troviamo con voi, in questo luogo benedetto dai martiri, santificato dalla presenza di tanti Santi della Chiesa cristiana indivisa. Anzitutto il grande Padre Ambrogio, patrono della Chiesa di Milano, buon pastore di questa città benedetta da Dio, continuatore dei Santi Apostoli nell’opera dell’evangelizzazione. Ricordiamo poi i Santi martiri Sebastiano, Nazario, Gervasio, Celso e Protaso che con l’effusione del sangue hanno suggellato la loro fede in Cristo, la cui pratica poco tempo più tardi Costantino il Grande renderà libera.
Questi cinque Santi Martiri, protettori della città di Milano e intercessori verso Dio per i suoi figli, costituiscono anche per noi modello ed esempio per la loro totale dedizione fino alla morte al Capo della vita, il Signore dei vivi e dei morti, il vincitore della morte nostro Signore Gesù Cristo.
Esprimiamo il nostro compiacimento, perché le sacre reliquie di questi martiri, generosamente concesse dal predecessore di Vostra Eminenza e ora custodite nella sede del nostro Patriarcato Ecumenico, rafforzano i sacri legami spirituali con questa Città e Arcidiocesi.
Desideriamo innanzitutto ringraziare l’amatissimo fratello in Cristo l’Eminentissimo Signor Cardinale Angelo Scola, che con il suo gentile invito ci ha dato la gioia e la possibilità di partecipare a questi festeggiamenti, con tanto impegno organizzati nella Città in cui fu pubblicato l’Editto.
Come piccolo contributo alla comprensione reciproca, grato per l’onore conferitoci di intervenire ora davanti a voi, esponiamo pochi semplici pensieri sul significato della libertà, sotto varie prospettive, nella nostra Chiesa Ortodossa, nella cristianità e nel mondo.
Milano festeggia i 1700 anni dalla concessione della libertà di religione e la fine delle disumane e dure persecuzioni causate ai cristiani dai seguaci di religioni pagane che adoravano l’immagine di Cesare, il sole, la luna, le stelle, le statue inanimate dei dodici dei demoniaci…
Siamo venuti dalla città fondata da San Costantino per onorare solennemente l’anno Costantiniano. L’anniversario dei millesettecento anni dalla pubblicazione dell’Editto o – come altri lo definiscono – del Dogma di Milano, costituisce un’occasione unica per il nostro tempo, nel quale spesso si assiste alla violazione degli elementari diritti umani, per spiegare questa fondamentale eredità di Costantino il Grande, grazie alla quale fu realizzata per la prima volta la fecondazione della legislazione romana con il pensiero cristiano e, inoltre, è stata raggiunta una conquista decisiva per il futuro della umanità: il concetto della libertà religiosa.
La decisione di Milano ha posto in condizione di parità legale il Cristianesimo, fino ad allora perseguitato, concedendogli libertà religiosa istituzionalmente registrata. In tal modo fu aperta la via per fondare il primo e unico stato cristiano dell’ecumene, portando benefici culturali e contribuendo all’evangelizzazione del Continente Europeo.
I. Libertà spirituale – la deformazione del suo senso nel mondo moderno
Generalmente si considera la libertà un concetto astratto, specialmente nella comunità intellettuale, politica, accademica e culturale senza che se ne evidenzi la profondità del suo mistero.
Scrive il Santo Crisostomo: “Libertà è la mancanza di arroganza e vanità” (Commento della Lettera agli Ebrei, XXVIII, P.G. 63,200). “Questo precisamente è libertà, quando anche nella schiavitù brilla, nella schiavitù la libertà si dona” (San Giovanni Crisostomo, Commento alla Iª Lettera ai Corinzi, XIX, P.G. 61,157).
Come del resto ha vissuto e testimoniato con la vita, durante questi 17 secoli, il Patriarcato Ecumenico: costretto alla schiavitù secondo il mondo, ma libero, indomito, non soggiogato nel pensiero e nello spirito.
L’assoluta libertà che ci ha concesso il nostro Signore Gesù – dono rinnovato nella pratica da Costantino il Grande, con la firma 17 secoli fa qui a Milano insieme al suo collega imperatore Licinio della legge sulla tolleranza religiosa – costituisce un sommo bene spirituale e un inafferrabile regalo di Dio. Il primo uomo, Adamo, fu plasmato da Dio a Sua immagine e somiglianza. Dio ha donato alla Sua creatura il Suo più prezioso dono: essere padroni di sé stessi, cioè della libera volontà e della possibilità di scegliere di appartenerGli o di negarLo.
Dio può realizzare tutto, ma non desidera costringere l’uomo ad amarLo. Soprattutto rispetta la libertà dell’uomo. “Dio è amore” (I Gv 4,16), è libero amore verso l’uomo e cerca il libero amore della Sua creatura. E Dio nessuno l’ha visto mai, perché anche l’amore non viene visto con l’occhio nudo, né si manifesta con complimenti, conviti e feste, ma viene vissuto nel cuore, si manifesta nella verità con il sacrificio e la croce di chi ama a beneficio della persona amata.
Tramite il Dio-Uomo Cristo e la Sua opera salvifica, Dio ha voluto convincere e non violentare; chiamare e non cacciare; amare e non giudicare; liberare e non schiavizzare.
Questa libertà occupa, allora, uno posto centrale nella vita dell’uomo che desidera avvicinare Dio. Durante l’esercizio della Sua opera salvifica nel mondo, il Verbo di Dio incarnato afferma: “A quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31-32).
Questa libertà è un profondo, eterno, incomprensibile mistero. Non può facilmente essere determinata o compresa in un concetto.
Durante la nostra epoca, principalmente nei secoli XIX e XX, molti discorsi sono stati fatti sulla libertà e tante guerre combattute per la cosiddetta libertà dei popoli.
Questa libertà, essendo spesso separata dal suo Datore primo, il datore di ogni dono, Dio, viene isolata, divinizzata, acquista un carattere antropocentrico, diventa onnipotente, causando – fenomeno non raro nella storia della umanità – grandi crimini nel nome di questa libertà onnipotente e antropocentrica.
Occorre distinguere la vera libertà della quale parla il Vangelo, e che Costantino il Grande ha realizzato, dalle altre forme di libertà che non costituiscono il bene supremo donato da Dio all’uomo, ma che sono una debole imitazione, o deviano in falsificazioni della vera libertà.
Una libertà ingannevole è ad esempio la libertà carnale che soddisfa i desideri inferiori dell’uomo e le sue esigenze individuali, e gli impedisce di condurlo a Dio, degradandolo ad un livello di esistenza inferiore, istintiva e bestiale, per la quale non fu plasmato da Dio.
Purtroppo oggi la libertà è ridotta a uno dei beni più “maltrattati” nell’umanità, soggetta continuamente all’arbitrio e alle ideologie umane. Gli uomini, soprattutto chi si sente “superiore”, credono di essere liberi quando possono indiscriminatamente soddisfare i propri desideri, compiendo ciò che vogliono quando vogliono, senza limiti, decidendo e operando, commettendo ingiustizie nel silenzio di coloro che gli stanno attorno, ammazzando e venendo applauditi: tutto e sempre nel nome della libertà.
Oggi, oltre alla crisi economica mondiale e ogni altra crisi, viviamo anche la crisi della libertà.
Tutti si tormentano sulla terra, tutti protestano, desiderano e cercano la libertà, alcune volte versano anche il proprio sangue per questo, ma pochi sono coloro che la trovano e l’acquisiscono; pochi sono quelli che conoscono il contenuto della vera libertà e dove essa si trovi.

II. Il concetto della vera libertà
Però la possibilità dell’uomo di fare ciò che vuole non solo non è libertà, ma, anzi, costituisce la peggiore forma di schiavitù. Lo stesso nostro Signore Gesù Cristo, nel Santo Vangelo, mostra il significato della vera libertà. Quando i Giudei con stupore chiedono al Signore di quale libertà stia parlando, visto che “siamo seme di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: diventerete liberi?”, Egli risponde in modo molto particolare: “In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero” (Gv 8, 34-36).
Il peccato è la peggiore forma di schiavitù dell’uomo: liberandosene si ha il presupposto per l’acquisto della vera libertà. Nessuno è libero, se non nega l’auto-adorazione del suo “ego”, se non supera il suo “se stesso” peccatore, se non vince i suoi desideri e le sue passioni peccatrici.
La libertà dal peccato è l’unica libertà reale. Questo sottolinea il Protocorifeo Apostolo Paolo scrivendo ai Romani (6, 22-23): “Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore”.
L’uomo è libero quando raggiunge la santificazione e la purificazione totale della sua esistenza. E’ libero proprio secondo il grado della sua liberazione dalle catene del peccato che genera la morte. E’ libero quando nega se stesso a favore dell’altro, quando sacrifica la sua esistenza, le sue aspettative, i suoi “interessi” a favore del suo fratello, del suo amico, del suo prossimo e di Dio.
Il concetto e la verità della libertà furono rivelati nel mondo con Cristo come incontro del Dio personale con l’uomo personale.
L’uomo non può essere autentico uomo se non è in comunione con Dio. Anzi nega la sua umanità quando l’uomo si costituisce come un assoluto, quando nega di sottomettersi alla volontà divina, quando nega la legge di Dio (i dieci comandamenti dell’epoca prima della Grazia e principalmente il Vangelo di Cristo); quando ha come criterio esclusivamente se stesso per decidere cosa sia bene e male.

III. L’esempio e la parola di un Santo della Chiesa Ortodossa
Dopo quasi 1900 anni dall’incarnazione di Cristo nel mondo, un asceta del Santo Monte Athos, San Silvano, fornisce la misura e la definizione della vera libertà: “La vera libertà è la continua permanenza in Dio” (Archim. Sofronio, L’Anziano Silvano di Athos (1866-1938), Tessalonica, p. 64).
Quanto più ci allontaniamo da Dio, tanto più diventiamo schiavi delle passioni, delle idee, dei desideri, dei possedimenti, del denaro: così ritorniamo all’idolatria, ad un neo-paganesimo, al “rispetto della immagine di ogni Nabucodonosor”. E ciò nonostante il progresso, i voli nello spazio, i “miracoli” della scienza e della tecnologia e le conquiste “incredibili”.
A questa libertà giunse anche Costantino Il Grande e grazie a questa libertà fu liberato dal culto dell’idolo di se stesso, dell’idolo dell’imperatore, che fino ad allora si adorava come Dio, sottomettendosi invece umilmente alla Volontà dell’umile e mansueto Gesù, di Cui divenne servitore e discepolo. Di questa vera libertà erano possessori anche tutti i Santi, i Martiri, i Beati e i Giusti della nostra Chiesa, come Ambrogio di Milano e tutta la lunga catena dei Santi fino ai nostri giorni.
Lo Ieromonaco Sofronio riporta il contenuto di una conversazione dell’asceta atonita San Silvano con uno studente che visitò il Sacro Athos e parlò a lungo della libertà. Silvano, venerato oggi come Santo, rispondendogli così si espresse: “Chi non vuole la libertà? Tutti la vogliono, ma devi sapere dove sta e come puoi trovarla. Per diventare libero devi vincolare se stesso. Quanto più  vincoli te stesso, tanto più grande libertà avrà il tuo spirito. Devi incatenare le tue passioni dentro di te per non farti dominare; devi incatenare te stesso per non fare il male al tuo prossimo.
Di solito gli uomini cercano la libertà per fare “ciò che vogliono”. Però questo non è libertà, ma non-libertà, dominio del peccato sopra di noi. Noi crediamo che la vera libertà consista nel non peccare, nell’amare il Signore e il tuo prossimo con tutto il tuo cuore e tutta la tua forza” (Archim. Sofronio, come sopra, pp. 63-64).

IV. L’acquisto della vera libertà con il pentimento e la permanenza in Dio
Modello della perfetta libertà è la “kenosis-svuotamento” di Dio che ci da tutto e Se Stesso. Questa è la libertà perfetta: “Prendete, mangiate; questo è il mio corpo che viene spezzato per voi in remissione dei peccati”. Egli è al tempo stesso “colui che si offre e la vittima che viene offerta; colui che si dona e il sangue che viene donato” in libertà e totalmente: Cristo, il nostro Dio.
Il Signore non vuole la morte del peccatore ma al pentito dona la Grazia dello Spirito Santo. Egli dona nell’anima la pace e la libertà di permanere in Dio sia con la mente che con il cuore. Quando lo Spirito Santo perdona a noi i peccati, l’anima riceve la libertà di pregare in Dio e in Lui trova riposo e gioia. Questo è vera libertà. Senza la libertà di Dio è impossibile esistere: i nemici scuotono l’anima con pensieri malvagi.

V. La vera libertà sta nell’amore
Come realizzeremo queste parole, come acquisteremo la vera libertà in un mondo, ateo, pluralista, in cui dominano tendenze nazionaliste, la violenza, l’ideologia, l’interesse, le frammentazioni sociali, l’incostanza della classe dirigente che muta opinione e parere contrastando così la sapiente coerenza? La vera libertà si trova nella nostra permanenza in Dio. Come possiamo permanere in Dio per restare veramente liberi quando non siamo coerenti nei nostri atti? Nella lingua greca la parola coerenza significa il valore che ho e possiedo, che non cambio spesso con arretramenti.
Troviamo risposta nella voce ispirata da Dio di Giovanni il Teologo ed Evangelista: “Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (I Gv 4, 16-17). La libertà, allora, si trova nell’amore, nella nostra sottomissione, nel nostro servizio per gli altri. L’Apostolo delle Genti Paolo ci da l’ethos della libertà, con la totale kenosis/svuotamento dell’uomo a favore dei suoi fratelli: “Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (I Cor 9, 19-22).
La Croce della libertà è la Croce dell’amore. L’unica illimitata libertà è l’illimitato amore. I Santi lo testimoniano empiricamente. Siamo liberi quando amiamo. Senza l’amore l’illimitata libertà diventa illimitata violenza, oppressione e dissolutezza, come disgraziatamente capita in molte situazioni – anche in quelle ecclesiastiche – dove è entrato lo spirito di questo mondo, l’immoralità, la rapina, la copertura e la tolleranza dei potenti a situazioni illiberali. Ma Dio vede tutto e interviene al momento opportuno con vero giudizio, come “giusto giudice”.
La richiesta di vera libertà conduce nel totale amore, l’amore crocifisso e sacrificato. Quindi libertà senza croce non può esistere. “Prenderò una salita, prenderò sentieri per trovare gli scalini che conducono alla libertà”, scriveva un quindicenne eroe e combattente della libertà, spiegando che presupposto della libertà è la croce, il sacrificio.
La via della libertà cristiana è la via della croce e dell’ascesi faticosa, della profonda umiltà, del pentimento, della vittoria sopra se stessi, della negazione di ogni interesse a favore dell’amore. La vera libertà è unita con l’amore, si sviluppa dentro la libertà dell’amore. Cristo è il testimone della libertà e dell’amore, del libero amore tra Dio e uomo.
La legge della libertà sarà anche la misura del nostro giudizio finale, che si esprimerà tramite la legge dell’amore. “Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia”, dice il Santo Apostolo Giacomo, il Fratello del Signore (Giac 2, 12-13).
Nell’attuale società delle rivendicazioni e dei diritti, l’uomo fatica a capire il significato della vera libertà dell’amore: cercando di dominare i suoi fratelli, da servitore della libertà si trasforma servo di se stesso.
Comprendiamo che siamo veramente liberi quando veniamo crocifissi e non quando crocifiggiamo; quando sacrifichiamo i nostri diritti a favore dei diritti degli altri; quando offriamo e condividiamo, non quando rivendichiamo. Vera libertà è nel dare, non nel ricevere.

VI. La libertà come espressione di civiltà e vita e linea direttiva della storia
Con questi presupposti di reale libertà non sussistono motivi religiosi per un violento scontro tra le culture e i principi di Cristianesimo e Islamismo. La recente e nota teoria dell’inevitabile scontro violento tra queste civiltà non trova fondamento su veri motivi religiosi. Se le aspirazioni delle nazioni o fattori geopolitici conducono a conflitti tra popoli musulmani e cristiani, se le religioni si mettono al servizio dei politici per rafforzare l’idea della diversità, dell’ostilità di un popolo verso un altro, ciò non ha alcuna relazione con la vera natura della libertà.
Del resto le guerre e tutti gli atti di inimicizia tra gli appartenenti alla medesima religione e alle sue variazioni, come gli Ortodossi di Serbia e i Romano-Cattolici di Croazia, i sunniti e sciiti musulmani, testimoniano che le cause reali di questi conflitti non sono le divergenze sul concetto della libertà, ma rivendicazioni riferibili ad altre questioni pratiche. Ciò diventa ancor più evidente nei casi di conflitto tra popoli che appartengono precisamente alla medesima fede religiosa, fenomeno che spesso si manifesta nella storia fino ai nostri giorni.
Il modo fondamentale per appianare ogni differenza etnica, economica, ideologica e di altra natura è lo sviluppo di dialoghi seri e in buona fede tra le parti, vivendo il dono divino della libertà quotidianamente e con coerenza in ogni ambito. E ciò vale specialmente per i capi religiosi. Altrimenti Dio permetterà catastrofi, distruzioni e insuccessi nelle nostre opere a causa del cattivo uso del dono della libertà e dell’amore.
La vera libertà dissolve pregiudizi, contribuisce alla comprensione reciproca e prepara il terreno per trovare soluzioni pacifiche di tutti i problemi. Ma la più importante conseguenza della libertà è che avvicina e rivela la vera personalità di chi dialoga.
E’ la libertà con la quale Cristo ci ha liberato a costituire l’occasione per superare i nostri limiti anche nel comprendere il punto di vista del nostro interlocutore. Questo libera lo spirito dall’unilateralità dell’approccio. In questa apertura verso la percezione dell’altro c’è un pericolo e sta nel pensare che il confronto con l’altro metta in discussione i fondamenti stessi della nostra fede. Non esiste più grande pericolo del valutare che il nostro edificio spirituale risulti indebolito dalla considerazione che la bellezza e la perfezione dell’edificio del nostro interlocutore siano migliori delle nostre.
Molti uomini sono talmente legati alle proprie convinzioni da decidere di sacrificare la propria vita piuttosto che cambiarle. Da loro si leverà perciò la domanda se così noi proponiamo l’instabilità e il facile mutamento della fede. Non proponiamo ciò. Proponiamo invece l’approfondimento, la continua e più profonda infiltrazione nella verità. Colui che approfondisce questa affermazione constata che spesso le idee che gli sembravano fino ad allora contraddittorie si accordano fra di loro.
Il Vangelo ci mostra un esempio: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà” (cfr. Mt 16,25). Chi vuole salvare la sua vita deve accettare di sacrificarla, perché la vita si guadagna quando viene sacrificata e non quando con pusillanimità e con la paura di perderla viene custodita dai pericoli. La contraddizione è evidente, e l’accettazione di questo schema di antinomia contraddice il ragionamento di chi rimane rigido. E’ quanto testimoniano coloro che hanno vissuto nei campi di concentramento: gli amanti della propria vita – quelli che tentavano custodire se stessi dai pericoli – perdevano la lotta con l’esistenza, mentre sopravvivevano coloro che volontariamente accettavano il sacrificio.
Nel profondo dell’animo di quel padre palestinese – che anni fa ha donato ad un ospedale israeliano gli organi del suo giovane figlio ucciso dagli israeliani, affinché fossero trapiantati in un giovane malato senza distinzione, sia israeliano che palestinese – ha brillato un luminoso raggio di luce che gli ha rivelato la verità: tutti gli uomini sono fratelli, malgrado in molti oggi disgraziatamente credano di essere radicalmente diversi dagli altri e di non potere convivere pacificamente con loro. Come notte e giorno sono un’unica e medesima cosa, perché non sono un’unica e medesima cosa greco, italiano e giudeo, servo e libero, uomo e donna, uomo e uomo di qualsiasi tribù, lingua e religione? 

VII. Il libero spirito greco antico
I greci antichi si sono distinti per la loro capacità di ricevere dal prossimo conoscenze e idee e di valorizzarle senza il timore di degradazione o disprezzo. L’altissimo sviluppo dello spirito greco antico durante l’epoca classica si deve anche a questo incrocio voluto tra le loro idee e quelle di altri popoli e civiltà, fondendo con discernimento ammirabile in un nuova sintesi tutto il bene incontrato fuori dall’Ellenismo.
Questa libertà di spirito si trova alla base di ogni progresso spirituale. Noi crediamo che dove esiste lo Spirito di Dio lì stia la libertà. Il pericolo che soffre la libertà spirituale è di non considerare i beni che essa offre. Purtroppo, come abbiamo già detto, in molti costruiscono un castello spirituale e ideologico dentro il quale si chiudono per assicurare la propria integrità spirituale. Malgrado questo sforzo, comprenderanno con il tempo che quanto più si cautelano contro l’ingresso nello  spirito di nuove idee, tanto più “angosciosa” diventerà la loro vita, perché l’infiltrazione delle idee è talmente forte che nessun ostacolo ne può impedire l’ingresso nei cuori degli uomini.
Occorre chiarire che l’approfondimento nella verità della libertà non ha come conseguenza obbligata il cambio di religione, come viene sostenuto oggi da molti. E’ possibile che in alcuni casi capiti, e il diritto di ognuno di cambiare fede deve essere rispettato. Ma parlando di approfondimento noi intendiamo il miglioramento del modo di pensare e di comprendere, quindi la più chiara conoscenza della verità nella libertà.
Nella lingua ecclesiastica greca usiamo la parola “metanoia”, che esattamente significa cambio della mente, della mentalità, operazione necessaria, secondo i Padri della Chiesa, vicina al pentimento. “Nel pentimento sincerità, nel pentimento libertà”, dice San Giovanni Crisostomo (Sul Pentimento, VIII, P.G. 49, 338).
In questo cambio di mentalità contribuisce molto la conoscenza e l’aspirazione della vera libertà: speriamo che tramite l’anniversario che stiamo festeggiando raggiungeremo un migliore approfondimento almeno di quelle verità che facilitano la pacifica convivenza degli uomini. Perché le differenze tra gli uomini sono minori della differenza del giorno dalla notte, in ogni caso.

VIII. Il vissuto della vera libertà tra Cristiani e Musulmani
Di particolare attenzione necessita lo sviluppo dei temi che si riferiscono alla situazione dei cristiani nei paesi musulmani e dei musulmani in quelli cristiani. La situazione dei cristiani in alcuni paesi musulmani ha bisogno di importanti miglioramenti per consentire libertà e possibilità analoghe a quelle che i musulmani godono nei paesi cristiani.
C’è bisogno di procedere verso questa direzione abbandonando le angosciose ferite del passato. La storia ha registrato comportamenti di popoli e governi cristiani non compatibili con il Vangelo, come anche di comportamenti di popoli e governi islamici non in accordo con il Corano. E’ tempo di fare come dice il Signore. Di convergere tutti verso ciò che comanda per tutti la volontà di Dio. Chi ha grazia nel cuore sperimenta che Dio misericordioso e pietoso non si compiace delle stragi ma della pace, altissimo bene e dono divino. Cristiani e musulmani gioiscono reciprocamente della parola di pace che si identifica con la libertà.
IX. Il comportamento della Chiesa Ortodossa di fronte alla cura per la libertà e i diritti dell’uomo.
Certamente tutto detto quanto fin qui non sottovaluta le conquiste e i progressi delle società umane riguardo alle libertà e ai diritti dell’uomo. Queste conquiste hanno come inizio l’Editto pubblicato 1700 anni fa in questa storica Città. Perciò avete e abbiamo diritto di esaltare l’atto e le conseguenze scaturite dall’Editto.
La preoccupazione che l’uomo sia sostenuto di fronte a ogni ingiusta oppressione e privazione della sua libertà – espressa anche dopo la Rivoluzione Francese con la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo” – per il Cristianesimo non è nuova cosa ma è contenuta nell’insegnamento divino-umano sulla terra, di duemila anni fa, di Cristo e dei suoi Santi Apostoli (nei Sacri Vangeli e negli scritti dei Padri Teofori).
E questa preoccupazione non può che avere l’approvazione della Chiesa.
Ma la democrazia per la Chiesa è legale solo quando dice la partecipazione del popolo alla nomina dei capi e del governo, rispettando i diritti di Dio e le leggi divine. La pretesa della nazione di auto-determinarsi come il supremo fondamento dei canoni che ispira e istituisce le leggi, non può essere accettata dalla Chiesa, ma viene bocciata come pretesa luciferina che conduce l’uomo alla sua auto-distruzione.
Per la Chiesa ogni sforzo per l’acquisto della libertà deve essere rivolto in primo luogo verso l’uomo interiore e dopo essere esteso agli altri. Per la Chiesa Ortodossa l’uomo reca intera la responsabilità di lottare per la realizzazione dell’aspetto positivo della libertà nella sua persona, di diventare ogni giorno autenticamente libero, negando sé stesso e la sua tendenza al peccato.
Tutti i movimenti umani che hanno tentato di raggiungere la libertà fuori da Dio, senza Cristo, alla fine non solo sono falliti, ma hanno avuto anche conseguenze catastrofiche per l’umanità.
Non si deve dimenticare che alla Rivoluzione Francese del 1789, con le sue dichiarazioni progressiste, hanno fatto seguito le stragi degli anni 1792-94 e i milioni di morti delle guerre napoleoniche. Non si deve dimenticare che alla Rivoluzione d’Ottobre in Russia sono seguiti milioni di vittime delle persecuzioni staliniste e dei terribili campi di concentramento in Siberia.
Purtroppo non sono solo il fondamentalismo e l’odio religioso a privare l’uomo dei suoi basilari diritti. E’ anche la sete di libertà senza Cristo, la libertà immorale che alla fine diventa prigione. Questa sete di libertà non troverà il suo compimento se l’uomo Europeo non si ricollegherà con l’eredità cristiana di Costantino Magno, grande e santa personalità che ha tracciato un segno nella storia del mondo, come solo un santo poteva fare. Quando i popoli dell’Occidente cercano fondamento alla morale e al diritto solo nell’uomo e nella nazione dimenticando Dio, allora anche i diritti dell’uomo rimarranno semplici dichiarazioni sulla carta.
La stessa cosa succede anche oggi in Medio Oriente. Rivoluzioni, rovesciamento di regimi, guerre per richiedere più libertà e l’instaurazione della democrazia. Malgrado ciò i risultati non sono positivi e alcune volte molto scoraggianti.
La violenza religiosa, l’odio, la mancanza di tolleranza di fronte ai cristiani, continuano a dominare in Paesi teatro di rivoluzioni. Gli eventi politici che accadono nel Medio Oriente – luoghi attraversati da Dio – le catastrofi naturali, l’insicurezza verso il futuro, minacciano i cristiani, la loro vita loro e quella delle proprie famiglie. In Siria i cristiani di ogni confessione, chierici e laici, malgrado i grandi sforzi che compiono per rimanere neutrali nel conflitto civile, malgrado la loro vita tranquilla e pacifica, vengono provati e minacciati quotidianamente con sequestri e omicidi.
Il Patriarcato Ecumenico condanna senza dubbi queste e analoghe situazioni. Lontano da ogni posizione politica riproviamo – come capo spirituale e Patriarca Ecumenico – l’uso della violenza e le persecuzioni dei cristiani soltanto e solamente in quanto cristiani.
Non abbiamo timore di quelli che usano la violenza contro i cristiani, perché la Resurrezione del Signore ha vinto anche la morte. Come cristiani non abbiamo paura delle persecuzioni, perché le persecuzioni sono la pagina d’oro della storia della nostra Chiesa, hanno esaltato santi, martiri ed eroi della fede. Ma anche non cessiamo di esprimere verso la Comunità Internazionale la nostra protesta, perché 1700 anni dopo la concessione della libertà religiosa con l’Editto di Milano, continuano in tutto il mondo, sotto molteplici forme, le persecuzioni.
Facciamo quindi appello a tutti affinché prevalga la pace e la sicurezza tanto nel Medio Oriente – dove il Cristianesimo tiene i suoi più venerabili e antichi santuari e dove la tradizione cristiana è tanto profonda e collegata con la vita del popolo – quanto in tutto il mondo, dove viene calpestata la libertà della fede in Cristo con il pretesto del terrorismo, delle guerre, delle oppressioni economiche e in molti altri modi. Situazioni che si correggono solo con personali autocritiche, con la Grazia dello Spirito Santo. Tutto questo condanniamo, proclamando la libertà in Cristo. La libertà è per il cristiano modo di vita. La più elevata libertà è la purezza della nostra mente e perfetta libertà è la purezza del cuore. Questa è la libertà di Dio che ha le sue radici, la sua pienezza e la sua perfezione nella libertà dell’uomo. La libertà dell’uomo è la libertà di Dio.
L’Editto di Milano costituisce un momento culminante nella vita dell’umanità e per il nostro travagliato mondo è speranza per un domani migliore. Ed è al tempo stesso un suggerimento affinché il mondo comprenda che può raggiungere la sua reale libertà soltanto in Cristo. Testimonia San Giovanni Crisostomo, Lui che ha servito nella libertà: “Chi non cerca la gloria, già da ora riceve il premio; di nessuno è servo, ma libero nella vera libertà” (A Giovanni, 73, P.G. 59, 349).

Amen.     

Publié dans:LECTIO DIVINA, PATRIARCHI |on 21 mai, 2013 |Pas de commentaires »

« AMATE »: UN COMANDO DONATO NEL CENACOLO E SULLA CROCE – LECTIO DIVINA DI MONSIGNOR FRANCESCO FOLLO

http://www.zenit.org/it/articles/amate-un-comando-donato-nel-cenacolo-e-sulla-croce

« AMATE »: UN COMANDO DONATO NEL CENACOLO E SULLA CROCE

LECTIO DIVINA DI MONSIGNOR FRANCESCO FOLLO PER LA V DOMENICA DI PASQUA

Parigi, 26 Aprile 2013 (Zenit.org)

Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi ai lettori di Zenit la seguente riflessione sulle letture liturgiche della V Domenica di Pasqua.

Come di consueto, il presule propone anche una lettura patristica.
***
LECTIO DIVINA

“Amate”: un comando donato nel Cenacolo e sulla Croce
V Domenica di Pasqua – Anno C – 28 aprile 2013

Rito romano
At 14-21b-27; Sal 144 (145); Ap 21,1-5a; Gv 13,31-33a.34-35.

Rito ambrosiano
At 4,32-37; Sal 132; 1Cor 12,31-13,8a; Gv 13,31b-35

1) Il dono di un comando nuovo: la legge della carità.
“Amate”: questo comando, che Cristo ci ha dato, è la “Magna Carta” del Popolo che, nato dalSuo costato trafitto. È trasformato santamente per mezzo dell’Amore. La carità di Cristo spinge non solo a gesti d’amore ma anche ad una vita di carità in Lui.
Purtroppo, nel parlare o scrivere ordinario il significato della parola “amore”, che dà la vita, ha ridotto a sentimento di bontà dolce oppure a passione spesso sensuale. Nel Vangelo la parola “amore” è sempre contrassegnata dalla croce, che indica una bontà appassionata, il cui fine non è il “possesso” dell’altro ma il dono di sé all’altro. Quando Cristo dice: “Vi amo”, la croce è inclusa, egli intende la croce, cioè l’appassionato dono di sé. E in questo modo ci mostra che l’amore puro, sincero è l’amore che si dona liberamente.
Cristo rivela il suo amore in modo appassionato: con la sua Passione e Morte in Croce. L’amore, che Cristo rivela e propone con un “comando”, è detto con parole delicate e con il gesto dell’andare in Croce, dopo avercene dato prova con la lavanda dei piedi, con l’istituzione dell’Eucaristia, che fortifica e rende stabili l’amore, e con molti fraterni insegnamenti.
Molte volte abbiamo letto o ascoltato la frase di Gesù che il Vangelo romano di oggi ci propone: “Vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13, 33). Per aiutare la nostra meditazione propongo –come premessa- la spiegazione sintetica di termini:
Prima di tutto bisogna ricordare che per l’Evangelista e Apostolo Giovanni il termine “comandamento” significa la parola che rivela l’amore di Dio Padre. In effetti, nel testo greco egli usa il termine “entolè”, che ha il significato di precetto, consiglio, istruzione, prescrizione. E’ un po’ come la ricetta di un dottore che prescrive una determinata cura per il nostro bene. Sta poi al paziente seguire o no ciò che è stato prescritto. Comandamento in questo caso quindi non è un ordine perentorio, qualcosa di obbligatorio così come lo intendiamo noi nel significato corrente. La controprova che questo è il significato che Giovanni voleva dare al termine comandamento lo ritroviamo nel suo Vangelo dove il medesimo Apostolo per definire il comandamento di Mosè non usa più entolè ma “nomos”.
Nel servire e seguire Cristo dunque, non abbiamo bisogno tanto di nomos. Il nostro rapporto con Dio è molto più che un seguire delle regole per eccellenti che siano. Dio ci dà dei comandi (entolè) che ci guidano, ci formano, ci conducono sul Suo sentiero: in breve indicazioni che ci manifestano la sua volontà di salvezza.
In effetti, il termine greco usato da Giovanni è in relazione non solo all’ambito della legalità ma anche a quello della responsabilità. Gesù quindi non comunica tanto una regola, ma rivela una missione di salvezza e chiama ad una responsabilità. La traduzione latina è corretta e mette “mandatum novum” che viene da mittere=inviare. Quindi Gesù invita i suoi discepoli di allora e di oggi a mettere in essere questo mandato, a “creare” questa carità reciproca ed Egli aggiunge: «Il mondo vedrà che siete miei discepoli». Il mondo capirà che il Vangelo è vivo e in “vigore” (si dice anche della legge che è in vigore), se noi saremo amici, fratelli e sorelle tra noi. Si rinnoverà così il miracolo dei primi secoli dell’era cristiana, come lo attesta Tertulliano (n.155 – m. 230) che parla di come la gente pagana fosse stupita e dicesse: “Ma guarda, come si vogliono bene; ma guarda come c’è amore tra di loro” (Apol. 19).
Questo amore “comandato” da Cristo ha poi due caratteristiche indicate da “nuovo” e “come”.
Il comando dell’amore reciproco, fraterno è da Gesù definito «nuovo». Non si tratta di una novità puramente cronologica, ma di una novità qualitativa. Il comando dell’amore è nuovo come è nuovo Gesù, il nuovo Mosè che scrive la legge dell’amore non su tavole di pietra ma sul nostro cuore. L’amore reciproco, fraterno e gratuito è la novità della vita di Dio che irrompe nel nostro vecchio mondo, rigenerandolo. Ed è l’anticipo della vita eterna, definitiva e stabile cui aspiriamo.
2) Il dono di un comando che invita ad amare senza misura.
L’avverbio greco cathos usato nel vangelo romano odierno viene tradotto con il termine come: « Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri ». Come intendere questo “come”? Forse i discepoli dovranno imitare il comportamento del proprio Maestro? Questo risulta riduttivo, si finirebbe per fare di Gesù un personaggio del passato, dal quale si ereditano delle consegne da applicare, di modo che l’azione dei discepoli perpetui nel tempo quella di Gesù. 
Al contrario è possibile un’interpretazione più profonda. Kathos qui, come in altri testi, non ha il senso di una similitudine, ma quello di un’origine. Si può tradurre: Con l’amore con cui vi ho amato, amatevi gli uni gli altri, versione più vicina al significato del testo. L’amore del Figlio per i suoi discepoli genera il loro movimento di carità: è il suo amore, l’amore di Gesù, che passa in loro quando amano i fratelli e ne sono riamati.
E’ l’amore con il quale Gesù ama ogni uomo che rende possibile la fraternità e impegna in questo senso ogni comunità cristiana. Un amore sempre nuovo, sempre gratuito e profondo, come l’alleanza che Dio rivela amando l’umanità e il mondo (cfr. Gv 3,6; Ez 34-37; Ger 31,31).
Amarci gli uni gli altri con il cuore di Cristo ecco il comando nuovo. Ma se la misura della carità del nostro Redentore è “amare senza misura” (cfr. S. Bernardo di Chiaravalle (De diligendo Deo, 16), come possiamo essere all’altezza dell’amore di Cristo. E’ un compito impari. Gesù ha amato perdutamente, fino a perdere la sua stessa vita. Come possiamo fare altrettanto? Lui ha dato la propria vita per il suo prossimo, tutti noi, ed ha avuto come primo compagno in paradiso un condannato a morte: il buon ladrone. L’amore di Cristo è un amore dove prima dell’io c’è l’altro.
Come è possibile avere e vivere questo amore? Arrendendosi a questo amore. Se accetteremo di essere sua proprietà, come già aveva intuito il profeta Geremia: “Signore tu mi ha sedotto ed io mi sono lasciato sedurre”, saremo suoi figli per sempre. L’Amore che ci ha scelto fin dal momento in cui le sue mani plasmarono il nostro corpo, ci chiama ad essere come tralci che aderiscono alla vite e che producono frutti di vita vera per gli altri.
In questo ci sono di esempio le Vergini consacrate che, con la loro piena risposta all’offerta di se stesse a Dio nella castità, mostrano che la legge del cielo è scesa sulla terra, perché l’amore di Dio rende possibile il santo amore per il prossimo, nella condivisione della fede e della reciproca e servizievole carità.

LETTURA PATRISTICA
SANT’AGOSTINO D’IPPONA
DISCORSO 332
Perché i martiri sono amici di Cristo. L’amore reciproco in vista del regno dei cieli.
1. Quando veneriamo i martiri, rendiamo onore ad amici di Dio. Volete sapere che cosa ha fatto di loro degli amici di Dio? Lo indica Cristo stesso; afferma infatti: Questo è il mio comandamento, che vi amiate a vicenda 1. Si amano a vicenda quelli che intervengono insieme agli spettacoli degli istrioni; si amano a vicenda quelli che si trovano insieme a ubriacarsi nelle bettole; si amano a vicenda quelli che accomuna una cattiva coscienza. Cristo dovette fare perciò una distinzione nell’amore quando ebbe a dire: Questo è il mio comandamento, che vi amiate a vicenda. In realtà, la fece; ascoltate. Dopo aver detto: Questo è il mio comandamento, che vi amiate a vicenda, subito aggiunse: come io vi ho amato 2. Amatevi a vicenda così, per il regno di Dio, per la vita eterna. Siate insieme ad amare, amate me, però. Vi amerete reciprocamente se vi unisce l’amore per un istrione; sarà maggiore il vostro amore reciproco se vi unisce l’amore per colui che non può farvi scontenti, il Salvatore.
Fino a che punto ci dobbiamo amore reciproco.
2. Il Signore proseguì ancora e continuò a istruire, quasi gli avessimo chiesto: E in che modo ci hai amati, per sapere come dobbiamo amarci tra noi? Ascoltate: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici 3. Amatevi a vicenda in modo da offrire ciascuno la vita per gli altri. I martiri infatti misero in pratica questo di cui parla anche l’evangelista Giovanni nella sua lettera: Come Cristo ha dato la sua vita per noi, così anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli 4. Accostatevi alla mensa del Potente: voi fedeli ben sapete a quale mensa vi accostate; richiamate alla memoria le parole della Scrittura: Quando siedi davanti alla mensa di un potente, considera che tu devi preparare altrettanto 5. A quale mensa di potente ti accosti? A quella in cui egli ti porge se stesso, non a mensa imbandita dalla perizia di cuochi. Cristo ti porge il suo cibo, vale a dire, se stesso. Accostati a tale mensa e saziati. Sii povero e ti sazierai. I poveri mangeranno e si sazieranno 6. Considera che tu devi preparare altrettanto. Per capire, segui il commento di Giovanni. Forse infatti ignoravi che significa: Quando siedi alla mensa di un potente, considera che tu devi preparare altrettanto 7. Ascolta il commento dell’Evangelista: Come Cristo ha dato la vita per noi, così anche noi dobbiamo preparare altrettanto. Che vuol dire ‘preparare altrettanto’? Dare la vita per i fratelli 8.
LA CARITÀ È DONO DI DIO.
3. Per saziarti, ti sei accostato povero; come ti procurerai l’altrettanto da preparare? Fanne richiesta proprio a chi ti ha invitato, per avere di che dargli in cibo. Niente avrai se non te l’avrà dato egli stesso. Ma possiedi già un po’ di carità? Non attribuirla a te stesso: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? 9 Possiedi già un po’ di carità? Chiedi che si accresca, chiedi che giunga a perfezione, fin quando tu non pervenga a quella mensa di cui non si trova una più lauta in questa vita. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici 10. Ti sei accostato povero, torni indietro ricco: anzi, tu non ti allontani e, restandovi, sarai ricco. Da lui i martiri ricevettero di che soffrire per lui: siatene certi, lo ebbero da lui. Fu il padre di famiglia a porgere loro di che offrirgli in cibo. Possediamo lui, chiediamo a lui. E, se siamo manchevoli quanto all’esserne degni, presentiamo la nostra domanda per mezzo dei suoi amici, gli amici di lui, i quali gli avevano offerto a mensa quanto egli aveva loro donato. Preghino, quelli, per noi, così che il Padre di famiglia lo accordi anche a noi. E per avere il di più, riceviamo dal cielo. Ascolta Giovanni che egli ebbe precursore: Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo 11. Ne segue che riceviamo dal cielo anche quanto abbiamo; quindi riceviamo dal cielo di avere il di più.
I FORNICATORI NON ENTRERANNO NELLA CITTÀ DI DIO.
4. È proprio la città quella che discende dal cielo: vediamo di essere tali da meritare di entrarvi. Avete infatti ascoltato quali vi entrano e quali ne sono esclusi. Non siate di quelli che, come avete ascoltato, sono gli esclusi, specialmente i fornicatori. Alla lettura del passo in cui la Scrittura ha indicato quelli che non entreranno, dove sono citati anche gli omicidi, voi non vi siete sgomentati. Ha citato i fornicatori 12, e l’effetto è giunto al mio orecchio, perché vi siete battuti il petto. Io l’ho udito, personalmente l’ho udito, l’ho visto io; e di quel che non ho veduto nei vostri letti mi sono accorto al rimbombo, l’ho visto sui vostri petti, mentre siete stati a batterli. Cacciate via di là il peccato: battersi il petto, infatti, e continuare a fare queste medesime cose, nient’altro è che indurire i peccati quasi pavimento. Fratelli miei, figli miei, siate casti, amate la castità, tenetevi stretti alla castità, amate la pudicizia: Dio è l’autore della pudicizia nel suo tempio, che siete voi, la cerca; caccia via dal tempio gli impudichi. Contentatevi delle vostre mogli, dal momento che volete che le vostre mogli si contentino di voi. Come tu non vuoi che tua moglie abbia occasioni in cui vieni soppiantato, non averne da parte tua nei suoi confronti. Tu sei il signore, quella la serva: Dio ha creato entrambi. Sara – dice la Scrittura – aveva rispetto per Abramo, che chiamava signore 13. È vero; questi contratti sono a firma del vescovo: le vostre mogli sono vostre serve, voi, i padroni delle vostre mogli. Ma in riferimento al rapporto dove i sessi, che sono distinti, si uniscono, la moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito 14. Ecco, te ne stavi rallegrando, te ne sentivi orgoglioso, ti vantavi: « Ha detto bene l’Apostolo, il Vaso di elezione ha avuto un’affermazione della massima chiarezza: La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito. Dunque, il padrone sono io ». L’elogio l’hai fatto: ascolta quel che vien dopo, sta’ a sentire quel che non vuoi: io prego perché diventi tuo volere. Di che si tratta? Ascolta: Allo stesso modo anche il marito – quello che è il padrone – allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma la moglie. Ascolta questo con buone disposizioni. Ti si toglie di mezzo il vizio, non l’autorità, ti vengono proibiti gli adulteri, non si riconosce superiorità alla donna. Tu sei uomo, rivelati tale: « virilità », infatti, deriva da « virtù », o invertendo, « virtù » da « virilità ». Perciò, possiedi la virtù? Vinci la libidine. Capo della moglie – dice l’Apostolo – è l’uomo 15. In quanto capo, sii la guida in modo che ti segua: ma fa’ attenzione dove tu conduci. Tu sei il capo, conduci dove ti deve seguire: evita, però, di andare dove non vuoi che ti segua. Per non correre il rischio di finire in un precipizio, bada di fare un percorso rettilineo. Disponetevi in tal modo a recarvi dalla sposa novella, la cui bellezza, i cui ornamenti – non di gioielli ma di virtù – sono per suo marito. Se, quindi, lo avrete fatto da uomini casti e morigerati e giusti, anche voi farete parte delle membra di quella novella Sposa, che è la beata e gloriosa celeste Gerusalemme.

LA VITA HA SCAMBIATO LA TOMBA CON IL CIELO – LECTIO PER LA DOMENICA DI PASQUA

http://www.zenit.org/it/articles/la-vita-ha-scambiato-la-tomba-con-il-cielo

LA VITA HA SCAMBIATO LA TOMBA CON IL CIELO

LECTIO DIVINA DI MONSIGNOR FRANCESCO FOLLO PER LA DOMENICA DI PASQUA

PARIGI, 31 MARZO 2013 (ZENIT.ORG)

Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi ai lettori di Zenit la seguente riflessione sulle letture liturgiche della Domenica di Pasqua.
Come di consueto, il presule propone anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA
La Vita ha scambiato la tomba con il cielo: Gesù è risorto, ha distrutto la morte ed è luce di amore per il nostro cammino
Domenica di Pasqua di Risurrezione – Anno C – 31 marzo 2013.
RITO ROMANO
At 10, 34a. 37-43; Sal 117; Col 3, 1-4; Gv 20, 1-9
RITO AMBROSIANO
At 1,1-8a; Sal 117; 1Cor 15,3-10a; Gv 20,11-18

1) La prima di tutte le Domeniche.
Il primo giorno della settimana è la domenica, giorno in cui si celebra il fatto che Cristo è risorto. Cristo risorge nella notte prima che il sorgere del sole illumini questa giornata di festa.
La prima di tutte le Domeniche è un giorno nato da due notti speciali: quella dell’Incarnazione in cui il Verbo si fece carne, e quella della Risurrezione in cui la carne indossò l’eternità, in cui si aperse il sepolcro, vuoto del Corpo di Cristo che ha svuotato la potenza della morte. Cristo risorto ci invita a mettere il nostro respiro in sintonia con il suo, con quell’immenso soffio di vita, che unisce incessantemente il visibile e l’invisibile, la terra e il cielo, il Verbo e la carne, il presente e l’Eterno.
A Pasqua, il primo di tutti i giorni del Signore, Dio rinnova il mondo e dice di nuovo: “Sia la luce!”. Prima erano venute la notte del Monte degli Ulivi, l’eclisse solare della passione e morte di Gesù, la notte del sepolcro. Ma ora è di nuovo il primo giorno – la creazione ricomincia tutta nuova. “Sia la luce!”, dice Dio, “e la luce fu”.
Gesù risorge dal sepolcro: la vita è più forte della morte, il bene è più forte del male, l’amore è più forte dell’odio. la verità è più forte della menzogna.
Il buio dei giorni passati è dissipato nel momento in cui Gesù risorge dal sepolcro e diventa, Egli stesso, pura luce di Dio. Questo, però, non si riferisce soltanto a Lui e non si riferisce solo al buio di quei giorni. Con la risurrezione di Gesù, la luce stessa è creata nuovamente. Egli ci attira tutti dietro di sé nella nuova vita della risurrezione e vince ogni forma di buio. Egli è il nuovo giorno di Dio, che vale per tutti noi (cfr Benedetto XVI, 7 aprile 2012).
Preghiamo il Signore, Creatore e Amore, perché faccia scaturire dall’oscurità del mondo la luce del suo Figlio: nella notte del Natale, nella notte della Risurrezione, nella notte della nostra umanità faccia scaturire quello che noi speriamo: l’incontro con Cristo, la vicinanza con Cristo, la conoscenza di Cristo e l’amore che ci unisce a Lui.
Preghiamo fissando in primo luogo le piaghe gloriose di Cristo e contempliamo la Croce, sulla quale Cristo “ha versato il sangue del suo Cuore per guadagnare il tuo cuore” (S. Benedetta della Croce – Edith Stein). Poi con San Agostino, che ha vissuto un’esperienza di peccato come la Maddalena, preghiamo: “Ma che cosa amo amando Te? Non la bellezza di un corpo, non il fascino passeggero della terra, non la candida luce amica di questi occhi, non la carezza di dolci melodie di canti d’ogni specie, non il profumo di fiori, di unguenti, di aromi, non la manna né il miele di abbracci carnali. Non amo queste cose, quando amo il mio Dio. E tuttavia nell’amare Lui amo una certa luce, una sorta di voce e di profumo e di cibo e un tipo di abbraccio che sono la luce, la voce, il profumo, il cibo, l’abbraccio dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce che nessun fluire di secoli può portar via, dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere, dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire, dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare. Tutto questo io amo, quando amo il mio Dio …” (Sant’Agostino d’Ippona, Le Confessioni, X, 6, 8).
2) I primi incontri con Cristo-Luce.
Ma Maria Maddalena non sa ancora che il giorno della gioia senza fine era già iniziato. Quindi piena di dolore va alla tomba di Gesù, perché ha nostalgia di Lui (avessimo noi come lei questa nostalgia del Cielo) e vuole completare l’unzione, che lei aveva iniziata tempo prima quando lavò i piedi di Gesù con le sue lacrime e li unse con un profumo che valeva 300 denari (dieci volte di più del prezzo pagato a Giuda per il suo tradimento – con 30 denari restituiti da Giuda i capi comprarono un campo per i pellegrini che morivano a Gerusalemme).
Nell’alba di questo giorno di festa -che per Maria Maddalena è ancora un giorno di tristezza perché non sa ancora che il suo Gesù è risorto- questa donna è consolata almeno dal pensiero che questo “fraterno amico” è morto perché ha voluto bene a lei e a tutti i discepoli, Giuda compreso.   Maria va al sepolcro, preoccupata di come togliere la lastra di pietra che chiudeva il sepolcro, per potere completare l’unzione mortuaria, prescritta dalla legge mosaica e dal suo amore di donna salvata da Redentore. E piange (si veda il Vangelo ambrosiano di oggi) perché la tomba era vuota: non sa ancora che era diventata come un tabernacolo da cui il Corpo di Cristo risorto è uscito e può essere mangiato.
Non immagina che il Cristo Signore, Luce d’eternità, aveva spazzato via non una ma due lastre: quella di pietra sul sepolcro e quella, ancora più pesante e inamovibile della morte sul suo corpo immolato del Salvatore e sul cuore della Maddalena.
Questa donna fu la prima a costatare che la morte aveva lasciato la sua presa sulla preda.
Fu la prima nella fede perché fu la prima nell’amore, ed ebbe il premio dell’amore.
Ricevuta la notizia stupefacente portata agli Apostoli dalla prediletta di Cristo, da colei che la Liturgia delle Chiese Orientali chiama Isoapostola (uguale agli apostoli) della Risurrezione, Pietro e Giovanni corsero al sepolcro, perché sono quelli il cui amore è più grande che corrono più veloci degli altri. Arrivati videro che Cristo aveva mantenuto la parola profeticamente annunciata più volte: “Come Giona stette tre giorni e tre notti nel ventre della balena, così il Figlio dell’uomo starà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (Mt 12,40).“Lo consegneranno ai gentili per farlo schernire, flagellare, e crocifiggere, e il terzo giorno risorgerà” (Mt 20,19).“Distruggete questo Tempio, e in tre giorni lo ricostruirò. Ma Egli parlava del Tempio del Suo Corpo” (Gv. 2,19-20).“Dopo che sarò risuscitato vi precederò in Galilea” (Mc 14,28).“Comandò loro di non dire a nessuno le cose che avevano visto finché il Figlio dell’uomo non fosse risorto dai morti. Ed essi osservarono l’ordine, chiedendosi tuttavia fra di loro che cosa significasse questo: ‘Quando fosse risorto dai morti’” (Mc 9,9-10).
Erano stupefatti. Dopo giorni passati nella desolazione, perché sembrava che tutto fosse irrimediabilmente perduto, ecco l’avvenimento di luce, che mostra come la violenza, l’ingiustizia, l’infamia e la morte non hanno avuto l’ultima parola. Un fatto che permette di vedere chiaro: sono illuminati dalla luce di Cristo, luce santa e colma dell’amore di Dio.
3) Evangelizzatori della Luce, che salva.
Senza la luce di Dio nessun uomo si salva.
Essa fa muovere all’uomo i primi, timorosi passi: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrà paura?” (Sal 26/27, 1);
essa lo conduce nel pellegrinaggio della fede verso l’alto: “Manda la tua verità e la tua luce, siano esse a guidarmi, mi portino al tuo monte santo alle tue dimore” (Sal 42/43, 3).
 Se vogliamo continuare a possedere questa luce di Dio, preghiamo.

Cristo è risorto non per allontanarsi da noi, ma per farci risorgere insieme con lui nel suo Regno, i cui confini sono la luce e l’amore.
Più guarderemo a Cristo risorto, più i nostri occhi rifletteranno la luce dei suoi occhi. L’importante che il nostro sguardo si faccia preghiera (=contemplazione), riconoscenza (=eucaristia) e dono di amore che perdona le offese.
E ciò accadrà se, come Maria Maddalena, andremo da Cristo addolorati per averLo perduto. Allora le lacrime purificheranno i nostri occhi che tersi, puliti potranno riflettere la Luce di Cristo, Luce che libera, Amore che redime, Bene che colma i nostri cuori. A noi che meschinamente e frequentemente ci accontentiamo di promesse di felicità, di parole di amore, di righe di luce, Cristo Luce ci fa uomini e donne di luce, testimoni della Luce, che da vita piena. Noi che non solo siamo affascinati dalla luce, la Luce è la nostra vocazione.
Questa vocazione è vissuta in modo particolare dalle Vergini consacrate, che ricevono il cero o la lampada illuminata per aver cura di conservare la luce del Vangelo che salva ed essere sempre pronte all’incontro con lo Sposo che viene (cfr Rito di Consacrazione delle Vergini, n. 28). Queste donne sono chiamate ad evangelizzare mediante la santità e la preghiera. Il modo di Evangelizzazione che le Vergini Consacrate sono chiamate a vivere e vivono è quello di comunicare la Sua luce, divenendo lampada che porta la luce della Presenza adorabile dell’eterno amore, mediante la loro sollecitudine umana di donne dedicate a Dio.

LETTURA PATRISTICA
LETTURE PATRISTICHE DALLA PRIMA APOLOGIA DI S. GIUSTINO (100-165 D.C), MARTIRE E FILOSOFO.
“Sull’Eucaristia domenicale”
“1. Da allora, la domenica, giorno della Risurrezione, noi ci ricordiamo a vicenda questo fatto. E quelli che possiedono, aiutano tutti i bisognosi e siamo sempre uniti gli uni con gli altri.
2. Per tutti i beni che riceviamo ringraziamo il creatore dell’universo per il Suo Figlio e lo Spirito Santo.
3. E nel giorno chiamato « del Sole » ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti, finché il tempo consente.
4. Poi, quando il lettore ha terminato, il preposto con un discorso ci ammonisce ed esorta ad imitare questi buoni esempi.
5. Poi tutti insieme ci alziamo in piedi ed innalziamo preghiere; e, come abbiamo detto, terminata la preghiera, vengono portati pane, vino ed acqua, ed il preposto, nello stesso modo, secondo le sue capacità, innalza preghiere e rendimenti di grazie, ed il popolo acclama dicendo: « Amen ». Si fa quindi la spartizione e la distribuzione a ciascuno degli alimenti consacrati, ed attraverso i diaconi se ne manda agli assenti.
6. I facoltosi, e quelli che lo desiderano, danno liberamente ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il preposto. Questi soccorre gli orfani, le vedove, e chi è indigente per malattia o per qualche altra causa, e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno.
7. Ci raccogliamo tutti insieme nel giorno del Sole, poiché questo è il primo giorno nel quale Dio, trasformate le tenebre e la materia, creò il mondo; sempre in questo giorno Gesù Cristo, il nostro Salvatore, risuscitò dai morti. Infatti Lo crocifissero la vigilia del giorno di Saturno, ed il giorno dopo quello di Saturno, che è il giorno del Sole, apparve ai suoi Apostoli e discepoli, ed insegna proprio queste dottrine che abbiamo presentato anche a voi perché le esaminiate.
Nel giorno chiamato del Sole si fa l’adunanza di tutti nello stesso luogo, dimorino in città o in campagna, e si leggono le memorie degli apostoli e gli scritti dei profeti, finché il tempo lo permette. Quando il lettore ha terminato, chi presiede con un sermone ci ammonisce ed esorta all’imitazione di quei begli esempi. Poi tutti insieme ci leviamo e innalziamo preghiere; e, avendo noi terminato le preghiere, si porta pane, vino ed acqua e il capo della comunità fa similmente orazioni e azioni di grazie con tutte le sue forze, e il popolo acclama dicendo l’Amen, e si fa a ciascuno la distribuzione e la spartizione delle  cose consacrate e se ne manda per mezzo dei diaconi anche ai non presenti. I ricchi, invero, e quelli che vogliono, ciascuno a suo piacere dà ciò che vuole, e quello che si raccoglie viene depositato presso il capo; ed egli soccorre gli orfani e le vedove, e quelli che sono bisognosi per malattia o per altra ragione, quelli che sono carcerati e gli ospiti forestieri, e senza eccezione ha cura di tutti quelli che hanno bisogno. Ci aduniamo tutti nel giorno del sole, perchéè il primo giorno in cui Dio, avendo mutato la tenebra e la materia, creò il mondo e Gesù Cristo nostro salvatore nello stesso giorno risuscitò dai morti; infatti la vigilia del giorno di Saturno lo crocifissero e nel giorno dopo quello di Saturno, il quale è il giorno del sole, comparso agli apostoli suoi e discepoli insegnò queste cose, che abbiamo presentate anche al vostro esame” (Giustino, Prima Apologia, 67, 3-7: M. Simonetti – E. Prinzivalli, Letteratura cristiana antica,  Casale Monferrato, 1996, I, pp. 223-225)

Breve biografia di San Giustino (n. ca 100 – m. ca 165 d.C).
Questo Padre della Chiesa nacque intorno all’anno 100 presso l’antica Sichem, in Samaria, in Terra Santa. Cercò a lungo la verità, pellegrinando nelle varie scuole della tradizione filosofica greca. Finalmente – come egli stesso racconta nei primi capitoli del suo Dialogo con Trifone – un misterioso personaggio, un vegliardo incontrato lungo la spiaggia del mare, lo mise dapprima in crisi, dimostrandogli l’incapacità dell’uomo a soddisfare con le sole sue forze l’aspirazione al divino. Poi gli indicò negli antichi profeti le persone a cui rivolgersi per trovare la strada di Dio e la «vera filosofia». Nel congedarlo, l’anziano lo esortò alla preghiera, perché gli venissero aperte le porte della luce. Il racconto adombra l’episodio cruciale della vita di Giustino: al termine di un lungo itinerario filosofico di ricerca della verità, egli approdò alla fede cristiana. Fondò una scuola a Roma, dove gratuitamente iniziava gli allievi alla nuova religione, considerata come la vera filosofia. In essa, infatti, aveva trovato la verità e quindi l’arte di vivere in modo retto. Fu denunciato per questo motivo e venne decapitato intorno al 165, sotto il regno di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo a cui Giustino stesso aveva indirizzato una sua Apologia.

10 MARZO 2013 – 4A DOMENICA DI QUARESIMA C – PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/03-Quaresima/Omelie/04-Domenica-Quaresima-C-2013_JB.html

10 MARZO 2013  -  4A DOMENICA DI QUARESIMA C – PROPOSTA DI LECTIO DIVINA

LECTIO DIVINA: LC 15,1-3.11-32

Poche pagine del vangelo ci risultano tanto familiari come il racconto che abbiamo appena ascoltato: la parabola del figlio prodigo è stata sempre una delle narrazioni preferite dai cristiani di tutti i tempi. E proprio questo è il problema: la storia può essere tanto conosciuta da non lasciarci mettere in discussione dal suo sorprendente messaggio. Incominciamo col dire che il racconto non è centrato sul comportamento di uno dei due figli; la parabola si centra, piuttosto, sull’atteggiamento che ha il padre in tutta la storia: in essa la cosa più importante non è ciò che hanno fatto o detto i figli, quanto piuttosto ciò che ha fatto e ha detto ad ambedue il padre. Sapremo ciò che ci dice oggi Gesù, se riusciamo ad identificarci con uno dei due figli della sua parabola. E sapendo con quale figlio ci identifichiamo meglio, sapremo meglio ciò che Dio Padre si aspetta da noi.
In quel tempo, 1si avvicinarono a Gesù i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano, tra di loro dicendo:
« Costui riceve i peccatori e mangia con loro ».
11Gesù disse loro questa parabola:
« Un uomo aveva due figli; 12il più giovane disse al padre: ‘Padre, dammi la mia parte di fortuna ». E il padre divise i suoi beni.
13No molti giorni dopo il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose andò in un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, in quella terra vi fu una terribile carestia, ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Domandò lavoro presso un abitante di quel paese, che lo mandò nei campi a guardare i porci. 16Per la fame voleva riempire il suo stomaco con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. 17Rientrando in sé disse: « Quanti servi assunti da mio padre hanno pane in abbondanza e io qui sto morendo di fame. 18Mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te 19non sono degno di essere chiamato tuo figlio: trattami come uno dei tuoi servi « .
20Si mise in cammino verso suo padre; quando era ancora lontano, suo padre lo vide e ne ebbe compassione, e, cominciando a correre, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Suo figlio gli disse: ‘Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te non sono più degno di essere chiamato tuo figlio’. 22Il padre disse ai suoi servi: « Portate qui il vestito più bello e, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi 23prendete il vitello grasso, ammazzatelo, facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è vivo era perduto ed è stato ritrovato ». E cominciarono il banchetto.
25Suo figlio maggiore si trovava nei campi. Nel tornare, mentre si avvicinò alla casa, udì la musica e le danze, 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse successo. Il servo rispose: « È tornato tuo fratello e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo ». 28Ma egli si adirò e non voleva entrare, ma suo padre uscì e cercò di convincerlo. 29E lui rispose a suo padre ‘Ecco, io ti servo da molti anni, senza mai aver disobbedito ai tuoi comandi, ma non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici, 20e quando questo tuo figlio che ha mangiato i tuoi beni con le prostitute è tornato, hai ammazzato il vitello ingrassato « . 31Il padre gli disse: « Figlio, tu sei sempre con me, e tutto quello che ho è tuo: 32ma dovevamo rallegrarci, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’ « .

 1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Con troppa frequenza passa inavvertito il fatto che Gesù ha pronunziato non una, ma tre parabole (Lc 15,3-32), per difendere una sua abitudine, che scandalizzava coloro che si credevano buoni: mangiava spesso con pubblici peccatori (Lc 15,2). Bisogna comprendere, dunque, la parabola del « padre che aveva due figli » (Lc 15,11-32) e le altre due che la precedono (Lc 15,3-7: la pecora perduta; Lc 15,8-10: la moneta perduta), come argomento con il quale Gesù difende il suo insolito comportamento. Mangia con peccatori perché sa che Dio gioisce per la conversione di, almeno, uno di loro (Lc 15,7.10). Il peccatore recuperato da Dio fa sì che Dio recuperi la sua gioia e il desiderio di festa: tale è il potere del peccatore che ritorna al suo Dio.
In concreto, la nostra parabola ha un unico protagonista, un padre (Lc 15,11), e due scene (Lc 15,12-24; 15,25-32), ognuna si centra su uno dei suoi due figli, il minore, il « cattivo » (Lc 15,12-24) e il maggiore, più « buono » (Lc 15,25-32). Ambedue i personaggi sono stati ideati da Gesù per descrivere le due maniere di essere figlio di Dio e potere così mettere a confronto i suoi critici e vedere con il quale dei due si identificano meglio. Inoltre, e soprattutto, Gesù vuole che i suoi uditori riflettano bene sulla reazione del padre alla doppia, e ben diversa, pretesa dei figli. Ciò che è realmente decisivo nella narrazione non è quello che vogliono i figli, ma ciò che il padre fa o dice, ordina o suggerisce, chiede o desidera.
Per ogni figlio – sono due e molto diversi tra loro – c’è un Padre che sa differenziare. Non è lo stesso per ognuno di loro; non li tratta, né è trattato, allo stesso modo. A colui che lo aveva offeso, non gli chiese nulla, si accontentò del fatto che rientrasse a casa, pur sapendo il figlio che non era degno di suo padre né meritevole della casa. A quello che mai lo aveva abbandonato, lo pregò che accettasse come fratello il figlio recuperato. I figli sono provati, però le prove non sono uguali: si adattano ad ogni modo di essere figlio. E nascono dal desiderio del padre di contare sui suoi due figli.
Il figlio minore ha conosciuto il peccato, però non ha mai abbandonato il Padre: allontanatosi da lui il più possibile, non poté bandirlo dal suo cuore; seppe chiedere l’eredità e dilapidarla senza indugio né misura, però non seppe smettere di sentirsi figlio, tanto cattivo da non meritare di esserlo, però sempre figlio. E quando la situazione era più disperata, « entrò in se stesso »… e si ritrovò con il padre. Il ritorno alla casa iniziò tornando al suo cuore: Il padre recuperò il figlio perduto alla porta della casa; il figlio recuperò il padre, prima di tornarlo a vedere, prima di sentire il suo abbraccio e vedersi reinvestito come figlio del signore: lo portava con sé, nel suo cuore. Nel proprio interiore, il figlio che si è smarrito incontra se stesso.
Il figlio maggiore, pur sempre in casa, e lavorando duramente, non si trovava in essa quando il fratello minore ritornò: si è perduto l’incontro – ha saputo dell’arrivo da un servo – e fece di tutto per non partecipare alla festa. Bisogna osservare che ora l’atteggiamento del padre con il figlio maggiore è più insistente, più dialogante, perfino più affettuoso. Non gli toglie la ragione di quanto dice, non nega le sue ragioni, gli dà una nuova ragione, la sua, la paterna: chi è appena arrivato è fratello, qualunque cosa abbia fatto, perché continua ad essere suo figlio. Il padre, e in modo indiretto, gli fa rendere conto che l’obbedienza non va sempre insieme con la fedeltà, che essere servo non è essere figlio: il figlio deve sentirsi padrone, anche se lavora con i servi di suo padre; il figlio è libero di disporre dei beni di suo padre, poiché dispone del padre come dono supremo e base di tutti i beni.
Il figlio maggiore non ha perduto il padre né i suoi beni, né si è allontanato da casa né si è assentato dal lavoro; non ha peccato contro Dio né contro suo padre, ma lo ha servito tutta la vita come salariato. Non ebbe mai un padre, solo un padrone, né casa ma solo un posto di lavoro. Triste destino! Però – e qui sta la sostanza della storia – perché un figlio « buono » non ha potuto o non ha voluto essere un buon fratello, il padre non poté riavere insieme i suoi due figli in casa.
Rubano a Dio il suo bene più prezioso, lo spogliano della sua paternità, i « buoni » figli che non vogliono essere fratelli accoglienti. Non ricevere il fratello caduto, recuperato come fratello, suppone privare Dio di ciò a cui dà più importanza: litigare con il fratello, per quante ragioni si possano avere, è attentare alla paternità di Dio. E non bisogna omettere che questa è la prova del figlio buono, la conversione del figlio « buono » è farsi buon fratello.

 2. MEDITARE: applicare quello che dice il testo alla vita
Per comprendere la parabola di Gesù bisogna tener presente la circostanza che l’ha motivata, il rimprovero fariseo al suo comportamento: Gesù giustifica la sua familiarità con i peccatori alludendo al comportamento di Dio nella figura del padre che aveva due figli. Il figlio prodigo non smise mai di essere figlio, anche se un giorno lascia la casa paterna e sperpera i beni della sua famiglia; perfino dopo il suo peccato si sentì figlio, pur sentendosi indegno. E’ ciò che gli salvò la vita e lo salvò dal peccato. I figlio che mai abbandonò la casa, sempre si era sentito servo di suo padre: viveva in casa senza libertà e con sforzo; la sua fedeltà gli costava, poiché non era obbedienza di figlio, bensì di servo; prima e dopo non conoscerà la festa familiare. La cosa drammatica sarà che il padre smise di essere padre di due figli, perché il « buono » non accettò di vedere suo fratello in colui che ritornava, perché non ha potuto ammettere che suo padre fosse più buono con colui che si era comportato male. A osservare bene, la parabola non tratta di figli che avevano un padre, ma di un padre che aveva due figli. E non è il figlio minore il prodigo, ma il padre, ammesso che sia stato il figlio ad aver dilapidato la sua parte, a dividere per primo l’eredità e a usare dopo ciò che restava, quando il figlio tornò a casa; è vero che il minore lasciò la casa e il padre con la parte della sua eredità per dilapidarla e vivere disordinatamente, però fu il padre ad addolorarsi più per il figlio perduto che per la perdita dei suoi beni. Il protagonista del racconto non è stato, allora, il figlio malnato ma piuttosto il padre disposto sempre a riconoscere come figlio suo colui che con ragione non poteva aspirare ad altro che ad essere considerato solo servo. Chi non voleva appartenere alla casa perché ha voluto abbandonarla, non riuscì ad allontanarsi dal cuore del padre, per quanto lontano se ne fosse andato; è stato il padre che ha continuato ad aver nostalgia del figlio, che si era allontanato dalla sua famiglia, andando a vivere in terra straniera; è stato il padre che, sentendone la mancanza, lo manteneva vivo e presente nel suo cuore e nella sua casa. Avremmo dovuto esser passati, forse, da un’esperienza di abbandono simile per misurare meglio quale è potuta essere la pena e la tristezza in cui viveva il padre mentre suo figlio era lontano e viveva male. Nemmeno il fratello maggiore ha avuto un atteggiamento molto lucido. Non si è allontanato mai da casa, è vero, però non si è sentito mai libero in essa; si è mantenuto sempre sottomesso a suo padre, però con obbedienza di servo. Cresciuto come figlio non smise mai di essere servo di suo padre. Senza abbandonare il padre, mai si considerò suo erede né seppe celebrare una festa con i suoi amici; non si è permesso di chiedere qualcosa, non perché non lo desiderasse, ma perché gli mancò la fiducia. E quando il figlio di suo padre ritornò a casa, non seppe accettarlo come proprio fratello né volle festeggiare il suo ritorno. Non gli mancavano ragioni, ma gli mancò comprensione verso suo padre. Tanta permanenza insieme al padre non gli fece imparare ad essere fratello; tanto tempo aveva convissuto con suo padre ma non riuscì a vederlo che come il suo signore: la sottomissione non portò la fraternità, l’obbedienza non lo trasformò in figlio. E poiché non comprese le ragioni di suo padre, rimase senza festa, senza fratello e senza casa. E’ tragico rendersi conto come una vita di fedeltà a Dio può condurre a perderlo per sempre: non basta fare ciò che vuole nostro Padre, bisogna volere anche ciò che ci dice; dargli piena obbedienza è compito di servi; per essere figli, l’obbedienza deve essere cordiale e interna.
La parabola è solo ombra della realtà: il padre buono non è altro che figura di ciò che Dio vuole essere per noi. Con quanta frequenza abbiamo sentito la tentazione di lasciare Dio in casa e cercare arie e luoghi di maggiori libertà, dove poter essere noi stessi senza dover essere riconosciuti come figli di Dio, dove spendere ciò che avevamo ricevuto come se lo avessimo guadagnato noi. E con quanta frequenza abbiamo acconsentito a questa volontà di libertà, a questo desiderio di smettere all’improvviso di essere figli in casa propria; con la stessa frequenza abbiamo ottenuto unicamente di essere servi in casa altrui. Però non è pessimista il racconto di Gesù, come non possono portarci all’abbandono i nostri abbandoni. Se ci riconosciamo nel « cammino di andata » che ha fatto il figlio, possiamo riconoscerci anche nel suo « cammino di ritorno » e trovarci, come lui, con un Padre disposto a vederci e commuoversi, correre verso di noi e abbracciarci. E perfino baciarci, senza dovergli dire prima alcuna parola di pentimento. La storia del figlio minore può essere la nostra storia: se torniamo a Dio, recuperiamo il Padre che tanto ci manca. Non dimentichiamo che il figlio, lontano da casa, dovette conoscere gioie che devastano e tristezze che alimentano nostalgie, godere piaceri ma sentirsi nel bisogno; tornò a ricordare il padre che aveva abbandonato solo quando sentì lo stomaco vuoto, quando terminò il suo denaro, quando non ebbe amici con i quali sperperare la sua fortuna. Fu nell’esperienza di solitudine, di mancanza di affetti umani, e di fame, di mancanza di cibo, che tornò a pensare a suo Padre e al cibo dei suoi servi. Coloro che sono soddisfatti di sé, coloro che hanno successo, coloro che si aggiustano bene per conto loro, coloro che credono di non peccare solamente perché dispongono a piacere dei propri beni, difficilmente intraprendono il cammino di ritorno. Perché invidiarli, se hanno perduto la casa, il padre, la famiglia propria e la festa comune? Se avvertiamo qualche bisogno, se ci sentiamo bisognosi di qualcosa di importante, tutto ciò può essere l’occasione per ritornare dal Padre buono che ci aspetta tutti. Dietro il nostro peccato, dietro i nostri errori, dietro le nostre povertà, c’è sempre un Dio che ci aspetta, un Dio che non terrà conto di ciò che abbiamo fatto se ritorniamo. Convertiamoci al nostro Dio, torniamo a scoprirlo come Padre, proviamoci e vedremo com’è buono il Signore. Se tutti abbiamo un Padre che ci aspetta alla fine del cammino, perché dubitare tanto di tornare a casa? Se alla fine c’è la nostra casa, perché tardare tanto nel lasciare quelle altrui? Se alla meta è già preparato il banchetto di benvenuto, perché patire ancora la fame?
E un’ultima osservazione: se qualcuno conosciuto, che si era allontanato, ritorna con nostro Padre e con noi, a casa, riceviamolo come figlio recuperato e come fratello da recuperare. Condividiamo con lui la casa e il Padre, senza invidia né rancore. Alla fin fine, il nostro Dio per essere Padre nostro ha bisogno di figli, siano questi più o meno buoni come noi stessi. E noi abbiamo bisogno di fratelli buoni per formare una famiglia con Dio: nessuno è migliore perché non è mai andato via da casa, bensì se si è sempre considerato figlio, anche se indegno; se la nostra pretesa fedeltà a Dio non ci avvicina ai suoi figli meno fedeli, non riusciremo a sentirci altro che servi nella nostra famiglia. Perché Dio sia nostro Padre, i suoi figli, anche se non sono tanto buoni come noi, devono essere nostri fratelli. Per vedere cosa ci chiede oggi Dio Padre, vediamo che tipo di figli siamo, verificando che tipo di fratelli cerchiamo di essere.

AMATI DA DIO, Rm 1,1-7 – (San Biagio, lectio)

http://www.sanbiagio.org/lectio/romani.pdf

AMATI DA DIO

Rm 1,1-7

(San Biagio, lectio)

Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore. Per mezzo di lui abbiamo ricevuto  la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome; e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo. A quanti sono in Roma diletti da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.

APPROFONDIMENTO DEL TESTO
v. 1  Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo  per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio, È l’autopresentazione di Paolo ai Romani e  a noi, oggi. Qual è la sua identità? Paolo si proclama servo di Gesù Cristo, cioè del Messia Gesù, così come nel Primo Testamento erano proclamati servi di YHWH i grandi uomini dell’Antica Alleanza. Paolo si presenta come un chiamato da Dio per essere apostolo del suo Regno. La sua vita è quella di uno che non si appartiene perché è consacrato a  Dio per una missione grande: quella di far conoscere a tutti (non solo agli ebrei) la buona e lieta notizia che è il vangelo del Signore.
v. 2-4  Vangelo che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai
morti, Gesù Cristo, nostro Signore. Con tutta probabilità questi versetti sono il residuo di un’antica professione di fede. Paolo
mette in evidenza un fatto: quello che i profeti avevano promesso si è realizzato alla comparsa storica di Gesù, discendente di Davide: un uomo dunque pienamente tale. Ma in lui c’è altro “perché il suo essere Figlio di Dio è stato realizzato “con potenza dallo Spirito Santo” E la prova irrefutabile di questa asserzione è che Gesù è risorto, ha debellato la morte, ogni tipo di morte. Per questo Paolo può affermare solennemente di Gesù che è Gesù Cristo Signore nostro”: il Messia, Dio fatto uomo, nella cui “signoria” è liberante vivere.
v. 5  In forza di lui abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome; È in forza del Cristo, del Messia, del suo potere di salvezza, che Paolo sa di aver ricevuto la grazia di annunciare che è Cristo la salvezza di quanti si aprono a una fede che è talmente fiducia in lui da diventare pienamente consegna della vita. Non importa che siano ebrei o pagani: importa che si aprano alla fede.
v. 6-7  Tra questi siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo. A quanti sono in Roma diletti da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.“Gentili” (cioè i pagani) che si trovano nella Roma di quei tempi, ma anche noi oggi, come loro “chiamati da Gesù Cristo”. La “grazia” e la “pace” che Paolo invoca è innescata a una consapevolezza che è il cuore della fede cristiana. Sì, Gesù è venuto a renderci consapevoli pienamente che siamo AMATI DA DIO. La vita cambia completamente ottica e prospettiva quando entriamo in questa consapevolezza. È lì che “grazia e pace” da Dio trasfigurano la
nostra esistenza.

MEDITIAMO ATTUALIZZANDO
L’avventura decisiva è cogliere il cuore del testo letto  e riletto. Non tardiamo a trovarlo in quell’AMATI DA DIO il cui corollario è “GRAZIA e PACE”. Ne risulta che questa apertura  della lettera ai Romani non è tanto un saluto quanto un gioioso, importantissimo annuncio che è rivoluzionario rispetto alla cultura greco-ellenistica dei tempi di Paolo. Aristotele diceva infatti che Dio muove l’universo perché è oggetto di amore e causa finale di ogni creatura (cf Metaf. XII, 7,1072b) ma la Bibbia rovescia esattamente la questione: “In questo sta l’amore; non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi” (1Gv 4,10). “Noi amiamo perché Egli ci ha amati per primo (1Gv 4,19).. È vero che tutta la Legge di Dio si riassume, sostanzialmente, in un solo comando: quello di amare Dio con tutto il cuore, l’anima, la mente, le forze. Ma si tratta di una risposta. Imprescindibile,
d’accordo! Il perno però, il cuore di una vita autenticamente cristiana dipende dal fatto di essersi esposti VITALMENTE alla verità-certezza che noi SIAMO AMATI DA DIO (1,7) £”l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori dallo Spirito Santo (5,5). “Niente, assolutamente niente ci può separare dall’amore di Dio”. Il resto verrà di conseguenza. È questo, in sintesi, il messaggio  della lettera ai Romani. Se esponi una pianta un po’ stenta e sofferente al sole, la vedi rinverdire e fiorire. Se esponi la tua esistenza, soprattutto mente e cuore, a questa certezza: “Io sono amato da Dio”, niente e nessuno potrà turbarti in profondità e a lungo. La grazia e la pace sono i frutti di questo suo amarci. Essi chiedono di trovare spazio in me perché la
nostra sia un’esistenza riuscita, serena.. La notizia che Dio per il primo ci ama e ci avvolge di tenerezza e ci fa sicuri. Non fermiamoci a considerare la nostra indegnità, ma accogliamo l’irrompere sempre nuovo di quanto hanno cantato gli Angeli a Betlemme, quando la  notizia più importante e più lieta del mondo è stata recata ai pastori: “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace agli uomini che Egli ama” (Lc 2,14).. È in ordine alla nascita di Gesù che il testo di Luca annuncia gloria e pace ai più poveri della
terra. È  in ordine alla resurrezione di Gesù (v.4)) che Paolo si fa garante di questo amore che il Padre, nel suo Figlio morto e risorto, ci regala ogni giorno, anche in questo momento in cui stai
leggendo.
LA PAROLA MI INTERPELLA
• Con la luce e il conforto dello Spirito Santo mi lascio provocare soprattutto da questa domanda: “Io credo profondamente che Dio mi AMA?
• Mi percepisco amato solo nei momenti in cui tutto va bene o anche quando ci sono momenti di prove, di contrarietà, sofferenze nella mia vita?
• Percepisco veramente nella fede la ‘signoria’ di Cristo Gesù nella mia vita? Oppure Gesù è per me il dio-tappabuchi?
• GRAZIA – PACE fluiscono da Gesù dalla potenza della sua morte e risurrezione: ci credo vitalmente fino a riceverne gioia e comunicarla?

PER LA PREGHIERA
Invoco lo Spirito Santo in profonda quiete e mi esercito nella respirazione consapevole, scandendo bene l’inspirazione e l’espirazione. Durante la prima inalo (pronunciando mentalmente) la parola AMATO/A; durante la seconda esalo (pronunciando mentalmente) l’espressione: DA TE.  Posso poi esprimere gioia di GRAZIA e PACE pregando il MAGNIFICAT.

Publié dans:LECTIO DIVINA, Lettera ai Romani |on 23 janvier, 2013 |Pas de commentaires »
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