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“SE MORIAMO CON CRISTO…” (2 Tim. 2,11-13; Tito 3,4-7) – Lectio

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“SE MORIAMO CON CRISTO…” (2 Tim. 2,11-13; Tito 3,4-7)

(Lectio divina 12)

Introductio:
Preghiamo la Madonna, con l’Ave Maria, perché ci assista nell’accogliere lo Spirito Santo.
“Vieni, Spirito Santo, nei nostri cuori e accendi
In essi il fuoco del tuo amore. Vieni, Spirito Santo,
e donaci per intercessione di Maria che ha saputo
Contemplare, raccogliere gli eventi della vita di
Cristo e farne memoria operosa, la grazia di
Leggere e rileggere le Scritture per farne anche
In noi memoria viva e operosa.
Donaci, Spirito Santo, di lasciarci nutrire da questi
Eventi e di riesprimerli nella nostra vita.
E donaci, Ti preghiamo, una grazia ancora più
Grande, quella di cogliere l’opera di Dio nella
Chiesa visibile e operante nel mondo”. Amen.

Lectio.
Di Timoteo abbiamo già riferito nella Lectio precedente. Aggiungiamo solo che Paolo lo esorta fedelmente al Vangelo, e per questo gli rammenta di ravvivare il dono di Dio che è in lui per l’imposizione delle mani. Aggiunge, inoltre, che lo Spirito Santo non gli ha donato uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. Quindi prosegue dicendogli di non vergognarsi della testimonianza da rendere al Signore, di soffrire con Paolo stesso (si trovava in carcere) per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio, perché il Padre lo ha sanato e lo ha chiamato con una vocazione santa, non in base alle opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia donata da Cristo Gesù fin dall’eternità, ma rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore Cristo Gesù.
Poiché Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del Vangelo, del quale egli è stato costituito araldo, apostolo e maestro.
Tito fu discepolo e compagno di Paolo, prima di Timoteo. Sembra certo che fosse nativo di Antiochia, di discendenza pagana, e chiamato da Paolo “figlio”, il che ci fa supporre che fosse stato battezzato dall’Apostolo. Poiché Tito non era giudeo, a Gerusalemme esigevano che ricevesse il rito della circoncisione, attribuendo il valore di norma a quel caso particolare e mirando con ciò a respingere la dottrina di libertà predicata da Paolo; il quale però non cedette, e Tito rimase incirconciso. Durante il terzo viaggio missionario di Paolo, Tito gli fu a fianco nella sua permanenza ad Efeso e lo coadiuvò nel sedare i torbidi intrighi della comunità di Corinto, prodigandosi nei fatti rammentati nella seconda lettera ai Corinzi.
Per gli ultimi anni qualche isolata notizia si ricava dalle Pastorali. Verso il 65 Tito giunge a Creta con Paolo, e lì lasciato per ampliare l’evangelizzazione dell’isola e provvedere alla sua organizzazione.
Egli doveva nominare presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni di Paolo, il quale aveva specificato che il candidato deve essere irreprensibile, sposato una sola volta, con figli credenti e che non possano essere accusati di dissolutezza o siano insubordinati. Aggiunge ancora che il vescovo, come amministratore di Dio, deve essere correttissimo: non arrogante, non iracondo, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagno disonesto, ma, al contrario, ospitale, amante del bene, assennato, giusto, pio, attaccato alla dottrina sicura, secondo l’insegnamento trasmessogli, perché sia in grado di esortare con la sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono. Quindi spiega a Tito che vi sono, soprattutto fra quelli che provengono dalla circoncisione, molti spiriti insubordinati, chiacchieroni e ingannatori della gente. Afferma anche che a questi tali bisogna chiudere la bocca, perché mettono lo scompiglio in molte famiglie, insegnando per amore di un guadagno disonesto cose che non si devono insegnare.

Meditatio.
Se moriamo con Cristo, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo. Se lo rinneghiamo, anch’egli rinnegherà noi; se noi manchiamo di fede, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tim. 2,11-13).
Paolo, avendo rammentato la “potenza” di Dio, comunicata a Timoteo nella sua ordinazione, sviluppa il tema dell’assoluta gratuità della “salvezza” mediante la fede in Cristo e nel suo “vangelo”, di cui egli è stato stabilito “araldo, apostolo e maestro”. Si tratta del motivo che ha Timoteo per essere forte e coraggioso; non si può respingere a cuor leggero la “vocazione” di Dio alla salvezza e alla “immortalità, sia nel corpo sia nell’anima, costi quel che costi”.
I versetti citati assomigliano ad un antico “inno” liturgico, usato forse durante il rito battesimale per esprimere il mistero di vita e di morte rappresentato dal battesimo stesso. Esso consta di quattro proposizioni, e tutte iniziano con “se” e rette dalla legge semitica del parallelismo.
L’idea del “morire” con Cristo e del “soffrire” con lui è tipicamente di Paolo. Il proposito del “morire insieme” ci ricorda l’uso in vigore presso qualche popolo antico, dove i soldati più fedeli e amici del re morivano insieme con lui: in tal caso Paolo, riprende l’immagine militare, per enunciare una verità di fede.
“Quando si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna” ( Tito 3, 4-7).
Questi versetti sono molto importanti, giacché costituiscono una forma breve di riassunto della dottrina della salvezza, di cui si descrivono gli elementi costitutivi e le condizioni.
Autore della salvezza è Dio Padre: è lui, infatti, il “Salvatore nostro Iddio” di cui, ad un certo punto della storia “apparve” la “benignità” e lo sviscerato “amore per gli uomini”. Questa “epifania” dell’amore del Padre si è avuta soprattutto nell’Incarnazione. E sono da escludere come causa della salvezza pretese opere di “giustizia”. Infatti, Paolo, afferma: “Noi riteniamo che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della Legge”. La frase va interpretata nel senso che più che sulla fede, insiste sulla necessità del battesimo che ovviamente presuppone, almeno per gli adulti, la “fede”.
Il battesimo è presentato come causa strumentale (“mediante…”) della salvezza: è descritto come “lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo”. Tale purificazione pertanto non è solo esterna, ma attinge le radici stesse dell’essere che è intrinsecamente trasformato e rinnovato: il battesimo opera perciò una vera interiore “rigenerazione”, con conseguente “rinnovamento” di tutta la struttura dell’essere. In quest’intima trasformazione consiste la “giustificazione”, la quale perciò non può essere una mera dichiarazione “forense” d’opere di giustizia.
In possesso di tale giustizia, che, di fatto, ci costituisce “figli di Dio”, è chiaro che abbiamo diritto alla “eredità” della “vita eterna”, la quale non sarà altro che l’efflorescenza della presente vita di grazia. Tale diritto però non è ancora un’effettiva immissione in possesso; infatti, è solo nella “speranza” che siamo già cittadini del cielo. E’ certo però che tale speranza “non delude”, perché abbiamo già la “caparra” della “vita eterna” nella presenza dello Spirito Santo in noi. Infatti, tutte queste meraviglie di “rinnovazione” le opera lo Spirito Santo, “effuso in abbondanza sopra di noi” dal Padre, in virtù dei meriti di Gesù Cristo Salvatore nostro”, nel giorno del nostro battesimo.
Come possiamo notare tutta la S.S. Trinità è all’opera nella realizzazione della salvezza: il Padre, poiché ideatore di questo stupefacente disegno d’amore; il Figlio, in quanto esecutore di tale progetto mediante l’incarnazione e in quanto causa meritoria dell’effusione dello Spirito sopra i redenti mediante la sua morte di croce; lo Spirito Santo , in quanto diretto autore dell’opera di “rigenerazione e di rinnovamento” delle anime.
Paolo, a più riprese, presenta la vita cristiana come una nuova “creazione”, una “vita nuova” in Cristo, una “rinnovazione” della mente; il cristiano ha rinnegato “l’uomo vecchio” ed è diventato “uomo nuovo”.

Contemplatio.
Gesù, Signore nostro, le tue parole, le tue promesse ci sono venute incontro e noi, commossi ed esultanti, le abbiamo interiorizzate nel cuore e nella mente. Per questo ti lodiamo, ti adoriamo, ti benediciamo, ti glorifichiamo, ti contempliamo ed eleviamo a te canti e preghiere di ringraziamento, per il tuo amore che riversi su ognuno di noi. Le nostre vicende di cristiani, membri della nuova umanità, devono ricalcare quella tua Gesù. Se come te e insieme con te noi affrontiamo e sopportiamo la morte, avremo come te e con te la vita e il regno. Al contrario, se non resteremo fedeli, saremo da te giustamente rinnegati; tu invece rimani sempre fedele alle tue promesse. Questa è una realtà che noi non scorderemo, infatti, con la tua resurrezione, la parola più nuova, la forza più rinnovatrice è entrata nel mondo. Tutto ciò ci riguarda personalmente: Gesù, tu sei risuscitato per salvarci. Le nostre immancabili sofferenze, debolezze, prove e peccati sono stati innestati nella tua morte per esserlo nella tua risurrezione; perdendo la loro amarezza. Il nostro essere cristiano è teso fra tre tempi: la morte già realizzata nel battesimo, le sofferenze dell’esistenza, il regno futuro. Gesù, ciò che ci lega è la “speranza”, che è certezza d’attesa operosa. Vivere alla tua sequela è rivivere la tua esistenza pasquale: il presente raccorda e domina il passato e il futuro ne trae energie per il compimento pieno. Perciò mettiamo al bando paure e varie questioni che smorzano la fede e la speranza.
Oggi noi abbiamo rievocato il tempo primo della conversione con le colpe che ci caratterizzavano. Tuttavia, per la misericordia di Dio Salvatore si è verificata mediante il battesimo, la decisiva trasformazione. Il tuo dono gratuito nel battesimo, lo Spirito Santo, con i suoi effetti ci ha rinati e rinnovati. Mansuetudine e dolcezza verso tutti sono due vite squisitamente e appartenenti a noi cristiani. Noi, in genere, non siamo portati alla mitezza: infatti, essa esige continua lotta contro di noi stessi, dominio di sé, rinnegamento del nostro egoismo; comporta pazienza, costanza e coraggio, rinuncia e sacrificio. Più noi cristiani sviluppiamo la bontà nella nostra vita, più essa diventa contagiosa fino a sommergere l’ambiente che ci circonda. La dolcezza educa alla comprensione, alla clemenza, all’umiltà, alla piena e continua comunanza con Dio, sorgente d’ogni bontà. La mansuetudine ne è l’espressione più alta e delicata, perché dimenticando noi stessi si vive e si spera per gli altri. Di questo noi ti siamo grati, perché tutto proviene da te nel dono effuso con lo Spirito Santo.

Conclusio.
Se Dio non mi avesse fermato, se mi avesse abbandonato ai miei soli pensieri e alle mie sole forze, senza dubbio avrei preso la strada che porta alla morte e alla perdizione. Nel numero dei ribelli, sono vissuto anch’io, un tempo, con i desideri della mia carne, seguendo le voglie della carne e i desideri cattivi; ed ero per natura meritevole d’ira, come gli altri. Ma tu Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale mi hai amato, da morto che ero per i peccati, mi hai fatto rivivere con Cristo a nuova vita: per grazia, infatti, sono stato salvato. Mi hai anche risuscitato nel battesimo e mi hai fatto sedere nei cieli in Cristo Gesù Redentore. Il mio sguardo di fede non si svolge soltanto verso l’avvenire di gioia, ma si sofferma anche a considerare la disgrazia e la sventura che mi sono state risparmiate dal salvatore Gesù, tuo Figlio Diletto.

Grazie, Gesù Signore! Benedetto sia il tuo nome, sempre!

Amen.

Trasmettere la fede celebrandola in famiglia (2Tim 1,1-7) (Carlo Maria Martini)

 dal sito:

 http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=2935
 
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Trasmettere la fede celebrandola in famiglia (2Tim 1,1-7)

Questa grazia chiediamo: che le nostre famiglie – anche quelle magari un po’ più lontane – sappiano insegnar così la catechesi. È facile, perlomeno non così difficile, far pregare i bambini, incominciando appunto con qualche preghiera legata soprattutto alle feste, alle ricorrenze principali. E così, a poco a poco quel pensiero di Dio oggi tanto lontano dal nostro mondo occidentale, talora oltretutto presentato così astratto, diventerà di nuovo concreto e vitale…

Poiché questa nostra è una lectio divina, prima di ascoltare la Parola di Dio prolunghiamo ulteriormente l’invocazione al Signore, implorando il dono di una lettura feconda.
 
Spirito Santo,
che hai ispirato queste parole della Scrittura,
donaci di penetrarle con animo libero,
di conoscere la tua grazia, la misericordia del Padre,
la potenza di Gesù, e di sentirle nel nostro cuore!
Per Cristo nostro Signore.
Amen
 
Sostiamo a questo punto sui versetti iniziali di 2Tim 1, facendone occasione di riflessione con qualche domanda, che mi permetterò di rivolgere direttamente allo stesso Timoteo, provando ad ascoltarne le risposte che saprebbe fornirci.
 
[1.1] Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, per annunziare la promessa della vita in Cristo Gesù, [1.2] al diletto figlio Timòteo: grazia, misericordia e pace da parte di Dio Padre e di Cristo Gesù Signore nostro.
[1.3] Ringrazio Dio, che io servo con coscienza pura come i miei antenati, ricordandomi sempre di te nelle mie preghiere, notte e giorno; [1.4] mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia. [1.5] Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te.
[1.6] Per questo motivo, ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. [1.7] Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza.
[1.8] Non vergognarti dunque della testimonianza da rendere al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio! [1.9] Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia; grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, [1.10] ma è stata rivelata solo ora con l’apparizione del salvatore nostro Cristo Gesù, che ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità per mezzo del vangelo, [1.11] del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro.
                                                                                                             (2Tim 1,1-11)
 
1. Un mondo di affetti intensi
Nel Nuovo Testamento questa seconda lettera a Timoteo (2Tim) – insieme alla prima a Timoteo (1Tim), nonché a quelle inviate a Tito (Ti) e Filemone (Filem) –, è una delle poche scritte a destinatari singoli e «privati», dal momento che la maggioranza delle lettere paoline e delle restanti apostoliche sono per lo più indirizzate a comunità.
In questo pacchetto di lettere indirizzate a singoli destinatari, la 2Tim possiede l’originalità di essere certamente la più affettuosa e ricca di emozioni, la più intima e familiare. Traboccante di affetti profondi, merita d’essere letta proprio con tutta la profondità del nostro cuore.
Nell’intestazione (quella che di solito apponiamo sopra la busta, indicando chi scrive – cioè Paolo – e a chi si scrive – appunto a Timoteo–) Paolo si qualifica come apostolo di Cristo, dotato quindi di un’autorità proveniente da Cristo stesso, per volontà di Dio, quindi in obbedienza al disegno di salvezza di Dio sull’umanità. Il tutto nel nome del compito apostolico: «per annunziare la promessa della vita in Cristo Gesù». Scopo di Paolo apostolo è quindi di infondere speranza, conforto, gioia, apertura di cuore. Così, egli si rivolge a Timoteo chiamandolo «mio diletto» – cioè amato –, anzi: «mio diletto figlio», forse perché appunto suo figlio spirituale nel Battesimo, avendolo lui generato alla fede. Vorrei attualizzare, considerando come, a mia propria volta, anch’io potrei senz’altro rivolgermi così a Mons. Merisi, come diletto figlio, perché per parte mia l’ho generato nel sacramento dell’episcopato. E provo a parafrasare così: A te, diletto Timoteo, a te, Mons. Giuseppe Merisi – e naturalmente per estensione a tutti voi qui presenti, eccomi propiziare e augurare, nella speciale comunione liturgica – questi tre doni divini meravigliosi – grazia, misericordia, e pace da parte di Dio Padre, e di Gesù Signore nostro –  doni che escludono ogni amarezza, timore, o sospetto, e ci immettono nella serenità, limpidità, trasparenza del Padre e del Figlio.
Appena dopo l’intestazione consueta, la lettera esordisce con il solito ringraziamento dell’apostolo elevato a Dio per tutti i suoi benefici. Qui però il ringraziamento è molto breve: anzi, nemmeno ne viene espresso il motivo, sentendosi Paolo subito sollecitato a passare all’intensità delle memorie. Memoria anzitutto di sé, del proprio impegno al servizio di Dio: «Ringrazio Dio, che io servo con coscienza pura come i miei antenati». Colpisce qui che Paolo consideri la propria fede, il proprio apostolico servizio di Dio collocandolo nella identica linea di continuità dei suoi stessi antenati, cioè, evidentemente, in virtù della sua fede ebraica! Certo, c’è stato il fatto di Gesù, straordinario. Ma Gesù non ha rotto questa continuità, sicchè anche in questa occasione, Paolo è in perfetta comunione con i suoi antenati, così come già in At 23, là dove, a un certo momento, in mezzo ad una concitatissima assemblea, rivolgendosi ai suoi fratelli ebrei, soprattutto farisei, esclama: «Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti!» (At 23,6). Evidentemente Paolo non avverte nessuna sostanziale diversità rispetto alla loro fede, al contrario si riconosce in perfetta continuità, anche se è intervenuta la grande novità di Cristo (ma in continuità perfetta con ciò che credevano i suoi antenati).
Questo Paolo, che si sente in forte e lineare continuità con il proprio popolo, si ricorda sempre di Timoteo nelle sue preghiere, notte e giorno (2Tim 1,3). Permettetemi un’altra attualizzazione personale: anch’io a Gerusalemme prego notte e giorno per tutte le intenzioni di mia conoscenza, qui a Milano, in Lombardia, e del mondo intero, e posso quindi capire cosa voglia dire: «mi ricordo di te nelle preghiere». In particolare, tornano alla mente di Paolo le lacrime di Timoteo (1,4). Nella prospettiva di una lettera molto sensibile alla dimensione personale, probabilmente Paolo va rammentando qui il momento del loro congedo, quando cioè Timoteo dovette distaccarsi  proprio da lui, suo maestro e padre nel vangelo. Aggiungendo subito: «sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia»,  si dimostra pieno di sentimenti e di affetto vivi (come quando scrive ai Filippesi e la prima ai Tessalonicesi). Sull’onda dei ricordi, Paolo ha poi ben presente la fede schietta di Timoteo,«fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te» (1,5). Anche qui, nessuna soluzione di continuità. Tra la mamma e la nonna di Timoteo da un lato e lo stesso Timoteo dall’altro, è intervenuto nientemeno che Gesù, morto e risorto. Ma Nonna Lòide e Mamma Eunìce credevano con quella medesima fede comunque giunta aanche a Timoteo, e che a propria volta raggiunge la sua pienezza con la fede nella risurrezione di Gesù, in ogni caso fondata sulla stessa solidità su cui sta fondata la fede dei suoi antenati.
 
2. Una buona grammatica di fede: verbi, aggettivi, nomi e metafore di Dio
Proprio questa solida fede ebraica vorrei un poco approfondire, magari di nuovo interpellando direttamente a Timoteo, domandandogli:
 «Timoteo, qual era questa tua  fede, qual era la fede della tua nonna, la fede di tua madre?».
E ho ragion di credere che egli potrebbe risponderci più o meno così:
 «È come la vostra, certamente. Forse con qualche diversa sfumatura, perché voi – direbbe Timoteo –, voi occidentali, partite sempre dall’alto delle definizioni concettuali. Dovendo parlare di Dio, cercate subito un nome altisonante e grandioso, come p. es. “motore immobile” (Aristotele parlava così), o “essere supremo”, o “principio e fine di ogni cosa”. Cercate cioè un nome con cui definire Dio. Invece, nella nostra fede di matrice ebraica, noi non abbiamo cercato anzitutto questo nome. Infatti la grammatica – per così dire – della nostra fede, partiva  e parte piuttosto dai verbi, che dai nomi, passa per gli aggettivi, e arriva ai nomi soltanto in conclusione, e sempre intendendoli come metafore. Non abbiamo mai tentato di dare un nome a questo essere misterioso che pure si è davvero definito “Sono Colui che sono!”, ma restando quindi nell’ombra del mistero».
A questo figlio diletto di Paolo, torniamo allora a chiedere:
 «Spiegaci un po’ questa grammatica della tua fede. Quali sono questi verbi attraverso i quali voi avete conosciuto Dio, non passando per una definizione astratta, ma attraverso la percezione di un agire concreto?».
«Ebbene – risponderebbe ancora Timoteo –, se ne potrebbero menzionar molti di questi verbi. Ma io ve ne menziono solo qualcuno».
Potremmo dire anzitutto: Dio crea il cielo, la terra, l’uomo, tutto ciò che abita nella terra, come dice il profeta: «Il Signore Dio crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi nasce, dà il respiro alle genti che la abitano e l’alito a quanti camminano su di essa» (Is 42,5). Ecco come è concreta questa descrizione! Inoltre, Dio è «Colui che fa promesse, per esempio ad Abramo: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore, io ti benedirò con ogni benedizione, renderò molto numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo, e come la sabbia che è sul lido del mare» (Gen 22,16-17). Quindi, un Dio che promette. Ma anche un Dio che libera. Dice a Mosè: «Di’ agli Israeliti, io vi libererò dalla loro schiavitù (degli Egiziani) e vi libererò con braccio teso e con grandi castighi» (Es 6,6). Dio libera, Dio riscatta, Dio salva. «Non temere» – dice – «perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome» (Is 43,1). Dio quindi libera, riscatta, salva, comanda: «osserva dunque ciò che io oggi ti comando. Queste sono le cose che il Signore ha comandato di fare» (Es 34,11;35,1).
Si dice anche, in quella bella apertura della trasmissione radiofonica che io ascolto ogni mattina a Gerusalemme: SHEMÂ ISRA’EL, ’ADONAJ ’ELOHENU, ’ADONAJ ’EHAD: «Ascolta Israele: il Signore tuo Dio è uno solo! Amerai dunque il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore» (Dt 6,4ss.),… .Dio comanda, ordina.
Ancora qualche altro verbo per Dio che guida e che perdona:
 «Ricordatevi» – dice al popolo, dopo il cammino nel deserto – «ricordatevi di tutto il cammino per cui il Signore vi ha guidato in questi quarant’anni nel deserto» (Dt 6,2ss.).«Pesano su di noi le nostre colpe» – confessa il Sl 64,4– «ma tu perdoni i nostri peccati!». E poi ancora tantissimi altri verbi, che troviamo leggendo la Scrittura: Dio chiama Mosè dal roveto ardente; Dio sceglie il suo popolo per amore…Tutti questi verbi designano non tanto un essere misterioso, sconosciuto, al di là delle nubi, ma Qualcuno che si coinvolge con l’uomo, viene a toccare la nostra esistenza, si fa nostro partner – per così dire, – e che ci coinvolge nel suo stesso coinvolgimento. Per questo la parola chiave spesso usata è patto (berit), cioè il rapporto liberamente instaurabile tra due soggetti, rapporto che deve essere fatto di lealtà, di fedeltà, di amore. Quindi è un Dio la cui indipendenza è chiara, ma è come presupposta. Ci importa soprattutto il fatto che in ogni caso egli opera per noi, ci è vicino. Fa – per così dire – il tifo per noi, si mette dalla nostra parte, ci sorregge, ci spinge, ci chiama, ci anima.
Ecco la fede ebraica, come l’aveva ricevuta Timoteo prima del battesimo: concepita non astrattamente, ma a partire da esperienze concrete, dalle azioni messe in opera da Dio, espresse attraverso tutti questi verbi.
Ma da questa molteplicità di suoi interventi espressi dai verbi, si ricavano poi gli aggettivi che servono a qualificare questo essere misterioso così vicino all’uomo.
Ricordiamo tutti l’impressionante serie di aggettivi di Es 34,5-7, là dove Mosè, mentre Dio gli passa davanti (di spalle, tuttavia, perché faccia a faccia sarebbe un incontro insostenibile per chiunque: Es 33,18-23), lo sente gridare lui stesso il proprio nome:
 
«Il Signore, il Signore,
Dio misericordioso e pietoso,
 lento all’ira, ricco di grazia e di fedeltà,
che conserva il suo favore per mille generazioni,
che perdona la colpa, la trasgressione…!».
 
Ecco dunque anche degli aggettivi – ricavati dai verbi – capaci di qualificare questo Dio.
I verbi vengono dunque per primi, a indicare le azioni costanti di Dio. Per secondi, invece, intervengono gli aggettivi, che tentano di caratterizzarne l’azione costante (p. es. Es 34,6-7). Solo in terzo luogo, ecco allora arrivare i nomi di Dio, non vere e proprie definizioni dell’essere supremo, ma più spesso semplici ed efficacissime metafore, distinte dagli esegeti in diverse categorie, quando – per esempio – parlano di metafore di governo piuttosto che di metafore di sostegno.
Metafore di governo sono quelle che proclamano che Dio è giudice (Sal 7; 9; 75; 94; 96), re (Is 6; Dn 4; Sal 29; 96; 145), guerriero vittorioso (Es 15,1-18; Is 40,10; 52,10). Dio è padre (Dt 32,6; Is 63,10; 64,7; Ger 3,19-20; Mal 2,10; Sal 103,9-14), madre (Dt 32,18; Is 66,13).
Metafore di sostegno: Dio è pastore (Is 40,10-11; Sal 23), artista (Gen 2,7-8; Is 45,9.11.18…), vignaiolo (Es 15,17; Is 5,1-7; Ger 2,21…), guaritore (Dt 32,39; Os 6,1). In ogni caso, tutte metafore[2].
«Ecco la nostra fede» – direbbe Timoteo –, «quella che ho ricevuto da mia mamma Eunìce e da mia nonna Loide, la fede che fu ed è capace di accogliere Gesù, come la presenza di Dio che si fa vicino alla nostra storia!».
 
3. Trasmettere la fede celebrando la festa in famiglia
A questo punto legittimamente voi tutti mi domanderete: ma da questa visione del passato quali conclusioni derivano per la nostra trasmissione della fede, per la nostra catechesi?
Voglio riferirmi ancora qui all’esperienza del popolo ebraico, quella che quotidianamente vado facendo in Israele, dove per trasmettere la fede non ci sono catechismo, catechisti, e nemmeno ore di religione. Come viene allora trasmessa la fede? In famiglia, non attraverso delle definizioni astratte, fatte imparare a memoria, ma attraverso la celebrazione delle varie feste. Le feste sono il grande luogo di insegnamento della fede per il bambino ebraico. E le feste, per esempio in questi giorni – io sono stato assente, ma l’anno scorso ero presente, si celebrava la festa bellissima del capodanno ebraico, Rosh-haschanah, che cade a settembre, appunto all’inizio dell’anno. Poi la festa  autunnale di Sukkot, cioè dei Tabernacoli o delle Tende, legata al raccolto dei frutti della terra, quando, nel giardino di casa o sul piccolo terrazzo, o sul balconcino ogni famiglia, con qualche semplice stuoia o frasca, si costruisce una casetta dove per una settimana si reca a pregare e a mangiare certi cibi, per non dimenticarsi dei quarant’anni di cammino nel deserto, quando Israele, prima di vivere dei frutti della terra promessa, veniva sostentato gratuitamente tutti i giorni dalla mano provvida di Dio. Successivamente ecco lo Yom-Kippur, il giorno solennissimo dell’espiazione, liturgicamente parlando più importante, di digiuno totale. Poi la festa di Chanukkah, che celebra la rinnovazione del tempio. Poi ancora Purim, una parola che vuol dire «sorti», il carnevale ebraico, quando si festeggia il cambio delle sorti con cui gli ebrei, destinati a sterminio, furono salvati per coraggiosa intercessione di Ester presso il re Assuero. E infine la grande festa di Pesach, della Pasqua di liberazione del popolo dalla schiavitù di Egitto, che è solennissima come da noi, cui segue la festa della Pentecoste, della Simchat-Torah,  cioè della «gioia-per-il-dono-della-Legge».
Va detto che ognuna di queste diverse feste è vissuta in famiglia con speciale intensità. Ognuna ha le sue preghiere proprie, che la mamma fa recitare a tutta la famiglia, a tutti i bambini. Per ognuna ci sono giochi, canti e colori propri. E quindi i bambini imparano così, celebrando nella vita, udendo raccontare la storia del popolo e di questo Dio misericordioso, vicino, fedele, presente, attraverso l’esperienza quotidiana.
Tornando a noi, certamente sono molto importanti il catechismo e la catechesi, e come vorrei che quest’ultima fosse promossa e attuata in maniera vigorosa! Ma dobbiamo anche ritornare a scommettere sulla trasmissione in famiglia. E anche qui, appunto, non pretendendo dai genitori di trasformarsi in piccoli teologi che insegnano delle formule a memoria – questo lo potranno quanti sono in grado di farlo – ma soprattutto perché i genitori facciano pregare i figli e celebrino con loro le feste liturgiche nel tempo e modo dovuto.
Ho potuto perciò vedere con gioia un vostro libro di preghiere per la famiglia. Ma queste preghiere vanno inculcate insieme al senso delle diverse festività, per cui abbiamo moltissime splendide occasioni: l’Avvento, il Natale, la Quaresima, la Pasqua, la Pentecoste, il mese di maggio, le feste della Madonna, le feste dei Santi, le feste del santo Patrono.
Se ogni famiglia, in qualche maniera saprà dare anche solo un segno per ognuna di queste feste – non solo nella preghiera, ma anche nel cibo, nei piccoli regali, anche in qualche ornamento esteriore –, allora ecco che il bambino avrà appreso senza bisogno di speciali artifizi di memoria, perchè questa gli si fisserà indelebilmente nelle cose, nell’esperienza vissuta e quindi memorabile, consentendogli di entrare in modo graduale, simpatico, gioioso nell’atmosfera, nel mondo della fede. Ed è così che Paolo poteva appunto far conto sulla fede di Timoteo, e dirgli: «la fede che tu hai ricevuto dalla tua mamma e dalla tua nonna, e che ora è anche in te» (2Tim 1,5).
Questa grazia dunque chiediamo: che le nostre famiglie – anche quelle magari un po’ più lontane – sappiano insegnar così la catechesi. È facile, perlomeno non così difficile, far pregare i bambini, incominciando appunto con qualche preghiera legata soprattutto alle feste, alle ricorrenze principali. E così, a poco a poco quel pensiero di Dio oggi tanto lontano dal nostro mondo occidentale, talora oltretutto presentato così astratto, diventerà di nuovo concreto e vitale; e allora ci sarà quella gioia sentita di chi vive la fede profonda in Dio, in Gesù; di chi vive la gioia della Risurrezione del Signore, l’attesa del suo ritorno, la pienezza della grazia di Dio sparsa sull’umanità intera.
E vorrei quindi concludere come il brano della Lettera a Timoteo, dicendo anzitutto a me e al mio carissimo confratello, mons. Giuseppe Merisi: «Ravviviamo il dono di Dio che è in noi per l’imposizione delle mani!» (cf 2Tim 1,6). Un appello questo valido certo per tutti i presbiteri, i diaconi, i vescovi; ma anche estensibile proprio alle famiglie, che vivono del sacramento del matrimonio, e a tutti quanti i credenti senza differenze in forza del sacramento del Battesimo e della Cresima.
«Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza». In tanti modi e non senza motivo, di questi giorni si va scrivendo di una certa paura e timidezza dell’Europa, quasi quella afasica di chi se ne sta così, a bocca aperta, senza parlare nè sapersi pronunciare. Ebbene, poiché «Dio non ci ha dato questo spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza!» (1,7), proprio questo Spirito auguro e invoco per il vostro Vescovo, per tutti voi, per l’intera Chiesa italiana: ma anche per tutte le nostre realtà, perché sappiamo proclamare con fermezza, gioia e fede che il Signore è risorto e vive, ci ama, ed è qui in mezzo a noi.
———————————————
[1] Giuseppe Merisi Vescovo di Lodi, Educare alla fede oggi: il coraggio di raccogliere la sfida. Piano Pastorale Diocesano 2006-2009, Sollicitudo Arti Grafiche Lodi 2006.
[2] Per parlare di Dio con le metafore bibliche dominanti, come pure secondo la sequenza qui proposta (verbi-aggettivi-nomi), si consulti W. Brueggemann, Teologia dell’Antico Testamento. Testimonianza, dibattimento, perorazione (BB 27),  Queriniana Brescia 2002, 198-418.
(Teologo Borèl) Novembre 2006 – autore: card. Carlo Maria Martini

MERCOLEDÌ 29 GIUGNO 2011 – SANTI PIETRO E PAOLO, APOSTOLI (SOLENNITÀ)

MERCOLEDÌ 29 GIUGNO 2011 – 13 SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

SANTI  PIETRO E PAOLO, APOSTOLI (SOLENNITÀ)

MESSA DEL VESPERTINA LINK:

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MESSA VESPERTINA

Seconda Lettura   Gal 1,11-20
Dio mi scelse fin dal seno di mia madre.

Dalla lettera di san Paolo ai Gàlati
Fratelli, vi dichiaro che il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.
Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri.
Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
In seguito, tre anni dopo, salii a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo – lo dico davanti a Dio – non mentisco.

MESSA DEL GIORNO LINK:

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MESSA DEL GIORNO:

Seconda Lettura   2 Tm 4,6-8.17.18
Ora mi resta soltanto la corona di giustizia.

Dalla seconda lettera di san Paolo a Timoteo
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.
Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.
Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.
Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dalla lettera ai Galati di san Paolo, apostolo 1, 15 – 2, 10
 
Incontro di Pietro e Paolo a Gerusalemme
Fratelli, quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo, io attesto davanti a Dio che non mentisco. Quindi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia. Ma ero sconosciuto personalmente alle Chiese della Giudea che sono in Cristo; soltanto avevano sentito dire: «Colui che una volta ci perseguitava, va ora annunziando la fede che un tempo voleva distruggere». E glorificavano Dio a causa mia.
Dopo quattordici anni, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me anche Tito: vi andai però in seguito ad una rivelazione. Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani, ma lo esposi privatamente alle persone più ragguardevoli, per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano. Ora neppure Tito, che era con me, sebbene fosse greco, fu obbligato a farsi circoncidere. E questo proprio a causa dei falsi fratelli che si erano intromessi a spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, allo scopo di renderci schiavi. Ad essi però non cedemmo, per riguardo, neppure un istante, perché la verità del vangelo continuasse a rimanere salda tra di voi.
Da parte dunque delle persone più ragguardevoli — quali fossero allora non m’interessa, perché Dio non bada a persona alcuna — a me, da quelle persone ragguardevoli, non fu imposto nulla di più. Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi — poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani — e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi. Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare. 

Responsorio   Cfr. Mt 16, 18-19
R. Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze dell’inferno non la vinceranno. * A te darò le chiavi del regno dei cieli.
V. Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli.
R. A te darò le chiavi del regno dei cieli.

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di sant’Agostino, vescovo
(Disc. 295, 1-2. 4. 7-8; PL 38, 1348-1352)
 
Questi martiri hanno visto ciò che hanno predicato
Il martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo ha reso sacro per noi questo giorno. Noi non parliamo di martiri poco conosciuti; infatti «per tutta la terra si diffonde la loro voce ai confini del mondo la loro parola» (Sal 18, 5). Questi martiri hanno visto ciò che hanno predicato. Hanno seguito la giustizia. Hanno testimoniato la verità e sono morti per essa.
Il beato Pietro, il primo degli apostoli, dotato di un ardente amore verso Cristo, ha avuto la grazia di sentirsi dire da lui: «E io ti dico: Tu sei Pietro» (Mt 16, 18). E precedentemente Pietro si era rivolto a Gesù dicendo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16). E Gesù aveva affermato come risposta: «E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16, 18). Su questa pietra stabilirò la fede che tu professi. Fonderò la mia chiesa sulla tua affermazione: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Tu infatti sei Pietro. Pietro deriva da pietra e non pietra da Pietro. Pietro deriva da pietra, come cristiano da Cristo.
Il Signore Gesù, come già sapete, scelse prima della passione i suoi discepoli, che chiamò apostoli. Tra costoro solamente Pietro ricevette l’incarico di impersonare quasi in tutti i luoghi l’intera Chiesa. Ed è stato in forza di questa personificazione di tutta la Chiesa che ha meritato di sentirsi dire da Cristo: «A te darò le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16, 19). Ma queste chiavi le ha ricevute non un uomo solo, ma l’intera Chiesa. Da questo fatto deriva la grandezza di Pietro, perché egli è la personificazione dell’universalità e dell’unità della Chiesa. «A te darò» quello che è stato affidato a tutti. E` ciò che intende dire Cristo. E perché sappiate che è stata la Chiesa a ricevere le chiavi del regno dei cieli, ponete attenzione a quello che il Signore dice in un’altra circostanza: «Ricevete lo Spirito Santo» e subito aggiunge: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20, 22-23).
Giustamente anche dopo la risurrezione il Signore affidò allo stesso Pietro l’incombenza di pascere il suo gregge. E questo non perché meritò egli solo, tra i discepoli, un tale compito, ma perché quando Cristo si rivolge ad uno vuole esprimere l’unità. Si rivolge da principio a Pietro, perché Pietro è il primo degli apostoli.
Non rattristarti, o apostolo. Rispondi una prima, una seconda, una terza volta. Vinca tre volte nell’amore la testimonianza, come la presunzione è stata vinta tre volte dal timore. Deve essere sciolto tre volte ciò che hai legato tre volte. Sciogli per mezzo dell’amore ciò che avevi legato per timore.
E così il Signore una prima, una seconda, una terza volta affidò le sue pecorelle a Pietro.
Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola. Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli.
Amiamone la fede, la vita, le fatiche, le sofferenze, le testimonianze e la predicazione.

MARTEDÌ 28 GIUGNO 2011 – 13 SETTIMANA DEL T.O.

MARTEDÌ 28 GIUGNO 2011 – 13 SETTIMANA DEL T.O.

SANT’IRENEO  (m)

MESSA DEL GIORNO

Prima Lettura  2 Tm 2, 22b-26
Il servo del Signore deve essere mite con tutti, dolce nel riprendere.

Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
Carissimo, cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro. Evita inoltre le discussioni sciocche e non educative, sapendo che generano contese.
Un servo del Signore non dev’essere litigioso, ma mite con tutti, atto a insegnare, paziente nelle offese subite, dolce nel riprendere gli oppositori, nella speranza che Dio voglia loro concedere di convertirsi, perché riconoscano la verità e ritornino in sé sfuggendo al laccio del diavolo, che li ha presi nella rete perché facessero la sua volontà.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dal «Trattato contro le eresie» di sant’Ireneo, vescovo
(Lib. IV, 20, 5-7; SC 100, 640-642. 644-648)

L’uomo vivente è gloria di Dio; vita dell’uomo è la visione di Dio

La gloria di Dio dà la vita; perciò coloro che vedono Dio ricevono la vita. E per questo colui che è inintelligibile, incomprensibile e invisibile, si rende visibile, comprensibile e intelligibile dagli uomini, per dare la vita a coloro che lo comprendono e vedono. E’ impossibile vivere se non si è ricevuta la vita, ma la vita non si ha che con la partecipazione all’essere divino. Orbene tale partecipazione consiste nel vedere Dio e godere della sua bontà.
Gli uomini dunque vedranno Dio per vivere, e verranno resi immortali e divini in forza della visione di Dio. Questo, come ho detto prima, era stato rivelato dai profeti in figura, che cioè Dio sarebbe stato visto dagli uomini che portano il suo Spirito e attendono sempre la sua venuta. Così Mosè afferma nel Deuteronomio: Oggi abbiamo visto che Dio può parlare con l’uomo e l’uomo aver la vita (cfr. Dt 5, 24).
Colui che opera tutto in tutti nella sua grandezza e potenza, è invisibile e indescrivibile a tutti gli esseri da lui creati, non resta però sconosciuto; tutti infatti, per mezzo del suo Verbo, imparano che il Padre è unico Dio, che contiene tutte le cose e dà a tutte l’esistenza, come sta scritto nel vangelo: «Dio nessuno lo ha mai visto; proprio il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1, 18).
Fin dal principio dunque il Figlio è il rivelatore del Padre, perché fin dal principio è con il Padre e ha mostrato al genere umano nel tempo più opportuno le visioni profetiche, la diversità dei carismi, i ministeri e la glorificazione del Padre secondo un disegno tutto ordine e armonia. E dove c’è ordine c’è anche armonia, e dove c’è armonia c’è anche tempo giusto, e dove c’è tempo giusto c’è anche beneficio.
Per questo il Verbo si è fatto dispensatore della grazia del Padre per l’utilità degli uomini, in favore dei quali ha ordinato tutta l’«economia» della salvezza, mostrando Dio agli uomini e presentando l’uomo a Dio. Ha salvaguardato però l’invisibilità del Padre, perché l’uomo non disprezzi Dio e abbia sempre qualcosa a cui tendere. Al tempo stesso ha reso visibile Dio agli uomini con molti interventi provvidenziali, perché l’uomo non venisse privato completamente di Dio, e cadesse così nel suo nulla, perché l’uomo vivente è gloria di Dio e vita dell’uomo è la visione di Dio. Se infatti la rivelazione di Dio attraverso il creato dà la vita a tutti gli esseri che si trovano sulla terra, molto più la rivelazione del Padre che avviene tramite il Verbo è causa di vita per coloro che vedono Dio.

DOMENICA 20 MARZO – II DI QUARESIMA

DOMENICA 20 MARZO – II DI QUARESIMA

MESSA DEL GIORNO LINK:

http://www.maranatha.it/Festiv2/quaresA/QuarA2Page.htm

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura   2 Tm 1, 8b-10
Dio ci chiama e ci illumina.

Dalla lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
Figlio mio, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Egli infatti ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo progetto e la sua grazia. Questa ci è stata data in Cristo Gesù fin dall’eternità, ma è stata rivelata ora, con la manifestazione del salvatore nostro Cristo Gesù. Egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo.

http://www.bible-service.net/site/377.html

2 Timothée 1,8-10
Paul est prisonnier (1,8), sur la fin de sa vie (4,6). Il adresse un dernier message à son disciple préféré, qui est pour lui un enfant bien-aimé (1,2 ; 2,1). Il l’encourage à continuer son chemin de croyant. Chemin rude, vers l’inconnu, comme ce fut le cas pour Abraham Le passage que nous lisons aujourd’hui reprend avec force un des points les plus fermes de la doctrine paulinienne : le salut par le Christ, le salut comme signe de la grâce de Dieu. On sera attentif au rôle que Paul fait jouer au Christ dans l’histoire du salut : il l’embrasse totalement, il la dirige, il en est le maître. La grâce dont nous prenons possession au cours de notre vie sur cette terre, c’est cette grâce qui « nous avait été donnée dans le Christ Jésus avant tous les siècles (1,9). Tel est depuis toujours le projet du Dieu d’amour sur l’humanité (cf. Éphésiens 1,3-14). Le temps présent, inauguré par la naissance de Jésus (cf. Galates 4,4), est la pleine manifestation de ce plan divin. La passion et la résurrection de Jésus sont discrètement évoquées à la fin du passage : il est « notre Sauveur », il a « détruit la mort » et fait « resplendir la vie ». L’annonce de l’Évangile, commencée par Jésus et reprise au cours des âges par ses disciples, contient en germe cette vie nouvelle. On comprend que Paul présente la vie chrétienne comme une « vocation sainte ».

2 Timoteo 1,8-10
Paul è un prigioniero (1,8) sulla fine della sua vita (4.6). Paolo invia un messaggio finale al discepolo prediletto che è per lui un figlio amato (1.2, 2.1), e lo incoraggia a continuare il suo percorso di credente. Cammino aspro, percorso verso l’ignoto, come è avvenuto per Abramo. Nel brano che leggiamo oggi è ripreso con forza uno dei punti più forti della dottrina paolina: la salvezza per mezzo di Cristo, la salvezza come un segno della grazia di Dio. Saremo attenti al ruolo che Paolo fa giocare a Cristo nella storia della salvezza: l’abbraccia completamente, la dirige, ne è il padrone. La grazia che noi possediamo nella nostra vita sulla terra è questa grazia che « ci era stata data in Cristo Gesù prima dei secoli (1,9).Questo è sempre stato il progetto di amore di Dio per l’umanità (cfr Ef 1,3-14). Il tempo presente inaugurato dalla nascita di Gesù (cfr Gal 4,4), è la piena manifestazione del disegno divino. La passione e la risurrezione di Gesù sono evocati in modo discreto alla fine del brano:  egli è « il nostro Salvatore, » ha « vinto la morte » e fa « risplendere la vita ». L’annuncio del Vangelo, iniziato da Gesù e portato nel corso dei secoli dai suoi seguaci, contiene i semi della nuova vita. Sappiamo che Paolo presenta la vita cristiana come una « vocazione santa santa ».

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro dell’Esodo 13, 17 – 14, 9

Il cammino del popolo fino al Mare Rosso
Quando il faraone lasciò partire il popolo, Dio non lo condusse per la strada del paese dei Filistei, benché fosse più corta, perché Dio pensava: «Altrimenti il popolo, vedendo imminente la guerra, potrebbe pentirsi e tornare in Egitto». Dio guidò il popolo per la strada del deserto verso il Mare Rosso. Gli Israeliti, ben armati uscivano dal paese d’Egitto. Mosè prese con sé le ossa di Giuseppe, perché questi aveva fatto giurare solennemente gli Israeliti: «Dio, certo, verrà a visitarvi; voi allora vi porterete via le mie ossa». Partirono da Succot e si accamparono a Etam, sul limite del deserto. Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte. Di giorno la colonna di nube non si ritirava mai dalla vista del popolo, né la colonna di fuoco durante la notte.
Il Signore disse a Mosè: «Comanda agli Israeliti che tornino indietro e si accampino davanti a Pi-Achirot, tra Migdol e il mare, davanti a Baal-Zefon; di fronte ad esso vi accamperete presso il mare. Il faraone penserà degli Israeliti: Vanno errando per il paese; il deserto li ha bloccati! Io renderò ostinato il cuore del faraone ed egli li inseguirà; io dimostrerò la mia gloria contro il faraone e tutto il suo esercito, così gli Egiziani sapranno che io sono il Signore!».
Essi fecero in tal modo. Quando fu riferito al re d’Egitto che il popolo era fuggito, il cuore del faraone e dei suoi ministri si rivolse contro il popolo. Dissero: «Che abbiamo fatto, lasciando partire Israele, così che più non ci serva!».
Attaccò allora il cocchio e prese con sé i suoi soldati.
Prese seicento carri scelti e tutti i carri di Egitto con i combattenti sopra ciascuno di essi. Il Signore rese ostinato il cuore del faraone, re di Egitto, il quale inseguì gli Israeliti mentre gli Israeliti uscivano a mano alzata. Gli Egiziani li inseguirono e li raggiunsero, mentre essi stavano accampati presso il mare: tutti i cavalli e i carri del faraone, i suoi cavalieri e il suo esercito si trovarono presso Pi-Achirot, davanti a Baal-Zefon.

Responsorio    Cfr. Sal 113, 1. 2; Es 13, 21

R. Quando Israele uscì dall’Egitto, la casa di Giacobbe da un popolo straniero, * Giuda divenne il santuario, Israele il dominio del Signore.
V. Il Signore marciava alla loro testa con una colonna di nube, per guidarli sulla via.
R. Giuda divenne il santuario, Israele il dominio del Signore.

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(Disc. 51, 3-4. 8; PL 54, 310-311. 313)

La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo
Il Signore manifesta la sua gloria alla presenza di molti testimoni e fa risplendere quel corpo, che gli è comune con tutti gli uomini, di tanto splendore, che la sua faccia diventa simile al fulgore del sole e le sue vesti uguagliano il candore della neve.
Questa trasfigurazione, senza dubbio, mirava soprattutto a rimuovere dall’animo dei discepoli lo scandalo della croce, perché l’umiliazione della Passione, volontariamente accettata, non scuotesse la loro fede, dal momento che era stata rivelata loro la grandezza sublime della dignità nascosta del Cristo.
Ma, secondo un disegno non meno previdente, egli dava un fondamento solido alla speranza della santa Chiesa, perché tutto il Corpo di Cristo prendesse coscienza di quale trasformazione sarebbe stato soggetto, e perché anche le membra si ripromettessero la partecipazione a quella gloria, che era brillata nel Capo.
Di questa gloria lo stesso Signore, parlando della maestà della sua seconda venuta, aveva detto: «Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro» (Mt 13, 43). La stessa cosa affermava anche l’apostolo Paolo dicendo: «Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rm 8, 18). In un altro passo dice ancora: «Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3, 3. 4).
Ma, per confermare gli apostoli nella fede e per portarli ad una conoscenza perfetta, si ebbe in quel miracolo un altro insegnamento. Infatti Mosè ed Elia, cioè la legge e i profeti, apparvero a parlare con il Signore, perché in quella presenza di cinque persone di adempisse esattamente quanto è detto: «Ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni» (Mt 18, 16).
Che cosa c’è di più stabile, di più saldo di questa parola, alla cui proclamazione si uniscono in perfetto accordo le voci dell’Antico e del Nuovo Testamento e, con la dottrina evangelica, concorrono i documenti delle antiche testimonianze?
Le pagine dell’uno e dell’altro Testamento si trovano vicendevolmente concordi, e colui che gli antichi simboli avevano promesso sotto il velo viene rivelato dallo splendore della gloria presente. Perché, come dice san Giovanni: «La Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1, 17). In lui si sono compiute le promesse delle figure profetiche e ha trovato attuazione il senso dei precetti legali: la sua presenza dimostra vere le profezie e la grazia rende possibile l’osservanza dei comandamenti.
All’annunzio del Vangelo si rinvigorisca dunque la fede di voi tutti, e nessuno si vergogni della croce di Cristo, per mezzo della quale è stato redento il mondo.
Nessuno esiti a soffrire per la giustizia, nessuno dubiti di ricevere la ricompensa promessa, perché attraverso la fatica si passa al riposo e attraverso la morte si giunge alla vita. Avendo egli assunto le debolezze della nostra condizione, anche noi, se persevereremo nella confessione e nell’amore di lui, riporteremo la sua stessa vittoria e conseguiremo il premio promesso.
Quindi, sia per osservare i comandamenti, sia per sopportare le contrarietà, risuoni sempre alle nostre orecchie la voce del Padre, che dice: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo» (Mt 17, 5).

Responsorio    Cfr. Eb 12, 22. 24.25
R. Vi siete accostati a Gesù, mediatore della nuova alleanza. * Guardatevi dal rifiutare colui che parla.
V. Gli Ebrei per aver rifiutato colui che promulgava decreti sulla terra non trovarono scampo, molto meno lo troveremo noi, se volteremo le spalle a colui che parla dai cieli.
R. Guardatevi dal rifiutare colui che parla. 

In cammino con Gesù: Educare le nuove generazioni: uno sguardo sull’età apostolica nelle lettere di Paolo a Timoteo (per il 25 gennaio)

dal sito:

http://www.romasette.it/modules/news/article.php?storyid=3543

In cammino con Gesù: Educare le nuove generazioni: uno sguardo sull’età apostolica nelle lettere di Paolo a Timoteo
 
di Andrea Lonardo

«Mi ricordo della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te» (2 Tim 1,5): le cosiddette lettere pastorali, cioè le due lettere a Timoteo e la lettera a Tito, abitualmente indagate come documenti che permettono di cogliere lo sviluppo del ministero nella chiesa, sono anche uno specchio di come i primi genitori cristiani vivessero l’educazione delle nuove generazioni.
Le lettere a Timoteo parlano della terza generazione cristiana: Timoteo ha ricevuto la fede tramite la madre Eunìce e costei, a sua volta, da Lòide che ora è nonna di Timoteo. Il Nuovo Testamento è così testimone che, non appena si diventa cristiani, subito la fede viene trasmessa ai propri figli e nipoti. Il piccolo Timoteo non deve attendere la sua età matura, ma fin da piccolo riceve il dono di quei riferimenti e di quei valori che sono il tesoro prezioso di chi lo ha chiamato alla vita.
La seconda lettera aggiunge un particolare di questa precoce iniziazione alla fede: «Fin dall’infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù» (2 Tim 3, 15). Il padre di Timoteo era pagano, la madre ebrea, ma non lo aveva circonciso. Aveva, però, evidentemente accompagnato suo figlio, fin dalla tenera età, a conoscere la rivelazione di Dio, secondo la più bella tradizione ebraica. Eunìce gli aveva fatto conoscere non solo i libri dell’Antico Testamento, ma anche quel Gesù che era la chiave per comprendere quei testi ed il loro più vero significato, poiché la salvezza promessa raggiungeva gli uomini per la fede in lui.
Se le due lettere a Timoteo aprono uno squarcio sull’educazione dei figli, specularmente non parlano astrattamente della condizione adulta, ma si rivolgono a mariti e mogli, a padri e madri, a vescovi e diaconi, a famiglie e vedove. La teologia moderna ha formalizzato nel concetto dello “stato di vita” ciò che è già evidente nella vita dei cristiani del Nuovo Testamento: se un giovane è tale perché è ancora in ricerca della propria vocazione, l’adulto si caratterizza proprio per quelle relazioni definitive che costituiscono la forma specifica del suo dono. Egli è adulto, proprio perché è marito e padre, o perché è vescovo o diacono o ancora perché ha accolto pienamente la condizione di vedovanza.
La definitività della vocazione non riguarda solo i presbiteri ed i diaconi, per i quali l’autore raccomanda di non aver fretta ad imporre le mani, e nemmeno semplicemente coloro che sono stati chiamati al matrimonio, ma addirittura è tratto essenziale di coloro che hanno subito la condizione vedovile e sono ora chiamate a sceglierla o ad uscirne risposandosi: «Onora le vedove, quelle che sono veramente vedove… Desidero che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la casa, per non dare all’avversario nessun motivo di biasimo» (cfr. 1 Tim 4, 3-16).
L’odierna catechesi che sceglie di parlare sempre più di famiglia, piuttosto che semplicemente di adulti, rispecchia proprio questa coscienza della centralità delle relazioni personali, delle scelte che costituiscono la condizione tipica dell’adulto. Egli non educa solo perché si rivolge ai più piccoli, ma anche e soprattutto perché vive con serena responsabilità la propria vita, proponendosi così come modello e testimone.
La prima formazione ricevuta da Timoteo non è però sufficiente. Essa non può mai essere semplicemente presupposta, proprio perché la persona è viva ed affronta situazioni sempre nuove. «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza» (1 Tim 1, 6-7): così afferma l’autore subito dopo aver parlato dell’educazione che Timoteo ha ricevuto dalla nonna e dalla madre.
È una educazione che si deve misurare anche con la fatica della lettura e del pensiero – «Fino al mio arrivo, dèdicati alla lettura» (1 Tim 4, 13), come, d’altro canto, a Timoteo viene chiesto di farsi portatore dei libri necessari per Paolo: «Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene» (2 Tim 4, 13).
Soprattutto, la conoscenza della affidabilità della rivelazione – «So a chi ho creduto» (1 Tim 1, 12)- si è ormai tramutata nel dono che Timoteo fa di se stesso come testimone della fede: «Soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio» (2 Tim 1, 8). Egli non è più come «coloro che stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità» (2Tim 3, 7), ma può ormai sentirsi dire da Paolo: «Le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri» (2 Tim 2, 2).
Per questo una vera educazione non si rivolge semplicemente alla persona stessa, ma la apre a vivere pienamente nel mondo per poter condividere con ciascuno i doni ricevuti da Dio. Timoteo è così invitato ad avere sempre presenti tutti nel suo sguardo e nella sua preghiera – «Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Tim 2, 1-6). Per Timoteo, come vescovo, valgono le raccomandazioni ad essere ospitale, capace di insegnare, benevolo, non litigioso (1 Tim, 3, 2-3); infatti «è necessario che [il vescovo] goda buona reputazione presso quelli di fuori, per non cadere in discredito e in qualche laccio del diavolo»( 1 Tim 3, 7).
La critica moderna si è spesso domandato chi sia l’autore delle pastorali, poiché esse utilizzano un linguaggio differente dalle lettere sicuramente autentiche di Paolo, ma,d’altro canto, sono piene di riferimenti a fatti che possono provenire solo da un intimo conoscitore dell’apostolo. Una proposta recente del prof.Giancarlo Biguzzi ipotizza, con buona probabilità, che l’autore possa essere lo stesso Timoteo che avrebbe fuso insieme –da qui la non piena organicità della disposizione finale delle lettere- i suoi ricordi dell’apostolo, i cosiddetti personalia contenuti nelle lettere pastorali.

13 giugno 2008

Omelia per domenica 24 ottobre 2010, seconda lettura su 2Tm: La corona di giustizia

dal sito:

http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi2.asp?ID_festa=251

2 Timoteo 4,6-8.16-18

La corona di giustizia

La lettera si apre con il prescritto e il ringraziamento epistolare, nel quale l’autore ricorda la fede di Timoteo, ricevuta dalla madre e dalla nonna (1,1-5). Viene poi il corpo della lettera in cui sono svolti i seguenti temi: A. Il vero pastore (1,6-18); B. Il comportamento di  Timoteo (2,1-26); C. Gli ultimi tempi (3,1-17); D) Il testamento di Paolo (4,1-18). Il testo liturgico riprende la seconda parte del testamento di Paolo, dove l’Apostolo fa una sintesi del suo apostolato (vv. 6-8) e dà a Timoteo le sue ultime istruzioni (vv. 16-18). Vengono omessi i vv. 9-15 che contengono l’indicazione di alcuni compiti specifici affidati a Timoteo.

Paolo rivolge anzitutto lo sguardo al passato: «Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (vv. 6-7). Paolo è ormai alla vigilia del martirio o dell’esecuzione capitale e  dà una visione retrospettiva della sua attività. Il modello qui adottato è quello dei discorsi di addio, che viene utilizzato per esempio nel saluto di Paolo ai presbiteri di Mileto, dove ricorre la stessa immagine della corsa (cfr. At 20,24). Da questo genere letterario deriva il tono elogiativo con cui si presenta la vita passata dell’Apostolo. La prospettiva della morte imminente è evocata con le immagini del sacrificio e della partenza, mutuate dalla lettera ai Filippesi (cfr. Fil 1,23; 2,17). La morte dell’apostolo è presentata come un sacrificio: nella tradizione giudeo-ellenistica e, più tardi, in quella rabbinica, la morte del martire è interpretata come un sacrificio in quanto riconcilia il popolo con Dio. Essa è anche l’approdo alla meta definitiva. Riguardo al passato, la vita apostolica di Paolo è descritta come una battaglia e come una competizione sportiva. Il linguaggio è quello adottato da Paolo stesso, che paragona l’impegno e il rischio della sua missione apostolica alle gare nello stadio (cfr. 1Cor 9,24-27). Lo stesso linguaggio è adottato anche altrove nella Pastorali (cfr. 1Tm 6,12;  2Tm 2,5). Secondo una formula fissa, in uso nei pubblici riconoscimenti, si afferma che Paolo ha «tenuto fede» agli impegni di apostolo, missionario e maestro. Anche questo motivo della fedeltà o pieno compimento della missione rientra nel linguaggio dei discorsi di addio (cfr. At 20,20.27; Gv 17,4.6). Egli diventa così il modello o prototipo dei pastori e di tutti i credenti non solo nella sua vita e attività, ma anche nella sua morte.

 Lo sguardo si rivolge poi al futuro, con il ricorso nuovamente alle immagini delle gare sportive o della lotta: «Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione» (v. 8). Al vincitore spetta l’incoronazione con il serto di alloro o con rami di sempreverde. Il simbolo della corona per l’ambiente greco-ellenistico è carico di connotazioni come onore, gioia, immortalità e trionfo. La corona viene qualificata con il genitivo «di giustizia»: non si tratta dunque di un riconoscimento umano, ma di quello che viene da Dio, basato sull’acquisizione della giustizia in quanto rapporto pieno con lui. Questa corona verrà conferita nel contesto escatologico dal Signore, che allora si manifesterà come «giusto giudice», che non delude quelli che per lui si sono impegnati senza riserve. La sorte di Paolo è un pegno per tutti i credenti che sono solidali con il suo destino (cfr. 1Ts 2,19). Essi sono definiti come quelli che vivono nell’attesa della gloriosa manifestazione del Signore. È scomparsa la componente di impazienza che deriva dalla credenza in un imminente ritorno del Signore, lasciando il posto all’impegno quotidiano per vivere secondo gli insegnamenti e l’esempio di Gesù.

Nei versetti omessi dalla liturgia, Paolo esorta Timoteo a raggiungerlo comunicandogli che i suoi compagni Dema, Crescente e Tito lo hanno lasciato solo. Con lui c’è solo Luca. A Timoteo dice ancora di portare con sé Marco e accenna all’invio di Tichico a Efeso. E aggiunge di portargli il mantello e le pergamene che ha lasciato a Troade e infine lo mette in guardia nei confronti di Alessandro. Questi accenni, che dovrebbero essere le prove dell’autenticità della lettera, sono invece chiaramente artificiosi e si riferiscono a situazioni non controllabili, anzi a volte inverosimili, soprattutto nel caso di uno che sta per essere giustiziato.

Nella seconda parte del brano si ritorna sulla situazione attuale dell’Apostolo: «Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto» (v. 16). In questo sfogo si sente il rammarico per l’abbandono da parte dei suoi. Verso di loro Paolo ha parole di perdono. È difficile sapere se si tratta di un ricordo storico o del semplice motivo del giusto abbandonato dai suoi amici, come era stato per Gesù. La solitudine di Paolo è riempita dalla vicinanza del Signore: «Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone» (v. 17). Paolo è consapevole che solo con la grazia di Dio ha potuto portare a termine la sua missione. Questo risultato è espresso con l’immagine della lotta vittoriosa dei gladiatori contro i leoni nel circo. Non si tratta però di una vittoria umana, bensì del successo dell’opera di evangelizzazione, che può benissimo coesistere con l’imminente martirio.

L’esperienza del conforto che gli viene dal Signore apre infine il cuore alla speranza: «Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (v. 18). La liberazione a cui tende l’Apostolo non è più quella che si attua in questo mondo ma quella che consiste nell’ingresso nel regno, che appare ormai come una realtà che ha sede nei cieli. Alla visione del regno come trasformazione di questo mondo si è ormai sostituita quella di una nuova situazione che si raggiunge dopo la morte, quando l’anima si ricongiunge definitivamente con Dio.

Linee interpretative

In questo brano si tende ad avvalorare l’autenticità paolina della lettera, mentre invece esso ne dimostra chiaramente l’origine tardiva, pur situandosi nell’alveo della tradizione paolina. La figura idealizzata di Paolo, il martire fedele e coraggioso, viene riproposta plasticamente ai cristiani grazie ad alcuni dati biografici ripresi e rielaborati dalle fonti tradizionali paoline, lettere e Atti degli Apostoli. In tal modo l’insegnamento dell’apostolo assume un valore permanente e la sua vicenda diventa paradigmatica per tutti i cristiani. Quello che si sottolinea maggiormente è la sua fedeltà fino alla fine nel compimento della missione a lui affidata di annunziatore del vangelo.

Questa rilettura idealizzata di Paolo, il prigioniero del Signore e il testimone fedele, si ispira al modello biblico del giusto abbandonato dagli amici e vicini, attaccato dai suoi nemici, il quale ripone la sua fiducia solo in Dio che lo protegge e lo libera e così alla fine può rendere grazie a Dio. Sullo sfondo di questo schema letterario diventa perfettamente plausibile la contrapposizione tra l’abbandono di tutti e la presenza del Signore che dà all’apostolo la forza per la testimonianza evangelica e alla fine lo salva in modo definitivo, conferendogli una vita nuova nel suo regno. Questa presentazione deve servire come incoraggiamento ai cristiani che come lui testimoniano il vangelo in mezzo alle sofferenze e alle contraddizioni di questo mondo.

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