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DAVIDE – LECTIO (1SAM 16,1-13)

http://www.novena.it/Lectio_divina_personaggi_biblici/lectio_davide.htm

DAVIDE

LECTIO

(1SAM 16,1-13)

16, [1] Il Signore disse a Samuele: « Fino a quando piangerai su Saul, mentre io l’ho rigettato perché non regni su Israele? Riempi di olio il tuo corno e parti. Ti ordino di andare da Iesse il Betlemmita, perché tra i suoi figli mi sono scelto un re ». [2] Samuele rispose: « Come posso andare? Saul lo verrà a sapere e mi ucciderà ». Il Signore soggiunse: « Prenderai con te una giovenca e dirai: Sono venuto per sacrificare al Signore. [3] Inviterai quindi Iesse al sacrificio. Allora io ti indicherò quello che dovrai fare e tu ungerai colui che io ti dirò ». [4] Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato e venne a Betlemme; gli anziani della città gli vennero incontro trepidanti e gli chiesero: « E’ di buon augurio la tua venuta? ». [5] Rispose: « E’ di buon augurio. Sono venuto per sacrificare al Signore. Provvedete a purificarvi, poi venite con me al sacrificio ». Fece purificare anche Iesse e i suoi figli e li invitò al sacrificio. [6] Quando furono entrati, egli osservò Eliab e chiese: « E’ forse davanti al Signore il suo consacrato? ». [7] Il Signore rispose a Samuele: « Non guardare al suo aspetto né all’imponenza della sua statura. Io l’ho scartato, perché io non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore ». [8] Iesse fece allora venire Abìnadab e lo presentò a Samuele, ma questi disse: « Nemmeno su costui cade la scelta del Signore ». [9] Iesse fece passare Samma e quegli disse: « Nemmeno su costui cade la scelta del Signore ». [10] Iesse presentò a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripetè a Iesse: « Il Signore non ha scelto nessuno di questi ». [11] Samuele chiese a Iesse: « Sono qui tutti i giovani? ». Rispose Iesse: « Rimane ancora il più piccolo che ora sta a pascolare il gregge ». Samuele ordinò a Iesse: « Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui ». [12] Quegli mandò a chiamarlo e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e gentile di aspetto. Disse il Signore: « Alzati e ungilo: è lui! ». [13] Samuele prese il corno dell’olio e lo consacrò con l’unzione in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore si posò su Davide da quel giorno in poi. Samuele poi si alzò e tornò a Rama.
In questi versetti viene narrata la consacrazione di Davide, figlio di Iesse, a re di Israele. Guardando il contesto di questo brano, sull’esempio del profeta Samuele, chiediamoci: perché un re, quando abbiamo Dio come re? (cfr. 1Sam 8,6).
La risposta l’abbiamo nella promessa che Dio fece ad Abramo di renderlo “nazioni”, di far nascere da lui dei « re » (Gen 17,6). Come pure, di avere un re come tutti gli altri popoli (1Sam 8,5); quindi una richiesta che sembra rientrare nei diritti civili. Dio risponde autorizzando il profeta ad esaudire la richiesta (1Sam 8,7-9) e qui su indicazione del Signore, Samuele unge re Saul “capo sopra Israele”, col compito specifico di liberare il popolo di Dio dalle mani del nemico (1Sam 10,1). In seguito alla infedeltà all’Alleanza, Dio ordina al profeta Samuele di ungere segretamente Davide e con questa elezione, inizia un fondamento particolare della storia della Salvezza nel Libro di Samuele.
La vocazione di Davide ha elementi comuni alla vocazione di Giosuè (cfr. Nm 27,18-20). Ma più di vocazione il termine esatto in questo caso è «elezione divina», manifestata a Davide per mezzo di Samuele. Per capire l’elezione divina abbiamo dei verbi: provvedere (ra’â) (v.1b) e contenuta esplicitamente nel verbo scegliere (bahar) (vv. 8-10).
Il primo verbo (ra’â) indica l’azione di Dio, che guarda quasi per cercare l’eletto e, individuandolo, lo riserva per sé (cfr. v. 1b).
Il secondo verbo (bahar) è un termine tecnico che nella Bibbia vuole indicare l’elezione divina del re, prima ancora di quella del popolo.C’è qualcosa di particolare che avviene nella scelta, una prassi che Dio segue costantemente nella storia della salvezza, in modo che «Nessuno abbia a gloriarsi davanti a lui» (cfr 1Cor 1,29): la linea di benedizione non passa mai attraverso la primogenitura, basta pensare Giacobbe preferito a Esaù (Gen 27), Efraim a Manasse (Gen 48,14-19), Giuda a Ruben (Gen 49,8-12). Così avviene anche nella famiglia di Iesse: Davide preferito a Eliab. Dio affida il compito di operare la salvezza a persone meno qualificate sul piano umano (cfr. Gdc 6,11) perché la bontà di Dio si manifesti chiaramente. per questo sceglie Davide, persona non di grande considerazione anche davanti alla sua famiglia, «Per confondere i forti e ridurre a nulla le cose che sono» (1Cor 1,27-29).
La vocazione di Davide è anche una consacrazione regale, un re-pastore capace di governare il suo popolo con saggezza e giustizia (cfr. Sal 78,70-72). Davide è l’unto del Signore, un’espressione che indica la stretta relazione che c’è tra Dio e il suo re. Entrato in casa di Iesse, Samuele osservando i figli e, guardando Eliab, chiede a Dio: «È forse davanti al Signore il suo consacrato?» (v. 6).
Credo che questa sia una domanda che ciascuno deve farsi dinanzi a Dio: chiedere se siamo chiamati da Lui, se siamo i suoi consacrati, se siamo i suoi prescelti.
Per capire, orientiamo la nostra riflessione sulla persona di Davide su tre piste:
1. Davide è un pastore. Pensare Davide pastore ci riporta ai suoi antenati pastori, alla fede e quindi, ad Abramo, padre nella fede. Dire Davide che è un pastore ci richiama alla profezia di cui uno, una volta investito, verrà chiamato nuovo pastore del popolo. È da notare che Davide regnerà per quarant’anni (cfr. 2Sam 5,4), un numero che ritorna con frequenza nella Bibbia per esprimere l’idea della perfezione, che solo in Dio ha il suo compimento.Abbiamo allora un rimando al vero pastore: «Io sono il vero pastore. Il vero pastore dà la sua vita per le sue pecore… Ed ho ancora altre pecore, e dovrò pascerle; vi sarà un solo gregge ed un solo pastore» (Gv 10, 11-16). L’evangelista Matteo del vero pastore dice che è anche «Figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1,1)
2. Davide è preso di mezzo al gregge.«Così dice il Signore: “Sono io che ti ho preso dai pascoli, mentre andavi dietro alle pecore, perché tu fossi capo del mio popolo Israele”» (2Sam 7,8). Questo ci mostra un modo chiaro e costante dell’agire di Dio; la chiamata di Dio si manifesta quando ci troviamo nel pieno della vita, nel pieno dei nostri impegni. Possiamo confrontare a riguardo, la chiamata di Gedeone, contadino astuto, la chiamata di Sansone, avventuriero dal cuore tenero etc.Dio rispettando la persona con il suo carattere, il suo passato, ma anche la professione e le più piccole aspirazioni di ciascuno, inserisce la chiamata all’interno del lavoro: Davide da pastore di pecore sarà pastore di uomini, così come Pietro da pescatore di pesci a pescatori di uomini.
3. Davide… l’ultimo, il più piccolo.Dio, quando chiama non guarda chi siamo, a quale stirpe apparteniamo, se della famiglia siamo i più grandi, cioé coloro ai quali è riservato un posto particolare. Dio passa davanti a questi e va oltre e sceglie l’ultimo, il più piccolo che sta con le pecore, colui che è indifeso e inesperto.In questi tre punti notiamo subito la “stranezza” di Dio, che agisce in un modo che contrasta con il comune agire umano.Infatti, quando noi agiamo e scegliamo siamo mossi, cioé spinti e attratti, dal valore che cogliamo riflesso nell’altro: la sua virtù, la sua forza, il suo coraggio, la sua intelligenza, la sua maestria o la sua saggezza.
Non è così che Dio rivela il segreto del suo agire: egli invita il suo profeta a non guardare tutto questo (cfr. v. 7). Ciò che conta per Dio non è quanto appare e, apparendo, si offre allo sguardo e al giudizio altrui, ma è l’altro nella sua nuda alterità sulla quale veglia il suo amore.L’insegnamento che otteniamo da questa elezione divina, non è che Dio abbia delle preferenze, quindi escludendo alcuni e accogliendo altri, ma al contrario, egli essendo libertà d’amore si china gratuitamente su tutti dicendo: «ti amo».
La grandezza di ogni persona, per la Bibbia, è nell’essere «tu» che Dio istituisce con il suo Tu e alla cui libertà di risposta egli affida il suo amore che non resta sterile, ma è sempre efficace: «Come, infatti, la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11).
In questa piena libertà, anche l’elezione di Davide si trasforma in amore pur se nel secondo Libro di Samuele, quest’uomo sbaglia, si pente, ricomincia. In tutto questo noi scopriamo dentro di noi l’amore che ci guida nelle strade della vita, il volto di Dio manifestato in Cristo Gesù, il nostro volto capace di amare.

interrogarsi
1. L’uomo biblico è costitutivamente uomo responsoriale. Come ti poni davanti al Tu divino che ti chiama ogni giorno a prendere una decisione di fronte a Lui?
2. Hai paura di non essere amato, di essere rifiutato, scartato perché indifeso, inesperto?
3. Davide è stato scelto non per sé, ma per l’altro. Anche tu ti senti chiamato per l’altro?

preghiera
Indicami, Signore, la via dei tuoi decreti e la seguirò sino alla fine.Dammi intelligenza, perché io osservi la tua legge e la custodisca con tutto il cuore.Dirigimi sul sentiero dei tuoi comandi, perché in esso è la mia gioia.Piega il mio cuore verso i tuoi insegnamenti e non verso la sete del guadagno.Distogli i miei occhi dalle cose vane, fammi vivere sulla tua via.Allontana l’insulto che mi sgomenta, poiché i tuoi giudizi sono buoni.Ecco, desidero i tuoi comandamenti;per la tua giustizia fammi vivere (Sal 119,33-37.39-40).

actio
Prova a portare nella vita di ogni giorno queste parole S. Gregorio di Nazianzo: «Scruta seriamente te stessa, il tuo essere, il tuo destino; donde vieni e dove dovrai posarti; cerca di conoscere se è vita quella che vivi o se c’è qualcosa di più».

IL TESTAMENTO DI PAOLO: UN PROGRAMMA DI VITA PER OGNI APOSTOLO – .At 20,17- 35

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IL TESTAMENTO DI PAOLO: UN PROGRAMMA DI VITA PER OGNI APOSTOLO.

At 20,17- 35

Da Mileto, Paolo mandò a chiamare subito ad Efeso i presbiteri della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: «Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio (la diakonia) che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al vangelo della grazia di Dio. Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio. Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come custodi (vescovi “episcopoi”) a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni ad insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi.

Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l’eredità con tutti i santificati.

Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia (makarion) nel dare che nel ricevere!».

Appunti per la lectio
Il discorso d’addio di Paolo si rifà al testamento di Giacobbe (Gen 47,29-50); di Mosè (Dt 31-34); di Gesù (Gv 13-17); e soprattutto di Samuele, di cui si riportano alcune frasi (1Sam 12,1-4).

È il terzo grande discorso di Paolo negli Atti:
- Il primo rappresentava la sua predicazione davanti ai Giudei (c. 13),
- il secondo la sua predicazione davanti ai pagani (c. 17);
- il terzo costituisce il suo testamento pastorale (c. 20).

Paolo raccomanda agli anziani di Efeso – e attraverso loro a tutti i pastori delle Chiese – vigilanza, disinteresse e carità. Atteggiamenti che acquistano maggior valore dagli stessi esempi dell’Apostolo, del quale il discorso ci offre uno splendido profilo.

Paolo, modello di ogni ministro nella Chiesa
L’Apostolo, in tutto il suo impegno ministeriale e pastorale per le sue Comunità, non pretende altro che “servire il Signore” Gesù Cristo (cf. Rm 1,1; Fil 1,1; Gal 1,10). Questa “diakonia” implica un atteggiamento di obbedienza estrema verso Dio e una disponibilità assoluta verso i fratelli per i quali si svolge il ministero. Per questo va donata “in tutta umiltà”, con la consapevolezza che la propria debolezza (cf. 2Cor 12,9s), accettata davanti a Dio e agli uomini, ci renderà miti e capaci di edificare la fraternità (cf. Fil 2,3).

Ministero sempre difficile

Lo Spirito Santo, non salva il missionario dalle “prove” e dalle persecuzioni, perché queste lo rendono più simile al Cristo (cf. Lc 22,28). All’apostolo non saranno neanche risparmiate lacrime vere, come quelle di cui parla Paolo in 2Cor 2,4 e Fil 3,18, e quelle di Gesù stesso (Eb 5,7).

Senza discriminazioni

Il Vangelo non è dottrina esoterica riservata ad un’élite, esso è annuncio di salvezza universale. L’apostolato è, dunque, impegno e dono per tutti e per ciascuno:
- In ogni forma: annuncio ed istruzione;
- in tutti i modi: pubblico e privato;
- a tutti i destinatari: Giudei e Greci;
- con tutto il contenuto: di conversione e di fede.

Come Paolo, l’evangelizzatore chiederà a tutti di «convertirsi a Dio (come se tutti fossimo ancora pagani) e di credere nel Signor nostro Gesù Cristo (come se ci fossimo fermati alla Legge dei Giudei)». Infatti non c’è fede senza conversione, e la conversione non è possibile senza la fede (cf. l’appello di Gesù in Mc 1,15).

Il pastore buono
I presbiteri che presiedono le Comunità hanno l’impegno di essere “episkopoi”, cioè custodi nella Chiesa (cf. Tt 1,7; 1Tm 3,2). Ma, per coerenza, essi devono prima “vegliare” su se stessi e, solo dopo, su chi è loro affidato. Ricordando che questi sono coloro che Cristo «si è acquistato con il suo sangue» (cf. Ap 5,9s).
I nemici da cui guardarsi perché attentano alla Comunità, sono quei “lupi rapaci” (cf. Mt 7,15; Gv 10,12) che diffondono dottrine perverse (cf. 1Gv 2,19). Ma il più terribile nemico del Vangelo può essere lo stesso evangelizzatore, quando lo strumentalizza il suo ministero per “attirare discepoli dietro sé” e non dietro Cristo! [Confronta, invece, l’atteggiamento di Maria alle nozze di Cana (Gv 2,11)].

Il far memoria dell’atteggiamento di Paolo, diventa incentivo per imitarlo nella sua dedizione pastorale. Con ciò si imita lo stesso Cristo Gesù. Conseguentemente il vero apostolo:
- È un uomo “avvinto dallo Spirito”, strumento docile per portare ovunque la Parola che salva.
- È un fondatore di Chiese che, tuttavia, “non ritiene la propria vita meritevole di nulla”, sentendosi veramente “servo inutile” (Lc 9,24); attento solo ad annunciare Cristo (cf. Fil 1,20).
- È un missionario che, come Cristo, annuncia a tutti “il regno di Dio”, gratuitamente, in modo che a tutti si riveli “il Vangelo della grazia di Dio” (cf. Rm 3,22ss).

Tuttavia, anche il più zelante degli apostoli sa che la salvezza è, prima di tutto, opera di Dio (cf. 1Cor 3,6). Per questo, nel suo testamento, Paolo non affida la Parola ai presbiteri, ma questi alla protezione e alla forza salvifica della Parola. Infatti in essa, Dio stesso opera, salva ed edifica, cioè costruisce, la Chiesa.

La “povertà” paolina
Paolo, con un rimando, quasi letterale al Testamento di Samuele (1Sam 12,3) e a ciò che di se stesso afferma nelle sue lettere (cf. 1Cor 9,11-12), dice di non aver cercato dai suoi discepoli «né argento né oro…». Egli è povero come Pietro e Giovanni che «non hanno né argento né oro, ma solo Cristo» (At 3,6). In più, con l’orgoglio di chi è stato alla scuola del grande Gamaliele, può affermare: «Alle necessità mie e di quelli che erano con me, hanno provveduto queste mie mani»(cf. 2Ts 3,8). Non è soltanto il distacco tutto lucano dalle ricchezze terrene, è anche il bisogno paolino di evitare qualsiasi strumentalizzazione che mettesse in ombra la gratuità dell’impegno apostolico.
Questo comportamento viene assunto dal monachesimo e, specificamente, dalla Regola di san Benedetto, il quale afferma: «Se le esigenze locali o la povertà richiedono che i fratelli si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino, perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle loro mani come i nostri Padri (Antonio, Pacomio) e gli Apostoli» (RB 48,7-8). E, aggiungiamo noi, come Gesù, “il falegname” (Mc 6,3), conosciuto come «il figlio del carpentiere» (Mt 13,55).
Proprio la testimonianza di quella che il Codice di Diritto Canonico, rivolgendosi a noi Religiosi, chiama “povertà operosa”, permette a Paolo di trasmetterci un “agrafon” (un detto di Gesù al di fuori dei Vangeli) che sintetizza bene l’insegnamento sociale del Cristo (cf. Lc 6,30.34-35.38), e l’atteggiamento pastorale di Paolo: «Si è più beati (makarion) nel dare che nel ricevere». Beatitudine che ci assimila a quella «benevolenza del Signore nostro Gesù Cristo, il quale da ricco che era si fece povero per noi, perché noi diventassimo ricchi della sua povertà» (2Cor 8,9).
La povertà è, per Paolo, conseguenza della scelta radicale per il Cristo e il suo Vangelo. Anzi è essa stessa evangelo, perché s’inserisce in quella gratuità propria del “Vangelo della grazia” annunciato dall’Apostolo quale superamento della Legge.
Per noi Consacrati il testamento di Paolo è un’occasione ottima per rivedere il nostro modo di vivere il voto di povertà. Esso non può essere fine a se stesso, né semplice libertà dalle cose, piuttosto, esso deve seguire, come sua conseguenza il voto di castità, l’avere il cuore indiviso per Cristo (cf. 1Cor 7,32-34).

Per l’oratio
Propongo il Salmo 71: la preghiera di un vecchio.
Oppure il Salmo 112: essere trasparenza di Dio.

IV. «TENENDO ALTA LA PAROLA DI VITA» (Fil 2,12-18) – LECTIO

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/de_virgilio_filippesi4.htm

PER ME IL VIVERE È CRISTO!

UNA LETTURA VOCAZIONALE DI FIL 1,12-2,18

 Giuseppe De Virgilio

IV. «TENENDO ALTA LA PAROLA DI VITA» (Fil 2,12-18)

IV. 1 LECTIO

12 Quindi, miei cari, voi che siete stati sempre obbedenti, non solo quando ero presente, ma molto più ora che sono lontano, dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e tremore. 13 È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo di­segno d’amore. 14 Fate tutto senza mormorare e senza esitare, 15 per essere irreprensibili e puri, figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa. In mezzo a loro voi risplende­te come astri nel mondo, 16 tenendo alta la parola di vita. Così nel giorno di Cristo io potrò vantarmi di non aver corso invano né invano aver faticato. 17 E se io devo essere versato sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi. 18 Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.  Dopo il brano cristo logico di Fil 2,6-11, nel v. 12 l ‘Apostolo riprende il dialogo con i cristiani di Filippi denominandoli «amati» (agapetoi). La ripresa è introdotta dall’ avverbio oste (perciò) e contrassegnata dalla raccomandazione: «attuate la vostra salvezza» (ten heauton soterian katergazesthe). Si tratta del primo dovere dei cristiani, che deriva dall’ obbedienza della fede vissuta in senso religioso «con timore e tremore» (meta probou kai tromou). Si nota il collegamento con il tema dell’obbedienza di Cristo (Fil 2,8), da cui deriva l’obbedienza dei cristiani. Nel dialogo epistolare l’Apostolo, essendo fisicamente lontano, esprime il desiderio di essere vi­cino alla comunità con lo stesso affetto e la stessa premura di quando aveva soggiornato a Filippi. L’esortazione del v. 12 fa leva sulla frase comparativa: «(…) come sempre avete obbedito (…) ancora di più obbedite ora che sono lontano». Pertanto come nella presenza (parousia), anche nell’ assenza (apusia) dell’ Apostolo i Filippesi non devono venir meno nell’impegno per la loro salvezza. L’imperativo katergazesthe (52) rivolto all’intera Chiesa filippense evidenzia la necessità di lavorare fattivamente e responsabilmente, mediante una stretta e utile collaborazione (53). L’esortazione lascia emergere l’intento di unire la comunità e la preoccupazione circa le divisioni e i personalismi che Paolo percepisce nel contesto ecclesiale di Filippi. Nel v. 13 l ‘Apostolo adduce la motivazione teologica: è Dio (theos) ad attivare l’energia (o energon) nei Filippesi; cioè a produrre la forza spirituale affinché si possa realizzare nei credenti il Suo disegno di amore. Egli suscita «in voi» (en hemin) il volere e l’operare «per» (hyper) «il disegno di amore» (eudokias). La formulazione dell’espres­sione hyper tes eudokias, nel contesto della frase, lascia aperte due possibili attribuzioni: la benevolenza sarebbe riferita a Dio (la sua benevolenza), ovvero ai destinatari (la vostra benevolenza) (54). Secondo Fabris la particella hyper non indicherebbe la causa ma lo scopo dell’agire di Dio nei credenti; per tale ragione l’esegeta friulano opta per una «lettura antropologica» (Dio attiva in noi il volere e l’operare per [= in vista della] la [vostra] benevolenza) (55). La traduzione CEI preferisce attribuire a Dio il «disegno di amore» della sua azione a favore dei credenti. Il v. 14 si apre con un secondo imperativo: «fate tutto» (panta poiete). Lo stile che i cristiani dovranno seguire in mezzo ad una generazione «malvagia e perversa» (V. 15: skolias kai diestrammenes) dovrà essere ispirato al modello umile ed obbediente del Cristo. Come il «servo sofferente di Jahvé», il Signore non alzò la sua voce (cf. Is 42,2), non criticò i suoi accusatori, ma come agnello si lasciò immolare per la salvezza del suo popolo (cf. Is 53,7). Allo stesso modo i «credenti in Cristo», de­vono vivere «senza mormorare e senza esitare» (choris goggysmon kai dialogismon): sono proprio questi limiti che producono un clima fazioso e ne­gativo nella Chiesa. Nel v. 15 si specifica l’invito paolino con la finale introdotta da ina: una vita impegnata sul versante della concordia e dell’unificazione comunitaria rende i credenti persone «irreprensibili e semplici» (amemptoi kai akeraioi). Paolo intende esprimere l’idea di irreprensibilità e di integrità etica: nessuno potrà rimproverare ai cristiani alcunché di male poiché essi si comportano da veri «costruttori di civiltà», come uomini saggi ed «immuni dal male» (cf. Rm 16,19). L’immagine che segue è molto densa: in un contesto sociale segnato da divisioni e malvagità, i cristiani dovranno essere «figli di Dio innocenti» (tekna theou amoma) e per questo devono «risplendere» (phainesthe) come astri nel mondo. È proprio lo «splendore della testimonianza»che accompagna la fede dei credenti. L’allusione alla «generazione perversa e degenere» riporta alla memoria il giudizio del popolo di Israele lungo il cammino del deserto, riproponendo il giudizio divino in Dt 32,5.20: «Peccarono contro di lui i figli degeneri, generazione tortuosa e perversa (…) sono una generazione perfida, sono figli infedeli». Anche Gesù riprenderà questo giudizio nel contesto della sua missione, soprattutto per via dell’incredulità di Israele (cf. Mt 17,17; Lc 9,41; cf. Sal 78,8). Nel v. 16 si riprende il motivo della «Parola di vita», già evocato nella prima unità (cf. Fil 1,14) (56). Siamo al culmine del messaggio paolino, che sottolinea ulteriormente la missione della Chiesa: far risplendere su tutti gli uomini la Parola di vita (logon zoes). I cristiani non devono distinguersi per ceto sociale o posizioni economiche o usanze tradizionali, ma per il fatto che «tengono alta» (epeehontes) la Parola di vita (57), cioè la priorità dell’annuncio del Vangelo (cf. 2Cor 4,2; 1 Ts 1,6). In questo essenziale messaggio Paolo condensa tutta la sua esperienza apostolica: il Vangelo è parola di vita perché opera efficacemente in coloro che la accolgono (1Ts 2,13), genera riconciliazione (2Cor 5,19), diventa una strada di speranza per ricominciare ogni giorno (2Cor 2,16-17), attesa di compimento futuro in Cristo Gesù (2Tm 1,10). Agganciandosi al motivo escatologico, Paolo passa a parlare di sé e dell’ esito della sua missione, gettando uno sguardo sul «giorno futuro» di Cristo (eis emeran Christou), cioè sull’ epilogo della sua vita terrena. L’apostolato del Vangelo non è fatica vana: per Paolo l’impegno missionario e pastorale, come per un atleta o un agricoltore, porterà il suo frutto (58). L’apostolato è paragonabile ad una «corsa» (edramon) in vista della mèta, ad un «faticoso lavoro» (ekopiasa) in vista del frutto! Per questo egli può vantarsi (eis kauehema) della sua missione (cf. 2Cor 1,14), anche nel caso gli fosse chiesto di morire mediante il martirio. Al v. 17 si esplicita questo concetto, mediante la metafora cultica del sacrificio cruento, in connessione con la sua situazione di prigioniero in attesa di giudizio (cf. Fil 1,12-13). Anche se l’Apostolo deve «essere sparso in libagione» (spendomai) (59) «sul sacrificio e sul servizio» (epi te thysia kai leitourgia), tutto questo accadrà «per la loro fede»(tes pisteos hymon), cioè a favore e a beneficio della fede dei Filippesi. L’esempio di una offerta tanto coraggiosa è stato seguito anche da altri missionari: l’Apostolo stesso addita la testimonianza mirabile di Epafrodito, che ha dato prova di un altissimo «servizio sacrificale» avendo sofferto per il V angelo senza cercare i propri interessi ma quelli di Cristo (cf. Fil 2,19-24.30).  La pagina si conclude con il motivo della gioia condivisa: «sono contento e ne godo con tutti voi» (ehairto kai sygehairo pasin hymin). L’Apostolo ha iniziato il suo dialogo epistolare con la gioia e termina questa prima sezione riconfermando di essere un uomo contento della propria missione. Abbiamo potuto constatare come l’espressione gioiosa del cuore di Paolo non è un artificio retorico né una manifestazione esterna e sentimentale. La gioia (chara) è frut­to di un’esperienza spirituale intensa (cf. Gal 5,22) che viene comunicata alla Chiesa di Filippi perché possa maturare la sua crescita in Cristo. Possiamo determinare la gioia cristiana come il metro indicatore del «sentire insieme», del «vivere insieme», del «soffrire insieme», del «servire insieme», dello «sperare insieme»! Si tratta della dimensione ecclesiale del cristianesimo, che vince la solitudine e apre il cuore alla condivisione! Così nel v. 18 Paolo può rivolgere l’ultima esortazione ai suoi destinatari: «Godete e rallegratevi con me» (ehairete kai sygehairete moi). Possiamo interpretare questa splendida conclusione nella prospettiva pasquale. Anche se non viene espressamente menzionata, la visione paolina della «vita nuova» si ispira alla «risurrezione di Cristo». Il vanto e la gioia sono centrati su questo mistero; allo stesso modo la vocazione e la missione dei credenti non possono che partecipare a questo evento di salvezza e di speranza. L’intera Chiesa di Filippi accomunata dal «sentire comune», è chiamata alla gioia e alla comunione con il Cristo morto e risorto! 

IV.2 MEDITATIO  La terza sezione della nostra pericope completa il percorso svolto, introducendo nuovi aspetti parenetici e sottolineando i motivi annunciati precedentemente. In primo luogo l’Apostolo offre una sintesi della vita della Chiesa attraverso la propria esperienza apostolica. La vicenda di Cristo (2,6-11) non rimane isolata e irraggiungibile, ma deve costituire il fondamento dell’obbedienza della fede nell’esistenza dei credenti. Possiamo ben affermare che la vocazione si concretizza nell’obbedienza della fede. Tale obbedienza deve essere condivisa in modo comunitario, sia in presenza che in assenza di Paolo (Fil 2,12). Il protagonista della nostra vocazione è Dio. L’Apostolo esplicita bene questo concetto, per evitare equivoci nei cristiani. Nessuno si salverà da solo, con le proprie forze. Se ogni iniziativa è ispirata da Dio, allora il cammino della maturità cristiana è mosso dalla consapevolezza della priorità di Dio, della sua Parola di vita. I termini con cui l’Apostolo esorta a vivere il Vangelo esprimono bene la dialettica spirituale che differenzia il credente dal pagano. Attenzione a non trasformare la Chiesa in una sorta di società paganizzante, conformandosi alla generazione perversa e degenere! Probabilmente le divisioni presenti nell’ambito della Chiesa di Filippi fanno emergere la fragilità del cristianesimo locale e la fatica di «crescere insieme». Paolo parla di una «generazione perversa e degenere», omologata da una vita piatta e senza fede, costruita sugli equilibri degli interessi e delle passioni umane. La sintetica descrizione appare molto attuale. Di contro la Chiesa è chiamata ad un «colpo di audacia», un «salto di qualità» che nasce dalla Parola di vita. Riscoprire la propria vocazione alla santità significa accettare di convertire il proprio cuore a Dio e alla fede del Vangelo. Un ulteriore compito collegato al cammino della conversione è dato dall’esperienza della figliolanza. L’Apostolo invita i Filippesi ad essere «figli di Dio immacolati», a splendere come «astri nel mondo». Le due immagini possono aiutarci nella verifica del nostro cammino ecclesiale. Riscoprire la figliolanza divina nell’itinerario dello Spirito (cf. Rm 8,16-17) e riflettere su come le nostre comunità vivono questa figliolanza (o vivono forse una «orfananza» ?). La seconda immagine è quella degli astri, che sono capaci di illuminare o per luce propria o per luce riflessa. Lo splendore astrale richiama il tema della testimonianza cristiana, sempre più necessaria nel contesto della nostra cultura in declino. Tenere alta la «Parola di vita». Si tratta del cuore del messaggio paolino, che ritorna nell’intera lettera. «Tenere alto» può essere attualizzato secondo tre applicazioni. Si tratta anzitutto della «priorità» della Parola che chiede di essere ascoltata e interiorizzata. Una comunità che non rimette al centro la Parola di vita, che non sa ricominciare dalla Parola, rischia di strumentalizzare e confondere la propria vocazione e missione. «Tenere alto» inoltre significa testimoniare in modo coraggioso e visibile la Parola, in forma personale e comunitaria. Infine «tenere alto» significa mirare alla santità, aspirare ad un’ascesi che consenta di «volare alto» sia nelle relazioni ecclesiali che nella vita sociale del mondo. In questa lettera, forse più che in altri scritti epistolari, Paolo si presenta come un uomo «contento» e le espressioni di gioia e di letizia caratterizzano l’appassionato dialogo con i cristiani di Filippi. Se ripercorriamo con attenzione la vicenda di Paolo e le sue peripezie, possiamo solo minimamente renderci conto delle sofferenze e delle fatiche che l’Apostolo ha dovuto sostenere per la Chiesa (cf. 2Cor 4,11-18; 6,3-12). Eppure Paolo vive la gioia, la condivide, la proclama, la testimonia in modo convincente (Fil 1,25; 2,17-18). Si tratta di un «dono» che Dio fa all’Apostolo; allo stesso tempo la gioia deve caratterizzare la vocazione dei credenti e la loro missione: la lotta gioiosa per il Vangelo è la modalità attraverso la quale anche oggi siamo chiamati a «correre e a proclamare la Parola » lungo le strade del mondo. 

IV.3 ORATIO      «Rallegratevi con me»  Quando fin dall’aurora sperimentate la gioia di vivere, incrociando gli occhi dei vostri vicini, pronti a ricominciare una nuova giornata, con il desiderio di lavorare per il Regno, «Rallegratevi con me».

Quando siete chiamati a dialogare nella famiglia, accogliendo l’altro nella sua unicità, disposti a servire i fratelli che vi sono accanto con la stessa gratuità e tenerezza di Cristo, «Rallegratevi con me».

Quando sperimentando la fatica delle relazioni, sentite nel vostro cuore le resistenze ad amare, timorosi di fare il primo passo nell’umiltà, eppure vi lasciate portare dalla speranza nel Vangelo, «Rallegratevi con me».

Quando gli altri, per causa Sua, diranno male di voi, accusandovi ingiustamente a motivo della testimonianza alla verità, soli di fronte al mondo e deboli di fronte agli uomini, nella consapevolezza che lo Spirito rinnoverà il cuore, «Rallegratevi con me».

Quando vi passeranno davanti con la protervia dell’ autoritarismo, ritenendovi inutili per quello che siete e valete, e vi relegheranno nei luoghi comuni della commiserazione, ma voi continuerete a servire e a testimoniare la forza di vivere, «Rallegratevi con me».

Quando i fratelli vi domanderanno ragione della vostra fede, e voi senza paura narrerete le meraviglie di Dio, mostrando come i superbi cadono e i piccoli vengono esaltati, sforzandovi di entrare per la porta stretta del dono di sé, «Rallegratevi con me».

Quando avrete compreso che la vostra missione volge al termine, e avrete fatto tutto quello che Dio vi aveva chiesto, sperimentando di essere stati «servi inutili» nella gratuità, con il cuore grato alla Chiesa e nell’attesa dell’Ultimo, «Rallegratevi con me».

IV.4 CONTEMPLATIO      «Lo Spirito Santo, autore della missione»  Nella terza unità, dopo aver focalizzato il mistero del Padre e del Figlio, fermiamoci a contemplare la persona dello Spirito Santo e la sua missione nel mondo. Infatti non ci sarebbe la Parola di vita se non ci fosse l’azione efficace dello Spirito. Allo stesso modo lo Spirito continua a guidare la missione della Chiesa e a sostenere il cammino della Parola. Un primo aspetto da evidenziare è collegato con l’obbedienza nello Spirito da parte dei credenti. Paolo stesso dichiara ai Corinzi che la sua parola non si è basata su un discorso persuasivo di sapienza, ma sulla «manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (1 Cor 2,4). Riflettiamo sul senso teologico di questo dinamismo che segna la storia della nostra fede e della nostra obbedienza. Non siamo resi schiavi per la violenza di una «parola oppressiva», ma siamo resi liberi per l’attrazione di una «parola liberatrice» (1 Ts 1,8-10). La missione dello Spirito si manifesta attraverso la storia, i cui punti salienti sono ripresi nella Sacra Scrittura. Fermiamoci a contemplare in modo essenziale la presenza dello Spirito in alcuni contesti biblici: l’atto creativo guidato dall’azione misteriosa dello Spirito di Dio (Gen 1,2; Sap 1,7), il dono dello Spirito di giudizio per la missione dei settanta collaboratori di Mosè (Nm 11,17.25-29), la forza dello Spirito per la parola profetica (Balaam: Nm 24,2; Giosuè: Nm 27,18; Is 61,1), per la missione regale (Davide: 1Sam 26,13). Lo Spirito di Dio investirà il Messia con i suoi doni (Is 11,2), eleggerà e guiderà il «servo di Jahvé» in vista della salvezza del popolo (Is 42, 1), cambierà il deserto in giardino (1s 32,15), ridarà vita alla comunità di Israele, facendola risorgere dalla morte (Ez 37,1-14) e tutto il popolo finalmente profetizzerà mediante il dono dello Spirito di Dio (Gl 3,1-4), rinnovato nel cuore con una «nuova alleanza» (Ger 31,31-34). Negli scritti neotestamentari si porta a compimento l’azione dello Spirito, rivelata nella missione del Cristo. È anzitutto il Padre che dona il suo Spirito al Figlio (Mt 3,16) dopo essere stato generato per «opera dello Spirito Santo» nel seno della Vergine Maria (Lc 1,26-38). Gesù «profeta potente in opere e parole» esercita la sua missione nella for­za dello Spirito (Lc 4,1.18; Mt 12,28), rassicurando i suoi discepoli che sarà lo Spirito Santo a sostenerli nella prova e nelle persecuzioni (Mc 13,11) e che Dio concederà lo Spirito Santo a tutto coloro che gliela chiedono (Lc 11,13). In modo particolare nel Quarto Vangelo si presenta l’azione consolatrice dello Spirito Santo che opera nella storia e nel cuore dei credenti (Gv 1,33), rinnovando li mediante il battesimo (Gv 3,5). È lo Spirito di verità (Gv 4,23-24), protagonista della vocazione e della missione del Figlio (Gv 7,39) per donare la vita al mondo e preparare i discepoli e far conoscere l’amore di Dio mediante la rivelazione del Figlio (Gv 14,17.26; 15,26). Nell’inviare la comunità in missione il Risorto alita sui discepoli lo Spirito (Gv 20,22), segno del compimento della Pentecoste (At 2,1-12) per la quale la Chiesa porterà il Vangelo fino agli estremi confini della terra (At 1,8). Paolo stesso è consapevole che non si dà missione della Chiesa e dei cristiani senza l’azione dello Spirito di Dio. I cristiani hanno ricevuto lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ha dona­to loro (1Cor 2,12) e per formare un solo corpo (1 Cor 12,13), diventando ministri della nuova Alleanza nello Spirito (2Cor 3,6.8). È lo Spirito il protagonista e l’autore della nostra vocazione e della nostra missione. Dopo aver riletto la presenza dello Spirito nella storia biblica, riscopri l’opera che lo stesso Spirito ha segnato nella tua vita e nella tua vicenda personale. Per vivere questo momento di preghiera e di contemplazione, ti invito a riflettere su un passaggio della lettera enciclica di Benedetto XVI, Spe Salvi: «Il giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L’incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmen­te l’uno all’altro – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza « con timore e tremore » (Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro « avvocato », para­kletos (cfr. 1 Gv 2, 1) » (60). 

IV.5 ACTIO      «La testimonianza della Parola»  La terza unità che abbiamo presentato si caratterizza per la «testimonianza della Parola». L’Apostolo esorta i suoi destinatari a «tenere alta la Parola di vita». Non si tratta di una pia esortazione spirituale, ma di un invito concreto che deve diventare impegno dentro le nostre scelte quotidiane. Possiamo esplicitare il senso di questa affermazione secondo tre prospettive. «Tenere alta la Parola di vita» indica la centralità della Parola di Dio. Nella consapevolezza che l’obbedienza della fede sgorga dalla predicazione della Parola, occorre rifare ogni giorno la «scelta» di cominciare dalla Parola. È questa la strada maestra per la missione alle genti che la Chiesa chiede alle comunità e ai singoli cristiani.  «Tenere alta la Parola di vita» significa elevare il livello della nostra vita spirituale, non conformando ci alla mentalità del tempo, ma rinnovando la nostra mente e il nostro cuore. Si comprende bene come la prerogativa della missione implica la «dimensione spirituale» dei credenti e della comunità. Splendere come «astri nel mondo» significa non cedere alla tentazione di omologare i progetti e i mezzi al ribasso, ma di elevare lo stile delle nostre relazioni e delle nostre esperienze. La Parola di vita ci spinge a fare scelte di vita e a rifiutare compromessi di morte. «Tenere alta la Parola di vita» corrisponde al valore personale-comunitario della testimonianza di Cristo e del suo Vangelo. Donne e uomini scelgono di partire per la missione ad gentes, come religiosi, religiose e laici a servizio del bene degli ultimi e dei più bisognosi. Sacerdoti Fidei Donum lasciano le loro case per essere inviati dalla Chiesa nei confini della terra: perché? La risposta è inscritta nella vocazione fondamentale che ciascuno di noi sperimenta nel donarsi a Dio e ai fratelli. «Tenere alta» vuol dire che non ci si può nascondere, non è possibile mistificare la grandezza e la bellezza di questa Parola di speranza. La nostra actio può recepire questo messaggio, che chiede di essere tradotto nei contesti in cui viviamo ed operiamo. Dio ha bisogno di te, del tuo «sì», della tua «corsa per il Vangelo». I poveri aspettano il nostro «eccomi» e questo tempo della Chiesa è momento favorevole perché tutto questo accada. Ricordiamo a proposito quello che Paolo scrive ai Corinzi:  «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! 3 Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga criticato il nostro ministero; 4 ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza: nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, 5 nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; 6 con purezza, con sapienza, con magnanimità, con benevolenza, con spirito di santità, con amore sincero; 7 con parola di verità, con potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; 8 nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama; come impostori, eppure siamo veritieri; 9 come sconosciuti, eppure siamo notissimi; come moribondi, e invece viviamo; puniti, ma non uccisi; 10 come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (2Cor 6,3-10). 

CONCLUSIONE  Ripercorrendo l’itinerario proposto cogliamo la dimensione missionaria della testimonianza paolina, espressa attraverso la metafora della lotta atletica (cf. Fil 1,27; 3,12-14). La medesima immagine viene riproposta in Fil 3. Trattando della sua esperienza cristiana e della sua attività apostolica Paolo fa memoria delle sue scelte: dopo aver incontrato Cristo, ha subordinato ogni altro bene alla conoscenza del Signore (Fil 3,8). Egli attende solo da Dio la salvezza e in vista di questo dono egli «cor­re la sua gara», per partecipare alle sue sofferenze, diventando conforme a Cristo nella morte con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti (Fil 3,9-10). Ritornando sulla metafora della «corsa della fede», l’Apostolo dichiara di sé: «Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,12-14). La vocazione viene raffigurata alla «corsa verso la meta», alla gara in vista del premio finale, per la quale siamo chiamati ad un coinvolgimento pieno nella consapevolezza di essere stati conquistati da Cristo. Il brano evidenzia tre tappe di questo processo vocazionale, che possono essere applicate all’esistenza di ogni credente.  La prima tappa consiste nell’esperienza di «essere stati conquistati da Cristo». La fede che nasce dall’ascolto ci attrae al Signore e ci guida nella sua logica di amore. La vocazione nasce dall’ esperienza di un «sì» pieno al progetto di Dio per noi. Non per costrizione, ma per conquista di amore, ci sentiamo attratti da Lui e per questo «corriamo verso di Lui». La seconda tappa è costituita dalla risposta personale all’appello divino, che consta della decisione di alzarsi e correre. La grande gara della vita implica l’impegno personale e il coinvolgimento in un confronto che è sempre faticoso, imprevedibile, aperto alla speranza. La metafora della corsa, ripresa dal contesto ellenistico, ci aiuta a capire come la vocazione sia impegno, fatica, conquista quotidiana, forza di lottare, desiderio di raggiungere la mèta, sfida costante su noi stessi e scommessa sulla fedeltà di Dio. La terza tappa è costituita dal «premio finale», che Dio concederà «lassù», in Cristo Gesù. La sottolineatura paolina è di tipo escatologico, senza escludere la quotidiana esperienza del «portare frutto» nella missione. Se il premio finale di lassù è la mèta conclusiva della nostra vocazione alla santità, la missione è l’essenza del nostro gareggiare in questo tempo della vita. È questa la testimonianza vocazionale di Paolo mentre scrive ai Filippesi e condivide con loro l’avventura del Vangelo. Correre verso la mèta, per conquistare il premio! Vivere la propria vocazione mediante la missione di annunciare il Vangelo a tutti! 

Publié dans:LECTIO DIVINA, Lettera ai Filippesi |on 15 janvier, 2014 |Pas de commentaires »

PER ME IL VIVERE È CRISTO! – III. 1 LECTIO: «OBBEDIENTE FINO ALLA MORTE» (Fil 1,27; 2,11)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/de_virgilio_filippesi3.htm

PER ME IL VIVERE È CRISTO!

UNA LETTURA VOCAZIONALE DI FIL 1,12-2,18

Giuseppe De Virgilio

III. 1 LECTIO: «OBBEDIENTE FINO ALLA MORTE» (Fil 1,27; 2,11) 

27 Comportatevi dunque da cittadini degni del vangelo di Cristo, perché sia che io venga e vi veda, sia che io rimanga lontano, abbia notizie di voi: che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del vangelo, 28 senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari. Questo per loro è presagio di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio. 29 Perché, riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in Lui, ma anche di soffrire per Lui, 30 sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora. 2,1 Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2 rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con un medesimo sentire e con la stessa carità. 3 Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. 4 Ciascuno non cerchi il proprio interesse, ma anche quello degli altri. 5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù:

6 egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, 7 ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, 8 umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. 9 Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome; 10 perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; 11 e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

La seconda parte della nostra Lectio comprende due unità, introdotte da due particelle avverbiali (1,27: monon «soltanto»; 2, 1: oun «dunque»): Fil 1,27-30, in cui si riporta l’esortazione a «vivere come cittadini degni del Vangelo» e Fil 2,1- 11 in cui Paolo invita i cristiani a «rendere piena la sua gioia» mediante l’adesione a Cristo, che si fece servo obbediente di Dio fino alla morte (31).  Nel v. 27 l ‘avverbio «soltanto», in posizione enfatica, sottolinea il passaggio ad una sezione esortativa. Dopo aver presentato la situazione del Vangelo e l’incoraggiamento dei cristiani nell’impegno per l’evangelizzazione, Paolo assume un deciso tono esortativo, con una serie di imperativi che spingono i Filippesi a vivere nell’unità e nell’umiltà la testimonianza della fede (32). Il primo imperativo è politeuesthe (comportatevi da cittadini), applicato al modo di vivere degno del Vangelo di Cristo. L’interpretazione del verbo (33) può intendersi in senso generico di un comportamento sociale nel contesto della città macedone, oppure il verbo può essere interpretato alla luce di Fil 3,20, dove l’Apostolo tratta della «cittadinanza celeste» (to politeuma en ouranon), con un chiaro riferimento alla dimensione escatologica della fede cristiana. Questo invito costituisce il motivo dominante dell’esortazione paolina ai Filippesi: essi sono chiamati a dare una qualificata testimonianza di unità(essere saldi in un solo spirito) e di lotta «per» la fede del Vangelo (34). Nel v. 28 l ‘allusione agli avversari (antikeime­non) indica la situazione di prova in cui versa la Chiesa filippense. Si tratta di coloro che si oppongono al messaggio della salvezza e che perseguitano i credenti. Paolo esorta tutti i credenti a «lottare insieme», mettendosi dalla parte di Dio. La forza della fede aiuterà la comunità cristiana anche a «soffrire per Cristo» (v. 29: to hyper autou paschein), condividendo il medesimo combattimento (v. 30: ton auton agona echontes) che l’Apostolo sta conducendo nella lontana sua prigionia. Sia nella professione di fede che nella comune lotta contro gli avversari del Vangelo, Paolo e la Chiesa di Filippi devono sentirsi uniti e chiamati a vivere nella comunione vicendevole una coraggiosa presenza cristiana. In 2,1 con l’avverbio «dunque» (oun) si apre la seconda unità, che raccoglie l’accorato appello di Paolo alla concordia nel «modo di sentire» e nelle relazioni interpersonali. Il tono del discorso è intro­dotto da quattro brevi frasi condizionali («se c’è.. .»), che delineano in modo essenziale lo stile di vita della Chiesa. La consolazione (paraklesis), il conforto (paramytion), la comunione nello spirito (koinonia tes pneumatos) e le viscere e compassione (splagchna kai oiktirmoi) sono le quattro prerogative della vita comune che l’Apostolo chiede ai Filippesi di ravvivare. La consolazione è la capacità di sostenere l’altro che vive nell’angoscia (cf. Mt 5,4). In questo caso la figura di Paolo è allo stesso tempo bisognosa di consolazione e consolatrice. Il conforto dell’amore completa l’atto del consolare, partecipando all’altro la capacità di amare e di riempire i vuoti della solitudine. Vi è poi la «comunione dello spirito» che implica il coinvolgimento di tutto l’essere che si dona all’altro in modo gratuito ed incondizionato. Infine i due sostantivi plurali «viscere e compassione» indicano i sentimenti profondi che governano la persona umana e le permettono di comunicare la ricchezza interiore delle proprie emozioni. L’argomentazione paolina culmina nel v. 2 con l’imperativo aoristo plerosate (rendete piena) seguito dal complemento oggetto mou ten charan (la mia gioia). Paolo invita i Filippesi ad un «sentire unanime» (to auto phroneters, a condividere l’amore e ad essere concordi. Questa sottolineatura della comunione e dell’unità si contrappone alle espressioni del v. 3, in cui si citano gli atteggiamenti negativi da evitare: non agire «per rivalità» (kat’ eritheian) né «per vanagloria» (kata kenodoxian), atteggiamenti che generano divisioni e chiusure nella comunità. Al v. 4 la raccomandazione di Paolo spinge i cristiani alla reciprocità, facendosi partecipi dell’ interesse dell’altro; letteralmente, «non guardando ognuno alle proprie cose» (v. 4: me ta eauton eka­stos skopountes), «ciascuno sappia guardare (anche) alle cose dell’altro» (ta eteron ekastoi). Si costruisce la comunione ecclesiale solo nella capacitàdi saper perdere se stessi e il proprio prestigio personale per il Vangelo (cf. Mt 10,39). In Paolo la parola pronunciata diventa «testimonianza vivente»proprio a motivo della sua condizione di prigionia! I destinatari di questa lettera ne sembrano coscienti, dimostrando una solidarietà senza limiti con l’Apostolo e le sue tribolazioni (36). Al v. 5 è inserita un’ulteriore breve esortazione, con la ripetizione dell’imperativo phroneite (abbiate un medesimo sentire) che riassume il contenuto essenziale delle precedenti espressioni parenetiche. Il «sentire unanime» dei cristiani deve essere commisurato a Cristo Gesù, la cui persona è presa come modello essenziale su cui « configurare » (syn­morphizo: cf. Fil 3,10.21; Rm 8,29) la vita personale e comunitaria dei credenti37. In tal modo l’Apostolo introduce i suoi lettori al notissimo brano cristologico, mirabilmente incastonato nei vv. 6-11. Va rilevata la formula finale «in Cristo Gesù» che richiama in modo inclusivo l’inizio del brano parenetico di Fil 2,1. La composizione cristologica (38) si colloca all’interno dell’esortazione paolina, introdotta dal pronome relativo os (il quale) e seguita da tra verbi all’aoristo indicativo: «non considerò» (ouch egesato), «svuotò se stesso» (ekenosen heauton), «umiliò se stesso» (etapeinosen heauton) e successivamente dal soggetto o theos (Dio) che regge altri due verbi in aoristo che hanno come complemento oggetto la persona del Cristo: «lo sopraesaltò» (auton hyperypsosen), «gli donò» (echarisato auto). Si tratta di un testo narrativo assai complesso (39), che ha conosciuto un’articolata storia interpretativa (40), per via della corretta comprensione di alcuni termini collegati alla natura, alla funzione e alla preesistenza del Cristo (41). Leggendo il brano cristologico appare evidente la divisione in due unità letterarie all’insegna del duplice movimento dell’abbassamento (vv. 6-8) e dell’innalzamento (vv. 9-11) collegate dalla congiunzione «e perciò» del v. 9 (dio kai) e contrassegnate dalla diversità dei soggetti. Nella fase dell’abbassamento il soggetto è Cristo, mentre in quella dell’innalzamento è Dio. Cristo liberamente «discende» dalla sua condizione divina, si abbassa dal suo trono altissimo fino a prendere la forma umana e a morire in modo ignominioso sulla croce. I tre gradini della discesa del Cristo sono: l’umanità, la morte e la croce. Barbaglio sottolinea la libera scelta di Cristo di rinunciare alla sua condizione divina, di svuotarsi volontariamente e di abbassarsi nella completa obbedienza: tutto questo per amore e per ottenere la salvezza dell’umanità (42). Nei vv. 9-11 viene descritta la «risposta» di Dio all’azione « kenotica » del Figlio: dopo essersi abbassato fino alla morte in croce, Dio ha « superesaltato » il Cristo donando gli il « nome » più eccelso che esista, il nome divino di «Signore» (v. 11: kyrios). La conseguenza di questa esaltazione è duplice: affinché tutti («in cielo, in terra e sotto terra») si inginocchino e facciano la loro confessione di fede nella divinità del Cristo, signore del cosmo e della storia. Consideriamo più da vicino i singoli versetti. Il v. 6 si apre con il pronome os riferito a Gesù Cristo, il quale «essendo nella condizione di Dio» (en morphe theou) scelse liberamente di entrare nella «condizione di servo» (en morphe doulou). Si nota il parallelismo tra condizione divina e condizione servile (43). La condizione «di Dio» non fu ritenuta un «privilegio» (harpagmon) («qualcosa da trattenere») (44) ma un «dono» per un progetto più grande, che equivale alla sua missione nel mondo. Nel v. 7 con un’avversativa (alla) si dichiara la scelta paradossale e libera del Cristo: «svuotò se stesso» (heauton ekenosen) per prendere la condizione umana. Va notata la singolarità del verbo kenoun (vuotare, annientare) (45), che esprime l’azione della totale spoliazione del Cristo per farsi uno con l’umanità. L’espressione si rivela intensa e profonda. Sembra richiamare alla mente, pur nella diversità dei termini, la consegna alla morte del «servo sofferente» in Is 53,12. Nel v. 8 prosegue l’azione dell’abbassamento con un secondo verbo: «umiliò se stesso» (tapei­noun heauton), che esprime lo stile assunto dal Cristo nello scendere attraverso la storia dei piccoli e dei poveri fino all’estremo. È l’azione del farsi po­veri che diventa ricchezza per i credenti (cf. 2Cor 8,9: eptokeusen). Il fatto che il Figlio diventi «obbediente» (genonenos hypekoos) fino alla morte e alla «morte di croce», implica il senso gratuito di questa scelta, che non è frutto di una cieca fatalità né di un meccanismo, bensì di una fedeltà piena a Dio e alla sua missione. L’obbedienza del Figlio culmina nella morte (thanatos): essa indica il massimo grado di sottomissione e la specificazione «morte di croce» esprime il massimo punto di degradazione della condizione umana. Non poteva esserci descrizione più toccante della vicenda del Cristo, fedele al Padre. Rileva Fabris: «Al centro di questa scelta sta la sua radicale ed assoluta fedeltà. Questo elemento contraddistingue il suo essere uomo tra gli uomini, esposto alla miseria della morte crudele ed ignominiosa della condanna alla croce» (46).     Nel v. 9 il nuovo soggetto diventa Dio il quale, di fronte al dono gratuito e paradossale del Figlio «disceso nell’umanità fragile e mortale», ha scelto di «sopraesaltarlo» (hyperypsosen)(47). L’azione di Dio si concretizza nel dono del «nome sopra (hyper) ogni altro nome»: si tratta del nome di «signore» (kyrios) con cui termina il brano al v. 11 e che designa la dignità e la sovranità della stessa posizione del Cristo, partecipe della signoria universale ed assoluta di Dio (48). Nei vv. 10-11 si delinea la conseguenza dell’esaltazione del Cristo con due subordinate introdotte dalla finale ina (affinché): «ogni ginocchio si pieghi» (pan gony kampsen) e «ogni lingua proclami» (pasa glossa exomologesethai) (49). In queste immagini viene rappresentata la dignità assoluta che Gesù riceve in modo unico e sommo da tutti gli esseri viventi, in cielo, in terra e sotto terra. Tale omaggio è suggerito dal gesto di prostrazione (cf. 1s 45,23; Rm 11,4) e di proclamazione «cosmica» («ogni lingua», cf. Is 66,18b; Dn 3,4.7) che culmina nell’affermazione finale del brano: Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre (cf. Rm 10,9-10).  Questo titolo cristologico corrisponde nella Bibbia al tetragramma ebraico JHWH, che è il nome di Dio (cf. Es 3,15; Sal 99,3). In altre parole: al Cristo umiliato ed esaltato viene attribuita la signoria unica ed assoluta che nella tradizione biblica era propria di Dio (50). Questa designazione è da considerarsi il punto di arrivo del brano cristologico e allo stesso tempo l’esperienza intima e mistica che Paolo ha vissuto nel mistero della sua missione a servizio del Vangelo. 

III.2 MEDITATIO  La seconda unità contiene il cuore del messaggio cristologico della lettera. Da appassionato predicatore della Parola, Paolo rivolge ai cristiani di Filippi una fondamentale esortazione: la capacità di «sentire insieme» a Cristo. L’avventura vocazionale a cui è destinata la comunità filippense dipende dall’unione con il Figlio obbediente ed esaltato da Dio Padre. Questa dinamica spirituale consente ai credenti di divenire «cittadini degni del Vangelo» (Fil 1,27). La metafora della cittadinanza indica la dimensione relazionale della vita cristiana. Essa si svolge all’interno di una città, che è abitata da uomini e donne che cercano la pace. Il cristiano deve poter contribuire alla crescita della «città» attraverso la sua personale e comunitaria testimonianza di «unità» . In collegamento con il precedente brano paolino, un secondo motivo è costituito dall’immagine del «combattimento condiviso» da tutti (synathlountes) «per» (o «per mezzo») della fede. La predicazione della Parola chiede di spendersi personalmente e di pagare il prezzo della sofferenza. Non c’è vocazione che non sia «pagata a caro prezzo», non c’è missione che non comporti un coraggioso coinvolgimento nel donarsi e nel soffrire per il Signore. L’Apostolo chiede ai Filippesi di «stare saldi», di non «lasciarsi intimidire» (Fil 1 ,28) dagli avversari e considera la sofferenza come una «grazia» (1,29: echaristhe) assunta «a favore» (hyper) di Cristo. Paolo stesso rappresenta un «esempio nella lotta»: quelle catene portate per Cristo sono l’eloquente messaggio di come può essere interpretata la missione dei cristiani. Tuttavia il fondamento della novità del Vangelo va cercato nella stessa persona e missione del Figlio di Dio. In Fil 2,1- 4 l ‘Apostolo invoca la pienezza della gioia cristiana e rinnova l’invito a non interpretare diversamente il cammino della fede: esso deve necessariamente seguire le stesse orme di Gesù Cristo (cf. 1 Pt 2,21). È utile meditare ed attualizzare i termini che l’Apostolo impiega per parlare al cuore dei credenti: la consolazione, il conforto, la comunione, le viscere e i sentimenti che albergano nell’uomo. Tutto l’uomo deve essere per «tutti i credenti» in un solo spirito, senza interessi e prestigi personali. La comunità cristiana può ben definirsi nell’ accoglienza reciproca, soprattutto nel segno dell’ Eucaristia. Il brano cristologico di Fil 2,6-11 ci chiede di meditare sull’unicità della storia di amore che Dio ha voluto e realizzato attraverso il Figlio. Introdotto al v. 5 con l’invito a condividere i medesimi sentimenti di Cristo Gesù, il brano cristologico costituisce una delle più profonde e ricche sintesi del mistero cristiano. Entrare nella «spoliazione» e nella «umiliazione» del Figlio amato, che per amore sceglie di farsi il più piccolo e il più povero tra gli uomini. Non poteva esserci strada più significativa e tangibile per rivelare la vicinanza di Dio all’umanità. E di questa umanità il Figlio non condivide solo la vicenda dolorosa e la debolezza sofferente, ma Egli si immerge nell’«ultima solitudine» che è la nemica morte. Lo scandalo della morte e della terrificante disfatta sulla croce si consegna agli occhi del mondo come contrassegno di un amore senza limiti e senza compromessi. Tuttavia la missione del Figlio è accolta dal Padre: egli lo ha esaltato «sopra tutti e tutto». Il servo è diventato «signore», la spoliazione e l’umiliazione si sono tramutate in esaltazione: nel trionfo della risurrezione e della vita, Cristo esercita la signoria dell’amore e la sua missione porta il frutto della riconciliazione e della pace. Pertanto i Filippesi devono guardare al Figlio di Dio, conformando la loro esistenza e le loro scelte con la forza di quello stesso amore che ha mutato la morte in vita, la debolezza in forza, lo scandalo della croce in vanto di gloria. Emerge dalla nostra essenziale analisi la ricchezza spirituale di questa splendida pagina paolina. Il contesto parenetico dell’unità non deve indurci a ritenere queste considerazioni delle pie esortazioni, ma deve spingerci a conformare tutta la no­stra esistenza vocazionale al progetto di Dio in Cristo Gesù. Misurato con la vicenda del Cristo, umiliato ed esaltato, il cristiano è in grado di interpretare la storia con le categorie e lo stile indicato dal Vangelo. Allo stesso modo ogni scelta vocazionale non potrà che ispirarsi allo schema cristo logico della croce e della gloria, dell’annullamento (kenosi) e della glorificazione (doxa), della concretezza dell’oggi, vissuto nella quotidiana lotta per la fede del Vangelo e della speranza nel domani, atteso in uno stile operoso, nella fiducia che Dio realizzerà le sue promesse. 

III. 3 ORATIO «Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo»  A voi pellegrini che solcate le strade della vita, mentre questo tempo scorre inesorabilmente, cercando nell’uomo e nelle sue innumerevoli risorse, una risposta alla domanda di felicità, «Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo». 

A voi ragazzi e ragazze, speranza di un futuro migliore, costretti spesso ad inseguire l’affetto dei vostri cari, distratti dalle mode e confusi dai luccichii dei desideri, desiderosi di capire e di sedervi alla festa della vita, «Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo». 

A voi giovani, coraggiosi interpreti delle ansie del mondo, spesso feriti o delusi dall’atteggiamento degli adulti, mentre cercate di dare un senso alla vostra presenza in questa storia, gridando l’insopprimibile bisogno di amore e di comprensione, «Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».

A voi padri e madri, cittadini di una società stanca ed opulenta, che nella famiglia e nel lavoro inseguite sicurezze sfuggenti, carichi di troppe stanchezze, logori di insofferenze e di oblii, volete con tutto il cuore un futuro sereno per la vostra discendenza, «Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».

A voi adulti, attenti giudici delle regole della convivenza, che muovete le leve della produzione e della ricchezza, tra fragili equilibri, nuove sfide e grandi aspirazioni, nella ricerca dell’unità e della pace, «Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».

A voi anziani, testimoni della sapienza degli anni, che avete imparato a riassumere un passato senza rimpianti, costretti talvolta all’inerzia e relegati nella solitudine dei giorni, memori delle fatiche e bisognosi di nuove rassicuranti presenze, «Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».

A voi che oggi scorrerete queste pagine, comunque sia il vostro vivere, tra incroci e labirinti che segneranno le vostre giornate, forse nel servizio appassionato al Vangelo per l’uomo, o mossi da una flebile domanda su Dio e sull’amore, «Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo». 

III.4 CONTEMPLATIO «Il Figlio, servo obbediente della missione» La focalizzazione cristologica caratterizza questo ulteriore momento della nostra lettura vocazionale. Infatti la missione del Padre si realizza nell’obbedienza del Figlio amato, Gesù Cristo. L’Apostolo tratteggia con una impareggiabile riflessione la vicenda di Cristo. In Fil 2,6-11 siamo chiamati a contemplare Gesù in tutti i momenti del suo donarsi per la salvezza del mondo. In primo luogo ci soffermiamo sulla dimensione del Cristo come «Figlio» (houios). Scrivendo ai Romani Paolo afferma che il Padre «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi»(Rm 8,32; cf. Gal 4,4). La missione che Dio ha voluto nel Figlio ha una sua chiara finalità: «affinché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). La vocazione a cui Gesù ha risposto nasce dall’amore «filiale», mediante il quale Dio ci ha riconciliati a sé (Rm 5,10). Una seconda dimensione è significativa nella qualifica di «servo» (doulos). Pur essendo nella prerogativa filiale e nella piena » condizione divina, Cristo ha liberamente deciso di «farsi servo» per amore. Il servo non è colui che esercita un servizio (ministero) rimanendo libero, ma rimane per tutta la vita legato al suo padrone come schiavo. La forma della schiavitù (a cui si collegano alcune metafore paoline quali il «sigillo») è la strada che Cristo ha scelto per amare l’uomo ed annunciare la salvezza. Paolo stesso assume questa metafora per parlare del suo apostolato in favore del Vangelo, come «schiavo per il Vangelo» (cf. Rm 1,1; 1 Cor 9,19; Tt 1,1). Una terza condizione è data dall’ obbedienza (hypakoe), prerogativa centrale nella riflessione paolina. Dall’ etimologia del termine «obbedienza» (ob-audire) ricaviamo il valore dell’ ascolto della Parola, che un Altro, al di sopra di noi, ci rivolge. Come per Cristo, così anche per noi, l’obbedienza significa anzitutto disponibilità nell’ascolto e capacità di lasciarci colmare nel cuore. In Ef 1,11-14 si registra la dinamica dell’ascolto che produce l’obbedienza della fede e il dono dello Spirito:  «In lui [Cristo] siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà, perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo. In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria». Secondo questa prospettiva, la missione del Figlio può realizzarsi unicamente nell’obbedienza totale alla volontà del Padre. Contempliamo Cristo che si consegna eternamente e perdutamente nella volontà e nella libertà a Dio suo Padre. Anche l’autore della Lettera agli Ebrei riassume il senso dell’obbedienza di Cristo nell’affermazione: «Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8). Per la Sua obbedienza noi siamo stati redenti ed è stata distrutta la disobbedienza del peccato. Conclude Paolo: «come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19). Per vivere questo momento di preghiera e di contemplazione, ti invito a riflettere su un passaggio della lettera enciclica di Benedetto XVI, Spe Salvi (2007):  «La vera grande speranza dell’uomo, che esiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora « sino alla fine », « fino al pieno compimento » (cfr. Gv 13,1 e 19,30). Chi viene toccato dall’amore comincia ad intuire che cosa propriamente sarebbe « vita ». Comincia ad intuire che cosa vuoi dire la parola di speranza che abbiamo incontrato nel rito del Battesimo: dalla fede aspetto la « vita eterna » – la vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la sua pienezza è semplicemente vita. Gesù che di sé ha detto di essere venuto perché noi abbiamo la vita e l’abbiamo in pienezza, in abbondanza (cfr. Gv 10,10), ci ha anche spiegato cosa significhi « vita »: « Questa è la vita eter­na: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo » (Gv 17,3). La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Co­lui che è la sorgente della vita» (51). 

III.5 ACTIO «L’obbedienza alla Parola»  L’analisi dei messaggi emersi dalla pericope paolina ci induce a proporre come Actio una riflessione sul senso e sull’importanza dell’ «obbedienza alla Parola». Abbiamo sottolineato come nella stes­sa accezione di obbedienza si collochi la dimensione della Parola. Se la decisione di obbedire è il frutto della nostra personale risposta all’appello divino, la forza di esservi fedele proviene dalla grazia divina e dalla sua misericordia. L’obbedienza alla Parola implica tre relazioni costitutive: a) obbedienza al progetto di Dio; b) obbedienza alla verità nella storia; c) obbedienza al servizio dell’uomo. In primo luogo nell’ascolto e nell’accoglienza della Parola si compie l’obbedienza al progetto di Dio. Tale «progetto» segnala il «mistero» dell’amore misericordioso (cf. Ef 1,9) che Dio ha voluto rivelare all’umanità. Obbedire alla sua Parola significa accogliere il mistero che penetra la storia umana e realizza la redenzione, mediante la ricapitolazione di ogni cosa in Cristo (Ef 1,10). L’accoglienza della Parola permette di conoscere la verità e di interpretarla nella storia. Questa dinamica ci aiuta a comprendere come la Parola costituisce la «strada» che Dio ha scelto per comunicare la verità di se stesso e del suo amore agli uomini. La conoscenza della verità non implica un’operazione unicamente mentale, ma un’adesione esistenziale e vocazionale che coinvolge l’intera persona. Allo stesso modo la «storia» dice la concretezza delle relazioni e delle situazioni vissute nel tempo. Chi vive l’obbedienza alla Parola vive allo stesso tempo pienamente la verità di Dio e il realismo della vita umana. Infine l’ascolto obbediente della Parola spinge il credente ad impegnarsi per il servizio a favore degli altri, soprattutto dei più bisognosi. Ad immagine di Cristo-servo, la Parola che penetra nel cuore dei credenti si trasforma in una dinamica di servizio e di amore. Servizio nel dono di sé e della propria vita per un progetto più grande, non pensato secondo una visione umana e limitata, ma aperto alla missione che Dio ha affidato al Cristo e a coloro che ne sono divenuti discepoli.

Publié dans:LECTIO DIVINA, Lettera ai Filippesi |on 14 janvier, 2014 |Pas de commentaires »

PER ME IL VIVERE È CRISTO! – FIL 1,12-2,18 – lectio II

http://www.atma-o-jibon.org/italiano9/de_virgilio_filippesi2.htm

PER ME IL VIVERE È CRISTO!

UNA LETTURA VOCAZIONALE DI FIL 1,12-2,18

Giuseppe De Virgilio

II.1 LECTIO (14) 

12 Desidero che sappiate, fratelli, come le mie vicende si sono volte piuttosto per il progresso del vangelo, 13 al punto che in tutto il palazzo del pretorio e dovunque sono divenute note le mie catene in Cristo. 14 In tal modo la maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor più ardiscono annunciare senza timore la Parola (15). 15 Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. 16 Questi lo fanno per amore, sapendo che sono stato incaricato per la difesa del vangelo; 17 quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non rette, pensando di accrescere dolore alle mie catene. 18 Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per convenienza o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene. 19 So infatti che tutto questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, 20 secondo la mia ardente attesa e la speranza che in nulla rimarrò deluso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. 21 Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. 22 Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. 23 Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; 24 ma per voi è più necessario che io rimanga nella carne. 25 Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in mezzo a voi, per il progresso e la gioia della vostra fede, 26 affinché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio ritorno fra voi. Dopo l’indirizzo di saluto (Fil 1,1-2) e l’esordio (1,3-11), il nostro testo inizia con l’allusione alla situazione di prigionia dell’Apostolo, che «desidera»informare del progresso del Vangelo i cristiani di Filippi, chiamandoli «fratelli» (adelphoi). È proprio in un clima di familiarità e di confidenza che Paolo presenta la dialettica paradossale dell’ evangelizzazione, mentre egli si trova «in catene per Cristo» (v. 13: oste tous desmous mou phanerous en Christo). L’annuncio di Cristo è indissolubilmente congiunto con la sorte dell’ Apostolo. Egli intende parlare di sé (v. 12: ta kat’eme) non per mettere al centro la propria condizione, piuttosto per esaltare il misterioso progetto di Dio. L’Apostolo ormai non vive più per se stesso, ma solo per Cristo! D’altra parte la sofferenza e la prigionia non solo non hanno impedito l’evangelizzazione: al contrario, le catene di Paolo hanno perfino favorito la «corsa della Parola». Al v. 12 si impiega il termine prokope che fa da inclusione con quanto si ritro­va al v. 25: il vantaggio (progresso) del Vangelo e dei cristiani di Filippi (eis prokopen …eis ten hy­mon prokopen). Giudicando la sua condizione, Paolo incoraggia i credenti a leggere la volontà di Dio anche nelle sue catene. Nell’ambiente del pretorio e un po’ dovunque è nota la vicenda dell’ Apostolo e la sua testimonianza cristiana (16). Più che es­sere prigioniero degli uomini, Paolo sa di essere il «prigioniero di Cristo» (cf. Ef 3,1,4,1; Fm1) (17) da qui nasce il suo vanto (1,26). Il legame tra la persona dell’ Apostolo e il Vangelo non si è spezzato: le «catene» che lo limitano, contribuiscono ad «unirlo» di più a Cristo. Leggendo questi versetti scopriamo come al centro delle considerazioni di Paolo c’è la persona del Cristo. Le catene diventano un incoraggiamento per i cristiani della comunità locale dove egli è detenuto. In un clima di ritrovata fiducia nel Signore (en Kyrio) (18) la «maggior parte» dei fratelli (pleiones) ha ripreso a dedicarsi alla predicazione con maggiore intensità (perissoteros) e senza timore (aphobos). Nel v. 14 è interessante l’espressione tolman ton logon lalein che traduce letteralmente la formula «osare di dire la Parola »: occorre riconqui­stare l’audacia della Parola di Dio, la spinta missionaria della predicazione, senza la quale non è possibile edificare la Chiesa. Tuttavia nei vv. 15-17 questo processo evangelico è segnato da un’ambivalenza strisciante, che mette in luce la divisione tra i buoni operai e coloro che predicano per invidia e spirito di contesa. L’Apostolo conosce le problematiche della divisione nella comunità e le affronta con sapiente equilibrio di giudizio. Commenta Barbaglio: «In altre circostanze egli non si sarebbe dimostrato così tollerante: non una parola polemica, nessun attacco verbale, solo la constatazione di un fatto. Ma ora è in carcere ed ha interesse a dire ai Filippesi come non abbia cessato per questo di essere annunciatore del Vangelo; almeno indirettamente, per fas e per nefas l’annuncio di Cristo si compie e si compie per suo influsso» (19). Si coglie in questo passaggio la solida e serena maturità del pastore: dare la priorità all’annuncio del Vangelo e non al prestigio della sua persona e della sua autorità apostolica. Possiamo supporre quale situazione si fosse creata nel contesto ecclesiale, durante la prigionia di Paolo. Alcuni credenti, ritenendo Paolo ormai recluso e tramontato (un «personaggio scomodo»), approfittarono della sua condizione per intensificare la predicazione del Vangelo allo scopo di accrescere il proprio prestigio personale nell’ ambiente e far pesare ancora di più il suo stato di detenuto. Il testo definisce bene i due gruppi: alcuni predicano Cristo per invidia e spirito di contesa, con rivalità e intenzioni non pure, pensando di aggiungere dolore alle sue catene (v. 17), altri predicano con buoni sentimenti e per amore, sapendo che Paolo è stato posto per la difesa del Vangelo (v. 15-16) (20). Al v. 18 si ricava la posizione dell’Apostolo, introdotta dall’interrogativo retorico: ti gar (che cosa dunque?); a significare «che cosa importa?», espressione che ritroviamo in altri contesti argomentativi dell’ Apostolo (21). Anche se alcuni proclamano Cristo in modo negativo, «per pretesto» (v. 18: prophasei) e altri «nella verità-sincerità» (aletheia), Paolo «esulta e permane nella gioia» (en touto chairo… charesomai) per il fatto che Cristo viene annunciato (Christos kataggelletai). Si intro­duce qui il tema dominante di tutta la lettera che è quello della «gioia» (22). Pur stando in catene, l’Apostolo condivide la gioia del Vangelo e della missione, dando una straordinaria testimonianza cristiana all’intera comunità. Commenta Fabris: «Anche nel testo di Fil 1, 18b si può avvertire un implicito invito rivolto da Paolo ai Filippesi a seguire il suo esempio. Non è la condizione esterna o interna di conflitto che deve condizionare lo stato d’animo dei credenti, ma il fatto che l’annuncio di Cristo sia fatto ed accolto» (23). Nei vv. 19-26 il tono della comunicazione personale di Paolo si fa più intenso e commovente. Paolo ha la consapevolezza fondata (oida) che quanto sta avvenendo nella sua vita non si verifica per caso, ma risponde ad un preciso progetto di Dio «in vista della salvezza» (v. 19: apobesetai eis sote­rian) (24) In questa prospettiva la salvezza è definita non tanto dalla sorte del predicatore, ma dalla sua fede e dall’aiuto dello Spirito Santo. Egli si dichiara convinto di poter contare sulla preghiera della comunità (v. 19: dia tes hymon deeseos), qualunque cosa accadrà nel suo futuro. Di fronte al proget­to di Dio e al suo Vangelo egli vive una «ardente at­tesa e la speranza» (apokaradokia kai elpida): in nulla egli rimarrà confuso, comunque volgeranno gli avvenimenti che lo riguardano. L’espressione paolina del v. 20 è costruita in una forma antitetica e ricorda la fraseologia salmica dell’uomo fedele che «confida in Dio»25: «Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia» (v. 20). Il cuore di Paolo è segnato da una «piena fiducia» (en pase parresia), che racchiude in sé l’obbedienza a Dio e la forza profetica della sua Parola di salvezza: sia in caso di assoluzione che in quello di condanna a morte, l’Apostolo è persuaso che il suo destino rimarrà indissolubilmente legato a Cristo. Il notissimo v. 21 costituisce il culmine della dichiarazione dell’ Apostolo: «Per me infatti il vivere (to zen) è Cristo e il morire (to apothanein) un guadagno (kerdos) ». La frase è costituita da due membri accostati senza la copula: ai due verbi antitetici «vivere/morire» corrispondono i termini «Cristo/guadagno». Il pronome iniziale «per me» (emoi), posto in modo enfatico all’inizio della frase, sottolinea il legame profondo che Paolo ha con la persona del Cristo. Il «vivere» nella prospettiva della fede cristologica abbraccia l’intera esistenza dell’ Apostolo, non solo il restare nella carne umana, ma il suo passato e il suo futuro. In Gal 2,20 l ‘Apostolo esprime un simile concetto teologico: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato. e ha dato se stesso per me». Anche in questa espressione ritorna la distinzione tra «Cristo vive in me» e il «vivere nella carne». Si comprende come la vocazione di Paolo è qualificata dalla relazione con Cristo, che è la ragione e il centro della sua persona e della sua missione. Nel «cuore di Cristo» abita l’essere di Paolo, passato, presente e futuro. In questa piena e totale relazione cristologica Paolo considera la morte come un guadagno, espressione paradossale che richiama un topos comune della tradizione filosofica greco-romana (26). La morte diventa una liberazione e, per questo, un guadagno a favore della persona umana, quando la vita è diventata insopportabile. Tuttavia qui Paolo non intende disprezzare la vita, neppure una vita segnata dalle catene: l’accento viene posto sulla centralità di Cristo, che è la pienezza di vita, al cui confronto tutti i beni, i possedimenti e le conoscenze dell’uomo risultano passeggere. Paolo riprenderà questa argomentazione in Fil 3,7-8 quando affermerà che per guadagnare Cristo egli ha considerato una «perdita» tutto quello che poteva essere per lui un «guadagno». Nei vv. 21-26 si riprende l’antitesi vivere/morire, in riferimento a quanto Paolo stesso desidera. Egli esprime il suo pensiero in un soliloquio mediante una costruzione ipotetica: la prospettiva di vivere «nella carne» (en sarchi) e di lavorare con frutto (karpos ergou) lo mettono nell’imbarazzo della scelta (v. 22). Tra vita apostolica e unione escatologica con Cristo nella morte (v. 23 «essere sciolto dal corpo») Paolo non sa cosa preferire. Nel contesto di Fil 1,23a il passivo di synechesthai («essere preso») esprime bene la condizione di Paolo, che si trova al «bivio di un’alternativa». Da una parte egli ha il «desiderio» (v. 23: ten epithymian echon) di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo (syn Christo einai). Questo desiderio è interpretato dall’ Apostolo come la migliore soluzione (27). D’altra parte il «rimanere nella carne» è «più necessario» (v. 24: anagkaioteron di ‘hymas) per il bene della comunità. In questa contrapposizione emerge la vocazione dell’ Apostolo al servizio e alla missione nei riguardi della Chiesa. Nel v. 25 Paolo si dice convinto della necessità di continuare a lavorare nella Chiesa e di «essere di aiuto» a tutti i credenti per il progresso e la gio­ia della loro fede. L’Apostolo ha a cuore il «progresso» (prokope) di tutti i cristiani, come conseguenza del progresso del Vangelo. Allo stesso modo la gioia della fede è inseparabile con l’annuncio del Vangelo. La pericope era iniziata con la menzione delle «catene» e si conclude con il motivo della «gioia della fede» (chara tes pisteos), che ca­ratterizza il tenore spirituale delle relazioni dell’Apostolo con la comunità di Filippi (cf. Fil 1,3; 2,2.29; 4,1) (28). È questo lo stile che i cristiani devono avere: proclamare con fede il Vangelo della sal­vezza e vivere questo impegno in modo gioioso. La pericope si chiude al v. 26 con una proposizione finale («affinché», ina), che qualifica ulteriormente la dinamica delle sue relazioni con la co­munità di Filippi. Il termine-chiave di questa finale è costituito dal «vanto» (kauchema ) 29. L ‘Apostolo spera di rivedere i Filippesi con una nuova venuta in mezzo a loro, per dare loro un nuovo impulso spirituale. Così la mèta che orienta la speranza di Paolo in carcere non è solo la proclamazione del Vangelo, ma la crescita spirituale e la gioia dei cristiani di Filippi, che in questa ripresa del suo apostolato avranno un ulteriore motivo di fiducia in Cristo Gesù. 

II. 2 MEDITATIO  In questa prima unità primeggia la figura dell’Apostolo Paolo, che si presenta come esempio e come stimolo per la comunità di Filippi. Stando in carcere, Paolo non intende offrire un resoconto della sua situazione, ma vuole rendere partecipi i Filippesi dei suoi stati d’animo e della sua incrollabile speranza, senza preoccuparsi della sua sorte. Si può ben dire che anche nelle catene e nel rischio di venire processato e condannato, Paolo resta sempre il pastore impegnato nell’evangelizzazione e nella cura amorevole della Chiesa. Emerge dal testo una chiara consapevolezza della sua vocazione, che spinge l’Apostolo a tradurre anche la sua situazione di tribolazione e di sofferenza in «annuncio missionario» ricco di speranza. L’amore dell’ Apostolo per Cristo e per la Chiesa supera anche le divisioni e gli opportunismi di alcuni predicatori ambigui che si distinguevano nella comunità. Egli riesce a vedere un «guadagno» e un «progresso» anche nelle catene. Chi ha scelto di vivere la propria vocazione per Cristo, impara a leggere il bene anche nei contesti di maggiore sofferenza e prova. Le «catene» sono diventate strumento di diffusione della notizia cristiana, sia nell’ambiente imperiale che nelle piazze della città dove vivono e operano i cristiani (Col 4,19; 2Tm 2,9). Esse non sono segno di sconfitta, ma stimolo ed incoraggiamento affinché i cristiani possano riprendere ad annunciare la Parola di Dio con maggiore zelo e senza timore. La vocazione di Paolo trova la sua definizione spirituale più toccante nel v. 21: dopo aver esposto le problematiche di divisione della Chiesa, Paolo ri­vela il desiderio del suo cuore e si abbandona nella confidenza di Cristo. Egli è stato scelto, afferrato, conquistato da Cristo: la sua esistenza, la sua vocazione, la sua missione sono interamente configurate alla Sua persona. Il vivere di Paolo è Cristo e perfino il «morire» egli considera un «guadagno». Cogliamo in questo densissimo passaggio spirituale il «criterio cristo logico» per valutare la maturità vocazionale del cristiano. Colui che vive nella fede non ha da temere, ma solo da amare e da offrire. Inoltre il brano paolino fa emergere la responsabilità per la Chiesa. Tale responsabilità implica un discernimento attento e profondo su ciò che accade nella storia dei credenti. Stando in carcere, Paolo ha la possibilità di valutare la sua missione e la situazione che si è venuta a creare: egli desidera essere «sciolto dal corpo», ma è consapevole della propria responsabilità a cui non può rinunciare. La priorità dell’evangelizzazione e della missione supera ogni altra considerazione: la storia della comunità e l’esito del cristianesimo dipendono anche dalla qualità della risposta vocazionale del singolo credente e del singolo pastore. Un ultimo motivo di meditazione è dato da due termini che segnano il «progresso» dei credenti: la «gioia» e il «vanto». Annunciare il Vangelo di Cristo significa vivere nella gioia della fede e della comunione con il Signore. Lungi dall’ essere espressione gaudente e scanzonata dei godimenti, la «gioia evangelica» è anzitutto «frutto» dello Spirito (cf. Gai 5,22) e testimonianza di pienezza di vita (cf. Gv 16,24). Mentre sta soffrendo, Paolo intende essere di aiuto alla Chiesa perché i creden­ti progrediscano nella «gioia della fede» (cf. At 5,42; 13,52). È questa gioia, donata e condivisa, che caratterizza la nostra scelta vocazionale e il nostro cammino spirituale. Il secondo termine è il «vanto», che l’Apostolo impiega nelle sue lettere per segnalare la singolarità della scelta di Cristo crocifisso e risorto. Le catene di Paolo avrebbero dovuto essere segno di vergogna e diventano occa­sione di vanto. Il vanto non è espressione di orgo­glio, ma indice di unità spirituale con Colui che ci ha salvati.

II. 3 ORATIO     «Sono in catene per Cristo»  Per aver creduto alla Parola di salvezza, ed aver scelto di seguire il Suo esempio, attratto dal Suo coraggio di vivere, e liberato dal mio peccato di morte, «Sono in catene per Cristo»!  Per aver scoperto che nella mia debolezza opera la Sua grazia, ed essere rimasto fedele al Suo Vangelo, ponendolo al centro della mia vita, ragione ultima e definitiva di ogni mia speranza, «Sono in catene per Cristo»!  Per aver invocato il Suo nome in mezzo alla comunità con la certezza che Egli ascolta sempre la nostra preghiera, e aver cantato le Sue meraviglie nella storia, che annulla i potenti ed esalta i piccoli, «Sono in catene per Cristo»! Per aver teso la mano dell’amicizia al nemico, e confuso colui che godeva della mia caduta, aprendo la porta luminosa della speranza fasciando le ferite prodotte dall’orgoglio, «Sono in catene per Cristo»! Per aver insegnato la trasparenza della Verità, nella continua ricerca del bene comune, imparando dai miei limiti e dalle mie fatiche a crescere senza sentirmi una persona «arrivata», «Sono in catene per Cristo»! Per aver creduto che l’Amore solo resterà, donando me stesso nel servizio verso l’altro, mendicante di affetto e di comunione, con le mani aperte per donare senza pretese, «Sono in catene per Cristo»!  Per aver risposto alla Sua inattesa chiamata, che ogni giorno rinnova il mio cuore, facendomi partecipe della meraviglia del suo Regno sulla strada di tanti fratelli e tante sorelle nella fede, «Sono in catene per Cristo»!

II. 4 CONTEMPLATIO     «Il Padre, origine e fonte della missione» Gesù Cristo è il «missionario del Padre». In questa definizione cogliamo l’origine di ogni missione nel mistero della paternità di Dio. Il mistero del Padre diventa l’oggetto della nostra contemplazione e della nostra preghiera vocazionale, Entriamo nella paternità di Dio così come è presentata dall’apostolo Paolo nella sua testimonianza spirituale. In primo luogo Paolo riafferma che il Dio del cielo e della terra, creatore del mondo e signore della storia, da cui proviene ogni paternità è il «padre del Signore nostro Gesù Cristo» (2Cor 1,2) a cui bisogna rendere lode (Rm 15,6). Egli è l’unico Dio (1Cor 8,6), padre misericordioso e Dio di ogni consolazione (2Cor 1,3), che ha risuscitato il suo Figlio dai morti (Gal 1,1). Credere nell’unicità del Padre, «che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6), significa partecipare della sua grazia e della sua benedizione (Ef 1,3): il progetto del Padre è quello di farci entrare nella salvezza mediante il Figlio, primogenito di ogni creatura (Ef 1,3-11). In questa partecipazione si colloca la missione redentrice di Cristo e della Chiesa. La missione che nasce dal Padre e si compie nel Figlio Gesù, viene così presentata dall’ Apostolo:  «Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia infatti siete salvati. Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. Per grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (Ef 2,4-10). Vivendo nel mondo, con la forza dello Spirito Santo, siamo chiamati a contemplare il Padre e a pregarlo nel nostro cuore con lo stesso gemito spirituale, espresso nel grido di «Abba, Padre» (Rm 8,15). Tale preghiera rappresenta la prima e fondamentale esperienza del credente che si apre alla missione: iniziare dal Padre la nostra avventura vocazionale, vivendo l’unità della fede e della pace (Ef 2,17-18). Il Padre è dunque il principio da cui prende forma la nostra esistenza, ma è anche il fine a cui tende il nostro «esodo». Dobbiamo continuamente ringraziare il Padre per averci messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce (Col 1,12) e, nella nostra missione, dobbiamo essere «memori davanti a Dio e Padre nostro dell’impegno nella fede, dell’operosità nella carità e della costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo» (cf. 1Ts 1,3). L’epilogo della missione del Figlio consiste nell’ offerta definitiva della storia della salvezza nelle mani di Colui che ne è stato l’origine, «quando Cristo consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza» (1Cor 15,24). In questo senso tutto inizia, procede e culmina con il mistero del Padre: fac­ciamo nostro il desiderio di Paolo nei riguardi della comunità di Tessalonica: «Voglia Dio stesso, Padre nostro, e il Signore nostro Gesù dirigere il nostro cammino verso di voi!» (1Ts 3,11). Per vivere questo momento di preghiera e di contemplazione, ti invito a riflettere su un passaggio della lettera enciclica di Benedetto XVI, Spe Salvi:  «L’uomo viene redento mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito intramondano. Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di « redenzione » che dà un nuovo senso alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l’amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: « Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore » (Rm 8,38-39). Se esiste questo amore assoluto con la sua certezza, allora ­ soltanto allora – l’uomo è « redento », qualunque cosa gli accada nel caso particolare. È questo che si intende, quando diciamo: Gesù Cristo ci ha « redenti ». Per mezzo di Lui siamo diventati certi di Dio – di un Dio che non costituisce una lontana « causa prima » del mondo, perché il suo Figlio unigenito si è fatto uomo e di Lui ciascuno può dire: « Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal 2,20) » (30). 

II. 5 ACTIO     «La libertà della Parola»  La pagina paolina ha posta in evidenza il motivo della «libertà» della Parola di Dio (Fil 1,14). Mentre l’Apostolo soffre in catene la sua condizione di prigioniero, proclama la «forza liberatrice»della Parola di salvezza. Questa Parala che viene da Dio ed è incarnata in Cristo Gesù non potrà mai essere «incatenata». Da qui nasce il vanto di Paolo: perfino. le sue catene hanno contribuito ad evidenziare la «libertà della Parola» che tocca il cuore degli uomini. Riflettere sul ruolo che la Parola di Dio assume nella nostra esperienza vocazionale significa assumersi l’impegno di rimettere al centro della nostra esistenza il dono della Parola di salvezza. Riproponiamo alcuni testi paolini relativi al ruolo della Parola e facciamoli diventare «programma» di vita per la nostra missione. La fede nasce dalla predicazione della Parola di Dia, che raggiunge l’uomo e lo invita ad entrare in dialogo con Cristo. (Rm 10,8.17). Non si tratta di una parola retorica, puramente umana (cf. 1 Cor 2,4), ma della sola «parola significativa» per la nostra vocazione e missione: la «parola della croce»che è «stoltezza per quelli che vanno. in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio» (1 Cor 1,18). La missione paolina consiste anzitutto nel servizio umile e liberante di questa Parola testimoniata nell’amore di Cristo senza mistificazioni: «Noi non siamo infatti come quei molti che mercanteggiano la parala di Dia, ma con sincerità e come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, noi parliamo in Cristo.» (2Cor 2,17; cf. 4,2). Inoltre la Parola libera nella misura in cui esprime la «riconciliazione» (cf. 2Cor 5,19) e conferisce alla nostra missione il compito di donare la pace e la concordia. Paolo è diventato ministro della Parola «secondo la missione affidata da Dio»(Col 1,25). In tal modo la Parola predicata nella comunità «riecheggia» attraverso la testimonianza credibile del Vangelo. (1 Ts 1,8) e si espande con forza dovunque giunge la missione della Chiesa (2Ts 3,1). L’actio che emerge dalla testimonianza paolina ai Filippesi può essere riassunta nella raccomandazione che viene rivolta a Timoteo dall’Apostolo stesso e che siamo chiamati anche noi ad accogliere e vivere: «Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina» (2Tm 4,2).

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Publié dans:LECTIO DIVINA, Lettera ai Filippesi |on 13 janvier, 2014 |Pas de commentaires »

SENZA UMILTÀ LA PREGHIERA DEGENERA IN PRESUNZIONE – LECTIO DIVINA PER LA XXX DOMENICA DEL T.O.

http://www.zenit.org/it/articles/senza-umilta-la-preghiera-degenera-in-presunzione

SENZA UMILTÀ LA PREGHIERA DEGENERA IN PRESUNZIONE

LECTIO DIVINA DI MONSIGNOR FRANCESCO FOLLO PER LA XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

ROMA, 24 OTTOBRE 2013 (ZENIT.ORG) FRANCESCO FOLLO

Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la XXX.ma domenica del Tempo Ordinario – Anno C.
Come di consueto, il presule propone anche una lettura spirituale.
***
Senza umiltà la preghiera degenera in presunzione

Rito romano
XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C – 27 ottobre 2013

Sir 35, 15-17.20-22; Sal 33; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18, 9-14

Rito ambrosiano
I Domenica dopo la Dedicazione del Duomo di Milano,
At 13,1-5a; Sal 95; Rm 15,15-20; Mt 28,16-20

            1) LA PREGHIERA DEVE ESSERE UMILE.

            La Liturgia della Parola di Domenica scorsa ci ha insegnato che la preghiera per essere vera deve essere pura, fiduciosa, vigilante e costante. Oggi la stessa Liturgia completa l’insegnamento, sottolineando che la preghiera è vera quando è umile.
            Nell’introduzione al commento del Padre Nostro, San Tommaso d’Aquino scrive: “La preghiera deve essere umile perché Dio “si volge alla preghiera dell’umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10 14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt 9,11). ?E questa umiltà è osservata nel Padre nostro. Infatti, si ha vera umiltà quando uno non presume assolutamente nelle proprie forze, ma aspetta tutto dalla potenza divina alla quale si rivolge supplichevole”.
            Per pregare in verità occorre l’umiltà che rende contrito il cuore e avvicina Dio all’uomo, come dice il Salmo: “Dio è vicino a chi ha il cuore spezzato, salva gli spiriti affranti, riscatta la vita dei suoi servi; non condanna chi in lui si rifugia » (Sal 33/34, 19 e 23). Questo salmo ci può anche aiutare a capire bene la parabola evangelica del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-11), che ci è proposta in questa Domenica e che ci parla della preghiera umile. Un’umiltà espressa non solo dalle parole usate dal pubblicano ma anche dall’atteggiamento di quest’uomo, che si riconosce peccatore. Quando preghiamo, non conta solamente quello che diciamo al Signore, ma come Glielo diciamo. E’ in gioco “il come” viviamo il nostro rapporto con Dio.
            Di conseguenza, ciò che va corretto o migliorato nella nostra preghiera non sono le parole che diciamo, ma il modo di vivere la nostra relazione con Dio, magari iniziando il nostro momento di raccoglimento dicendo: “Signore, prima di parlare con me, perdonami” (Antequam discutias mecum, Domine, miserere mei -Antifona ambrosiana).
            Esaminiamo ora brevemente i due protagonisti di questo racconto evangelico.
            Iniziamo dal fariseo, che dalla mentalità corrente è considerato il vero praticante. Quest’uomo osserva scrupolosamente le pratiche della sua religione e ha molto spirito di sacrificio. Non si accontenta dello stretto necessario, ma fa di più. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescriveva la legge, ma due.
            Però Cristo dice che costui non è giustificato, non è salvato. Perché? Egli osserva tutte le prescrizioni della legge e non può essere accusato di essere ipocrita, ma commette l’errore di essere sicuro della propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio: non attende la Sua misericordia, non attende la salvezza come un dono gratuito, immeritato, ma piuttosto come una ricompensa dovuta per il dovere compiuto. Dice: «O Dio, ti ringrazio» e Gli fa l’elenco di quanto lui sa fare nella sua vita di praticante, facendo in tal modo presente a Dio la propria giustizia. Ma ha di fatto perduto l’originaria e gratuita dipendenza da Dio che ci è Padre perché ci ama e non perché “deve” ripagarci di quanto abbiamo fatto. Tanto è vero che questo fariseo a parte quel «ti ringrazio» detto all’inizio non prega: non guarda a Dio, non si confronta con Lui, non attende nulla da Lui, né gli chiede nulla. Si concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli duramente. In questo suo atteggiamento non c’è nulla della preghiera. Non chiede nulla, e Dio non gli dà nulla.
            Passiamo ora al secondo personaggio della parabola: un pubblicano che sale al tempio a pregare, e il cui atteggiamento è esattamente l’opposto di quello del fariseo. Si ferma a distanza, si batte il petto e dice: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»[1] (Lc 18, 13). Riconoscendosi peccatore dice la verità: è al soldo dei romani invasori e pagani, ed è esoso nell’esigere le tasse. E’ certamente un peccatore, ma è consapevole di esserlo peccatore, si sente bisognoso di cambiamento e, soprattutto, sa di non poter pretendere nulla da Dio. Non ha nulla da vantare, non ha nulla da pretendere. Può solo chiedere. Conta su Dio, non su se stesso. Quest’uomo ha il capo chinato ma il cuore è proteso verso l’Alto, da cui attende la misericordia.
            La conclusione è chiara e semplice: l’unico modo corretto di mettersi di fronte a Dio nella preghiera e, ancor prima, nella vita è quello di sentirsi costantemente bisognosi del Suo perdono e del Suo amore. Le opere buone dobbiamo farle, ma non è il caso di vantarle. Come pure non è il caso di fare confronti con gli altri.

            2) IL PERDONO RICREA
            Dunque, il pubblicano “tornò a casa sua giustificato”. Fu perdonato non perché migliore o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà), ma perché si aprì – come una porta che si socchiude al sole – a un Dio più grande del suo peccato, a un Dio che non si merita, ma si accoglie, a un Dio che con il perdono ricrea e rende il cuore del pubblicano innocente come quello di un bambino.
            Come Dio ha reso “giusto” il pubblicano peccatore, egli è “propizio” a noi quali peccatori sinceramente pentito, e saremo resi “giusti”, cioè riammessi nella divina amicizia, resi santi, purificati, restituiti alla vita di fede.
            Il fariseo è condannato. Perché? Perché disse “non sono rapace, ingiusto, adultero come il resto degli uomini” – e fin qui la genericità non offende nessuno – ma proseguì “o anche come questo Pubblicano” (Lc 18, 11). Così si mise contro il suo prossimo, lontano e vicino, nell’ingiustizia versi di esso e, quindi, verso Dio, che aveva detto: “Misericordia voglio più che sacrificio” (Os 6,6, ) e lo aveva confermato per bocca del Suo Figlio: “Andate e imparate che significa. Misericordia voglio, più che sacrificio” (Mt 9,13) e insistito: “Se voi aveste compreso che significa: Misericordia voglio più che sacrificio allora non avreste condannato gli innocenti” (Mt 12,7). Il peccato del fariseo formalmente sta nella condanna del fratello, ma soprattutto nella causa di questa condanna: “Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarò esaltato (Lc 18, 14). E la stessa frase già usata per gli invitati presuntuosi che volevano occupare i posti migliori al banchetto (cfr. Lc 14, 11).
            Imitiamo Cristo che non esaltò se stesso anzi si “svuotò” la sua Divinità nella più abbietta umiliazione quella della croce. Per questo Dio l’ha esaltato sopra ogni altro nome (cfr. Fil 2.)
            Le Vergini consacrate sono chiamate a vivere in modo speciale quest’umiltà di Cristo nella preghiera e nella vita. Queste donne hanno accolto in modo particolare l’invito del Salvatore: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo alle anime vostre» (Mt 11, 29). “E se vuoi conoscere il nome di questa virtù, cioè come essa è chiamata dai filosofi, sappi che l’umiltà su cui Dio rivolge il suo sguardo è quella stessa virtù che i filosofi chiamano atyphía oppure metriótês. Noi possiamo peraltro definirla con una perifrasi: l’umiltà è lo stato di un uomo che non si gonfia, ma si abbassa. Chi infatti si gonfia, cade, come dice l’Apostolo, «nella condotta del diavolo» – il quale appunto ha cominciato col gonfiarsi di superbia -; l’Apostolo dice: «Per non incappare, gonfiato d’orgoglio, nella condanna del diavolo» (I Tm 3, 6).«Ha guardato l’umiltà della sua ancella»: Dio mi ha guardato dice Maria – perché sono umile e perché ricerco la virtù della mitezza e del nascondimento”. (Origene, Omelie sul Vangelo di Luca, VIII, 5-6). Questa umiltà le rende spiritualmente feconde. Esse vivono il modo particolare lo spirito della Vergine Maria e “se secondo la carne, una sola fu la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo: ognuna infatti accogli in sé il Verbo di Dio” (Sant’Ambrogio di Milano, Esposizione del Vangelo secondo Luca, 2, 26-27). Nella preghiera di invio il Vescovo prega su di loro: “Gesù nostro Signore, fedele sposo di quelle che a Lui sono consacrate, vi doni, con la sua Parola, una vita felice e feconda” (Rituale di Consacrazione delle Vergini, n. 77). In tal modo, invita loro, e con il loro esempio invita ciascuno di noi, a fare in modo che nel nostro cuore, nella nostra vita il Signore trovi la sua dimora. Ma non solo dobbiamo portarlo nel cuore, dobbiamo “generarlo” e portarlo nel nostro tempo e nel mondo intero.
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LETTURA SPIRITUALE
CARD. JOHN-HENRI NEWMAN
UMILTÀ DI SPIRITO E SANTITÀ
Le parole del pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me che sono peccatore » (Lc, 18, 13) ci danno quella che potremmo chiamare la nota caratteristica della religione cristiana, la nota che la distingue dalle altre forme di culto e scuole religiose diffuse sulla terra nell’antichità e in epoche più recenti. Si tratta di una confessione del peccato e di una implorazione di grazia. I concetti di trasgressione e di perdono non furono certo introdotti dal cristianesimo né rimasero ignorati al di fuori della sua influenza. È facile anzi osservare che simboli della colpa e dell’impurità come pure riti di riparazione e di espiazione sono, più o meno, comuni a ogni religione. Ma la particolare caratteristica della nostra fede, e, prima ancora, della fede ebraica, consiste in questo: il riconoscimento del peccato si connette all’idea stessa della più eccelsa santità, e i credenti esemplari, come anche gli eroi della storia della Chiesa, sono ed altro non possono essere che creature redente, peccatori riconquistati alla grazia. Il ricordo eterno di quello che sono stati è caro ai loro cuori ed essi ne portano con sé anche in cielo l’estatica, aperta confessione.
È una confessione che non esce unicamente dalle labbra dei catecumeni o di chi è caduto; non è neppure esclusiva proprietà della gente comune, sempre alle prese con ogni sorta di tentazione nel vasto mondo. Anche i santi, per quanto avanzati siano nelle vie dello spirito, non sollevano mai il capo dalla loro posizione di supplica né mai cessano di battersi il petto nel tentativo di allontanare da sé il peccato, nei giorni dell’esistenza terrena. Gli stessi beati delle schiere celesti, che «hanno imbiancato le loro vesti nel san­gue dell’Agnello (Ap., 7, 14), mai non dimenticano la propria origine; si confessano, tutti e ciascuno, figli di Adamo e della stessa natura dei loro fratelli, pieni di debolezze per quanto grande sia stata la grazia loro concessa e la generosità con cui le hanno corrisposto. Gli altri potranno guardarli con ammirazione, ma essi guardano a Dio; gli altri potranno lodarne i meriti, ma essi continuano a par­lare solo delle proprie infedeltà. I giovani senza macchia come i vecchi pieni di esperienza, colui che meno ha peccato come colui che più sinceramente si è pentito, i freschi volti innocenti come le fronti canute, si uniscono nell’unica supplica: « O Dio, sii propizio a me peccatore! ».
Questa profonda umiltà è l’insegna e il pegno più caratteristico dei servi di Cristo, come il Signore stesso, che disse: «Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori » (Mt., 9, 13), lo riconosce e lo conferma concludendo la sua parabola: « Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato » (Lc, 18, 14).
Siamo, lo si vede, molto lontani dal riconoscimento puramente generale della colpevolezza dell’uomo e del bisogno di espiazione proprio delle antiche religioni, popolari in altri tempi e ancor oggi esistenti nel mondo. Per esse la colpa è un peso che incombe sull’individuo singolo, su determinati paesi, sulla condotta di un popolo, sugli stati o sui loro governanti: i colpevoli sono tenuti ad espiare. In taluni casi l’espiazione ha carattere cultuale, e cioè un rito di chi si avvicina per esempio al sacrificio o viene introdotto ad una funzione sacra, più che un atto veramente personale. Si tratta senza alcun dubbio di antichi avanzi della vera religione, di testimonianze in favore di essa, non prive di utilità in sé e in quello che sottintendono. Ma non si elevano certo al grado di chiarezza e di perfezione pro­prio dell’insegnamento cristiano: «Non vi è alcun giusto, neppure uno » (Rom., 3, 10) – « Tutti hanno peccato e rimangono lontani dalla gloria di Dio (Rom., 3, 23) – « Egli ci salvò non per opere di giustizia fatte da noi ma secondo la sua misericordia » (Tt., 3, 5) – insegna san Paolo. Gli aderenti ad altre religioni e filosofie hanno pensato e pensano che, se numerosi sono i cattivi, ci sono anche dei buoni, sia pure in piccolo numero. Gli spiriti più eletti poi, elaborando i concetti della massa ignorante e illusa, e lasciando addirittura da parte il concetto di colpa, sono assurti ad una concezione dell’uomo fatta di verità e di sapienza, perfetta e immutabile. Le loro descrizioni di personaggi religiosamente perfetti sono spesso ammirevoli e si prestano ad essere interpretate in modo assai istruttivo: hanno però un grave difetto, di non fare cioè alcun accenno al peccato e di non annoverare il pentimento e l’umiliazione tra le qualità dell’uomo virtuoso.
(Estratto dal Sermone: The Religion of the Pharisee, the Religion of Mankind, 1856 SVO, 2, 15-29)
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NOTE

[1] Il testo greco dice: “O Dio, sii propizio a me, peccatore.”: La formula viene anche dai Salmi (50,1; 78,9). Sono parole che escono dal cuore contrito e umiliato. Il pubblicano non sa dire di più, perché davanti alla Presenza santa le parole mancano dolorosamente. Inoltre lui sa che le parole non a nulla servirebbero. Si rimette semplicemente al suo Dio, nella trepida fiducia, sapendo che Lui scruta i cuori e i reni degli uomini, tutto comprende e, se vuole, tutto perdona: tutti riconcilia. 

Publié dans:LA PREGHIERA (SULLA), LECTIO DIVINA |on 25 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

IL MIRACOLO DELLA SANTITÀ – LECTIO DIVINA DELLA 1ª LETTERA AI TESSALONICESI

http://www.sacrafamigliamonza.it/public/Il-miracolo-della-santita.pdf

IL MIRACOLO DELLA SANTITÀ (PDF)

LECTIO DIVINA DELLA 1ª LETTERA AI TESSALONICESI

INTRODUZIONE

1. L’inizio. “Inizio del Nuovo Testamento”: questo potrebbe essere il titolo della Prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi, dal momento che essa è il primo testo giunto dalla Chiesa primitiva, lo scritto completo più antico del NT. Siamo nell’anno 50 o 51, dunque 20/21 anni dopo l’ascensione di Gesù. Guardando invece al contenuto della prima parte della lettera, si potrebbe intitolarla “L’eucaristia [= ringraziamento] di Paolo, Silvano e Timoteo”. Anzi – fatto anomalo – i rendimenti di grazie sono due: 1,2-10 e 2,13-16.
2. Gli antefatti. Paolo giunge a Tessalonica nell’anno 50, in compagnia di Silvano e forse di Timoteo (che è poco più che adolescente). Predica per tre sabati nella sinagoga (At 17,1-2), converte alcuni ebrei e molti pagani. Questo successo suscita la gelosia dei giudei, che gli organizzano contro una sommossa (At 17,5; 1Tess 2,14-16). Ma i due vengono aiutati a fuggire e partono per Berea. Gli studiosi ritengono che Paolo sia rimasto a Tessalonica non meno di tre settimane e non più di tre mesi.
Tessalonica era stata fondata nel 315 a.C. da Cassandro, che le aveva dato il nome della moglie, sorellastra di Alessandro Magno, di cui egli era ufficiale. Al tempo di Paolo la città era capitale della provincia senatoria della Macedonia (dal 44 d.C.). Dotata di un porto sul Mar Egeo, era situata sulla via Egnazia, che collegava le due parti (orientale e occidentale) dell’impero romano. Dal punto di vista sociologico, accanto a uomini d’affari c’erano impiegati amministrativi e soprattutto scaricatori di porto, schiavi ed ex schiavi. Il livello culturale medio, come quello morale, era molto basso. Sotto il profilo religioso vi erano politeisti, aderenti alle religioni misteriche provenienti dall’Egitto e dall’Asia Minore e una comunità giudaica con una propria sinagoga.
3.L’occasione. Preoccupato per la sorte della giovane comunità che è stato costretto a lasciare, da Atene
-dove si trova – Paolo manda Timoteo a Tessalonica, per avere notizie sullo stato di salute spirituale della comunità cristiana. Il resoconto lusinghiero fattogli da Timoteo costituisce l’occasione prossima della stesura della lettera, che l’apostolo invia durante il viaggio da Atene a Corinto.
4.I valori emergenti. Nella Lettera emergono un po’ dappertutto alcuni temi notevoli e piuttosto atipici rispetto alle altre Lettere paoline.
a)La collegialità. – Il mittente è una équipe pastorale di tre persone, Paolo Silvano e Timoteo. La lettera
quindi dovrebbe portare come titolo “Prima lettera di Paolo, Silvano e Timoteo ai Tessalonicesi”. La cosa è rilevante, se si pensa alla gelosia di Paolo per la propria autorità.
I tre appaiono senza titoli: unica eccezione è 2,7 dove son detti apostoli di Cristo. Prevale nettamente la prima persona plurale.
Insomma, abbiamo a che fare con un team ben affiatato e univocamente determinato.
b) L’individualità. Essa emerge, con il soggetto e la voce verbale in prima singolare, in 2,18 ; 3,5; e in 5,27. Tutto fa pensare che a dettare la lettera a nome dei tre sia stato Paolo, consapevole della superiorità della propria autorità su quella di Silvano e di Timoteo. Tanto più che nelle lettere successive (ad esempio 1Cor e 2Cor) Paolo rimarcherà fortemente tale autorità di fronte alle contestazioni mossegli dai destinatari.
c) L’amicizia. È espressa con i pronomi personali usati in modo esorbitante: voi si legge 84 volte, noi 47 volte; del tutto assente , invece, il pronome tu.
d) L’ecclesialità. Appare dal fatto che i destinatari sono denominati “Chiesa”. Il termine condensa in sé vari significati: 1. raduno di persone chiamate da luoghi diversi (cfr. Ez 36,24; Rom 9,24): ek + kaléo; 2. raduno di persone scelte fra tante: parentela con ek + légomai; 3. raduno di persone chiamate/scelte da Dio: ek = hypò: ek + kaléo / ek + légomai. L’ecclesialità emerge anche dal fatto che la lettera è destinata a una lettura assembleare (5,27), da farsi probabilmente durante una celebrazione liturgica, forse eucaristica (cfr. 1Cor11), o quanto meno nel corso di un incontro di catechesi.
e) La parola di Dio. Siamo di fronte a una concezione sorprendentemente elaborata e profonda della parola di Dio (1,5 e 2,13), concezione che non apparirà mai più in tutto il NT così nitida e precisa1
f) Le professioni di fede. Sono due: una (4,14) proviene dall’ambiente giudeo-cristiano, l’altra dalla catechesi sinagogale (1,9-10). Quest’ultima sarà ampliata da Luca nel discorso che Paolo terrà all’areopago di Atene (At 1,22-31).
g) Le virtù “teologali”. Le esortazioni morali sono sintetizzabili in atteggiamenti interiori e comportamen- ti esteriori di fede – carità – speranza (1,3), in cui consiste la santificazione (4,3) di ogni credente in Cristo.
5.La struttura.
* Indirizzo e saluto iniziale (1,1).
* Prima parte (1,2 – 3,13): i rapporti, in Dio e in Cristo, tra gli evangelizzatori, i tessalonicesi e gli altri
a)rendimento di grazie a Dio per i tessalonicesi (1,2 – 2,16)
b)la missione di Timoteo, il cui esito suscita rendimento di grazie a Dio (2,17 – 3,10)
c)augurio conclusivo della prima parte (3,11-13).
*Seconda parte (4,1 – 5,24): paraclesi apostolica nel Signore Gesù
a)due aspetti fondamentali di vita cristiana: la castità e la carità (4,1-12)
b)alcuni aspetti dell’attesa escatologica (4,13 – 5,11)
c)direttive per una vita cristiana (5,12-22)
d)augurio conclusivo della seconda parte (5,23-24).
*Raccomandazioni e saluto finale (5,25-28).
6.La parte del leone. Il sostantivo più ricorrente (36 volte) è il nome Theòs (= Dio).ò

UNA COMUNITÀ ESEMPLARE NATA DAL VANGELO
(1 Tessalonicesi 1,1-10)
[1]Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace.
[2]Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere
[3]e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro.
[4]Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui.
[5]Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione: ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene.
[6]E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo,
[7]così da diventare modello per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia.
[8]Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.
[9]Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero
[10]e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.
A) LECTIO
Naturalmente tralasciamo gli aspetti già visti sopra.
1.Struttura. I. Indirizzo e saluto (1,1)
II.Rendimento di grazie a Dio per i tessalonicesi, in quanto:
-uomini di fede, carità e speranza (vv. 2-3)
-scelti da Dio per essere evangelizzati (4-5)
-che hanno accolto la Parola pur nelle difficoltà (6)
-sono diventati modello per tutti (7),2
-sono divenuti, a loro volta, evangelizzatori (8)
-si sono convertiti a Dio, lo servono e attendono l’ultima venuta di Gesù (9-10).
2.Termini importanti. Chiesa dei Tessalonicesi; rendere grazie; ricordare; fede, carità, speranza; gioia; prove; Spirito santo; risuonare; modello; convertirsi; servire Dio; attendere il Figlio Gesù.
3.Analisi.
* V. 1. Grande audacia nell’uso delle parole. a) C’è un’assemblea di uomini in Dio, la quale è costituita da pagani. b) In Dio è diverso da presso Dio (At 4,10), ed è anche diverso da davanti a Dio (Dt 4,10): “Dio è il luogo naturale dell’uomo” (Fausti, 26). c) La traduzione esatta è Chiesa di Tessalonicesi (non: dei Tessalonicesi), cioè composta unicamente di quegli abitanti della città che sono credenti in Cristo. d) Dio e Gesù sono messi sullo stesso piano, a livello di parità. e) Il titolo Signore, prima attribuito al solo Padre (Kyrios, quando è senza articolo, è la traduzione greca abituale di Jhwh), viene ora attribuito a Gesù. Tant’è vero che Paolo, per distinguere le due Persone, è indotto a chiamare Dio Padre: Dio cioè Padre, Signore cioè Gesù. Quanto al termine Cristo, qui appare già come secondo nome di Gesù. f) Paolo saluta non le singole persone, ma una comunità di persone in quanto tale. g) Grazia è la benevolenza gratuita del Padre, donata e manifestata agli uomini da e in Gesù. Ricordiamo che i Greci si salutavano augurandosi la gioia (chàire, chàirete). h) Pace (cfr. Rom 5,1-2) è tutto il bene possibile; gli Ebrei si salutavano augurandosi la pace (shalòm). i) I due termini, uniti insieme, sono un saluto schiettamente liturgico: Rom 1,7; 1Cor 1,3; Filem 3; Gal 1,3; Ef 1,2; Fil 1,2; Col 1,2; 2Tess 1,2; Tt 1,2; 1Pt 1,2; 2Pt 1,2, 2Gv 3; Ap 1,4. Forse il loro ordine costante (prima grazia, poi pace) dice che la grazia è causa della pace (Morris, 51): grazia è la salvezza donata, pace la salvezza accolta.
* V. 2. a) Nelle lettere paoline, la prima parola dopo l’indirizzo e il saluto è, di norma, “io rendo grazie”. La novità sta qui nella prima plurale: rendiamo grazie. b) Il ringraziamento deriva sempre da un ricordare, da
un riportare al cuore. c) È importante rilevare che oggetto del ringraziamento è Dio, non i tessalonicesi; in altri termini, ringraziare Dio è il modo giusto per ricevere la chàris (grazia) e la eirène (pace) che vengono appunto da Dio e perciò è un ringraziare gli uomini come meglio non si potrebbe. d) Ringraziare Dio è una virtù del cristiano, non ringraziarlo è un vizio del pagano (Rom 1,21); cristiano = una persona che ringrazia Dio.
*V. 3. È la prima volta che le tre virtù teologali vengono associate. Dire cristiano è lo stesso che dire uomo di fede, carità e speranza, le quali – tutte e tre insieme – corrispondono al termine ebraico “giustizia” quale componente essenziale dell’alleanza (cfr. Trimaille, 188). Alla lettera: la “opera della vostra fede e la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza”. Interpreto i tre genitivi come genitivi soggettivi: l’opera che è la vostra fede ecc. Si tenga presente che nei vangeli non compaiono mai le tre virtù associate tra loro, è del tutto assente il termine “speranza” e il verbo “sperare” ricorre solo cinque volte; se ne “può evincere che probabilmente la trattazione unitaria della fede, della speranza e della carità sia stata opera di Paolo stesso” (Manzi, 1052).
* V. 4. Cristiano = un fratello amato da Dio (l’espressione è presente anche in 2Tess 2,13).
*V. 5. Gli evangelizzatori sono come strumenti che lo Spirito santo rende adatti, in tutto e per tutto, a svolgere il loro compito di annunciare “l’unico nome al mondo dato agli uomini, nel quale dobbiamo essere salvati” (At 4,12).
*V. 6. Anche i tessalonicesi si sono lasciati “fare”, cioè guidare dallo Spirito: imitando i loro evangelizzatori, finiscono con l’imitare il Signore Gesù. In particolare, hanno accolto la parola con gioia (cfr. Mt 13,20; Lc 8,13), nonostante le prove o tribolazioni.
* Vv. 7-8. Imitati da altri, i cristiani di Tessalonica diventano a loro volta modello; e così il vangelo rimbalza, risuona (si tratta di una vera e propria preghiera di risonanza), riecheggia dappertutto. Mi sembra che il verbo italiano “riecheggia” (stessa radice di “eco”, di “cat-ech-esi”), – presente nella traduzione CEI del 1984 e sostituito, ahimè, dalla nuova del 2008 con “risuona” – abbia il pregio di conservare l’assonanza con il verbo greco exèchetai: “i tessalonicesi sono stati come la parete rocciosa che rimanda la parola di Dio abbattutasi [si ricordino le persecuzioni cui i cristiani di Tessalonica sono stati sottoposti: v. 6] contro di essa” (Trimaille, 191).
*Vv. 9-10. Cristiano: a) un uomo che serve il Dio vivo e vero; b) un uomo che attende dai cieli il suo Figlio Gesù. Si noti l’espressione Gesù che ci libera dall’ira che viene: troviamo lo stesso verbo (ryomai) nella redazione matteana del Padre Nostro; ma qui – novità assoluta – si afferma che il liberatore (= redentore, salvatore) è (anche) Gesù, e non (solo) il Padre.

B) MEDITATIO
Assumiamo come filo conduttore della lectio il titolo, chiedendoci: che cosa deve fare, o meglio, su quali valori deve puntare una comunità cristiana come quella parrocchiale per esprimere e nutrire la consapevolezza di affondare le proprie radici nel vangelo di Gesù?
1. Una comunità nata dal vangelo punta all’essenziale, al fondamento, a ciò che è comune ai credenti in Cristo. Nel nostro caso, i tre (Paolo, Silvano e Timoteo) sono cristiani e per ciò stesso evangelizzatori. Il resto (che Paolo sia evangelizzatore in forza di una chiamata specialissima da parte del Risorto sulla via di Damasco; che gli altri due, invece, no) è relativo, subordinato, derivato. Di conseguenza, in una comunità che voglia essere veramente cristiana deve regnare una fondamentale uguaglianza. Per questa prima lettera di Paolo si può veramente parlare di “egualitarismo” in senso accentuato.
* In parrocchia ci stimiamo per chi siamo o per quello che facciamo? Per ciò che Dio – Padre e Gesù e Spirito santo – fa per noi, o per quanto noi facciamo per lui o per noi stessi o per gli altri? È ovvio che ciascuno di questi aspetti non esclude gli altri: ma il problema è dove cade l’accento. L’uguaglianza di cui s’è detto relativizza ogni altra distinzione (preti, laici, religiosi; sposati, singles; bambini, giovani, adulti, anziani, membri del Consiglio pastorale, non membri di esso,…) o l’assolutizza? In un tempo come il nostro in cui la non specializzazione è considerata quasi segno di anormalità, noi cristiani abbiamo il coraggio di sostenere che nessuna specializzazione potrà mai mettere in ombra il fatto che ogni persona umana è figlio di Dio. Per me, ogni persona è ugualmente importante?
2. Una comunità nata dal vangelo mette al centro Gesù. Il Signore, ormai, è lui! Non che il Padre abbia cessato di esserlo o che lo Spirito santo non lo sia più; ma dall’Incarnazione Dio lo si accoglie accogliendo Gesù, lo si raggiunge raggiungendo Gesù, se ne fa memoria facendo memoria di Gesù, lo si segue seguendo Gesù, lo si attende attendendo Gesù. Lui, il Dio fatto uomo, è il crocevia di tutte le fedi, il punto d’incontro di ogni religione, la meta di qualsiasi aspirazione. Il suo volto di uomo rivela il Padre e lo Spirito, che sono Dio ma non hanno un volto umano. Ruggenini (Il Dio assente, Mondadori, Milano 1997, p. 209) ha potuto scrivere della “verità finita dell’incarnazione, vale a dire la necessità per Dio di essere soltanto un Dio finito, dal momento in cui decide di rivelarsi a esistenze finite”.
*Qual è lo stato della mia conoscenza di Gesù? E quello della mia amicizia con lui: buono, discreto, sufficiente, scarso? Un malinteso dialogo interreligioso mi induce forse, se non a rinunciare alla mia fede in Cristo, quanto meno a metterla in parentesi? L’eventuale scoperta di altri “mondi” nell’universo può forse problematizzare la verità di fede della creazione di tutti e tutto in Cristo (Col 1,15-17), della unicità della redenzione attuata da Cristo (At 4,12 ecc.), del giudizio finale ad opera di Cristo (Mt 25)?
3.Una comunità nata dal vangelo ringrazia continuamente Dio per i fratelli di fede. Dire grazie a Dio ed essere cristiani sono due facce della stessa medaglia; dire grazie a Dio ed essere Chiesa che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo sono l’identica realtà. Quando c’è da ringraziare qualcuno, Dio è sempre di mezzo, deve essere sempre tirato in ballo, va sempre ringraziato, perché egli è sempre il primo a voler bene anche a fondo perso.
*Il grazie mi fiorisce spesso e volentieri sulle labbra o lo mugolo a fatica tra i denti? Il verbo eucharistèin (=
ringraziare) è tanto importante da essere diventato un termine tecnico del sacrificio di Gesù ripresentato nella Messa. So fare di ogni cosa, in qualunque circostanza e per qualsiasi persona un’eucaristia a Dio , oppure sono in grado di celebrarla a puntino nel rito liturgico e a stento capace di vivacchiarla nell’esistenza quotidiana? La mia parrocchia potrebbe essere con verità definita una comunità in cui tutti dicono grazie a Dio? Di che parrocchia sei? Risposta: di quella parrocchia dove ognuno ringrazia Dio per il bene fatto dagli altri fratelli di fede.
4. Una comunità nata dal vangelo vive di fede, di carità e di speranza. Si ricordi che Paolo parla di opera della fede (la prima cosa da fare è … non fare niente ma lasciar fare a Dio), fatica della carità (un amore facile non è un vero amore, in ogni caso non è l’amore di un discepolo di Gesù: cfr. Mt 5,46-47; Gal 5,6; sul senso pregnante di questa traduzione si veda Penna, “La carità edifica”…, 576-578), di pazienza o fermezza della speranza (una speranza irrequieta, agitata, scalpitante non è speranza cristiana).
* La mia fede è tale da porsi per sé stessa come modalità concreta di annuncio del vangelo? La mia carità vive consapevolmente le sue fatiche? La mia speranza tiene duro o va e viene, c’è e non c’è?
5. Una comunità nata dal vangelo è mimetica, avanza per imitazione. Ciascuno segue Gesù così da vicino (cfr. per antitesi Mt 26,58; Lc 23,49) che chiunque altro, imitando lui, finisce con l’imitare Gesù. Attenzione, il discorso va preso con le pinze: Paolo non ha dubbi sul dovere di copiare Gesù senza alcuna mediazione (Gv 21,19.22: “Tu segui me!”), ma vuole marcare sia il dovere – per chi annuncia Gesù – di vivere come lui, sia la forza persuasiva di chi si comporta così (se riesce lui, posso farcela anch’io!). In effetti, Paolo, Silvano e Timoteo persuadono i tessalonicesi a imitare Gesù; i tessalonicesi persuadono quelli dell’Acaia e della Macedonia; costoro persuadono altri, e così via. Si forma una vera e propria catena mimetica, cui si aggiungono nuovi anelli, e altri ancora, tendenzialmente all’infinito: un vero e proprio dinamismo di evangelizzazione “per contagio” (Martini, Alzati, va’ a Ninive…, Centro Ambrosiano, Milano 1991, p. 9). Evangelizzati da Cristo, ci si fa evangelizzatori. Questi diventano typos, cioè persone che colpiscono, marchiano, perché si sono lasciate colpire-marchiare-sigillare-coniare da Gesù (cfr. ad esempio Fil 3,12 [“Sono stato conquistato da Cristo Gesù”] e Gal 2,20 [“Non vivo più io, ma Cristo vive in me”]: da quel Cristo che è l’ archétypos, il sigillo del Padre (Eb 1,3), in quanto interamente coniato-scolpito-sigillato- marchiato dal Padre. Interessante è notare che la comunità come tale, non tanto i suoi membri isolatamente considerati, risulta typos (infatti è usato il singolare, non il plurale): una testimonianza comunitaria è molto più evangelica e convincente.
*Ebbene, a questa catena che giunge ininterrotta fino a me io aggiungo il mio anello o, non sapendo che farne, me la palleggio tra le mani?
6.Una comunità nata dal vangelo è davvero tale quando i suoi membri sono gioiosi, pur in mezzo a grandi prove. Contenti, gioiosi: non spensierati, infantilmente ingenui, stupidamente allegri. Ovvio che la gioia non possa venire dalla sofferenza (masochismo), né dalla sola forza di volontà (volontarismo), ma è un dono mirato dello Spirito a chi annuncia Gesù (Gv 16,23): l’evangelizzatore ha ipso facto la grazia di vivere nella gioia; e dunque, per converso, chi non vive nella gioia non è evangelizzatore, non riesce ad annunciare Gesù.
*La mia faccia è spesso “da funerale” o “da cane da guardia”? In chi incontrasse per la prima volta la mia comunità parrocchiale potrebbe forse sorgere il dubbio di avere a che fare con un’agenzia funebre o con un tribunale implacabile? Ma lasciamo stare la parrocchia: la mia famiglia, a che cosa assomiglia? E lasciamo stare la famiglia: io, che immagine do di me stesso agli altri?
7.Una comunità nata dal vangelo serve Dio e attende Gesù. Dove i due termini sono sinonimi, in corrispondenza biunivoca: servire Dio è attendere Gesù, attendere Gesù è servire Dio.
*Qual è il mio “stato di servizio” nei confronti di Dio? E lo stato di servizio della mia parrocchia? Quanto alta è la tensione, la differenza di potenziale, la corrente della mia attesa e di quella della mia parrocchia incontro a Gesù, che verrà nel suo ultimo rendersi presente alla fine della storia?

C) ORATIO
-Dio Padre, ti ringraziamo in continuazione.
-Santo Spirito, ti accogliamo con gioia.
-Signore Gesù Cristo, ti attendiamo con speranza.
I MISSIONARI DI CRISTO E LA LORO TESTIMONIANZA
(1 Tessalonicesi 2,1-12)
[1]Voi stessi infatti, fratelli, sapete bene che la nostra venuta in mezzo a voi non è stata inutile.
[2]Ma, dopo avere sofferto e subìto oltraggi a Filippi, come sapete, abbiamo trovato nel nostro Dio il coraggio di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte.
[3]E il nostro invito alla fede non nasce da menzogna, né da disoneste intenzioni e neppure da inganno;
[4]ma, come Dio ci ha trovati degni di affidarci il Vangelo così noi lo annunciamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori.
[5]Mai infatti abbiamo usato parole di adulazione, come sapete, né abbiamo avuto intenzioni di cupidigia: Dio ne è testimone.
[6]E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri,
[7]pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli.
[8]Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari.
[9]Voi ricordate infatti, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi, vi abbiamo annunciato il vangelo di Dio.
[10]Voi siete testimoni, e lo è anche Dio, che il nostro comportamento verso di voi, che credete, è stato santo, giusto e irreprensibile.
[11]Sapete pure che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi,
[12]vi abbiamo incoraggiato e scongiurato di comportarvi in maniera degna di Dio, che vi chiama al suo regno e alla sua gloria.
Come i missionari hanno annunciato il vangelo di Dio (2,2)? Quali ne sono stati i fini, le intenzioni, i sentimenti, i mezzi, lo stile? A questi e ad altri eventuali interrogativi analoghi vuol rispondere il brano che rendiamo oggetto di lectio divina. La risposta porterà ulteriore acqua al mulino dei motivi per cui rendere grazie a Dio, per “fare eucaristia” con la vita. In ogni caso, questa è “una delle più ricche descrizioni contenute nel NT dell’opera di un pastore cristiano” (Polston, citato in Morris, 62). L’occasione che induce Paolo a scrivere questo brano è da individuare, probabilmente, nel malcontento suscitato dalla sua partenza improvvisa: Paolo è forse anche lui uno dei tanti predicatori ambulanti attenti al messaggio da trasmettere ma insensibili ai loro destinatari?
A)LECTIO
1.Struttura. È di una semplicità elementare, in perfetto equilibrio quantitativo (sei versetti per ciascuna delle due parti): a) I no degli evangelizzatori ovvero la dimensione “verticale” dell’evangelizzazione (vv. 1- 6)
b)I sì degli evangelizzatori ovvero la dimensione “orizzontale” dell’evangelizzazione (vv. 7-
12).
2.Particolari significativi.
a)Paolo non riesce a non parlare di sé e dei suoi colleghi: è fatto così…
b)A Paolo, Silvano e Timoteo sta a cuore non la propria reputazione, bensì la fede dei cristiani di Tessalonica.
c)Nelle affermazioni che fa, Paolo chiama come testimonio Dio stesso.
d)Quel voler essere dolce e tenero come una madre e determinato e forte come un padre è un incanto di rara bellezza.
e)Continua alternanza dei pronomi personali noi e voi.
3.Parole chiave. Fratelli; soffrire; subire oltraggi; trovare coraggio; vangelo di Dio; madre; padre.
4.Analisi
* V. 1. La nostra venuta in mezzo a voi: propriamente è “entrata”, “ingresso” (éisodos); in altri termini, evangelizzare è entrare nel mondo dell’altro con accoglienza e discrezione, “portando dentro” di lui una parola che viene da Dio, non dall’evangelizzatore.
* V. 2. a) Il vangelo viene annunciato sempre con fatica. b) La libertà, la franchezza, il coraggio e l’audacia di “dire tutto” (parresìa = pan + èiro = dico tutto) quanto va detto, vengono da Dio, precisamente dallo Spirito santo (cfr. 1,6). c) L’espressione vangelo di Dio, tipicamente paolina (Rom 1,1.16; 2Cor 11,7), ricorre ben tre volte in questo brano (vv. 2.8.9); altrove ricorre solo in Mc 1,14 e in 1Pt 4,17. Essa connota in maniera inequivocabile sia l’origine del messaggio da proclamare sia colui che invia i messaggeri.
* V. 3. L’evangelizzatore non può avere secondi fini, né usare mezzi illeciti per conseguire fini buoni.
* V. 4. Bisogna piacere sia a Dio che agli uomini (Rom 15,2; 1Cor 10,33); ma in caso di contrasto questo va risolto a favore del piacere a Dio (2Tim 2,4), in quanto egli vuole sempre il vero bene dell’uomo. La prima, fondamentale forma di carità è dire e fare la verità (Ef 4,15).
*V. 5. L’evangelizzatore non ricorre all’adulazione (l’adulazione è finalizzata a me, la lode è finalizzata all’altro); né sfrutta arraffando.
*V. 6. Come il v. 4. Gloria che viene dagli uomini o gloria data da Dio? Avere la gloria umana non è un male, soltanto se almeno indirettamente essa viene da Dio, quando cioè è voluta da Dio (Gv 5,44; Rom 2,7.10.29; 1Cor 4,5; Mt 6,1; 23,5.27-28). A buon conto – a parte Rom 2,29 – Dio dà la sua gloria in paradiso, non prima.
* Vv. 7-8. a) Gli evangelizzatori hanno diritto di far valere la propria autorità, ma vi hanno generosamente rinunciato (1Cor 9,4-18; 1Tess 2,9; Lc 22,26). b) La fedeltà a Dio non comporta mai indifferenza, anzi innesca e alimenta attenzione e sentimenti molto caldi e cordiali: come quelli di una madre che per le sue creature è disposta a sacrificare la sua stessa vita (Gal 4,19; Is 66,11-13; Ef 5,29). c) I missionari dosano il nutrimento del vangelo con affetto materno (1Pt 2,2; 1Cor 3,2; Eb 5,12): un cibo – lo si noti – che non viene da loro, ma che è un regalo di Dio. Si rilevi la singolare affinità dei vv. 5-8 con At 20,17-35.
*V. 9. Ancora duro lavoro e fatica. Riguardo al lavoro di Paolo cfr. 2Tess 3,8-9.
* Vv. 10-12. a) L’evangelizzatore si sente anche padre: cfr. 1Cor 4,14; Flm 10; 3Gv 4. Se l’immagine materna rimarca la tenerezza e l’oblatività, quella paterna mette in rilievo la responsabilità educativa. b) Esortare, incoraggiare, scongiurare: tutti i registri vengono usati nella melodia paterna dell’educazione dei figli; e si adopera l’uno o l’altro in funzione delle esigenze obiettive di ciascun figlio (v. 11), perciò in un rapporto a tu per tu con ognuno di essi.

B)MEDITATIO
Quali caratteri evidenzia l’essere e l’agire di un autentico missionario del vangelo?
1. Il missionario di Cristo dice tutto quanto è bene si dica ai fini dell’evangelizzazione. I significati di parresìa sono numerosi (vedi Spicq, o.c.): dire in modo chiaro (Mc 8,32; Gv 11,14; 10,24); dire con libertà e con audacia (Gv 7,4.26; 11,54); dire con convinzione personale e con sicurezza (At 2,29.31; 4,31; 9,27-28; 14,3; 19,8; 13,46; 26,26; 18,26; 28,31); dire con coraggio e con tutta la vita (1Tess 2,2 [è il presente testo]; Fil 1,20; 2Cor 3,12); dire con la certezza che il proprio parlare è dono di Dio (2Cor 3,12; 1Tim 3,13) da chiedere nella preghiera (Ef 6,19; Fm 8; Col 2,15); dire con fiducia e speranza in Dio (Eb 3,6; 4,16); dire con la certezza di essere ascoltati (1Gv 5,14) e ricompensati da Dio (Eb 10,35; 1Gv 2,28; 3,21). Sottolineo, in particolare, due accezioni: a) la grande libertà del dire, che esclude paure di qualsiasi natura e condizionamenti negativi di qualunque origine; b) l’estrema trasparenza della vita di chi dice rispetto al messaggio detto.
* So dire le parole giuste al momento giusto? Che cosa, nella mia parrocchia, favorisce il dire (serenità, fiducia, magnanimità,…) e che cosa, invece, lo ostacola (sospetto, paura di essere giudicato dagli altri, pregiudizi inveterati, sciocca emulazione,…)? Sono uno che dice o manda a dire? dice in faccia o sussurra alle spalle? dice all’interessato o mormora con gli altri? dice “la cosa” o le gira intorno? Mi riesce di vivere il “dialogo come pòlemos, capace di sostenere la contrapposizione e la sfida delle differenze” (Ruggenini, 248)? C’è in me l’impegno di corrispondenza tra il messaggio che annuncio e la mia vita, oppure ricorro con frequenza patologica al meccanismo di difesa della “formazione reattiva” (= la lingua batte dove il dente duole: meno vivo un valore, più lo pretendo dagli altri)?
2. Il missionario di Cristo è madre. Come una madre che allatta (trépho) e scalda di affetto (thàlpo) il proprio figlio. Lo stesso verbo thàlpo troviamo in Ef 5,29 (riferito a Cristo nei riguardi della Chiesa), in Dt 22,6 (alla madre che cova gli uccellini e le uova), in 1Re 1,2.4 (alla donna che ama Davide), in Gb 39,1-4 (al sole che scalda le uova); cfr. Is 49,14-15. E, come una madre, il missionario esprime un amore tenero, dolce, delicato e, nello stesso tempo, viscerale, oblativo, prorompente, incontenibile (“un bambino per la donna è tutto il mondo”: Dobraczynki, L’ombra del Padre. Il racconto di Giuseppe, Morcelliana, Brescia 1991, p. 145): che cosa non fa una madre per ciascuno dei propri figli? L’evangelizzatore ha un cuore caldo, un animo vibrante, dei sentimenti vivissimi. La fedeltà a Dio – mette conto di ribadirlo –, lungi dall’inibire la sensibilità, la scatena a 360 gradi. Se ciò vale già per l’AT, figuriamoci nel NT: penso a Gesù che piange per Gerusalemme; che si commuove e scoppia in lacrime davanti a Lazzaro morto; che accarezza i bimbi; chefreme di compassione di fronte ai malati e ai peccatori; che grida di gioia alla presenza dei poveri evangelizzati.
*Voglio bene, anche nel suo risvolto sentimentale, alle persone che sono chiamato a evangelizzare? Il mio è un cuore vivo, con pulsazioni valide e ritmiche, o un cuore languente, con pulsazioni deboli, aritmiche, extrasistoliche? Non sono stato sottoposto fin dal battesimo a quel famoso trapianto cardiaco grazie al quale lo Spirito santo ha sostituito il mio cuore di pietra con un cuore di carne (Ez 36,26)? A quando risale la mia ultima sindrome di rigetto? Non mi sembra che l’attivismo, purtroppo anche pastorale, ci renda talora apatici, glaciali, funzionalisti, efficientisti, “computerizzati”, a tal segno che il coltivare dei rapporti interpersonali ci sembra tempo perso? Chiediamo al Signore la grazia di non lasciarci soffocare dalla rete aggrovigliatissima e asfissiante dei nostri frenetici, maledetti attivismi di qualunque natura.
3.Il missionario di Cristo è padre. Cfr. 1Cor 4,14-17; 2Cor 6,12-13; 12,14-15. L’amore del missionario sa essere anche forte, responsabile, preoccupato della crescita del proprio figlio sotto ogni aspetto. In particolare è capace di esortare, consolare, incoraggiare, testimoniare, scongiurare e rimproverare. Né concede tutto, né non concede nulla: ciò che fa è ispirato unicamente dall’amore per il figlio, che egli vuole libero, in grado di stare in piedi da solo e di camminare con le proprie gambe.
*Voglio bene come un padre alle persone cui annuncio il vangelo? Mi occupo della loro educazione cristiana quando esse sono nell’età evolutiva, e creo le condizioni della loro autoformazione se sono persone adulte? Ma sì… sfoghiamoci! C’è ancora tra noi – in questo mondo nel quale sembrano non esserci né padri né figli – qualcuno che esorti con parole cariche di benevolenza? Esiste tuttora – su questo nostro desolato pianeta – qualcuno buono a pronunciare parole di consolazione, che ti rincuorano con delicatezza senza pretendere riconoscenza sempiterna? Si trova in giro qualcuno – in questa società apparentemente abbandonata a sé stessa – chi sappia scuoterti dalla pigrizia e dal torpore in cui sei immerso? C’è ancora chi crede ai rapporti a tu per tu, e non solo ai rapporti di gruppo, visto che il vangelo deve concernerti personalmente, essere una parola “per te” (cfr. At 20,20)? Si danno ancora – di grazia – autentici accompagnatori spirituali che siano immuni dal “complesso della propria creatura”? Si trova ancora chi sappia attuare la correzione fraterna (“Fratelli, se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che avete lo Spirito, correggetelo con spirito di dolcezza…” [Gal 6,1-5])?
4.Il missionario di Cristo non cerca la gloria umana. Non la cerca per la buona ragione che Gesù non l’ha cercata: “Io non ricevo gloria dagli uomini” (Gv 5,41); “chi parla da sé stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato è veritiero, e in lui non c’è ingiustizia” (Gv 7,18). L’evangelizzatore cerca la gloria che viene da Dio: “e come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5,44).
*a) Io cerco la gloria di Dio, cioè manifesto agli altri il suo amore incondizionato? La mia comunità parrocchiale cerca la gloria di Dio, ossia fa vedere il suo amore che si è rivelato in Gesù crocifisso? Delle strutture esorbitanti e inutilizzate ai fini dell’evangelizzazione, possono esprimere la ricerca della gloria di Dio? b) Io cerco la gloria da Dio, cioè lascio che sia Dio, in paradiso, a rendermi partecipe della gloria di Gesù risorto (Rom 2,7.10; 1Cor 4,5)? Non devo dimenticare che la risurrezione di Gesù ha comportato una condizione di gloria per lui in cielo, ma non una condizione di gloria per noi su questa terra: per noi la gloria sarà soltanto dopo la morte, come del resto è stato per lui. Il fatto di lavorare da volontario per la mia comunità lo considero ricompensa a sé stesso? La mia parrocchia cerca la gloria da Dio o dai preti?

C) ORATIO
-Dio nostro, donaci il coraggio di annunciare il tuo vangelo pur in mezzo a sofferenze, oltraggi e lotte.
-Santo Spirito, rendici amorevoli come delle madri e responsabili come dei padri.
-Signore Gesù, fa’ che desideriamo soltanto la gloria che viene da Dio. Amen.

LA CHIESA COME LUOGO DI SANTIFICAZIONE
(1 Tessalonicesi 4,1-12)
[1]Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più.
[2]Voi conoscete quali regole di vira vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.
[3]Questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impurità,
[4]che ciascuno di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto,
[5]senza lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio;
[6]che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello, perché il Signore punisce tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e ribadito.
[7]Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione.
[8]Perciò chi disprezza queste cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo santo Spirito.
[9]Riguardo all’amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri,
[10]e questo lo fate verso tutti i fratelli dell’intera Macedonia. Ma vi esortiamo, fratelli, a progredire ancora di più
[11]e a fare tutto il possibile per vivere in pace, occuparvi delle vostre cose e lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato,
[12]e così condurre una vita decorosa di fronte agli estranei e non avere bisogno di nessuno.
Con questo brano inizia la seconda parte, che abbiamo intitolato “Paraclesi apostolica nel Signore Gesù”. Infatti sostengono gli esperti – ad esempio Vanhoye, Schlier e Schnackenburg – che è più corretto dire paraclesi che non parenesi, perché il primo è un termine tecnico cristiano in quanto contiene il verbo kaléo e quindi allude alla vocazione che Dio dà a ciascuno: un appello vibrante. Come diventare santi nella concreta comunità cristiana in cui si vive? Nel rispondere a questo interrogativo, Paolo non enuncia ovviamente tutte le condizioni alle quali la Chiesa risulta luogo effettivo di santificazione: si limita a delinearne alcune, presumibilmente quelle riguardanti i valori cristiani che presso i tessalonicesi, pur esemplari sotto molti punti di vista, trovavano qualche difficoltà di realizzazione.

A)LECTIO
1.Struttura. È molto semplice:
a)Norma generale: comportarsi (letteralmente camminare) in modo da piacere a Dio in base agli insegnamenti di Gesù (vv. 1-2).
b)Primo caso particolare: l’impurità (vv. 3-8).
c)Secondo caso particolare: l’amore reciproco (vv. 9-11a).
d)Terzo caso particolare: la tranquillità e il lavoro (vv. 11b-12).
2.Particolari significativi. a) Due ricorrenze del termine fratelli (vv. 1.10): è la famosa radicale uguaglianza di cui s’è detto. b) Enfasi sui verbi pregare e supplicare (v. 1); anzi, il verbo supplicare in greco
èparakaléo (da cui “Paraclito”, riferito al Padre in 2Cor 3-4, a Gesù in Gv 14,26 e allo Spirito santo in Gv 14,16.26; 15,26; 16,7), che è un composto di kaléo = chiamo, do la vocazione. Il che significa che quanto Paolo sta per dire corrisponde alla chiamata che Dio rivolge a ciascun cristiano di Tessalonica. c) Dio è presentato come colui che dona lo Spirito santo (v. 8). d) L’amore dei tessalonicesi deve essere vicendevole (v. 9). e) Insistenza sul dovere di lavorare (v. 11). f) Gesù è presentato come colui che dà delle regole (v. 2). g) Enfasi sull’avverbio di più (màllon): due volte (vv. 1.10).
3.Parole principali. Fratelli; supplicare; piacere a Dio; ancora di più; volontà di Dio; santificazione; impurità; amore fraterno; vivere in pace; lavorare.
4.Analisi
*Vv. 1-2. Ormai piacere a Dio coincide esattamente col mettere in pratica le regole date da Gesù. Si noti come il non procedere sulla via insegnata dai missionari del vangelo venga considerato – a dispetto della logica – come un recedere, il non andare avanti come un andare indietro: “se i tessalonicesi si fermassero nel loro cammino teso al compiacimento di Dio, in qualche modo già arretrerebbero (cfr. Gal 3,4; e anche Mt 12,45, parallelo a Lc 11,26)” (Manzi, 1108).
* V. 3a. Dio vuole che ci santifichiamo. La volontà di Dio è sì legge, ma anzitutto grazia, dono, forza, aiuto: ci ha chiamati nella (en) santificazione (v. 7). Lui è santo, noi diventiamo santi: santità esprime un possesso, santificazione un processo, un dono da accogliere e far fruttare con senso di responsabilità (cfr. Lev 11,44; 19,2; 20,7; Rom 6,19.22; 1Cor 1,30; 1Tm 2,15; Eb 12,14; 1Pt 1,15). “La nostra somiglianza con Dio è voluta da lui (Gen 1,26-27). L’errore consiste nel far diventare lui come noi. Allora povero Dio; e poveri noi!” (Fausti, 77).
* Vv. 3b-8. Quattro le affermazioni fondamentali: a) impurità è vivere un rapporto scorretto con il proprio (e altrui) corpo – che esprime la persona nella sua unitotalità – come oggetto di passione e di libidine, anziché con santità e rispetto; b) essere impuri fa a pugni con l’appartenenza al Signore (il Signore punisce tutte queste cose, vale a dire egli lascia che le conseguenze negative dell’impurità ricadano sul peccatore; cfr. Sal 94,1; 99,8), è vivere da pagani che non conoscono Dio; c) non si può diventare santi finché si è impuri (Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione); d) essere impuri è disprezzare il Padre e lo Spirito santo (v. 8), oltre che disobbedire a Gesù (v. 2). Cfr. 1Cor 5,1; 6,13.18; 7,2; 2Cor 12,21; Gal 5,19; Ef 5,3; Col 3,5.
*Vv. 9-10. a) Philadelphìa nel greco laico definisce l’amore tra fratelli di sangue, mentre nel NT l’amore
tra persone di fede cristiana (cfr. ad esempio Rom 12,10; Eb 13,1; 1Pt 1,22; 2Pt 1,7). b) Tale amore è reciproco, perché così Dio stesso ci ha insegnato (theodìdaktoi: cfr. Ger 31,34; Is 54,13; Gv 6,45; Rom 5,5). c) L’amore reciproco non ha misura: ognuno può sempre fare ancora di più; “chi avesse la sensazione di aver già fatto abbastanza, avrebbe di certo fatto troppo poco, non avrebbe sentimenti di amore”(von Balthasar, 48): “dopo il male il bene, dopo il bene il meglio, dopo il meglio gli orizzonti sconfinati della perfezione cristiana” (Buzy, citato in Rossano, 93). Cfr. Gv 10,10, dove si attesta che Gesù è venuto affinché abbiamo la vita, la più abbondante possibile.
*V. 11. Bisogna provvedere onestamente al proprio sostentamento. Paolo non raccomanda il lavoro manuale; ma la sua affermazione fornisce, pur senza volerlo, notizie sullo status sociale dei primi cristiani e registra l’ozio di alcuni tessalonicesi. Ognuno compia il proprio dovere quotidiano, secondo il suo stato di vita, non vivendo sulle spalle di nessuno.
*V. 12. Gli estranei sono i non appartenenti alla comunità cristiana, pagani o giudei.

B)MEDITATIO
Perché la Chiesa risulti effettivamente luogo di santificazione, occorre che si verifichino – in ogni singolo cristiano – talune condizioni.
1. Avere la lucida consapevolezza di potere e dover diventare santo (Lev 19,2; 1Pt 1,16). a) Posso diventarlo, perché il Padre e Gesù me ne rendono capace donandomi il loro Respiro, lo Spirito santo. Respirando come loro, mi è possibile vivere come loro, diventando perfetto come il Padre (Mt 5,48) e avendo lo stesso modo di sentire di Gesù (Fil 2,5), “il Santo di Dio” (Mc 1,24). b) Devo diventarlo, perché così vuole Dio (questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione). È il solito importantissimo gioco di grazia e libertà, dono e compito, indicativo e imperativo: gioco in cui Dio fa soltanto la sua parte, senza mai costringermi o sostituirmi. Chiedendo in prestito a Carlo Sini (Il silenzio e la parola. Luoghi e confini del sapere per un uomo planetario, Marietti, Genova 1989, p. 83), potremmo dire che l’avventura della santità è un “avere-da avendo-già”, un “avere-già per avere-da”. Infatti “un Dio terminale rimarrà soltanto un Dio sussidiario, un Dio supplemento” (Ruggenini, 99.101).
* Io sto a questo “gioco”? So fare il mio gioco? Il mio gioco, non quello di Dio nel senso di pretendere di sostituirmi a Dio (del resto, chi riuscirebbe a fare quello che fa Dio)? Il mio gioco, non quello di un altro fratello di fede, che avrà pure il suo gioco (Gv 21,19.22). Mi considero un camminatore (il verbo camminare ricorre ben due volte al v. 1, tradotto in buon italiano con comportarsi) o un arrivato?
2. Essere lucidamente consapevole di aver bisogno, finché sono su questa terra, anche di norme con contenuti precisi. Non mi basta avere Dio come maestro, essere theodìdaktos, discepolo di Dio. La paraclesi del Paraclito, lo Spirito santo, il Maestro interiore, è sempre e comunque necessaria, ma non è sufficiente:
l’interiore, lungi dal renderlo superfluo, esige e rende efficace l’esteriore (leggi, precetti, consuetudini,…), considerato che sono un uomo spazialmente e temporalmente situato. Del resto, l’apostolo dice ai tessalonicesi che non hanno bisogno di raccomandazioni sull’amore fraterno (v. 9), ma poi dà raccomandazioni pratiche proprio sull’amore fraterno (v. 10; 5,12-15). Noi, con la nostra logica esclusiva, avremmo detto: se tocca a Dio dare delle regole, allora non tocca agli uomini; Paolo invece adotta la logica inversa, inclusiva: se Dio dà delle regole, anche gli uomini dovranno darsi delle regole che attualizzino quelle di Dio. Cfr. 1Gv 2,27 e le parti paracletiche delle sue tre lettere.
*Nel mio procedere sulla strada della santità, cerco di conoscere le regole di Dio, le mozioni interiori dello Spirito santo (preghiera, ascolto della parola di Dio scritta, sacramenti)? So far tesoro anche degli insegnamenti del Magistero ecclesiastico e delle esortazioni dei fratelli di fede, per discernere che cosa il Signore vuole da me? Non mi sottraggo al dovere – tipico del cristiano adulto – della paraclesi? E, prima ancora, conosco la paraclesi biblica (in concreto, leggo la Bibbia) e la paraclesi del Magistero (in concreto, leggo integralmente i principali documenti magisteriali)? Come intendo concretamente superare le eventuali difficoltà nel procurarmi tali conoscenze?
3.Avere la lucida consapevolezza di dover trattare con santità e rispetto il corpo che mi appartiene. Le ragioni di tale dovere sono delineate con precisione dallo stesso Paolo in 1Cor 6,12-20. Le riassumo. Il corpo: a) è per il Signore, ossia per rivelare Gesù Cristo, per rinviare a lui; b) è risuscitato da Dio, in quanto sarò risuscitato io, che sono (anche) il mio corpo; c) è tempio dello Spirito santo; d) ha uno scopo liturgico, perché è fatto per glorificare (= annunciare e manifestare) l’amore di Dio.
*Anziché formulare domande per la verifica, invito alla meditazione di 1Cor 6,12-20 che, a quanto so, è il brano neotestamentario più completo sull’argomento.
4.Avere la lucida consapevolezza del dovere di amarci vicendevolmente. Dove la reciprocità, ed essa sola, è la differenza specifica rispetto a ogni altro amore. Bastino un paio di citazioni. Merton (Nessun uomo è un’isola, 181) scrive: “Siamo obbligati ad amarci scambievolmente. Non siamo strettamente tenuti a
piacerci l’un l’altro. L’amore governa la volontà: il piacersi è soltanto questione di sensi e di sensibilità. Però, se amiamo davvero gli altri, non sarà troppo difficile aver simpatia per loro. Se aspettiamo che certe persone ci diventino gradite o attraenti prima di cominciare ad amarle, non cominceremo mai”. E Sequeri (“Ma che cos’è questo per tanta gente?”, 75): “Nei confronti di ognuno l’esigenza di farsi prossimo è un dovere incondizionato: liberamente assunto nell’obbedienza della fede da parte del discepolo del Signore. Ma nei confronti del mio fratello [di fede] è un diritto attendermi la reciprocità di tale condivisione della carità evangelica e della cura della Chiesa”.
*Succede esattamente questo nella mia parrocchia? Se no, come rimboccarmi le maniche perché succeda?
5.Avere la lucida consapevolezza di dover lavorare. Prescindendo dalla condizione di chi è senza lavoro (argomento troppo importante e grave per essere qui liquidato con due parole), mi concentro su chi lavora. So troppo bene che il lavoro non è conseguenza del peccato originale, per cui non posso maledire né Eva né Adamo : il lavoro è stato voluto dal Creatore fin dall’inizio, prima che l’uomo commettesse il peccato d’origine.
*Dunque, mi appassiono al mio lavoro o lo vivo solo come un peso, di cui purtroppo – maledizione! – non mi è possibile fare a meno? Faccio bene il mio lavoro? Mi creo una competenza sempre più grande su di esso? Esistono ancora persone tanto coinvolte nella professione che tu, incontrandole, immediatamente intuisci la loro professione (non può fare che il medico; scommetto che fa l’insegnante; sono sicurissimo che fa il meccanico; non c’è dubbio che faccia il postino, si capisce subito che fa la casalinga…)? Se sono pensionato, spendo il tempo anche per gli altri, facendo tesoro delle mie competenze acquisite nell’attività lavorativa, oppure… ammazzo il tempo? Sono convinto che tempo libero non è affatto sinonimo di tempo vuoto? Viceversa, so trovare il tempo per la mia famiglia, la mia parrocchia, la società in genere, oppure il lavoro polarizza tutte le mie energie e requisisce tutto il mio tempo? Jan Dobraczynski (L’ombra del Padre. Il romanzo di Giuseppe, 220) fa dire a Giuseppe: “L’Altissimo ordina e permette che l’uomo con le capacità
che possiede nutra coloro di cui si prende cura. Se così non fosse, perché mi avrebbe imposto di prendermi cura di voi [Gesù e Maria]? Questo è il mio compito”. Mette conto di aggiungere che Giuseppe, sposo di Maria e custode di Gesù, è sempre stato venerato come il modello del lavoratore, dunque come colui che realizza alla perfezione i vv. 11-12 della Prima lettera ai Tessalonicesi.
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6. Avere la lucida consapevolezza di dover condurre una vita tranquilla. Non nel senso dell’inerzia piccolo o grande borghese, o di chi supinamente si accontenta dello status quo; ma nel senso di chi – appunto
– compie il proprio dovere quotidiano nella propria concreta situazione e secondo le sue reali, circostanziate possibilità. Chissà perché, quando leggo la frase Vi esortiamo a fare tutto il possibile per vivere in pace, mi viene sempre in mente l’esatto contrario vissuto nell’attuale società italiana: litigare per litigare, fare il bastian contrario per sport, diffondere notizie false con l’intento di creare sfiducia e sospetto, pescare nel torbido, e così via. Sicché non riesco a capire se sono io ad essere diventato matto o se sono tanti altri ad essere piombati nella follia…
* Di contro a questo clima maledetto e malefico, io vivo una vita tranquilla, pacificata con Dio, con me stesso, con gli altri, con la natura? Sono una persona “incatenata”, “scatenata” o “libera”? San Giuseppe avrebbe qualcosa da insegnarmi in proposito…

C) ORATIO
-Dio Padre, continua tenacemente a volere la mia santificazione.
-Gesù Signore, non smettere mai di farmi da maestro.
-Santo Spirito, fammi respirare come te. Amen.
UNO SGUARDO DI SPERANZA OLTRE LA MORTE
(1 Tessalonicesi 4,13-18)
[13]Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza.
[14]Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.
[15]Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti.
[16]Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo;
[17]quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore.
[18]Confortatevi dunque a vicenda con queste parole.
L’ignoranza del “dopo morte” genera tristezza; la tristezza, mancanza di speranza; la mancanza di speranza, sconforto e desolazione. Il credente in Cristo non può mai arrivare a tanto: sperimenterà senza dubbio il dolore della separazione dai propri cari, ma mai e poi mai risulterà inconsolabile. “Ogni volta che un credente muore con la sua speranza – scrive Quinzio (o.c., 722) – la sua morte rimbomba come un masso caduto nell’abisso dell’assenza di Dio, risuona nel vuoto come una smentita della promessa, una smentita della fedeltà di Dio, una smentita di Dio”. Se Paolo è costretto a fare affermazioni come quelle contenute nel brano proposto, vuol dire che la “di-sperazione” circa la vita dopo la morte era per i Tessalonicesi una tentazione tutt’altro che ipotetica. Di qui la catechesi supplementare che egli fa sull’argomento.

A) LECTIO
1.Struttura. a) Premessa: bando alla tristezza, tipica dei non cristiani (v. 13)
b)Tesi: poiché Cristo è risorto, i cristiani risorgeranno (v. 14)
c)Dimostrazione:- lo afferma il Signore (v. 15)
-lo confermo io con parole mie (vv. 16-17)
d)Conclusione: confortatevi a vicenda! (v. 18).
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2. Particolari significativi. a) La mancanza di speranza riguarda non la sorte futura dei tessalonicesi ancora in vita, bensì la sorte futura dei tessalonicesi già defunti: “che ne è dei miei morti?” b) Crediamo che Gesù è morto e risorto. È una formula sintetica di professione della fede cristologica: il cristiano è precisamente uno che crede che Gesù è morto e risorto. c) Morire come essere radunati con Gesù da parte di Dio e come essere con il Signore. d) Il rendersi presente di Gesù alla fine del mondo vien detto parusìa, che così diventa – o è già – un termine tecnico della teologia cristiana. e) Il dovere di consolare è presentato come vicendevole, reciproco, scambievole (allèlus). f) Ultimo ma non meno importante, il brano “riflette la più antica catechesi giudaico-cristiana sulla risurrezione dei morti” (Trimaille, 209).
3. Termini importanti. Essere triste; non avere speranza; credere; morire e risorgere; radunare con Gesù; parusia; essere con il Signore; confortarsi a vicenda.
4. Analisi.
*V. 13. Alcuni cristiani di Tessalonica pensano che quanti sono morti prima della venuta del Signore si troveranno svantaggiati rispetto ai cristiani ancora in vita.
*V. 14. Quello che è capitato a Gesù, il crocifisso, non può non coinvolgere coloro che sono morti da credenti in lui. Gesù e i cristiani hanno lo stesso destino. Non c’è pentimento nel Dio amante e datore di vita: egli è buono soltanto a dare vita e assolutamente incapace di dare morte. Credendo in ciò che è già successo nel passato, automaticamente si crede in quel che succederà nel futuro. Cfr. 1Cor 15,20-22. È importante rilevare che solo qui in tutto il Nuovo Testamento Gesù viene presentato concisamente, senza perifrasi, come colui che è morto e risorto: “Paolo, significativamente, non parla di Gesù che dorme, ma dice che morì. Cristo sopportò tutto l’orrore di quella morte e quindi trasformò la morte in sonno per i suoi. Nel Nuovo Testamento non viene mai detto: i cristiani muoiono; essi si addormentano. Ma non è mai detto: Cristo si addormenta; egli morì per noi” (Morris, 116-117).
* V. 15-17. I simboli usati sono di ascendenza veterotestamentaria (cfr. Es 19,16-19; Dan 7,9-14) e, opportunamente adattati, costituiscono un tentativo di inculturazione della fede. Infatti il termine parusìa (Mt 24,3.27.37.39; 1Cor 15,23; 2Tess 2,1.8; Giac 5,7.8; 2Pt 1,16; 3,4.12; 1Gv 2,28) indicava, all’epoca di Paolo, la visita ufficiale dell’imperatore, di un suo legato o del re; tale visita comportava solenni celebrazioni, amnistie di prigionieri ed esenzioni fiscali. Ne segue che devono non essere presi alla lettera. Verremo rapiti: commenta stupendamente Fausti (o.c., 97): “La salvezza è un atto rapace di Dio che, tornato ad essere aquila, ci ghermisce dal male e dalla morte. Lui è il forte che vince il male. Ma lo vince con la forza dell’amore, che è la debolezza della croce. La forza dell’aquila è in realtà la tenerezza della gallina (Lc 13,34)”.
*V. 18. Il conforto tra i cristiani deve essere basato su quanto essi credono ed essere vicendevole.

B) MEDITATIO
Quali caratteri evidenzia, in questo brano, la speranza oltre la morte?
1. La speranza cristiana è consapevole: “Fratelli, non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza”. La speranza dei credenti in Cristo sa, conosce, è informata, si procura le nozioni necessarie perché sia effettivamente un atto di libertà. Certo, essere nella speranza (o avere la speranza) è in primo luogo un regalo che Dio fa al cristiano; ma esso, come ogni dono, implica un riceverlo, un accoglierlo, un farlo fruttare. È sempre la logica della libertà umana che deve oscillare in concordanza di fase con la grazia divina, perché si dia salvezza per questo uomo che sono io, che è ciascuno di noi. Un atto non libero, che ti capita addosso senza che tu non possa farci niente, senza che tu sappia dire di che si tratta, non è un atto umano e perciò neppure un atto cristiano: è caso, fatalità, succede e basta. Dobbiamo rivedere – io credo – certi nostri atteggiamenti che, per evitare l’intellettualismo, finiscono col diventare privi di senso oggettivo e comunicabile. La fede – e con essa la speranza che vi si fonda – possiede un ineludibile aspetto conoscitivo che urge rivisitare e continuamente approfondire.
* La mia speranza è forse arbitraria, volontaristica, sentimentalistica, umorale, viscerale? Oppure – come dovrebbe essere – è non negligente sotto il profilo del sapere, in quanto non abdica a capire fin dove è possibile? O Dio mi ha dotato dell’encefalo come di un soprammobile e la capacità di usarlo come un optional più o meno confortevole? Che cosa “so” della vita futura? Più a monte, so qualcosa della vita futura? Sperare vuol forse dire fingere di sapere, illudermi, consolarmi (senza crederci) con un aldilà vago, evanescente, per non cadere in depressione? Si fa ancora catechesi sui cosiddetti Novissimi? So coniugare felicemente, nella mia esperienza di fede, l’ ”urgenza dell’aderire” con la “pazienza del domandare” (Ruggenini, 205), tenendo fermo che “la domanda sapiente non è quella avida di risposte, ma quella capace di meraviglia” (Ibidem, 171)?
2. La speranza cristiana è certa, sicura, salda, perché certa sicura e salda è la fede cristiana in cui affonda le sue radici. Gesù morì ed è risorto: i cristiani moriranno e risorgeranno grazie a lui e come lui. Che sarebbe la vita se, dopo essermi impegnato a viverla seguendo Gesù, non potessi mai incontrarlo “così come egli è”(1Gv 3,2), “faccia a faccia” (1Cor 13,12), ma dovessi sempre “cercarlo tastando qua e là come un cieco” (At 17,27)? Amare uno senza mai poterlo vedere, senza poter stare con lui! Si noti: a) il discorso di Paolo è rivolto ai cristiani, ma riguarda tutti gli uomini; b) né per gli uni né per gli altri è automatico, dovendo fare i conti con quella benedetta libertà di cui sopra; c) più che dire finché c’è vita, c’è speranza, dovremmo affermare con convinzione: “Finché c’è speranza, c’è vita” (Fausti, 93).
*La mia speranza riguardo alla vita eterna è certa o dubbiosa? salda o vacillante? costante o variabile? Sono persuaso che una speranza dubbiosa, vacillante o variabile non sarebbe che la registrazione fedele di una fede con questi stessi caratteri negativi? Essendo radicata nella fede, la speranza viene curata non direttamente, ma curando la fede: solo così la terapia è eziologica e non superficialmente sindromica. Ma – ecco il punto – “il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).
3.La speranza cristiana non discrimina tra vivi e morti. Questi ultimi non risultano necessariamente, in quanto defunti, svantaggiati rispetto a coloro che sono ancora in vita. Infatti il Dio-Uomo ha relativizzato qualsiasi distinzione: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Le conseguenze? Ad esempio, un morto… in paradiso è avvantaggiato nei confronti di un vivo in peccato grave; e un vivo che accoglie responsabilmente la grazia del Signore risulta in netto vantaggio rispetto a un morto… all’inferno. “La comunità di Cristo è una comunità di vivi e di morti, e di morti che in lui vivono insieme ai viventi” (Moltmann, 2004).
*Prego per i “miei” morti? Parlo con loro nella preghiera? Chiedo nella preghiera il loro aiuto? Faccio celebrare delle sante Messe per loro? Non mi viene il dubbio che nella festa di Ognissanti potrei, senza saperlo, venerare come santo anche qualche mio parente? Queste domande valgono soprattutto per i giovani. Ma ce ne sono anche per gli adulti più anziani. Una ad esempio: le mie preghiere sono tutte e solo per i morti? Così facendo, non do forse l’idea del cristianesimo come religione funebre e – quel che è peggio – di un dio soltanto dei morti?
4.La speranza cristiana va spiegata, ma non banalizzata. Mi riferisco ai vv. 16-17, dove si parla di trombe, nubi, alto e voce di arcangeli. Il tentativo di Paolo è encomiabile, perché fa ricorso a immagini, simboli e metafore comprensibili ai cristiani del suo tempo: compie – come si è detto – un’opera di transculturazione della fede cristiana, ritenendo di conferire in tal modo lucidità e consapevolezza alla speranza. Ne consegue che noi pure dobbiamo: a) evitare di confondere il contenuto del messaggio (tutti, vivi e morti, risorgeremo grazie a Cristo e con Cristo) con la sua forma espressiva; il primo va accolto, la seconda lasciata cadere; b) trovare immagini adatte al nostro tempo per rendere la fede significativa per noi.
*Mi accontento di quel che la Bibbia sobriamente afferma sull’aldilà, o preferisco lanciare la mia curiosità morbosa nella lussureggiante vegetazione delle “rivelazioni private” e delle più sfrenate parapsicologie? Se Dio mi fornisce scarse informazioni sull’aldilà, vuol dire che va bene così. Ma è davvero “poco” sapere che ogni uomo di ogni tempo ha la possibilità reale di accogliere come dono la vita eterna in compagnia di Gesù? È fin… troppo, visto che ci è voluta una rivelazione divina per saperlo! Quanto ai simboli adatti a transculturare questa verità di fede, è meglio tacere: lascio volentieri il compito al Magistero ecclesiastico (che, di norma, fa bene il suo mestiere) e ai teologi santi.
5.La speranza cristiana ha come traguardo l’essere per sempre con Gesù risorto. Adesso sono in
Gesù, dopo la morte sarò –appunto lo spero – con Gesù. L’essere con Gesù è condizione necessaria e sufficiente dell’essere con Gesù. Essere “in”, per essere “con”.
*Domanda unica: il mio essere “in” gode di buona salute? Se non lo fosse, saprei approntare in base al bisogno terapie adeguate alla gravità della malattia?
6. La speranza cristiana abilita al conforto vicendevole. Non basta vivere la speranza: occorre parlarne, incoraggiare, consolare, confortare. E a vicenda, l’un l’altro, reciprocamente.
Quando una persona è colpita da un lutto, divento improvvisamente afasico, muto? Mi limito a dire: “mi dispiace” o “poveretto!”? Attenzione: si devono dire parole di conforto specificamente cristiane, non ci si può accontentare delle espressioni cosiddette di circostanza. E vanno pronunciate nei momenti opportuni, con garbo, delicatezza, “compassione”; giacché potrebbe succedermi di riversare sull’altro un profluvio di chiacchiere insensate, che non soltanto non consolano, ma deprimono maggiormente chi è già depresso. In simili frangenti, che Dio mi liberi dalle persone senza parole; ma mi liberi ancor più dagli individui incontenibilmente logorroici.

C) ORATIO
-Dio Padre, dopo la nostra morte radunaci con Gesù.
-Signore Gesù, dopo la nostra morte donaci di stare sempre con te.
-Santo Spirito, consolatore perfetto, fa’ che ci consoliamo a vicenda con le parole da te ispirate. Amen.
I SEGNI DELLA SANTITÀ CHE VIENE DALLO SPIRITO
(1 Tessalonicesi 5,12-28)
[12]Vi preghiamo, fratelli, di aver riguardo per quelli che faticano tra voi, che vi fanno da guida nel Signore e vi ammoniscono;
[13]trattateli con molto rispetto e amore, a motivo del loro lavoro. Vivete in pace tra voi.
[14]Vi esortiamo, fratelli: ammonite chi è indisciplinato, fate coraggio a chi è scoraggiato, sostenete chi è debole, siate magnanimi con tutti.
[15]Badate che nessuno renda male per male ad alcuno, ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti.
[16]State sempre lieti,
[17]pregate ininterrottamente,
[18]in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.
[19]Non spegnete lo Spirito,
[20]non disprezzate le profezie.
[21]Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono.
[22]Astenetevi da ogni specie di male.
[23]Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo.
[24]Degno di fede è colui che vi chiama: egli farà tutto questo!
[25]Fratelli, pregate anche per noi.
[26]Salutate tutti i fratelli con il bacio santo.
[27]Vi scongiuro, per il Signore, che questa lettera sia letta a tutti i fratelli.
[28]La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi.
La santità consiste nell’essere perfetti come il Padre nostro che è nei cieli (Mt 5,48), cioè nel seguire Gesù (Gv 21,19.22; Fil 2,5) sotto la guida dello Spirito santo (Gv 14,15-17.26;16,7-11.13-15; Rom 8,2.14; 2 Cor 3,18; Gal 4,6; ). Ma come faccio a sapere se sto percorrendo la strada della mia santificazione? Nel concludere la sua prima lettera ai Tessalonicesi, Paolo risponde alla domanda dando direttive e delineando raccomandazioni relative alla vita intraecclesiale. È il vademecum della comunità cristiana, imbastito con ben sedici frizzanti imperativi, che peraltro vogliono essere dei caldi inviti più che dei comandi perentori.

A)LECTIO
1.Struttura. a) Paraclesi analitico-esemplificativa per la vita di una comunità cristiana (vv. 12-22)
b)paraclesi sintetico-discorsiva (vv. 23-24)
c)richiesta di preghiera (v. 25)
d)saluti (v. 26)
e)raccomandazione di una lettura pubblica della lettera (v. 27)
f)augurio finale (v. 28).
2.Particolari significativi. a) Importanza data ai rapporti tra i credenti in genere e quei credenti che hanno responsabilità specifiche; b) enfasi sul dovere di farsi carico dei più poveri (indisciplinati, scoraggiati, deboli); c) rilievo centrale accordato al comando: Non spegnete lo Spirito!; d) nomi delle tre Persone divine ai vv. 18-19 (Dio, Cristo Gesù, Spirito); e) affermazione che la santificazione è primariamente opera del Dio fedele; f) raccomandazione di leggere la presente missiva in un’assemblea di cristiani.
3.Espressioni importanti. Quelli che vi fanno da guida; vivere in pace; non rendere male per male; stare lieti; non spegnere lo Spirito; vagliare ogni cosa; il Dio della pace; degno di fede è colui che vi chiama; pregate anche per noi; bacio santo.
4.Analisi. Questi versetti sono notevoli soprattutto perché costituiscono “il più antico documento sulla struttura gerarchica delle comunità cristiane in terra pagana” (Rossano, 117).
* Vv. 12-13. I responsabili della comunità sono definiti: a) persone che faticano per ciascuno e per la comunità (cfr. 1,3; 2,9; 3,5; 1Cor 15,10; Gal 4,11; Fil 2,16; Col 1,29; 1Tim 4,10); b) persone che fanno da guida nel Signore (cfr. 1Tim 3,4.5.12; 5,17; Rom 12,8), cioè credenti che stanno davanti, precedono nel cammino dietro a Gesù, per suo incarico (nel Signore). Ma il verbo greco proìstamai significa anche “prendersi cura”, “proteggere”, e questa è la traduzione probabilmente migliore nel contesto, come ritiene Trimaille, che la giustifica col fatto che le sette occorrenze dello stesso verbo nella versione greca dell’AT hanno questo significato (“Fondare una comunità cristiana, va bene; però non la si può abbandonare a se stessa, senza che alcuni dei suoi membri accettino di prolungare la presenza del fondatore, prendendosi cura dei loro fratelli”: o.c., 217-218); c) persone che ammoniscono, cioè rammentano e ricordano le parole di Gesù (cfr. 1Cor 4,14ss.; 2Tess 3,15; Col 1,28; 3,16). Si esorta a trattarli con molto rispetto e amore, a motivo del loro lavoro, ossia in quanto esercitano la loro specifica funzione.
* V. 14. Indisciplinati: quelli che non sanno trovare il proprio posto perché non hanno ancora ritrovato sé stessi. Scoraggiati: coloro che si deprimono perché preoccupati unicamente della propria santificazione. Deboli: quelli che facilmente cedono al fascino della tentazione. Siate magnanimi con tutti: solo chi è di animo grande, nobile e generoso riesce ad assumere l’atteggiamento giusto nei confronti degli indisciplinati,
degli scoraggiati e dei deboli (cfr. Mt 18,23-35; Lc 6,36-38; Mt 7,2).
*V. 15. Cfr. Rom 12,17.21.
*V. 16. Cfr. 1Tess 1,6; 2Cor 7,4; Col 3,12.
* V. 17. Pregare ininterrottamente è possibile soltanto perché “lo Spirito stesso intercede con gemiti
inesprimibili” (Rom 8,26; cfr. Ef 6,18), vale a dire io respiro con il Respiro di Gesù, “inspirando ed espirando” lo Spirito santo. In concreto l’esortazione è a una preghiera regolare, cioè secondo una regola stabilita da ognuno per sé, secondo un ritmo costante (cfr. Trimaille, 219).
*V. 18. Cfr. Ef 5,20.
* V. 19-22. “Lo Spirito è fiamma che vuole divampare nella Chiesa e in ognuno di noi. Per questo ha bisogno di aria e di miccia: la nostra anima” (von Balthasar, 65). La metafora dello spegnere deriva dal fatto che lo Spirito è sovente assimilato al fuoco (At 2,3; 18,15; Rom 12,11). Probabilmente i tessalonicesi tendevano a sottovalutare i doni dello Spirito santo, in particolare la profezia: posizione diametralmente opposta a quella dei Corinzi, che viceversa li sopravvalutavano. Annota argutamente Marxen (o.c., 92): “Anche l’entusiasmo ha i suoi diritti, però va analizzato criticamente”.
* V. 23. Si noti: a) chi santifica è Dio; b) quell’interamente suppone che non si è mai santificati abbastanza (Fil 3,12); Paolo stesso dirà in Ef 4,13 che bisogna arrivare “fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo”; c) lo sforzo di santificazione è in funzione dell’incontro definitivo con Gesù nel suo paradiso.
* V. 24. Dio: a) chiama, b) è degno di fede, c) agisce salvando. È un grido di gioia vittoriosa, “la fine e il vertice della lettera” (Rossano, 134). Cfr. Rom 8,29-30; 1Cor 1,9; 2Tess 3,3.
*V. 25. Cfr. 1Tess 3,6; Rom 15,31.
* V. 26. Così ci si salutava dopo il banchetto eucaristico (1Cor 16,20; 2Cor 13,12; Rom 16,16; 1Pt 5,14). Baciare significa anche, “ad-orare”, avvicinare alla bocca per venerazione, comunione, affetto, amore.
16
Questa prassi – attestata da Giustino, Clemente di Alessandria, Origene, Tertulliano e Cipriano – andrà in disususo a motivo degli inconvenienti morali cui poteva dare adito.
* V. 27. Affermazione importantissima: questa lettera non è una missiva privata, ma è destinata a tutta la comunità cristiana di Tessalonica. Dovunque si annuncerà Gesù Cristo, lì si leggerà anche questa lettera. Annota Rossano (o.c., 125): “Tale lettura pubblica nelle assemblee diventerà un coefficiente importante storicamente per l’inserzione delle lettere dell’Apostolo tra i libri sacri, accanto agli scritti dell’Antico Testamento (cfr. 2Pt 2,15-16)”.
* V. 28. Come sappiamo, la grazia è la benevolenza gratuita del Padre manifestata agli uomini da e in Gesù. Il termine Amen con il quale alcuni codici concludono questa Lettera (cfr. Ap 1, 4-8) segnalerebbe la risposta dell’assemblea cristiana alla sua lettura.
“Si conclude così il primo scritto del NT: una missiva che per calore affettivo e per immediatezza comunicativa porta indelebile il marchio di Paolo missionario, padre e madre della comunità di Tessalonica” (Manzi, 1137).

B) MEDITATIO
Quali i segni della santità che viene dallo Spirito santo? Formuliamo meglio la domanda: in base a quali segni posso sapere di essere sulla strada (in greco, hodòs) di Gesù (= che è Gesù: Gv 14,6: “Io sono la via…”) sotto la guida dello Spirito santo, la guida (hodegòs)?
1. Un primo segno è costituito dal rispetto verso coloro che esercitano responsabilità particolari nella comunità cristiana. Paolo allude a quelli che noi chiamiamo vescovi, preti e diaconi, che però allora non erano “gerarchizzati” e “istituzionalizzati” come oggi; ma che comunque restavano pur sempre coloro che si prendevano cura della comunità cristiana come tale, oltre che dei singoli cristiani. Tutti contribuiscono alla crescita qualitativa e quantitativa della Chiesa, ma vi sono alcuni che devono presiedere a tale crescita. Già a quel tempo c’erano dei problemi in merito: diversamente, non si giustificherebbe il richiamo di Paolo. * Come sono i rapporti tra laici, preti e religiosi nella mia parrocchia? Quali gli aspetti più problematici? Come affrontarli e risolverli con stile e mezzi evangelici? E per me prete: mi affatico sia per i singoli che per la comunità nel suo insieme? So fare il capo “nel Signore”? Esercito l’autorità come servizio o, viceversa, facendo da padrone (1Pt 5,1-4)?
2. Un secondo segno di santità che viene dallo Spirito è da individuare nell’ammonire chi è indisciplinato, nel fare coraggio a chi è scoraggiato, nel sostenere chi è debole e nell’essere magnanimo con tutti.
-Di solito uno si agita perché non ha ancora ritrovato sé stesso. Lo aiuto in questo oppure mi oppongo a lui in una lotta corpo a corpo?
-Di solito uno è scoraggiato perché chiuso in sé stesso. Lo incoraggio o lo rimprovero?
-Di solito uno è debole perché…i perché possono essere numerosi: educazione inadeguata, insufficiente esercizio della volontà, temperamento fragile… Ebbene, sono persuaso che i più forti esistono per aiutare i più deboli, e che i deboli saranno sempre la maggioranza? Nella mia parrocchia (gruppo, movimento, associazione) i deboli vengono aiutati o criticati?
-Di solito uno è impaziente perché, sebbene anagraficamente adulto, adulto umanamente non lo è affatto. Io sono adulto o ancora giovane o adolescente? Se fortunatamente mi ritrovo adulto, sono fiero di esserlo o nostalgicamente rimpiango la giovinezza? La mia parrocchia è fatta anzitutto di adulti, o di persone in perenne età infantile, adolescenziale, giovanile? Cito il Magistero: “La Chiesa può dare ragione della sua speranza in proporzione alla maturità della fede degli adulti” (Il rinnovamento della catechesi, 124).
3.Un terzo segno di santificazione cristiana è costituito dal cercare sempre il bene, invece che rendere male per male. So perdonare? Sono capace di non ricattare? La mia parrocchia è specializzata in perdono o in ricatto? Vi serpeggia il sospetto o circola l’accoglienza? la critica o l’accettazione? la cattiveria o la bontà? l’alba che annuncia un giorno nuovo o il tramonto di un giorno che si spegne irrimediabilmente? il sole allo zenit o la tenebra che tutto inghiotte?
4.Quarto segno: la gioia. Sorvolo, perché abbiamo meditato a lungo su questo punto analizzando sia la lettera ai Filippesi che questa ai Tessalonicesi.
5. Quinto segno: la preghiera incessante, in particolare quella di ringraziamento. Unico telegrafico spunto di verifica: imparo sempre più a pregare… pregando?
6. Sesto segno: valutare correttamente e adeguatamente i doni dello Spirito santo. Sottovaluto l’azione e i doni dello Spirito? Intanto ne conosco almeno i nomi: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di Dio? In particolare, so valorizzare i consigli delle persone che hanno una grande capacità di individuare hic et nunc la volontà di Dio (= profeti)? Una sottovalutazione dei doni dello Spirito è quella di fare perché “si è sempre fatto così”, oppure di scegliere in ogni caso le tinte sfumate, di non decidere mai, di avere sempre da ridire… Sottostimare i doni dello Spirito equivale ad affermare, almeno tendenzialmente, che la Chiesa è tutta istituzione e niente carisma.
Ma è in agguato anche l’errore opposto, quello di chi sostiene che la Chiesa è tutta carisma e niente istituzione. È la sopravvalutazione dei doni dello Spirito; la voglia di fare sempre diverso, senza regole; la smania del nuovo, dell’inedito a qualunque costo; l’imprendibilità anguillare; l’esotismo e la stramberia teorizzati ed eretti a sistema; il desiderio incoercibile di far colpo e… chi più ne ha più ne metta! A me capita forse di sovradeterminare i doni dello Spirito santo?
7. Settimo segno: credere alla fedeltà di Dio e viverla. Per quanto dipende da lui, Dio non demorde da ciò che ha iniziato. Vengono in mente le consolantissime parole del Discepolo amato: “Davanti a lui [= Dio] rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3,19-20). Né c’è pericolo che, credendo alla fedeltà di Dio, io ne approfitti in senso deteriore: l’approfittarne equivarrebbe al fraintendimento di tale fedeltà. Lo diceva già Dante: “Amore ch’ a nullo amato amar perdona”. Sono convinto di tutto questo e cerco di metterlo in pratica?
8.Ottavo segno: pregare per gli evangelizzatori. Tutti i cristiani sono evangelizzatori. Ma qui Paolo pensa agli apostoli. E noi dobbiamo pensare al papa, ai vescovi, ai preti, ai diaconi. È così per me, per noi, per la nostra parrocchia? Giova ricordare che, in talune circostanze, il solo aiuto che si può dare ai preti è di pregare per loro…
9.Nono, e ultimo, segno: la lettura pubblica della parola di Dio scritta. Come viene letta la Bibbia nella nostra parrocchia? Quando viene letta? Anche in circostanze diverse (liturgie della parola, liturgie penitenziali, viae crucis…) da quelle strettamente obbligatorie?
C)ORATIO
-Dio Padre, non stancarti di essere fedele alle tue promesse.
-Signore Gesù, sii sempre in noi con la tua grazia.
-Santo Spirito, riscalda i nostri cuori tiepidi. Amen.
Conclusione
“Vi scongiuro, per il Signore, che questa lettera sia letta a tutti i fratelli”. Ecco, abbiamo dato a Paolo, Silvano e Timoteo la nostra obbedienza leggendo materialmente e interpretando questa loro Prima lettera ai cristiani di Tessalonica.
Il Signore Dio – Padre e Gesù e Spirito santo – ci dia il coraggio e la costanza di obbedire mettendo in pratica quanto gli autori sacri, a suo nome, ci hanno detto. Abbiamo terminato di leggerla: è ora di cominciare, o di continuare, a viverla. Così davvero sia per ciascuno di noi e per la nostra comunità parrocchiale, che come preti, religiosi o laici siamo onorati di servire.

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