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DOMENICA 24 OTTOBRE 2010 – XXX DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 24 OTTOBRE 2010  - XXX DEL TEMPO ORDINARIO dans Lettera a Timoteo - seconda 30102007

Il fariseo ed il pubblicano

http://www.dipingilapace.it/lettere/anno%202007/pagine/Lettera%20Dal%20Borgo%20della%20Pace%20Dipingi%20La%20Pace%2030.10.07.htm

DOMENICA 24 OTTOBRE 2010  – XXX DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinC/C30page.htm

Seconda Lettura  2 Tm 4,6-8.16-18
Mi resta solo la corona di giustizia.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.
Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.
Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dalla «Lettera ai Corinzi» di san Clemente I, papa
(Capp. 19, 2 – 20, 12; Funk, 1, 87-89)

Dio ordina il mondo con armonia e concordia e fa del bene a tutti
Fissiamo lo sguardo sul padre e creatore di tutto il mondo e immedesimiamoci intimamente con i suoi magnifici e incomparabili doni di pace e con i suoi benefici. Contempliamolo nella nostra mente e scrutiamo con gli occhi dell’anima il suo amore così longanime. Consideriamo quanto si dimostri benigno verso ogni sua creatura.
I cieli, che si muovono sotto il suo governo, gli sono sottomessi in pace; il giorno e la notte compiono il corso fissato da lui senza reciproco impedimento. Il sole, la luce e il coro degli astri percorrono le orbite prestabilite secondo la sua disposizione senza deviare dal loro corso, e in bell’armonia. La terra, feconda secondo il suo volere, produce a suo tempo cibo abbondante per gli uomini, le bestie e tutti gli esseri animati che vivono su di essa, senza discordanza e mutamento alcuno per rapporto a quanto egli ha stabilito. Gli stessi ordinamenti regolano gli abissi impenetrabili e le profondità della terra. Per suo ordine il mare immenso e sconfinato si raccolse nei suoi bacini e non oltrepassa i confini che gli furono imposti, ma si comporta così come Dio ha ordinato. Ha detto: «Fin qui giungerai e non oltre e qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde» (Gb 38, 11). L’oceano invalicabile per gli uomini e i mondi che si trovano al di là di esso sono retti dalle medesime disposizioni del Signore.
Le stagioni di primavera, d’estate, d’autunno e d’inverno si succedono regolarmente le une alle altre. Le masse dei venti adempiono il loro compito senza ritardi e nel tempo assegnato. Anche le sorgenti perenni, create per il nostro godimento e la nostra salute, offrono le loro acque ininterrottamente per sostentare la vita degli uomini. Persino gli animali più piccoli si stringono insieme nella pace e nella concordia. Tutto questo il grande creatore e Signore di ogni cosa ha comandato che si facesse in pace e concordia, sempre largo di benefici verso tutti, ma con maggiore abbondanza verso di noi che ricorriamo alla sua misericordia per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. A lui la gloria e l’onore nei secoli dei secoli. Amen.

LUNEDÌ 18 OTTOBRE 2010 – XXIX SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

LUNEDÌ 18 OTTOBRE 2010 – XXIX SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

SAN LUCA EVANGELISTA

MESSA DEL GIORNO

Prima Lettura  2 Tm 4, 10-17
Solo Luca è con me.
 
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo Timòteo
Figlio mio, Dema mi ha abbandonato, avendo preferito le cose di questo mondo, ed è partito per Tessalònica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è con me.
Prendi con te Marco e portalo, perché mi sarà utile per il ministero. Ho inviato Tìchico a Èfeso. Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Tròade in casa di Carpo, e i libri, soprattutto le pergamene.
Alessandro, il fabbro, mi ha procurato molti danni: il Signore gli renderà secondo le sue opere. Anche tu guàrdati da lui, perché si è accanito contro la nostra predicazione.
Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero.

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dagli Atti degli Apostoli 9, 27-31; 11, 19-26

La Chiesa è colma del conforto dello Spirito Santo
Un giorno Barnaba prese con sé Paolo, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore e parlava e discuteva con gli Ebrei di lingua greca; ma questi tentarono di ucciderlo. Venutolo però a sapere i fratelli, lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.
La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria; essa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo.
Intanto quelli che erano stati dispersi dopo la persecuzione scoppiata al tempo di Stefano, erano arrivati fin nella Fenicia, a Cipro e ad Antiochia e non predicavano la parola a nessuno fuorché ai Giudei. Ma alcuni fra loro, cittadini di Cipro e di Cirène, giunti ad Antiochia, cominciarono a parlare anche ai Greci, predicando la buona novella del Signore Gesù. E la mano del Signore era con loro e così un gran numero credette e si convertì al Signore. La notizia giunse agli orecchi della Chiesa di Gerusalemme, la quale mandò Barnaba ad Antiochia.
Quando questi giunse e vide la grazia del Signore, si rallegrò e, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede, esortava tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore. E una folla considerevole fu condotta al Signore. Barnaba poi partì alla volta di Tarso per cercare Saulo e trovatolo lo condusse ad Antiochia. Rimasero insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta gente; ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani.
 
Responsorio   At 12, 24; 13, 48. 52
R. La parola di Dio cresceva e si diffondeva. * E abbracciarono la fede i predestinati alla vita eterna.
V. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
R. E abbracciarono la fede i predestinati alla vita eterna.

Seconda Lettura
Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno, papa
(Om. 17, 1-3; PL 76, 1139)

Il Signore segue i suoi predicatori
Il nostro Signore e Salvatore, fratelli carissimi, ci ammonisce ora con la parola, ora con i fatti. A dire il vero, anche le sue azioni hanno valore di comando, perché mentre silenziosamente compie qualcosa ci fa conoscere quello che dobbiamo fare. Ecco che egli manda a due a due i discepoli a predicare, perché sono due i precetti della carità: l’amore di Dio, cioè, e l’amore del prossimo.
Il Signore manda i discepoli a due a due a predicare per indicarci tacitamente che non deve assolutamente assumersi il compito di predicare chi non ha la carità verso gli altri.
Giustamente poi è detto che «li inviò avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi» (Lc 10, 1). Il Signore infatti segue i suoi predicatori, perché la predicazione giunge prima, e solo allora il Signore viene ad abitare nella nostra anima, quando lo hanno preceduto le parole dell’annunzio, attraverso le quali la verità è accolta nella mente. Per questo dice Isaia ai medesimi predicatori: «Preparate la via al Signore, appianate nella steppa la strada per il nostro Dio» (Is 40, 3). E il salmista dice loro: «Spianate la strada a chi sale sul tramonto» (Sal 67, 5 volg.). Il Signore salì «sul tramonto» che fu la sua morte.
Effettivamente il Signore salì «sul tramonto» in quanto la sua morte gli servì come alto piedistallo per manifestare maggiormente la sua gloria mediante la risurrezione. Salì «sul tramonto» perché risorgendo calpestò la morte che aveva affrontato.
Noi dunque spianiamo la strada a colui che sale «sul tramonto» quando predichiamo alle vostre menti la sua gloria; perché, venendo poi egli stesso, le illumini con la presenza del suo amore.
Ascoltiamo quello che dice nell’inviare i predicatori: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe, perché mandi operai per la sua messe» (Mt 9, 37-38). Per una grande messe gli operai sono pochi. Di questa scarsità non possiamo parlare senza profonda tristezza, poiché vi sono persone che ascolterebbero la buona parola, ma mancano i predicatori. Ecco, il mondo è pieno di sacerdoti, e tuttavia si trova assai di rado chi lavora nella messe del Signore. Ci siamo assunti l’ufficio sacerdotale, ma non compiamo le opere che l’ufficio comporta.
Perciò riflettete attentamente, fratelli carissimi, sulla parola del Signore: «Pregate il padrone della messe, perché mandi operai per la sua messe». Pregate voi per noi, perché siamo in grado di operare per voi come si conviene; perché la lingua non resti inattiva dall’esortare, e il nostro silenzio non condanni, presso il giusto giudice, noi, che abbiamo assunto l’ufficio di predicatori.

Omelia per il 18 ottobre 2010: 2Tm 4,10-11

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/13824.html

Omelia (18-10-2008) 
Eremo San Biagio

Commento su 2Tm 4,10-11

Dalla Parola del giorno
Carissimo, Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia. Solo Luca è con me.

Come vivere questa Parola?
Nell’epilogo della seconda lettera a Timoteo, l’Apostolo Paolo, ormai anziano, vicino alla morte e in catene per Cristo, scrive una sorta di post-scriptum, consegnando al cuore del discepolo amato un grappolo di notizie personali, soprattutto di nomi, vicende, rivelatrici della sua acuta sensibilità ferita ma, al contempo, pacificata nel perdono e nella fiducia.
Dema, Crescente, Tito, Marco, Tichico, Carpo, Alessandro: tutti in qualche modo si sono allontanati da lui, o per adempiere al ministero o per vigliaccheria o addirittura per interesse personale. Ora a Paolo, nel tetro carcere di Roma, non resterebbe che la solitudine l’ingratitudine e l’indifferenza se non ci fosse Luca. “Solo Luca è con me” – scrive. Solidale, aggiungiamo noi. Solidale discreto e vicino alle sofferenze dell’Apostolo che ha combattuto la buona battaglia della fede ed ora si appresta a ricevere la corona della gloria che Dio ha promesso a quanti hanno dato tutto per Lui.
Oggi, nella festa dell’evangelista Luca, è bello fare memoria di questa sua presenza premurosa accanto all’anziano “testimone di Cristo”. Un’esortazione per ognuno di noi affinché sappiamo cogliere e apprezzare il dono fiorito e sempre verdeggiante di coloro che hanno intessuto di fedeltà a Dio la loro vita, facendo esperienza del Suo indefettibile amore nel correre degli anni. Degli anni e della gioia di stare con Lui. Come Luca, contempliamo nella canizie luminosa di questi uomini e donne di Dio la bellezza della nuzialità consumata nella dedizione alla causa del Regno.

Nel mio rientro al cuore, oggi benedico Dio per loro e chiedo il dono della fedeltà, per sempre, in perenne giovinezza, perché alla fine della vita possa dire anch’io:

“Signore, ricordati che ho passato la vita dinanzi a te con fedeltà e con cuore sincero e ho compiuto ciò che era gradito ai tuoi occhi” (Is 38,3).

La voce del patrono d’Europa
Se gli occhi del Signore scrutano i malvagi e i buoni, se dall’alto del cielo il Signore guarda continuamente ai figli degli uomini, per vedere se “esista un saggio, se c’è uno che cerchi Dio”, bisogna concludere, fratelli, che in ogni ora dobbiamo essere vigilanti.
San Benedetto 

domenica 17 ottobre 2010, omelia sulla seconda lettura: 2 Timoteo 3,14-4,2

dal sito:

http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi2.asp?ID_festa=250

2 Timoteo 3,14-4,2

L’efficacia delle Scritture

La lettera si apre con il prescritto e il ringraziamento epistolare, nel quale l’autore ricorda la fede di Timoteo, ricevuta dalla madre e dalla nonna (1,1-5). Viene poi il corpo della lettera in cui sono svolti i seguenti temi: A. Il vero pastore (1,6-18); B. Il comportamento di  Timoteo (2,1-26); C. Gli ultimi tempi (3,1-17); D) Il testamento di Paolo (4,1-18). Il testo liturgico riprende la finale della terza parte, nella quale si parla della perseveranza di Timoteo (3,14-15) e dell’efficacia delle Scritture sulle quali egli deve basare il suo insegnamento (3,16-17), nonché l’inizio della quarta, che contiene un pressante appello rivolto a Timoteo perché assuma fino in fondo il suo ruolo di pastore (4,1-2).
L’autore ha ricordato la fedeltà di Timoteo a Paolo e lo ha esortato a proseguire su questa linea, nonostante le sofferenze e persecuzioni, sapendo che i malvagi avranno la peggio (cfr. 3,10-15). Dopo di che egli prosegue: «Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù» (3,14-15). La saldezza nella quale Timoteo deve rimanere si fonda sulla sua formazione dottrinale: questa è frutto di un «imparare» (manthanein) da cui egli ha ricavato una fede incrollabile. In altre parole la fede, che nel linguaggio biblico significa «essere saldo», si basa sull’adesione a quanto si è imparato. Questo processo di apprendimento presuppone una catena continua e fedele di «maestri» che Timoteo deve riconoscere. L’idea di continuità e fedeltà è data mediante il ricordo dell’educazione religiosa ricevuta da Timoteo fin dall’infanzia.
A questo motivo di sicurezza se ne aggiunge un altro, quello derivante dalle Scritture. Si tratta di testi autorevoli e sicuri che Timoteo conosce bene perché li ha appresi fin dall’infanzia (cfr. 2Tm 1,5) e ha riposto in essi la sua fede. L’autorità delle Scritture consiste, a differenza di quella dei documenti profani, nella loro capacità di comunicare una sapienza che conduce alla salvezza.  Questa però deriva non da una semplice conoscenza dei testi, ma dalla fede in Gesù Cristo. Questi appare così non solo come fonte della salvezza, ma anche come l’unica chiave interpretativa della Scrittura.
L’efficacia delle Scritture ai fini della salvezza viene poi ulteriormente approfondita: «Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (3,16-17). L’espressione «tutta la scrittura» (pasa graphê) può indicare tutta la collezione dei libri sacri oppure ciascun libro preso individualmente. Essa è «ispirata da Dio» (theopneustos), cioè è composta sotto l’influsso dello Spirito di Dio: questa espressione può anche significare che la Scrittura «spira Dio», cioè è capace di infondere lo Spirito di Dio in colui che si accosta a essa. In forza dello Spirito che è in essa e promana da essa, la Scrittura è utile alla formazione completa e matura del cristiano. La sua opera viene descritta con quattro sostantivi: essa è fonte di insegnamento (didascalia), genera convinzione (elegmon) e correzione (epanorthôsis) e infine provvede all’educazione (paideia). Mentre l’insegnamento richiama la formazione intellettuale, gli altri tre sostantivi riguardano piuttosto la prassi. L’ultimo poi, la paideia, che si rifà al lessico tipico dell’ambiente ellenistico, è collegato con un vocabolo di schietto sapore biblico, ma non estraneo al gusto ellenistico, la «giustizia» (diakoiosyne). L’autentica parola ispirata dalla potenza di Dio, dal suo Spirito, rivela tutta la sua efficacia nel guidare e sostenere una prassi cristiana conforme alla volontà di Dio, cioè alla giustizia. A questa descrizione dell’efficacia della Scrittura è collegata, mediante una preposizione che indica finalità (hina, perché, affinché), una frase che mette in luce la meta a cui tende la Scrittura. Essa opera per la maturità cristiana che si rivela nelle opere buone, cioè nella prassi di carità. Questa osservazione finale vale in primo luogo per l’«uomo di Dio», un’espressione che indica anzitutto il responsabile della comunità cristiana (cfr. 1Tm 6,11). Ma, in base alla tematica della lettera, è chiaro che egli è proposto come modello o norma per tutti i cristiani.
Il brano liturgico abbraccia anche l’inizio dell’ultima parte della lettera, in cui è contenuto quello che più propriamente viene chiamato «testamento spirituale» dell’Apostolo: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (4,1-2). La situazione è quella di Paolo che, alla vigilia del suo martirio, consegna al discepolo, suo rappresentante e delegato, le ultime volontà (cfr. 1Tm 4,6-8). Il richiamo al credo cristiano, in cui si proclama Gesù giudice universale, stabilisce anche lo sfondo sul quale si comprende la responsabilità dei credenti. Il compito dell’annuncio fedele e perseverante si inserisce nel dinamismo della storia salvifica che si chiuderà con la definitiva manifestazione (epiphaneia) di Gesù Cristo nella sua signoria regale. Questo appello colloca l’esortazione seguente nel contesto dell’autorità divina e le dà un’autorevolezza e un’urgenza eccezionali. A questo esordio solenne fanno seguito cinque imperativi che si susseguono a catena, nei quali si riassume il dovere essenziale del pastore. Al primo posto sta l’annunzio cherigmatico della parola o vangelo. Esso deve essere attuato con «insistenza», cioè con quella costanza che permette di superare il muro dell’indifferenza; in base a essa il pastore non deve preoccuparsi eccessivamente di trovare il momento opportuno, in quanto l’efficacia della parola non dipende dalle circostanze esterne ma dalla grazia di Dio. Vengono poi l’ammonire (elenchein), il rimproverare (epitimaô) e l’esortare (parakaleô). Sono queste le tre forme classiche del servizio della parola. Ma tutto questo deve essere fatto all’insegna della magnanimità, che comporta fiducia e pazienza, e dell’insegnamento, che implica la solidità dottrinale congiunta con l’arte pedagogica ed educativa.

Linee interpretative

Questo testo è l’unico in cui si parla esplicitamente di «ispirazione» delle Scritture. Questa prerogativa significa che le Scritture sono composte da autori che non cessano di essere persone normali, ma sono assistiti dallo Spirito che ne garantisce la verità dal punto di vista della salvezza, non certo sul piano della scienza o della storia. In altre parole, le Scritture hanno una grande autorevolezza perché contengono la lunga esperienza religiosa di un popolo dal quale è sorto Gesù. Non si può quindi essere suoi discepoli se non si fa riferimento alle Scritture. Il fatto che l’opera dello Spirito si eserciti attraverso esseri umani esige però tutto un lavoro di interpretazione che deve tenere conto non solo della cultura di ogni singolo autore, ma anche dei suoi limiti che possono sfociare a volte in affermazioni che per noi oggi appaiono erronee.

L’importanza delle Scritture consiste però soprattutto nella loro utilità per la formazione dell’uomo di Dio. In altre parole, lo Spirito non si è limitato ad assistere gli autori umani nella loro opera, ma è rimasto presente nelle Scritture che rivelano perciò una grande forza di convinzione, educazione e correzione. Proprio perché contengono la memoria di una lunga esperienza religiosa, le Scritture devono diventare il costante punto di riferimento della ricerca di Dio che si attua nella comunità dei credenti. Quindi nella Scrittura non bisogna cercare la soluzione dei nostri problemi, ma lo stimolo ad andare avanti in una ricerca che non sarà mai conclusa.

DOMENICA 17 OTTOBRE 2010 – XXIX DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 17 OTTOBRE 2010 – XXIX DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinC/C29page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  2 Tm 3, 14-4, 2
L’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.
 
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio, tu rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù.
Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.
Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento.

 http://www.bible-service.net/site/375.html

2 Timothée 3,14-17 – 4,1-2
Dans cette exhortation vibrante à son  » fils bien-aimé  » responsable de la communauté, Paul insiste sur l’importance primordiale de la Sainte Écriture : c’est l’ équipement de base de tout  » homme de Dieu  » qui veut faire du bon travail. Timothée a eu la chance, la grâce, d’en avoir été nourri dans sa famille, et d’avoir reçu l’enseignement de maîtres solides dans la foi et dans la doctrine. Il faut toujours revenir à l’Écriture comme à la source inépuisable de la parole de Dieu, de sa volonté, de sa façon d’agir avec les hommes.

2 Timoteo 3,14-17 -4,1-2
In questa esortazione vibrante al suo figlio  » amatissimo « , responsabile della comunità, Paolo insiste sull’importanza primordiale della Sacra Scrittura : è il bagaglio di base (di tutto) dell’ « uomo di Dio » che vuole fare un buon lavoro. Timoteo ha avuto la possibilità, la grazia, di esserne nutrito nella sua famiglia e di avere ricevuto l’insegnamento da maestri solidi nella fede e nella dottrina. È necessario  ritornare alla Scrittura come alla fonte inesauribile della parola di Dio, della sua volontà, del suo modo di agire con gli uomini.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dalla «Lettera a Proba» di sant’Agostino, vescovo
(Lett. 130, 8, 15. 17 – 9, 18; CSEL 44, 56-57. 59-60)

Le aspirazioni del cuore, anima della preghiera
Quando preghiamo non dobbiamo mai perderci in tante considerazioni, cercando di sapere che cosa dobbiamo chiedere e temendo di non riuscire a pregare come si conviene. Perché non diciamo piuttosto col salmista: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore e ammirare il suo, santuario»? (Sal 26, 4). Ivi infatti non c’è successione di giorni come se ogni giorno dovesse arrivare e poi passare. L’inizio dell’uno non segna la fine dell’altro, perché vi si trovano presenti tutti contemporaneamente. La vita, alla quale quei giorni appartengono, non conosce tramonto.
Per conseguire questa vita beata, la stessa vera Vita in persona ci ha insegnato a pregare, non con molte parole, come se fossimo tanto più facilmente esauditi, quanto più siamo prolissi. Nella preghiera infatti ci rivolgiamo a colui che, come dice il Signore medesimo, già sa quello che ci è necessario, prima ancora che glielo chiediamo (cfr. Mt 6, 7-8).
Potrebbe sembrare strano che Dio ci comandi di fargli delle richieste quando egli conosce, prima ancora che glielo domandiamo, quello che ci è necessario. Dobbiamo però riflettere che a lui non importa tanto la manifestazione del nostro desiderio, cosa che egli conosce molto bene, ma piuttosto che questo desiderio si ravvivi in noi mediante la domanda perché possiamo ottenere ciò che egli è già disposto a concederci. Questo dono, infatti, è assai grande, mentre noi siamo tanto piccoli e limitati per accoglierlo. Perciò ci vien detto: «Aprite anche voi il vostro cuore! Non lasciatevi legare al giogo estraneo degli infedeli» (2 Cor 6, 13-14).
Il dono è davvero grande, tanto che né occhio mai vide, perché non è colore; né orecchio mai udì, perché non è suono; né mai è entrato in cuore d’uomo (cfr. 1 Cor 2, 9), perché è là che il cuore dell’uomo deve entrare. Lo riceviamo con tanta maggiore capacità, quanto più salda sarà la nostra fede, più ferma la nostra speranza, più ardente il nostro desiderio.
Noi dunque preghiamo sempre in questa stessa fede, speranza e carità, con desiderio ininterrotto. Ma in certe ore e in determinate circostanze, ci rivolgiamo a Dio anche con le parole, perché, mediante questi segni, possiamo stimolare noi stessi e insieme renderci conto di quanto abbiamo progredito nelle sante aspirazioni, spronandoci con maggiore ardore a intensificarle. Quanto più vivo, infatti, sarà il desiderio, tanto più ricco sarà l’effetto. E perciò, che altro vogliono dire le parole dell’Apostolo: «Pregate incessantemente» (1 Ts 5, 17) se non questo: Desiderate, senza stancarvi, da colui che solo può concederla quella vita beata, che niente varrebbe se non fosse eterna?

DOMENICA 10 OTTOBRE 2010 – XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO

DOMENICA 10 OTTOBRE 2010 - XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO dans BIBLE SERVICE (sito francese) scan0029

http://consapevolinellaparola.blogspot.com/2010/04/perche-dio-non-interviene.html

DOMENICA 10 OTTOBRE 2010 – XXVIII DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/ordinC/C28page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  2 Tm 2, 8-13
Se perseveriamo, con lui anche regneremo.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo
Figlio mio,
ricòrdati di Gesù Cristo,
risorto dai morti,
discendente di Davide,
come io annuncio nel mio vangelo,
per il quale soffro
fino a portare le catene come un malfattore.
Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna.
Questa parola è degna di fede:
Se moriamo con lui, con lui anche vivremo;
se perseveriamo, con lui anche regneremo;
se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà;
se siamo infedeli, lui rimane fedele,
perché non può rinnegare se stesso.

Canto al Vangelo   1 Ts 5,18
Alleluia, alleluia.
In ogni cosa rendete grazie:
questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.
Alleluia.

http://www.bible-service.net/site/380.html

2 Timothée 2,8-13

Paul, au soir de sa vie, exprime à Timothée l’essentiel de sa foi.  » Souviens-toi de Jésus Christ, le descendant de David : il est ressuscité d’entre les morts, voilà mon Évangile.  » Il transmet sa conviction personnelle par une formule liturgique, une hymne pascale, ce qu’il a lui-même reçu et enseigné :  » Si nous sommes morts avec le Christ, nous croyons que nous vivrons aussi avec lui.  » (Romains 6,1-11) Il s’agit de la mort au péché, de la mort du vieil homme : c’est la Pâque chrétienne.
Toutefois un verset est inquiétant, menaçant presque :  » Si nous le rejetons, lui nous rejettera.  » C’est pourtant le résumé de Matthieu 25,31-46 ; c’est le radicalisme évangélique (Matthieu 10,33). Nous ne pouvons édulcorer la parole de Dieu quand elle nous gêne, mais il ne faut pas oublier le pardon accordé par le Christ à Pierre le renégat, au moment de la Passion…

2 Timoteo 2,8-13

Paolo, alla fine della su vita ((alla sera della sua vita, in francese), esprime a Timoteo l’essenziale della sua fede: « ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio vangelo, (ecco il mio Vangelo, in francese). Egli trasmette la sua convinzione personale attraverso una formula liturgica, un inno pasquale, ciò che lui stesso ha ricevuto ed insegna: « Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui » (Rm 6,8). Si tratta della morte al peccato, della morte dell’uomo vecchio: è la Pasqua cristiana.
Un versetto è, tuttavia, quasi inquietante, minaccioso:  « Se lo rigettiamo, egli ci rigetterà. »  È il riassunto di Matteo 25,31-46;  è il radicalismo evangelico (Matteo 10,33). Non possiamo edulcorare la parola di Dio quando ci disturba, ma non bisogna dimenticare il perdono accordato da Cristo a Pietro, il rinnegato, al momento della Passione

UFFICIO DELLE LETTURE

(CITAZIONE DA PAOLO)

Seconda Lettura
Dal «Commento su Aggeo» di san Cirillo d’Alessandria, vescovo
(Cap. 14; PG 71, 1047-1050)
 
Il mio nome è glorificato tra le genti
Al tempo della venuta del nostro Salvatore apparve un tempio divino senza alcun confronto più glorioso, più splendido ed eccellente di quello antico. Quanto superiore era la religione di Cristo e del Vangelo al culto dell’antica legge e quanto superiore è la realtà in confronto alla sua ombra, tanto più nobile è il tempio nuovo rispetto all’antico.
Penso che si possa aggiungere anche un’altra cosa. Il tempio era unico, quello di Gerusalemme, e il solo popolo di Israele offriva in esso i suoi sacrifici. Ma dopo che l’Unigenito si fece simile a noi, pur essendo «Dio e Signore, nostra luce» (Sal 117,27), come dice la Scrittura, il mondo intero si è riempito di sacri edifici e di innumerevoli adoratori che onorano il Dio dell’universo con sacrifici ed incensi spirituali. E questo, io penso, è ciò che Malachia profetizzò da parte di Dio: Io sono il grande Re, dice il Signore; grande è il mio nome fra le genti, e in ogni luogo saranno offerti l’incenso e l’oblazione pura (Cfr. Ml 1,11).
Da ciò risulta che la gloria dell’ultimo tempio, cioè della Chiesa, sarebbe stata più grande. A quanti lavorano con impegno e fatica alla sua edificazione, sarà dato dal Salvatore come dono e regalo celeste Cristo, che è la pace di tutti. Noi allora per mezzo di lui potremo presentarci al Padre in un solo Spirito (Cfr. Ef 2,18). Lo dichiara egli stesso quando dice: Darò la pace in questo luogo e la pace dell’anima in premio a chiunque concorrerà a innalzare questo tempio (Cfr. Ag 2,9). Aggiunge: «Vi do la mia pace» (Gv 14,27). E quale vantaggio questo offra a quanti lo amano, lo insegna san Paolo dicendo: La pace di Cristo, che sorpassa ogni intelligenza, custodisca i vostri cuori e i vostri pensieri, (Cfr. Fil 4, 7). Anche il saggio Isaia pregava in termini simili: «Signore, ci concederai la pace, poiché tu dai successo a tutte le nostre imprese» (Is 26,12).
A quanti sono stati resi degni una volta della pace di Cristo è facile salvare l’anima loro e indirizzare la volontà a compiere bene quanto richiede la virtù.
Perciò a chiunque concorre alla costruzione del nuovo tempio promette la pace. Quanti dunque si adoperano a edificare la Chiesa o che sono messi a capo della famiglia di Dio (Cfr. Ef 2,22) come mistagoghi, cioè come interpreti dei sacri misteri sono sicuri di conseguire la salvezza. Ma lo sono anche coloro che provvedono al bene della propria anima, rendendosi roccia viva e spirituale (Cfr. 1 Cor 10,4) per il tempio santo, e dimora di Dio per mezzo dello Spirito (Cfr. Ef 2,22).

Identità ministeriale e pastorale vocazionale : «Ravviva il dono di Dio» (2Tm 1)

dal sito:

http://www.vocazioni.net/index.php?option=com_content&view=article&id=1476:nelle-lettere-a-timoteo-e-tito-lidentikit-del-sacro-ministro&catid=28:articoli-e-studi-di-esperti&Itemid=128

Identità ministeriale e pastorale vocazionale

«Ravviva il dono di Dio» (2Tm 1)

Di Rinaldo Fabris, Presidente dell’Associazione Biblica Italiana

L’invito di Paolo al suo amato discepolo e fedele collaboratore, Timoteo, nella seconda Lettera: «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l’imposizione delle mie mani», sta all’origine del sacramento dell’ordinazione al ministero nella tradizione della Chiesa (2Tm 1,6). Un rimando allo stesso rito si trova nella prima Lettera a Timoteo, dove si riportano le istruzioni dell’apostolo circa i compiti propri di Timoteo, proposto come modello dei pastori: «Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbìteri» (1Tm 4,14). Il rapporto tra l’imposizione delle mani e il dono di Dio, che viene conferito come dono spirituale permanente, sono gli elementi costitutivi del sacramento dell’ordinazione ministeriale. Questo richiamo al rito dell’ordinazione al ministero si colloca nella cornice delle istruzioni ed esortazioni che l’apostolo invia a Timoteo perché sappia come comportarsi «nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15). L’analisi dei testi, nel rispettivo contesto, consente di tracciare il profilo ideale del ministro del Vangelo e del pastore, chiamato a prolungare il ruolo dell’apostolo Paolo nella Chiesa di Dio (1).

1. L’imposizione delle mani e il dono dello Spirito di Dio

Il testo più chiaro ed esplicito sul rapporto tra imposizione delle mani e dono dello Spirito di Dio si trova nella seconda Lettera a Timoteo (2Tm 1,6). Nell’intestazione della Lettera, Paolo si presenta come «apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio e secondo la promessa della vita che è in Cristo Gesù» (2Tm 1,1). La Lettera è indirizzata a «Timoteo, figlio carissimo» (2Tm 1,1). Nella breve preghiera di ringraziamento, Paolo rende grazie a Dio, ricordando Timoteo nelle sue preghiere «sempre, notte e giorno» (2Tm 1,3). In questo caso l’apostolo aggiunge un tocco che rivela il rapporto profondo e affettuoso con il suo collaboratore: «Mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia» (2Tm 1,4). Paolo ricorda in particolare la famiglia di Timoteo, dalla quale ha ricevuto la fede cristiana e una solida formazione religiosa: «Mi ricordo infatti della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Lòide e tua madre Eunice, e che ora, ne sono certo, è anche in te» (2Tm 1,5).
Dagli Atti degli Apostoli sappiamo che la mamma di Timoteo, residente a Listra, nell’Anatolia, era una credente cristiana di origine ebraica, mentre il padre era greco. Durante il viaggio missionario, che intraprende dopo il Concilio di Gerusalemme, Paolo ripassa nella comunità cristiana di Listra e prende con sé Timoteo che «era assai stimato dai fratelli di Listra e di Iconio» (At 16,2). Questa nota dell’autore degli Atti fa capire che Timoteo svolge già un’attività pastorale nelle comunità cristiane della regione anatolica.
Sullo sfondo del ricordo personale della famiglia cristiana di Timoteo si colloca l’invito pressante che Paolo gli rivolge all’inizio delle istruzioni pastorali: «Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6). Il tenore del testo fa capire che il gesto dell’imposizione delle mani da parte di Paolo per trasmettere il dono di Dio, s’innesta sulla fede familiare di Timoteo. L’apostolo ora lo esorta a «ravvivare il dono di Dio». Il verbo adoperato da Paolo, tradotto in italiano con « ravvivare », evoca l’immagine delle braci sotto la cenere. Perché si sprigioni la fiamma, che illumina e riscalda, il fuoco del focolare deve essere riattizzato. In realtà si tratta del chàrisma toù Theoù, dono che proviene da Dio e che ora è presente in Timoteo, grazie al gesto di imposizione delle mani da parte dell’apostolo.
Nella seconda Lettera a Timoteo, il chàrisma coincide con il dono dello Spirito, che viene da Dio e che ora dimora nell’apostolo e nel suo discepolo. Per incoraggiare Timoteo a condividere la sua testimonianza al Signore e le sue sofferenze nell’annuncio del Vangelo, Paolo rimanda allo Spirito che Dio «ci ha dato», non «uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza» (2Tm 1,7). Egli risale alla chiamata di Dio – klèsis hàgia, « santa chiamata » – che ha come scopo e risultato la salvezza dei credenti. Questa si fonda sull’iniziativa gratuita ed efficace di Dio, che in Cristo Gesù porta a compimento il suo progetto. La grazia di Dio che «ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo, per il quale io sono stato costituito messaggero, apostolo e maestro» (2Tm 1,9-10). Mediante il dono dello Spirito di Dio, ricevuto con l’imposizione delle mani, Timoteo partecipa e prolunga il ministero di Paolo nella proclamazione e testimonianza del Vangelo di Dio. L’apostolo lo esorta a condividere la sua fede e fiducia nel Signore che è «capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato» (2Tm 1,12).
L’espressione « quel giorno » indica l’incontro finale con il Signore, che, come giusto giudice, gli darà la corona di giustizia, assieme a tutti quelli che ne attendono con amore la manifestazione (2Tm 4,8). Quello che è stato affidato a Paolo, e che egli ha trasmesso a Timoteo, è he kalè parathèke, « il bel/buon deposito », il Vangelo o la sana dottrina della fede. Perciò lo invita a tenere come punto di riferimento ideale «i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore, che sono in Cristo Gesù» (2Tm 1,12). Alla fine rimanda esplicitamente alla presenza e all’azione dello Spirito Santo, che dona la forza di conservare il deposito: «Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato» (2Tm 1,14).
Il termine chàrisma, connesso con il gesto di imposizione delle mani, ricorre anche nella prima Lettera a Timoteo, dove Paolo prescrive al discepolo di presentarsi ai fratelli come «un buon ministro di Cristo Gesù, nutrito dalle parole della fede e della buona dottrina» (1Tm 4,6). Egli paragona l’esercizio della « vera fede », a quello che fanno gli atleti per conseguire un premio di poco conto, «mentre la fede è utile a tutto, portando con sé la promessa della vita presente e di quella futura» (1Tm 4,8). Il contenuto della fede, da accogliere e proporre a tutti, è la «speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini» (1Tm 4,10). Paolo invita Timoteo a trasmettere con forza e autorevolezza queste cose ai fedeli, sia con l’insegnamento sia con l’esempio «nel parlare, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza» (1Tm 4,12). In attesa della venuta dell’apostolo, Timoteo deve dedicarsi «alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento», tre aspetti o diversi momenti del ministero della parola (1Tm 4,13). Le esortazioni che seguono fanno leva su questo evento della « ordinazione » presbiterale. Timoteo deve avere cura di queste cose, dedicarsi ad esse interamente, vigilare costantemente su se stesso e sul suo insegnamento, perché questa è la condizione per salvarsi e salvare quelli lo ascoltano (1Tm 4,15-16).
Sullo sfondo di questo ritratto ideale del « ministro di Cristo » e dei suoi compiti, si colloca il richiamo al chàrisma, che gli è stato conferito mediante l’imposizione delle mani: «Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito, mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei presbìteri» (1Tm 4,14). Qui la novità è rappresentata dal riferimento alla « parola profetica » e al gruppo dei « presbiteri », coinvolti nel gesto di imposizione delle mani. L’espressione dia prophetéias, tradotta « mediante una parola profetica », può indicare sia la preghiera ispirata, che accompagna il gesto di imporre le mani – preghiera liturgica – sia l’intervento dei « profeti » – persone ispirate – che depongono a favore del candidato all’ordinazione (cf 1Tm 1,18; 6,12b). Nella traduzione della CEI (2008) si suppone che i presbiteri come gruppo impongano le mani sul candidato al ministero. Il testo originale greco toù presbyteriou, può essere interpretato diversamente: «Con l’imposizione delle mani per far parte del presbiterio». In ogni caso, con queste espressioni si allude ad un contesto comunitario, dove si fanno preghiere, o si ascoltano le testimonianze ispirate, e i presbiteri, che formano un collegio autorevole, sono partecipi.
L’autore delle Lettere pastorali suppone che i suoi lettori o i destinatari conoscano il significato e la valenza religiosa del gesto di imposizione delle mani. Nella tradizione biblica il gesto di imporre le mani accompagna la preghiera di benedizione o di guarigione, ma è utilizzato anche per trasmettere un incarico. Dio comunica lo spirito di Mose a settanta collaboratori, scelti tra gli anziani di Israele. Nel testo biblico si dice che Dio pone lo spirito su di essi (Nm 11,25.30). Di Giosuè, che prende il posto di Mose nella guida del popolo di Dio, si dice che «era pieno di spirito di saggezza, perché Mose aveva imposto le mani su di lui» (Dt 34,9). Nel Libro dei Numeri si racconta il passaggio dalla guida di Mose a quella del suo successore, Giosuè, mediante il gesto dell’imposizione delle mani. Il Signore ordina a Mose di prendere Giosuè, figlio di Nun, «uomo in cui è lo spirito» (Nm 27,18). Egli deve porre la mano su di lui, farlo comparire davanti al sacerdote Eleazaro e a tutta la comunità e, alla presenza di tutti, deve trasmettergli i suoi ordini e la sua autorità «perché tutta la comunità degli Israeliti gli obbedisca» (Nm 27,19-20). Mose fa come il Signore gli ha ordinato: «Pose su di lui le mani e gli diede i suoi ordini» (Nm 27,23). A questo rito, chiamato in ebraico semikah, si ispira la tradizione giudaica per l’ordinazione dei rabbini.
Tenendo presente la tradizione biblica, si può interpretare il rito di imposizione delle mani nelle lettere pastorali non solo nel senso della trasmissione di un incarico – dall’apostolo al suo successore Timoteo, e da questi ai presbiteri – ma come comunicazione, in un contesto di preghiera, del dono dello Spirito di Dio, corrispondente al compito affidato. Non è casuale che l’autore delle lettere pastorali, per parlare di questo dono, ricorra al termine greco chàrisma, che, nelle lettere autentiche di Paolo, designa sia i doni suscitati dallo Spirito, sia i ministeri disposti da Dio per la nascita e crescita della Chiesa, corpo di Cristo (1Cor 12,4-6.28). Cesare Marcheselli-Casale, nel suo commento, riassume molto bene il significato del gesto di imposizione delle mani quando scrive: «Dio ha dato dunque a Timoteo, attraverso l’imposizione delle mani, un dono speciale che lo ha segnato per l’intero corso della sua vita… Questo dono è lo Spirito di Cristo, fattore funzionale essenziale del e nel ministero di Timoteo. Il compito di guidare la comunità, inoltre, chiede a Timoteo di saper trovare i mezzi e le vie per rendere visibile e concreta la presenza dello Spirito» (2).

2. L’identità del presbitero al servizio del Vangelo

L’apostolo Paolo, che scrive ai suoi discepoli e collaboratori Timoteo e Tito, traccia il profilo del ministro di Cristo, chiamato a servire il Vangelo nella Chiesa. I responsabili della Chiesa in Asia e a Creta devono affrontare una situazione di crisi, provocata dai falsi maestri, che propongono speculazioni sul destino degli uomini genealogie – definite « miti » e favole (1Tm 1,4; 4,7; 2Tm 4,4; Tt 1,14). Il loro insegnamento intacca il patrimonio della fede e minaccia la coesione delle comunità. Il compito del responsabile della comunità è di garantire la trasmissione della fede, richiamandosi alla figura autorevole dell’apostolo Paolo, maestro della verità e araldo del Vangelo. Nel servizio della Parola Dio, identificata con il Vangelo, i responsabili di comunità devono conservare la « sana dottrina » e custodire il « deposito » della fede. Come fedeli discepoli di Paolo, Timoteo e Tito devono scegliere persone fidate, capaci di insegnare la sana dottrina. Paolo esorta Timoteo ad attingere forza dalla grazia che è in Cristo Gesù, per trasmettere le cose che ha udito da lui davanti a molti testimoni, «a persone fidate, le quali a loro volta siano in grado di insegnare agli altri» (2Tm 2,1-2). Due esempi di istruzioni per il servizio della Parola si trovano nella prima e seconda Lettera a Timoteo (1Tm 4,8-16; 2Tm 3,10-4,6).
La sezione di 1Tm 4,8-16 è un piccolo manuale di ciò che deve fare il delegato di Paolo, che ha ricevuto un’investitura mediante l’imposizione delle mani. Egli deve esercitarsi nella « pietà », che riassume i doveri dell’uomo di Dio. Come responsabile della comunità deve combattere, con la speranza, fondata nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti. La sua autorevolezza non dipende dall’età, ma dall’incarico e dal carisma ricevuti dall’apostolo. In sua assenza deve dedicarsi « alla lettura » – proclamazione liturgica della Parola del Signore – alla paràklèsis, « esortazione », interpretazione e applicazione della Sacra Scrittura, e alla didaskalia, « insegnamento », catechesi, istruzione, cui si attualizza la Parola di Dio. I compiti specifici di Timoteo – prototipo dei pastori – nella guida della comunità sono concentrati nel ministero della Parola. Per fare questo il discepolo di Paolo può contare sul carisma ricevuto per l’imposizione delle mani dell’apostolo (1Tm 4,14b).
La seconda Lettera a Timoteo è un discorso di addio dell’apostolo, il suo testamento prima di morire come testimone del Vangelo. Timoteo, che lo ha seguito fedelmente nelle sue peregrinazioni e sofferenze, ha imparato come si serve il Vangelo e ha visto chi sono i falsi maestri e quale sarà la loro fine (2Tm 3,10-13). Fin da piccolo ha imparato a conoscere le Sacre Scritture. L’apostolo lo esorta a rimanere fedele e saldo in quello che ha imparato dalla madre e dalla nonna (cf 2Tm 1,5). Le Sacre Scritture offrono la sapienza per la salvezza, che si ottiene «per mezzo della fede in Cristo» (2Tm 3,14-15). Infatti «tutta la Scrittura», in quanto scritta sotto l’azione dello Spirito di Dio – theópneustos – è utile per l’intera opera pastorale, che consiste nell’insegnare, convincere, correggere, formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio – il cristiano – sia preparato ad ogni opera buona. Questo è lo scopo dell’azione pastorale (2Tm 3,16-17). La Parola di Dio, attestata nella Sacra Scrittura, è adatta ed efficace per tutti i compiti pastorali nella comunità dei fedeli (3).
Dato il ruolo preminente della Parola di Dio per la guida e la vita pastorale della comunità cristiana, si comprende il pressante invito di Paolo a Timoteo: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e insegnamento» (2Tm 4,1-2). Sulla base dell’autorità di Dio e di Gesù Cristo, giudice universale, con cinque imperativi si definisce il compito di Timoteo « evangelizzatore », in un contesto dove imperversano i « miti » che rispondono ai gusti e ai capricci degli ascoltatori. Timoteo, prototipo del responsabile della comunità, deve annunciare la Parola di Dio in tutte le forme e in ogni circostanza, poiché è necessario contrastare i falsi maestri. Come modello dei pastori, egli deve vigilare attentamente e svolgere il suo ministero – diakonia – che consiste nell’annuncio del Vangelo (2Tm 4,5).

3. La vocazione del pastore

Nelle Lettere pastorali, che si richiamano alla tradizione dell’apostolo Paolo, si ha un ritratto ideale del pastore, modello e guida della comunità cristiana. Il pastore è l’uomo di Dio, posto al servizio della comunità mediante il « dono spirituale », fonte e fondamento del compito pastorale. Il rito di imposizione delle mani, ripreso dalla tradizione biblica e giudaica, trasmette il chàrisma, « dono » spirituale, corrispondente al compito e al ruolo autorevole dei pastori nella Chiesa (1Tm 4,14; 2Tm 1,6). Paolo incarica i discepoli, Timoteo e Tito di scegliere e stabilire i responsabili nelle singole chiese: episkopos, presbyteroi, diàkonoi (4).
L’episkopos è il sovrintendente o « amministratore di Dio », che deve garantire il buon ordine e l’ortodossia nella chiesa locale. La sua autorità, tramite il discepolo, risale all’apostolo, che traccia il modello del suo compito e del suo stile pastorale. Dato che nelle Lettere pastorali si parla di episkopos al singolare, si pensa che egli sia il rappresentante o presidente del collegio dei presbyteroi. Almeno in un testo si fa riferimento al presbytérion e si menziona anche il ruolo di presidenza dei presbiteri (1Tm 4,14; 5,17). Il modello per questa struttura dell’ordinamento ecclesiale è quello del « consiglio degli anziani » dell’ambiente giudaico.
Anche i diàkonoi, nell’ordinamento ecclesiale delle Lettere pastorali, hanno un ruolo autorevole, perché ai candidati alla diakonia si richiedono qualità analoghe a quelle del candidato all’episokpè e al compito di presbiteri ( 1Tm 3,8-13). La qualifica di « diacono di Gesù Cristo » è data a Timoteo, proposto come modello di tutti i pastori nella Chiesa (1Tm 4,6). La sua attività, come quella dell’apostolo, è presentata come diakonia (1Tm 1,12; 2Tm 4,5.11). Dal momento che si parla di « diaconi » e di « diaconia » solo nella prima e seconda Lettera a Timoteo, si può pensare che questa forma di ministero sia propria di alcuni centri ecclesiali più importanti, con strutture più articolate.
I requisiti del pastore sono quelli di un cristiano maturo, capace di stabilire relazioni positive tra tutti i componenti della comunità. Il candidato all’episokpè deve essere «irreprensibile, marito di una sola donna, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro» (1Tm 3,2-3). Le qualità elencate per il responsabile della comunità cristiana sono quelle che, nell’ambiente greco-romano, si richiedono a quanti svolgono una funzione pubblica. L’episkopos-presbyteros, come capo della comunità cristiana, non solo dà il tono allo stile di vita dei suoi membri, ma la rappresenta all’esterno. Un tratto distintivo dell’episkopos-presbyteros, come quello dei diàkonoi, è di essere uno sposo fedele e un padre di famiglia, che sa educare i propri figli: «Perché, se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?» (1Tm 3,5; cf 3,12; Tt 1,7-9). Il modello dei rapporti di comunità è quello della famiglia – óikos – perché la Chiesa è la « casa-famiglia di Dio » (1Tm 3,15) . I rapporti del pastore della comunità con le varie categorie di persone si ispirano al modello delle relazioni familiari: «Non rimproverare duramente un anziano, ma esortalo come fosse tuo padre, i più giovani come fratelli, le donne anziane come madri e le più giovani come sorelle, in tutta purezza» (1Tm 5,1-2; cf Tt 2,3). A tutti i cristiani si propone un ideale di vita spirituale, dove si coniugano insieme i valori umani – saggio equilibrio – e la coerenza tra fede e prassi per una testimonianza credibile.

4. Conclusioni

Come la chiamata alla fede, mediante l’annuncio del Vangelo, risale alla libera e gratuita iniziativa di Dio – chàris -, così il ruolo e il compito di guida responsabile della comunità dei credenti si fondano su un dono, il chàrisma, comunicato mediante l’imposizione delle mani. Nel gruppo delle Lettere pastorali, dove un paio di volte si fa riferimento a questo evento – chàrisma trasmesso con l’imposizione delle mani – si definisce l’identità del responsabile della Chiesa come servizio alla Parola di Dio, adatta ed efficace per ogni attività pastorale. Il pastore, chiamato a guidare la comunità, deve essere una persona capace di relazioni positive, in grado di dare buona testimonianza anche nell’ambiente esterno. Nella Chiesa, « famiglia di Dio », le relazioni si ispirano al modello familiare. Perciò il pastore responsabile deve essere uno sposo fedele e un buon padre, capace di trasmettere il Vangelo di Dio e di educare alla fede.

Note

1. Il gruppo delle Lettere pastorali – due a Timoteo e una a Tito – sostanzialmente omogenee per stile e contenuto, sono state scritte da un discepolo di Paolo, dopo la sua morte, per attualizzare e applicare il messaggio dell’apostolo in un nuovo contesto e in una diversa situazione vitale delle comunità cristiane (R. FABRIS, La tradizione paolina, Dehoniane, Bologna 1995; R. FABRIS – S. ROMANBXO, Introduzione alla lettura di Paolo, Boria, Roma 2006; 22009, pp. 169-173.
2. C. MARCHESELLI-CASALE, Le Lettere pastorali, Dehoniane, Bologna 1995, p. 650; cf P. IOVINO, Lettere a Timoteo. Lettera a Tito, Paoline, Milano 2005, pp. 116.184.
3. R. FABRIS, « LO Spirito santo e le Scritture in 2Tm e 2P ». in E. MANICARDI – A. POTA (edd.), Spirito di Dio e Sacre Scritture nelVautotestimonianza della Bibbia. XXXVSettimana Biblica Nazionale, Ricerche Storico Bibliche 12,1-2 (2000), pp. 297-320.
4. G. DE VIRGILIO (ed.), Chiesa e ministeri in Paolo, Dehoniane, Bologna 2003.

(Rinaldo Fabris, «Ravviva il DONO di DIO» (2Tm 1), Identità ministeriale e pastorale vocazionale, in « Vocazioni », n. 1, Gennaio/Febbraio 2010, pp. 5-14)
 

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