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Giovanni Paolo II, udienza 3 ottobre 1990 [sullo Spirito Santo - testi di San Paolo, prima udienza sul tema]

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1990/documents/hf_jp-ii_aud_19901003_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

[sullo Spirito Santo - testi di San Paolo, prima udienza sul tema]

Mercoledì, 3 ottobre 1990

1. È ben noto l’augurio con cui san Paolo conclude la seconda Lettera ai Corinzi: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio (Padre) e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi!” (2 Cor 13, 13). È l’augurio che la liturgia pone sulle labbra del sacerdote celebrante all’inizio della Messa. Con questo testo di evidente significato trinitario, ci introduciamo nell’esame di ciò che le Lettere dell’apostolo Paolo ci dicono sullo Spirito Santo come Persona nell’unità trinitaria del Padre e del Figlio. Il testo della Lettera ai Corinzi sembra provenire dal linguaggio delle prime comunità cristiane e forse dalla liturgia delle loro assemblee. Con quelle parole l’apostolo esprime l’unità trinitaria partendo da Cristo, il quale come artefice della grazia salvifica rivela all’umanità l’amore di Dio Padre e lo partecipa ai credenti nella comunione dello Spirito Santo. Così risulta che secondo san Paolo lo Spirito Santo è la Persona che opera la comunione dell’uomo – e della Chiesa – con Dio.
La formula paolina parla chiaramente di Dio Uno e Trino, anche se in termini diversi da quelli della formula battesimale riferita da Matteo: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28, 19). Essa ci fa conoscere lo Spirito Santo quale era presentato nella dottrina degli apostoli e recepito nella vita delle comunità cristiane.
2. Un altro testo di san Paolo prende come base dell’insegnamento sullo Spirito Santo la ricchezza dei carismi elargiti con varietà e unità di ordinamento nelle comunità: “Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (1 Cor 12, 4-6). L’apostolo attribuisce allo Spirito Santo i doni della grazia (carismi); al Figlio – come al Signore della Chiesa – i ministeri (“ministeria”); al Padre-Dio, che è l’artefice di tutto in tutti, le “operazioni”.
È molto significativo il parallelismo espresso in questo brano tra lo Spirito, il Signore Gesù e Dio Padre. Esso indica che anche lo Spirito viene riconosciuto come Persona divina. Non sarebbe coerente mettere in parallelismo così stretto due Persone, quelle del Padre e del Figlio, con una forza impersonale. È ugualmente significativo che allo Spirito Santo venga attribuita in modo particolare la gratuità dei carismi e di ogni elargizione divina all’uomo e alla Chiesa.
3. Ciò viene ulteriormente ribadito nell’immediato contesto della prima Lettera ai Corinzi: “Tutte queste cose è l’unico e medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole”. Lo Spirito Santo si manifesta dunque come un libero e “spontaneo” Datore del bene nell’ordine dei carismi e della grazia; come una Persona divina che sceglie e benefica i destinatari dei diversi doni: “A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio della scienza; a uno la fede, per mezzo dello stesso Spirito”. E ancora: “Il dono di far guarigioni . . . il dono della profezia . . . il dono di distinguere gli spiriti . . . il dono di varietà delle lingue e il dono d’interpretazione delle lingue”. Ed ecco: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità” (1 Cor 12, 7-11). Proviene, dunque, dallo Spirito Santo la molteplicità dei doni, come anche la loro unità, la loro coesistenza. Tutto ciò indica lo Spirito Santo come una Persona sussistente e operante nell’unità divina: nella comunione del Figlio col Padre.
4. Anche altri passi delle Lettere paoline esprimono la stessa verità dello Spirito Santo come Persona nell’unità trinitaria, partendo dall’economia della salvezza. “Noi però dobbiamo rendere sempre grazie a Dio per voi . . . perché Dio vi ha scelti come primizia della salvezza, attraverso l’opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità . . . per il possesso della gloria del Signore nostro Gesù Cristo”: così scrive l’apostolo nella seconda Lettera ai Tessalonicesi (2 Ts 2, 13-14), per indicar loro il fine del Vangelo da lui annunziato. E ai Corinzi: “Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio” (1 Cor 6, 11).
Secondo l’apostolo, il Padre è il principio primo della santificazione, la quale viene conferita dallo Spirito Santo a chi crede “nel nome” di Cristo. La santificazione nell’intimità dell’uomo proviene dunque dallo Spirito Santo, persona che vive e opera in unità col Padre e col Figlio.
In un altro passo l’apostolo esprime lo stesso concetto in modo suggestivo: “È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2 Cor 1, 21-22). Le parole “nei nostri cuori” indicano l’intimità dell’azione santificatrice dello Spirito Santo.
La stessa verità, in forma ancor più sviluppata, si trova nella Lettera agli Efesini: “Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo . . . ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo”. E poco dopo l’autore dice ai credenti: “Avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità” (Ef 1, 3. 13-14).
5. Altra magnifica espressione del pensiero e degli intenti di san Paolo è quella della Lettera ai Romani, dove egli scrive che lo scopo del suo ministero evangelico è che “i pagani divengano un’oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo”. Per questo servizio chiede ai destinatari della lettera la preghiera a Dio, e lo fa per Cristo e per “l’amore dello Spirito”. L’“amore” è un particolare attributo dello Spirito Santo (Rm 15, 16. 30. 5), così come la “comunione” (cf. 2 Cor 13, 13). Da questo amore viene la santità, che rende gradita l’oblazione. E questa è dunque ancora un’opera dello Spirito Santo.
6. Secondo la Lettera ai Galati, lo Spirito Santo trasmette agli uomini il dono dell’adozione a figli di Dio, sollecitandoli alla preghiera propria del Figlio. “E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6). Lo Spirito “grida” e si manifesta così come una persona che si esprime con grande intensità. Egli fa risonare nei cuori dei cristiani la preghiera che Gesù stesso rivolgeva al Padre (cf. Mc 14, 36) con amore filiale. Lo Spirito Santo è Colui che rende figli adottivi e dà la capacità della preghiera filiale.
7. La dottrina di san Paolo su questo punto è così ricca, che occorrerà riprenderla nella prossima catechesi. Per ora possiamo conchiudere che anche nelle Lettere paoline lo Spirito Santo appare come una Persona divina vivente nell’unità trinitaria col Padre e col Figlio. L’apostolo attribuisce a lui in modo particolare l’opera della santificazione. Lui è il diretto autore della santità delle anime. Lui è la Fonte dell’amore e della preghiera, nella quale si esprime il dono della divina “adozione” dell’uomo. La sua presenza nelle anime è il pegno e l’inizio della vita eterna.

Giovanni Paolo II, udienza 10 ottobre 1990 [sullo Spirito Santo - testi di San Paolo, seconda udienza sul tema]

dal sito: 

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1990/documents/hf_jp-ii_aud_19901010_it.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

[sullo Spirito Santo, testi di San Paolo, II udienza]

Mercoledì, 10 ottobre 1990

1. Abbiamo visto nella catechesi precedente che la rivelazione dello Spirito Santo come Persona nell’unità trinitaria col Padre e col Figlio trova negli scritti paolini espressioni molto belle e suggestive. Continuiamo oggi ad attingere dalle Lettere di san Paolo altre variazioni su quest’unico motivo fondamentale. Esso ritorna spesso nei testi dell’apostolo, permeati di una fede viva e vivificante nell’azione dello Spirito Santo e nelle proprietà della sua Persona che, mediante l’azione, si rendono manifeste.
2. Una delle espressioni più elevate e più attraenti di questa fede, che sotto la penna di Paolo diventa comunicazione alla Chiesa di una verità rivelata, è quella della “inabitazione” dello Spirito Santo nei credenti, che sono il suo tempio. “Non sapete – egli apostrofa i Corinzi – che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1 Cor 3, 16). “Abitare” si dice normalmente di persone. Qui si tratta dell’“inabitazione” di una persona divina in persone umane. È un fatto di natura spirituale, un mistero di grazia e di amore eterno, che proprio per questo viene attribuito allo Spirito Santo. Tale inabitazione interiore influenza l’uomo intero, così com’è nella concretezza e nella totalità del suo essere, che l’apostolo più volte denomina “corpo”. Difatti anche in questo scritto, poco più oltre il passo citato, sembra incalzare i destinatari della sua Lettera con la stessa domanda: “O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?” (1 Cor 6, 19). In questo testo il riferimento al “corpo” è quanto mai significativo circa il concetto paolino dell’azione dello Spirito Santo in tutto l’uomo!
Si spiega così e si capisce meglio l’altro testo della Lettera ai Romani sulla “vita secondo lo Spirito”. Leggiamo infatti: “Non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi”. “E se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8, 9. 11).
Dunque l’irradiazione dell’inabitazione divina nell’uomo è estesa a tutto il suo essere, a tutta la sua vita, che si colloca in tutti i suoi elementi costitutivi e in tutte le sue esplicazioni operative sotto l’azione dello Spirito Santo: dello Spirito del Padre e del Figlio, e quindi anche di Cristo, Verbo incarnato. Questo Spirito, vivente nella Trinità, è presente in virtù della redenzione operata da Cristo in tutto l’uomo che si lascia “abitare” da lui, in tutta l’umanità che lo riconosce e lo accoglie.
3. Un’altra proprietà attribuita da san Paolo alla persona dello Spirito Santo è lo “scrutare” tutto, come scrive ai Corinzi: “Lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio”. “Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio” (1 Cor 2, 10. 11).
Questo “scrutare” significa l’acutezza e la profondità della conoscenza che è propria della Divinità, nella quale lo Spirito Santo vive col Verbo-Figlio nell’unità della Trinità. Per questo è uno Spirito di luce, che è per l’uomo maestro di verità, come l’ha promesso Gesù Cristo (cf. Gv 14, 26).
4. Il suo “insegnamento” riguarda prima di tutto la realtà divina, il mistero di Dio in se stesso, ma anche le sue parole e i suoi doni all’uomo. Come scrive san Paolo: “Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato” (1 Cor 2, 12). È una visione divina del mondo, della vita, della storia, quella che lo Spirito Santo dà ai credenti; un’“intelligenza di fede” che fa innalzare lo sguardo interiore ben al di sopra della dimensione umana e cosmica della realtà, per scoprire in tutto la proiezione dell’azione divina, l’attuazione del disegno della Provvidenza, il riflesso della gloria della Trinità.
Per questo la liturgia nell’antica sequenza della Messa per la festa della Pentecoste ci fa invocare: “Veni, Sancte Spiritus, et emitte coelitus lucis tuae radium . . . Vieni, Spirito Santo, e donaci un raggio della tua luce di cielo. Vieni, padre dei poveri, elargitore di doni, vieni, luce dei cuori . . .”.
5. Questo Spirito di luce dà anche agli uomini – specialmente agli apostoli e alla Chiesa – la capacità di insegnare le cose di Dio, come per un’espansione della sua stessa luce. “Di queste cose noi parliamo, – scrive Paolo – non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali”. È il discorso dell’apostolo, il discorso della Chiesa primitiva e della Chiesa di tutti i tempi, il discorso dei veri teologi e catechisti, che parlano di una sapienza che non è di questo mondo, di “una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria” (1 Cor 2, 13. 6-7).
Una tale sapienza è un dono dello Spirito Santo, che occorre invocare per i maestri e predicatori di tutti i tempi: il dono di cui parla san Paolo nella stessa Lettera ai Corinzi: “A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio della scienza” (1 Cor 12, 8). Scienza, sapienza, forza della parola che penetra nelle intelligenze e nelle coscienze, luce interiore che mediante l’annuncio della verità divina irradia nell’uomo docile e attento la gloria della Trinità: tutto è dono dello Spirito Santo.
6. Lo Spirito, che “scruta anche le profondità di Dio” e “insegna” la sapienza divina, è anche Colui che “guida”. Leggiamo nella Lettera ai Romani: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio”. Qui si tratta della “guida” interiore, che va alle radici stesse della “nuova creazione”: lo Spirito Santo fa sì che gli uomini vivano la vita dei figli della divina adozione. Per vivere in questo modo, lo spirito umano ha bisogno della consapevolezza della divina figliolanza. Ed ecco, “lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8, 14. 16). La testimonianza personale dello Spirito Santo è indispensabile perché l’uomo possa personalizzare nella sua vita il mistero innestato in lui da Dio stesso.
7. In questo modo lo Spirito Santo “viene in aiuto” alla nostra debolezza. Secondo l’apostolo, ciò avviene in modo particolare nella preghiera. Egli scrive infatti: “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (Rm 8, 26). Per Paolo, dunque, lo Spirito è l’artefice interiore dell’autentica preghiera. Egli, mediante il suo divino influsso, penetra dall’interno la preghiera umana, e la introduce nelle profondità di Dio.
Un’ultima espressione paolina in un certo modo comprende e sintetizza tutto ciò che abbiamo attinto finora da lui su questo tema. Eccola: “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato” (Rm 5, 5). Lo Spirito Santo è dunque Colui che “riversa” l’amore di Dio nei cuori umani in modo sovrabbondante, e fa sì che possiamo prendere parte a questo amore.
Da tutte queste espressioni, così frequenti e coerenti col linguaggio dell’apostolo delle Genti, ci è dato di conoscere meglio l’azione dello Spirito Santo e la persona stessa di Colui che agisce nell’uomo in modo divino. 

Il Vangelo Paolino fra tradizione giudaica e apertura ai gentili (R. Penna) PDF

Prof. Romano Penna

Il Vangelo Paolino fra tradizione giudaica e apertura ai gentili

International Seminar on Saint Paul
http://www.paulus.net/sisp/doc/interventi/ISSP_Penna.pdf

I TESTI DI PAOLO SULL’EVENTO DI DAMASCO (per domani 25 gennaio: Conversione di San Paolo)

dal sito:

http://www.ucroma.it/approfondimenti/paolo-chiamato-ad-essere-apostolo-lincontro-sulla-via-di-damasco-del-prof-giancarlo-biguzzi

I TESTI DI PAOLO SULL’EVENTO DI DAMASCO

Paolo «chiamato a essere apostolo»: l’incontro sulla via di Damasco

del prof. Giancarlo Biguzzi

Mettiamo a disposizione il testo della relazione tenuta dal prof. Giancarlo Biguzzi il 7 novembre 2008 in occasione dell’inaugurazione della mostra La Bibbia a Roma organizzata dall’Ufficio catechistico della Diocesi di Roma, presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore. In quella occasione il regista ed attore Francesco Brandi ha letto i testi dell’apostolo commentati dal prof. Biguzzi.

L’Ufficio catechistico della diocesi di Roma (24/11/2008)

1. I testi di Paolo sull’evento di Damasco

a. Primo testo: 1Corinzi 9,1-18
b. Secondo testo:1Corinzi 15,1-11
c. Terzo testo: Galati 1,11-16
d. Quarto testo: Filippesi 3,2-14
e. L’evento di Damasco, sintesi

2. I Appendice: sintesi a cura dell’ufficio catechistico delle ulteriori riflessioni al termine della relazione

3. II Appendice: (è uno schema, non lo metto)

L’anno paolino sta suscitando grande interesse e grande fervore a tutti i livelli nella Chiesa Cattolica. Il motivo è che, per la concettosità dei suoi scritti e per le controversie con Lutero e i protestanti, Paolo è tra noi cattolici poco conosciuto e ora lo si vuole imparare a conoscere.
Nella sua complessa personalità c’è anche qualche elemento di disturbo e di antipatia (è accusato di “egomania”, talvolta è focoso, mordace, sarcastico), ma nella storia cristiana, dopo Gesù, senza alcun dubbio Paolo è il numero due. Questa sera propongo a voi la sua figura come esemplare. È esemplare per il fatto di essere unitaria, – non miscellanea, eterogenea, raccogliticcia. Paolo ha avuto un centro attorno al quale ha saputo disporre i valori in gerarchia, e ha avuto una sorgente inesauribile da cui attingere per le battaglie della sua vita e per la sua vorticosa corsa apostolica.
*
Joachim Jeremias, noto studioso tedesco del secolo scorso (+ 1979), in uno scritto brevissimo (= Per comprendere la teologia dell’apostolo Paolo, Brescia 1973) esprime in modo incisivo quella che è la convinzione comune, che cioè a spiegare Paolo, la sua opera e il suo pensiero, non sono né Tarso dove è nato, né Gerusalemme dove è stato educato alle Scritture, né Antiochia di Siria dove è stato coinvolto in modo decisivo nel movimento cristiano. Ma soltanto Damasco. Su tutte le componenti della personalità di Paolo (ellenismo di Tarso, giudaismo di Gerusalemme, chiesa primitiva di Antiochia di Siria), domina dunque l’evento di Damasco, solitamente detto ‘conversione’ ma che è meglio definibile come ‘vocazione’.
Siamo informati su quello che accadde a Damasco: (a) dai tre racconti lucani in At 9,1-22 (narrazione dello scrittore, 22 versetti), At 22,6-21 (autodifesa di Paolo nell’episodio dell’arresto a Gerusalemme, 18 versetti), At 26,9-18 (autodifesa di Paolo davanti al re Agrippa, 10 versetti); (b) – da testi che si trovano in lettere considerate di solito deutero-poaoline (Ef 3,1-12; 1Tm 1,12-16); (c) da brevissimi accenni dello stesso Paolo nelle sue lettere (1Cor 9,1ss; 15,8ss; Gal 1,15-16; Fil 3,12ss).
 Sono evidentemente questi testi i più illuminanti perché costituiscono una testimonianza diretta, anche se sono stati scritti almeno venti anni dopo i fatti. Sono però preziosi proprio perché il tempo che è intercorso tra i fatti e lo scritto ha condotto Paolo a una comprensione sempre più profonda dell’evento damasceno.

1. I testi di Paolo sull’evento di Damasco

a. Primo testo: 1Corinzi 9,1-18
In 1Cor 8 Paolo scrive di essere pronto ad astenersi in eterno dal mangiare carne, per riguardo a qualsiasi fratello cristiano. Ma quella rinuncia alla libertà poteva essere facilmente criticata dagli avversari Corinzi che potevano obiettare: «Se non ha autorità e libertà, Paolo non è apostolo!». Paolo previene questa possibile obiezione con quattro domande retoriche (1Cor 9,1), tutte introdotte da particelle interrogative che lasciano in attesa di una riposta affermativa:
1: «Non sono forse libero, io?». Il senso della domanda è che, come ogni cristiano, Paolo è libero; in particolare, come ogni apostolo. È libero, se lo vuole, di farsi mantenere economicamente.
2: «Non sono io forse un apostolo?». Mentre Luca negli Atti degli Apostolo non dà a Paolo il titolo di “apostolo”, Paolo rivendica quel titolo con grande forza e insistenza. Qui, per dare fondamento alla sua pretesa di essere apostolo, nella terza domanda retorica, quella che segue, Paolo si richiama all’evento di Damasco:
3: «Non ho io forse visto Gesù, Signore nostro?». Nell’ultima domanda Paolo aggiunge una seconda prova della sua apostolicità, che è la sua stessa opera:
4: «E non siete voi la mia opera nel Signore?».
Nel contesto seguente poi Paolo rivendica con molti argomenti di avere i diritti dell’apostolo: (i) Ogni lavoratore (soldato, vignaiolo, pastore, aratore, trebbiatore) vive del suo lavoro; (ii) Anche la Legge mosaica chiede che il bue possa mangiare del suo lavoro (Deut 25,4), per cui a fortiori l’apostolo ha quel diritto; (iii) Il Signore stesso ha detto che chi annuncia il Vangelo, da quell’annuncio ha diritto di trarre il sostentamento.
Paolo poi fornisce i motivi per cui non si avvale di quel diritto: perché egli non vuole porre ostacoli al Vangelo, e perché annuncia il Vangelo non di sua volontà ma, come gli antichi profeti (Amos 3,8; Ger 1,6; 20,7-9), per necessità: perché non può resistere o sottrarsi all’azione di Dio in lui.
In 1Cor 9 l’episodio di Damasco è fondamento dell’apostolicità di Paolo ed è l’investitura apostolica di Paolo e la sua opera missionaria ne è la comprova. Paolo dunque pensava l’evento di Damasco più in chiave di chiamata al ministero apostolico che di conversione.
b. Secondo testo:1Corinzi 15,1-11
Il problema che Paolo discuterà sino alla fine del lungo capitolo XV della Prima lettera ai Corinzi è esposto in 15,12: «Se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste resurrezione dei morti?». Infatti come gli altri apostoli, così anche Paolo («Sia io che loro, così predichiamo», 15,11) annuncia un Vangelo incentrato su Morte-Sepoltura di Gesù e Resurrezione-Apparizioni (1Cor 15,3-3-8).
Per noi è importante il fatto che nell’elenco dei destinatari delle apparizioni del Risorto, Paolo mette anche se stesso: «… apparve (i) a Kefa- Pietro, e (ii) ai Dodici; in seguito apparve (iii) a più di 500 fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti; inoltre apparve (iv) a Giacomo, e quindi (v) a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me (= vi), come a un aborto». Anche qui l’evento di Damasco è per Paolo investitura apostolica, nonostante che egli occupi l’ultimo posto nell’elenco dei destinatari delle apparizioni, anzi nonostante sia indegno di quel titolo perché ha perseguitato la Chiesa (15, 11).
In 1Cor 15 l’evento di Damasco più che visione è apparizione (Paolo è passivo, mentre in 1Cor 9 era attivo: «Io ho visto il Signore»). La cristofania è fondamento dell’apostolicità e – elemento nuovo che si trova nei versetti seguenti – è “grazia” (v. 10a: «Per grazia di Dio sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana»): è l’iniziativa gratuita e misericordiosa di Dio che da un persecutore trae un apostolo travolgente. Quella grazia lo ha lanciato in un impegno apostolico senza pari: proprio il feto abortivo, in virtù della grazia che ha ricevuto e assecondato, è colui che per il Vangelo si è affaticato più di tutti (15,10).

c. Terzo testo: Galati 1,11-16
Secondo le accuse dei suoi avversari Paolo predicherebbe la libertà per i pagani dalla Legge mosaica “per piacere agli uomini”: «È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? [Come è possibile pensare che] io cerchi di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo!» (Gal 1,10).
Nella sua replica Paolo anzitutto nega di avere facilitato e addomesticato il Vangelo («il Vangelo da me annunziato non è secondo l’uomo [= addomesticato perché piaccia all'uomo]», v. 11). Poi nega di avere ricevuto il Vangelo da uomini, e cioè dalla catechesi di qualche apostolo o di qualche comunità (v. 12a). Prima di Damasco infatti era accanito persecutore della Chiesa (vv. 13-14), e quindi di certo non era catecumeno. Dopo Damasco si è recato in Arabia senza salire a Gerusalemme per incontrare gli Apostoli (vv. 16b-17). Egli invece ha ricevuto il Vangelo “per rivelazione, – di’apokalypseos” (a Dio «è piaciuto rivelarmi il suo Figlio»). A questo scopo Dio lo ha selezionato «fin dal seno della madre» e lo ha «chiamato per grazia». Il tema della vocazione, quindi, qui è esplicito. Tutto questo in vista dell’annuncio ai pagani. In Gal 2,7-8 Paolo espliciterà il carattere particolare di questa sua missione mettendo a confronto il suo mandato ai gentili con quello di Pietro ai circoncisi.
In Gal 1 l’evento di Damasco è “apocalisse” o “rivelazione” a Paolo del Figlio, quale centro assoluto della storia salvifica (Gal 1,16a). È “apocalisse” o “rivelazione” dell’Evangelo o buona notizia che riguarda Gesù, e che Paolo ha ricevuto non dagli uomini ma direttamente da Dio (v. 12). Poi, è chiamata all’apostolato totalmente gratuita (v. 15b) e in nulla meritata. È chiamata all’apostolato dei pagani, come quella di Pietro è chiamata all’apostolato dei circoncisi (2,8). È chiamata profetica perché descritta con le parole della vocazione di Geremia (Ger 1,5: «Prima di formarti nel seno materno ti conoscevo… ti ho stabilito profeta delle nazioni»), o, ancora più, con le parole della vocazione del Servo di Adonay (Is 49,1: «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato ecc.»).

d. Quarto testo: Filippesi 3,2-14
Nella serena lettera ai Filippesi che è la lettera della gioia (cf. le 15 ricorrenze di “gioia”, e “gioire”), il cap. 3 è, invece, duramente polemico contro missionari probabilmente cristiani, sostenitori della circoncisione. Nella replica contro di loro Paolo inserisce due allusioni a Damasco: nel v. 3,7 e nel v. 3,12.
 La prima volta Paolo si confronta con il loro vanto: «Se qualcuno ritiene di potere confidare nella carne, io più di lui» (3,4). Paolo allora elenca prima tre motivi di vanto «nella carne» ereditati dalla nascita, e poi tre motivi di vanto conquistati personalmente: egli è

a. circonciso l’ottavo giorno
b. Israelita della tribù di Beniamino
c. Ebreo da ebrei [= fedele alla cultura, alla lingua, allo stile di vita]
a. quanto alla Legge, fariseo (= osservanza radicale della Legge),
b. quanto allo zelo, persecutore,
c. quanto alla giustizia (all’essere giusto davanti a Dio), irreprensibile.
All’inizio del v. 7 c’è un «ma» che segna la svolta del ragionamento e che introduce la prima allusione all’evento di Damasco: «… ma quello che poteva essere per me un guadagno l’ho considerato una perdita, a motivo di Cristo». Quel rovesciamento di valori è avvenuto a Damasco. La contrapposizione di guadagno e di perdita dice che a Damasco si è operato un capovolgimento di giudizio circa i privilegi storici e morali del giudaismo.
Passando a parlare del presente, Paolo conferma quella mutazione di prospettiva e la rafforza dicendo di considerare come perdita e sterco non solo i privilegi del giudaismo, ma “ogni cosa”, di fronte alla conoscenza superiore o sublime di Gesù Cristo (v. 8). Lasciando perdere ogni altro valore, ora Paolo cerca di conquistare il Cristo, di esperimentare la potenza della sua resurrezione, e la comunione alle sue sofferenze «con la speranza di giungere alla resurrezione dai morti».
Con queste parole Paolo è passato a parlare del futuro, ed è passato al secondo confronto coi suoi avversari. Sembra che dal testo di Filippesi si possa ricavare che essi si consideravano già perfetti, pienamente salvati e partecipi della resurrezione di Cristo. Paolo, servendosi dell’immagine della corsa nello stadio, dice di sé invece di essere ancora impegnato nella corsa: «Non però che io abbia già conquistato il premio o che sia oramai arrivato alla perfezione. Solo mi sforzo di correre per conquistarlo». E aggiunge il secondo riferimento a Damasco scrivendo: «…perché anch’io sono stato conquistato dal Cristo» (v. 12).
In Fil 3 Damasco per Paolo in qualche modo, se si vuole, è conversione, perché è capovolgimento di valori e di scelte morali. Per questo i Filippesi, che possono essere disorientati da un insegnamento nuovo e da modelli di vita sbagliati come quelli introdotti dagli avversari di Paolo, hanno un esempio nell’Apostolo. Egli infatti sente il bisogno di invitarli alla sua imitazione: «Fratelli, fatevi miei imitatori, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi» (v. 17). Il cambiamento di vita in Paolo è avvenuto a motivo del Cristo (v. 7) e a motivo della sublimità della conoscenza di Gesù Cristo (v. 8). L’espressione significa probabilmente, come in Gal 1, la rivelazione del Cristo a Paolo per apocalisse. Dunque, Damasco è conoscenza (data gratuitamente e poi lentamente assimilata) del Cristo quale valore assoluto che relativizza i privilegi di Israele e tutto. Per Paolo l’evento di Damasco significa infine essere stato afferrato e conquistato dal Cristo, per cui ora, a sua volta, egli cerca di conquistare lui e la resurrezione.

e. L’evento di Damasco, sintesi
La ricchezza spirituale e storica dell’evento di Damasco è evidente anche dal linguaggio (o dai linguaggi, al plurale) cui Paolo ricorre per parlarne. Di volta in volta Paolo utilizza il linguaggio della vocazione profetica, delle teofanie, dell’apocalisse o rivelazione escatologica, della conquista militare o della vittoria sportiva, della conversione o cambiamento nella scala dei valori.
Nei testi di Paolo l’insistenza sulla conversione morale, in ogni caso, non è così forte come nella nostra catechesi, nell’iconografia paolina, e come al 25 gennaio del nostro calendario liturgico. A Damasco Paolo non è un peccatore che ritrova i sentieri del bene: di sé stesso lui diceva infatti: «Quanto alla giustizia, quella che viene dalla Legge, [io sono] irreprensibile!» (Fil 3,6). Non è neanche una conversione da una religione a un’altra, perché Paolo considera Damasco come il momento in cui la sua fede di israelita giunge a maturazione e pienezza: si sente giudeo che fa il passo oramai necessario ad ogni giudeo. Tutt’al più, più che al cristianesimo Paolo si convertì dalla Legge mosaica al Cristo. Più che un convertito, Paolo fu un chiamato. E fu cercato da Dio più di quanto egli cercasse.
L’Apostolo scrive a distanza di circa 20-25 anni, e questo dice come anche a distanza di decenni l’incontro di Damasco fosse la sua stella polare, sia per capire sé stesso, sia per perseverare tra le difficoltà innumerevoli della sua corsa apostolica. Quello di Damasco fu l’evento che divise la vita di Paolo in due. Paolo stesso parla di quello che era prima e di quello che fu poi: dunque Damasco ha una assoluta centralità nella esistenza e nella teologia di Paolo. Davvero, dunque, la personalità di Paolo, il suo pensiero, le sue lettere, la sua travolgente corsa apostolica per tutta la mezzaluna mediterranea (voleva andare in Spagna, Rom 15,24.28)… si spiegano non a partire dal luogo di nascita, né dagli studi fatti alla scuola di un grande maestro del giudaismo, né dalla catechesi ricevuta dalle fervorose comunità delle origini, ma dall’incontro con Gesù Risorto. Un solo giorno ha segnato, illuminato e determinato tutta una esistenza.
Sempre di nuovo Paolo tornava all’evento di Damasco come alla segreta sorgente del suo apostolato e della sua perseveranza in mezzo alle difficoltà apostoliche e personali, egli che scrive: «battaglie all’esterno, timori al di dentro»! (2Cor 7,5). Si richiama a Damasco quando lo criticano a Corinto e in Galazia, quando a Filippi qualcuno è subentrato a rovinare il suo lavoro apostolico, e quando qualcuno si vanta di titoli umani e di grandezze non vere. E soprattutto si richiama a Damasco quando gli vogliono negare il titolo di apostolo. Damasco è la sua risorsa inesauribile per superare scoraggiamenti, incomprensioni, ostilità, debolezze ecc. e per rilanciare sé stesso nell’annuncio evangelico, nella fondazione di Chiese là dove il vangelo non era stato ancora annunciato (Rom 15,20), per lanciarsi alla conquista perfino dell’estremo occidente della Spagna…
Il pudore con cui Paolo custodiva questo suo personalissimo segreto, il riserbo e la discrezione con cui ne parlava quando era costretto a farlo, non precludono a noi la possibilità di gettare lo sguardo su quell’evento spirituale che ha lasciato un segno profondo nella storia cristiana e delle religioni. Ed è allora difficile non sentirci invitati a tornare anche noi, sempre di nuovo, con il pensiero e con la preghiera, alla nostra vocazione, qualunque essa sia, come alla sorgente della forza e della luce di cui abbiamo bisogno nella battaglia della vita e del servizio al Vangelo. La nostra chiamata diventa allora anche per noi sorgente di giovinezza e di generosità, si conferma come baricentro della nostra vita, e come il punto di Archimede poggiando sul quale possiamo sollevare almeno il piccolo mondo in cui ci troviamo a vivere.

2. I Appendice: sintesi a cura dell’ufficio catechistico delle ulteriori riflessioni al termine della relazione

Il prof. Biguzzi si è poi soffermato su quella che ha chiamato la “geografia apostolica di Paolo”. Paolo si è recato subito, dopo l’incontro con il Cristo risorto, in Arabia. Il riferimento va, forse, ad Is 60, ai versetti nei quali il profeta parla dei nabatei, di coloro che abitavano i territori circostanti Petra. Essi sono citati dal passo di Isaia prima delle navi di Tarsis, in un contesto nel quale si fa riferimento a Madian, a Efa ed a Kedar. Paolo si potrebbe essere recato in quelle regioni per annunciarvi il vangelo, in obbedienza all’antica profezia.
Ma, una volta incontrate con ogni probabilità in Arabia le prime difficoltà, si rivolse verso occidente, inviato da Antiochia come secondo rispetto a Barnaba, che deteneva la suprema responsabilità della missione. L’evangelista Luca, negli Atti, improvvisamente però inverte i due nomi e parla di Paolo e dei “suoi accompagnatori”. Evidentemente la leadership era passata da Barnaba a Paolo (At 13,13). In questo primo viaggio apostolico, comunque, Paolo visitò ed evangelizzò quello che si potrebbe chiamare l’ “occidente minore”, cioè centri di secondaria importanza, alcuni addirittura insignificanti.
È a partire dal secondo viaggio apostolico che Paolo si rivolse alle metropoli, alle capitali della provincia. Egli sceglieva alcune città e tutto lascia ritenere che, in esse, egli abbia attuato quella che si può ben chiamare una strategia “della primizia”: sceglieva cioè alcune persone capaci, a loro volta, di continuare l’evangelizzazione in altre città e regioni. Proprio con il titolo di “primizia”, rispettivamente dell’Asia e dell’Acaia, vengono salutati Epeneto (Rm 16,5) e la famiglia di Stefana (1Cor 16,15). Piantata la primizia, Paolo poteva essere certo che sarebbe arrivato anche il resto del raccolto.
È nota, a questo riguardo, la vicenda di Colosse, Gerapoli e Laodicea, che Paolo non visitò mai, pur scrivendo delle lettere a quelle comunità. In quelle città si era, però, recato Epafra, che aveva ricevuto il vangelo da Paolo stesso. Similmente si può fare riferimento alle “case” di Ninfa o di Filemone (Col 4,15 e Flm 2), evidentemente luoghi di incontro della comunità e di annunzio del Cristo. Viene in mente il riferimento al vangelo di Marco, dove l’evangelista parla del contadino che può andare tranquillamente a dormire, perché, conoscendo bene il proprio mestiere, sa che il seme crescerà e porterà frutto.
Paolo arriverà a scrivere di “aver finito”, avendo evangelizzato “a cerchio” da Gerusalemme fino all’Illirico (l’odierna Albania), non trovando così più spazio apostolico (Rm 15,19); egli aveva cioè piantato ovunque la primizia ed il vangelo poteva ormai compiere la sua corsa anche nei luoghi circostanti.
L’apostolo si pose in mente, allora, di raggiungere la Spagna; la penisola iberica è nominata due volte nella finale della lettera ai Romani (Rm 15,24 e 15,28). Non sappiamo se vi sia giunto (un recente convegno si è svolto in Spagna, precisamente a Tarragona, per cercare, ovviamente, di dimostrare che l’obiettivo era stato raggiunto).
Da Roma Paolo si aspettava probabilmente degli aiuti in denaro ed un traduttore per portare a compimento con efficacia la predicazione del vangelo fino all’estremo occidente. Si potrebbe ricordare qui un’antica espressione che recita: “gli altri vagavano, egli progrediva”! Viene spontanea la domanda: se avesse raggiunto la Spagna cosa avrebbe fatto poi? Forse, si può ipotizzare sulla linea del suo comportamento precedente, che si sarebbe recato ad evangelizzare l’Africa del nord.
Tutta questa fatica di evangelizzazione l’apostolo la sintetizza con l’espressione di Rm 15,16: “essere liturgo del Cristo fra le genti”. Egli sapeva di adempiere il “servizio sacro”, portando l’annunzio cristiano, perché “le genti potessero diventare un’offerta gradita a Dio”.
Il prof. Biguzzi ha ancora paragonato la centralità del rapporto con Cristo nella vita di Paolo all’espressione che Francesco d’Assisi utilizzerà per descrivere la propria fede: essa è pubblica, ma, al contempo, è custodita con grande pudore: “Secretum meum mihi”. Paolo torna sempre ad attingere a quella fonte, quando ha un problema. Più volte accenna, come si è visto, all’incontro sulla via di Damasco ma senza mai descriverlo compiutamente.
Riprendendo, allora, in estrema sintesi l’itinerario percorso nella sua relazione il prof. Biguzzi è tornato all’affermazione iniziale: Paolo ha una personalità complessa, ma non raccogliticcia. Egli ha piuttosto un centro che gli è servito per mettere in un ordine gerarchico tutti gli altri valori. L’incontro di Damasco – Paolo vi ritornerà fisicamente dopo l’Arabia, ma vi ritorna continuamente nello spirito – è veramente la chiave per comprendere la sua vita.

DALL’ABBASSAMENTO ALL’ESALTAZIONE IL PROFILO DI UN’IDENTITÀ (anche Fil 2, 6-11)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-15549?l=italian

DALL’ABBASSAMENTO ALL’ESALTAZIONE IL PROFILO DI UN’IDENTITÀ (anche Fil 2, 6-11)

ROMA, sabato, 27 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito ampi stralci della relazione pronunciata dell’Arcivescovo Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, monsignor Angelo Amato, in occasione del convegno diocesano su “Il Volto di Cristo: verità, via, vita”, tenutosi a Marina di Sibari (Cosenza), nei giorni 26 e 27 settembre.
 
* * *

L’identità di Gesù è professata apertamente nelle conclusioni della preghiera liturgica: «Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo figlio, che è Dio». La celebrazione liturgica della fede trinitaria riafferma la signoria di Cristo, sull’umanità, sulla storia, sul cosmo. Gesù è il Signore. Egli è l’essenza del cristianesimo. Non si tratta di una novità, né di una tradizione sorpassata. È semplicemente l’espressione eterna della fede ecclesiale in Gesù, il Signore.
Forse è utile dare uno sguardo fugace al contenuto biblico del termine «Signore», che non è, come nel nostro linguaggio ordinario, una semplice indicazione di gentilezza — «signor Presidente» o «signor Rossi» — ma implica, invece, una indicazione precisa dello statuto umano-divino di Gesù Cristo. L’appellativo «Signore» nella Sacra Scrittura in lingua greca viene espresso da due vocaboli: despòtes e kyrios.
Il termine despòtes indica colui che detiene il potere e l’autorità sia nella sfera familiare che in quella pubblica. Il despòtes è il padrone di casa e il proprietario dei suoi servi. Questo vocabolo viene usato raramente: nella traduzione greca dell’Antico Testamento circa sessanta volte e solo dieci nel Nuovo Testamento. Due volte despòtes a diretto riferimento a Gesù. Nella seconda lettera di Pietro, quando l’apostolo parla dei falsi profeti e dei falsi maestri, «che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore (despòtes) che li ha riscattati e attirandosi una pronta rovina» (2 Pietro, 2, 1). Una seconda volta il vocabolo appare nella lettera di Giuda, il quale mette in guardia i fedeli dalle infiltrazioni di individui empi, che rinnegano «il nostro unico padrone (despòtes) e signore (kyrios) Gesù Cristo» (Giuda, 4). Come si vede, il contesto è quello delle eresie cristologiche, e sembra che sia la lettera di Giuda la fonte del richiamo di san Pietro. Nei due casi, despòtes indicherebbe l’altissima sovranità di Gesù, il Signore, che non merita di essere contestato o rinnegato dai suoi fedeli, da lui sommamente beneficati e salvati. Per questo, bisogna evitare i traviamenti dottrinali dei cattivi maestri.
Il secondo vocabolo, kyrios, indica il signore che ha ed esercita un’autorità legittima e può disporre di sé e degli altri. Tale voce fu anche usata dagli imperatori romani (cfr. Atti degli apostoli, 25, 26). Di per sé il titolo non implicava l’affermazione della divinità dell’imperatore, che, tuttavia, esigeva onori divini. Per questo i cristiani si ribellavano a questa concezione. Nella traduzione greca dell’Antico Testamento, kyrios è frequentissimo — è attestato circa novemila volte — e nella maggior parte dei casi traduce il nome ebraico di Dio. Kyrios esprime l’elezione del popolo da parte di Dio e la sua liberazione dalla schiavitù egiziana. Il popolo è sua proprietà e Dio, oltre che creatore del mondo, è anche il legittimo Signore di Israele. Anche nel Nuovo Testamento kyrios è una voce che si trova spessissimo. Essa è presente in settecentodiciotto passi, la maggior parte dei quali in Luca (duecentodieci) e in Paolo (duecentosettantacinque).
Si possono ridurre a tre i significati di kyrios. Anzitutto c’è un uso profano, a indicare, ad esempio, il padrone, il proprietario di uno schiavo, il datore di lavoro, il marito. Un secondo uso riferisce kyrios a Dio, soprattutto nei richiami all’Antico Testamento. Dio è il signore, il creatore del mondo, il dominatore dell’universo e della storia. Un terzo uso, quello più frequente, fa riferimento a Gesù Cristo, sia al Gesù prepasquale sia al Cristo risorto e glorioso. In questo titolo è contenuto il riconoscimento della sua divinità e della sua signoria. Ad esempio, Gesù, in quanto kyrios del sabato (Matteo, 12, 8), dispone del giorno sacro a Dio. L’apostolo Paolo fa riferimento all’autorità delle parole di Gesù per risolvere definitivamente alcune questioni sorte nella comunità dei fedeli di Corinto: «Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito» (1 Corinzi, 7, 10). Ancora Paolo ricorda la tradizione concernente l’eucaristia, istituita dal Signore Gesù: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane (…)» (1 Corinzi, 11, 23). Importantissima è la formula liturgica prepaolina «Signore Gesù Cristo — Kyrios Iesoùs Christòs» (Filippesi, 2, 11). Si tratta verosimilmente della confessione di fede più antica della chiesa, che in tal modo celebra e supplica il Signore risorto, sottomettendosi a lui. È una invocazione che rivela una cristologia completa, tanto più stupefacente quanto più si consideri il fatto che, essendo una invocazione liturgica prepaolina, essa è presente pochissimi anni dopo la risurrezione di Gesù.
Rileggiamola così come ce la tramanda san Paolo, che, indirizzandosi ai cristiani di Filippi nella Macedonia greca, li esorta ad avere gli stessi sentimenti di umiltà che furono in Cristo Gesù:

«il quale, pur essendo
di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso, assumendo
la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso facendosi
obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni
altro nome;
perché nel nome
di Gesù ogni
ginocchio si pieghi
nei cieli,
sulla terra
e sotto terra;
e ogni lingua
proclami
che Gesù Cristo
è il Signore,
a gloria
di Dio Padre»
(Filippesi, 2, 6-11).

Si tratta della prima testimonianza esplicita della cosiddetta cristologia sviluppata o a quattro stadi, quella cristologia, cioè, che parla apertamente della preesistenza divina del Figlio, della sua incarnazione, della sua passione e morte e, infine, della sua risurrezione e glorificazione. Qui, la visione completa della realtà divina e umana di Gesù Cristo la si ha, anzi la si celebra liturgicamente, con un lessico inequivocabile, subito dopo la risurrezione.
La confessione cristologica della prima comunità cristiana è quindi chiara e completa sin dall’inizio e non è affatto frutto della sua tardiva riflessione credente. Pertanto, la cristologia sviluppata di san Giovanni, alla fine del primo secolo, non è altro che una tematizzazione articolata — condotta secondo il genere biografico «vangelo» — dell’inno liturgico prepaolino.
Insomma, l’affermazione «ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Filippesi, 2, 11) è la prima e piena professione di fede cristologica della comunità cristiana. L’invocazione «Gesù Signore» esprime l’identità cristiana nel suo nucleo più intimo ed essenziale, è il suo Dna. Gesù è il Signore, un nome che è al di sopra di ogni altro nome (Filippesi, 2, 9). Egli è il Signore dei vivi e dei morti (Romani, 14, 9). È il principe dei re della terra (Apocalisse, 1, 5). Egli è il Signore dei signori e il Re dei re (Apocalisse, 17, 14; 19, 16). Gesù, cioè, riceve gli stessi titoli di Dio, «beato e unico Sovrano, il Re dei regnanti e Signore dei signori, il solo che possiede l’immortalità, che abita una luce inaccessibile; che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere» (1 Timoteo, 6, 15-16). La confessione dell’apostolo Tommaso nel quarto Vangelo — «mio Signore e mio Dio» (Giovanni, 20, 28) — continuò a risuonare completa e chiara anche sulla bocca e nei cuori dei fedeli della prima ora.
L’apostolo Paolo è solito cominciare e terminare le sue lettere con il richiamo al Signore Gesù Cristo. Si veda, ad esempio, il saluto iniziale della lettera ai Romani e delle due lettere ai Corinzi: «Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo» (Romani 1,7; 1 Corinzi, 1, 3; 2 Corinzi, 1, 2). Il richiamo al Signore Gesù Cristo si ha anche negli incipit delle lettere ai Galati (1, 3), ai Filippesi (1, 2), ai Tessalonicesi (1 Tessalonicesi, 1, 1; 2 Tessalonicesi, 1, 1-2), a Timoteo (1 Timoteo, 1, 1; 2 Timoteo, 1, 1), a Filemone (3). Nella seconda lettera ai Tessalonicesi l’apostolo lo ripete con insistenza nei primi due versetti: «Paolo, Silvano e Timoteo alla chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre nostro e nel Signore Gesù Cristo: grazia a voi e pace da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo» (2 Tessalonicesi, 1-1). Lo stesso si dica per i saluti finali: «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi» (1 Tessalonicesi, 5, 28).
I primi cristiani proclamavano apertamente la fede nel Signore Gesù Cristo, il quale ha autorità sulla Chiesa, la fa crescere e conferisce autorità ai suoi pastori (cfr. 1 Tessalonicesi, 3, 22; 2 Corinzi, 10, 8; 13, 10). Egli è il Signore che dona la pace, la misericordia, l’intelligenza delle cose (2 Tessalonicesi, 3, 16; 2 Timoteo, 2, 7-16). Inoltre, la formula paolina «nel Signore» equivale a «nel Signore Gesù Cristo». È in lui che il cristiano vive, cammina, lavora, serve, muore, viene salvato. La vita cristiana è sostenuta dall’ancoraggio al Signore Gesù Cristo, alla sua presenza e alla sua opera salvifica. E la parusia, il giorno del Signore (1 Corinzi, 1, 8; 5, 5), non sarà altro che l’incontro col Signore Gesù, giudice e salvatore (2 Tessalonicesi, 1, 9; 2, 8; Filippesi, 3, 20): «Il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi, noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore» (1 Tessalonicesi, 4, 16-17).
Il titolo «Signore», attribuito a Gesù, indica in modo chiaro la sua divinità, che è quindi dato scritturistico fontale e non frutto di decisioni conciliari tardive. È Gesù il Signore, il Figlio divino del Padre celeste, il Verbo incarnato per la salvezza dell’umanità. È lui la parola definitiva del Padre, il maestro unico, il rivelatore universale.

[L'OSSERVATORE ROMANO - Edizione quotidiana - del 28 settembre 2008]

19 FEBBRAIO 1917 : DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XV AI SACRI PREDICATORI QUARESIMALISTI DI ROMA

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xv/speeches/documents/hf_ben-xv_spe_19170219_lenten-priests_it.html

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XV AI SACRI PREDICATORI QUARESIMALISTI DI ROMA

19 febbraio 1917

Ai dilettisimi Nostri figli, che nella imminente Quaresima dovranno annunziare la divina parola ai fedeli di Roma, Noi non facciamo torto ricordando che, nell’esercizio dell’importante ministero ad essi affidato, devono prendere a guida e modello l’Apostolo San Paolo. Camminando sulle orme del Dottore delle Genti, essi non potranno fallire a gloriosa meta, e, come San Paolo, fatti « vasi di elezione », anch’essi porteranno il nome di Gesù « dinanzi alle genti, ai re e ai figliuoli d’Israele » (Act., IX, 15).
Ma perché ai predicatori di Roma, quasi alla vigilia del giorno in cui dovranno intraprendere l’importante loro ministero in quest’Alma Città, perché ricordiamo che devono avere a guida e modello San Paolo? Non per altra ragione, o dilettissimi, se non perché desideriamo che, al termine della vostra predicazione in Roma, voi possiate ripetere con ogni verità ciò che San Paolo diceva dopo di aver predicato ai fedeli di Corinto: « Il mio parlare e la mia predicazione non furono nelle persuasive parole dell’umana sapienza, ma nella manifestazione di spirito e di virtù; Sermo meus et praedicatio mea, non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, sed in ostensione spiritus et virtutis » (I Cor., II, 4).
Da Atene il grande Apostolo era passato a Corinto, e per lo spazio di diciotto mesi aveva predicato al « popolo grande », che Iddio aveagli detto di avere in quella città, « quoniam populus est mihi multus in hac civitate » (Act., XVIII, 10); ma, essendosi poi recato ad Efeso, avea quivi ricevuto notizia di alcune divisioni suscitate nella chiesa di Corinto da falsi apostoli, e di vari disordini in essa introdotti dopo la sua partenza. A scagionarne se stesso, San Paolo giudicò opportuno dichiarare quale fosse stata la sua predicazione nell’Acaia, e fu in quell’occasione che, riferendosi appunto al ministero da lui compiuto in Corinto, scrisse le già citate parole: « Sermo meus et praedicatio mea, non in persuasibilibus humanae sapentiae verbis, sed in ostensione spiritus et virtutis ». È facile comprendere che con queste parole San Paolo indicava, per escluderlo, un indebito modo di predicare « non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis », e significava insieme, per dirla da lui tenuta, una conveniente maniera di ammaestrare il popolo « in ostensione spiritus et virtutis ». Ma se con queste parole il Dottore delle Genti dimostrava non imputabili alla sua predicazione i disordini suscitati in Corinto dopo la sua partenza dall’Acaia, riesce a tutti manifesto che Noi, augurando ai predicatori di Roma di poter ripetere, al termine della loro predicazione, le parole stesse di San Paolo, li scagioniamo fin d’ora da ogni responsabilità in tutto ciò che di meno giusto e di men retto potrà compiersi in Roma dopo la loro partenza da quest’Alma Città.
Voi, o dilettissimi figli, vorreste esserCi grati di avere addotto l’esempio di San Paolo per liberarvi previamente dal sofisma « post hoc, ergo propter hoc ». Ma Noi non sapremmo esimerCi dall’esporvi tutto il Nostro pensiero. Scrivendo da Efeso ai fedeli di Corinto, l’Apostolo faceva appello alla predicazione da lui tenuta in quella nobilissima città dell’Acaia, non solo per escludere che i disordini posteriormente suscitati potessero mai attribuirsi a quella predicazione, ma anche per dimostrare che dalla predicazione stessa erano stati anticipatamente condannati. Allo stesso modo, o dilettissimi, Noi vorremmo che di qualunque delitto o disordine che per avventura si dovesse lamentare in Roma dopo la prossima Pasqua, si potesse sempre affermare essere stato previamente sfolgorato dai predicatori della Quaresima del 1917. Il perché Ci sembra non dover riuscire inutile un più attento esame delle surriferite parole di San Paolo. Noi auguriamo che voi possiate farle vostre al termine della predicazione quaresimale, che ora state per intraprendere: nulla quindi è più naturale che la sollecitudine Nostra di farvene bene apprendere e meglio gustare il senso.
Cominciamo pertanto coll’osservare che, non senza motivo, l’Apostolo ha distinto le due forme di linguaggio da lui tenuto in Corinto, perché altra cosa è discorrere in privato, « sermo meus », e altra predicare in pubblico, « et praedicatio mea ». Ma, poiché nell’una e nell’altra San Paolo escluse l’indebito modo e dichiarò la maniera conveniente da lui tenuta, Noi dobbiamo rilevarne che il predicatore è anzitutto avvertito di non dover mirare solo « a far bene sul pulpito », ma anche ad osservare un lodevole contegno nel tratto familiare, che nei giorni della quadragesimale predicazione gli avvenga di dover usare con ecclesiastici e laici, con giovani e vecchi, con poveri e ricchi, con uomini e donne. San Francesco di Sales diceva che il vero carattere del Vescovo è conosciuto solo dai più intimi familiari di lui, e Noi vorremmo che lo zelo dei predicatori di Roma apparisse non solo negli elaborati discorsi che pronunzieranno dai pulpiti delle Nostre chiese, ma altresì nella gravità della loro condotta, nella loro pietà e devozione al santo altare, e specialmente nella carità e nella pazienza, onde li speriamo pronti ad accogliere chiunque faccia appello al loro ministero. Senza queste disposizioni dell’animo, non potrebbe appropriarsi la prima parola di S. Paolo « sermo meus » nemmeno chi, nel pubblico esercizio del sacro ministero, si accostasse in tal guisa all’Apostolo da poter fare sue le altre parole di lui.
Ma nel sacro oratore i fedeli considerano principalmente la missione pubblica, ossia l’esterno esercizio del ministero a lui affidato. Epperò, senza insistere ulteriormente sulla condotta privata, che voi dovrete osservare e che Noi non dubitiamo sarà in tutti lodevolissima, volgiamo piuttosto lo sguardo alla predicazione pubblica di San Paolo, per argomentarne quale dovrà essere la vostra.
Già abbiamo detto che l’Apostolo dichiara ad un tempo « ciò che non fu » e « ciò che invece è realmente stata » la sua predicazione in Corinto. Laonde, chiunque voglia conoscere l’indole vera della predicazione di San Paolo, deve porre mente così a ciò che l’Apostolo ne esclude come a ciò che egli addita in essa.
« Praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis », ecco « ciò che non fu» la predicazione di San Paolo ai Corinti. Si ingannerebbe chi credesse che l’Apostolo abbia voluto con queste parole significare disprezzo della scienza profana o della profana cultura, perché egli stesso in altra occasione, scrivendo ai medesimi fedeli di Corinto, ebbe a dire che, sebbene apparisse « rozzo nel parlare, non lo era però nella scienza; etsi imperitus sermone, sed non scientia » (II Cor., XI, 6). Ma, se non intendeva disprezzare la scienza profana, San Paolo voleva significare che su questa non aveva poggiato il suo insegnamento. Aveva egli a cuore di poter dire che la fede da lui istillata a quei di Corinto dovea posarsi sulla potenza di Dio in opposizione alla sapienza dell’uomo: « ut fides vestra non sit in sapientia hominum, sed in virtute Dei » (loc. cit., v. 5). Si comprende dunque agevolmente che, quando diceva « praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis », San Paolo escludeva gli argomenti dedotti dalle scienze profane ed escludeva altresì ogni forma di linguaggio, che fosse stata propria di un espositore di cose profane.
È d’uopo infatti non perdere di vista il nesso logico del discorso dell’Apostolo. Volendo dimostrare che non si doveano a lui attribuire i disordini che si erano lamentati a Corinto, egli aveva cominciato col rammentare che, quando si era colà recato, non si era punto presentato « con sublimità di ragionamento o di sapienza; veni non in sublimitate sermonis aut sapientiae ». Questa distinzione, fatta dall’Apostolo tra « la sublimità del ragionamento e quello della sapienza », Ci permette di dire che al memore sguardo di lui si presentavano in quel momento e la materia e la forma della sua predicazione, ed egli poteva affermare che né la forma erane stata sublime, « non in sublimitate sermonis », né ricercata o astrusa ne era stata la materia, « non in sublimitate sapientiae ». E che accennasse a sapienza profana quando escludeva di essersi presentato « in sublimitate… sapientiae », si deduce anche bene dalle parole che San Paolo soggiungeva: « Non enim iudicavi me scire aliquid inter vos nisi Iesum Christum et hunc crucifixum ». Se nel predicare ai fedeli di Corinto avea mostrato di non sapere altra cosa se non Gesù Cristo, ben chiaro apparisce che nessuno sfoggio dovette egli fare delle sue cognizioni di scienze profane. Anzi la cura di affermare che in mezzo ai Corinti si era diportato non solo come se null’altro avesse saputo che Gesù Cristo, ma ancora come se in Gesù Cristo null’altro avesse scorto che l’obbrobrio della croce, senza punto considerare i tesori di sapienza e di scienza infinita in Lui racchiusi, « nisi Iesum Christum et hunc crucifixum », deve persuaderci ognor meglio che, non le deduzioni della scienza del secolo, ma i princìpi della sapienza del Vangelo dovette scegliere l’Apostolo ad argomento della sua predicazione ai fedeli di Corinto. Qual meraviglia pertanto che ad esprimere il disegno dell’opera sua San Paolo cominciasse coll’escluderne i portati dell’umana sapienza: « Sermo meus et praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis »?
La meraviglia si avrebbe se i predicatori dell’età nostra mettessero in oblio un così autorevole esempio. Il fine da essi inteso non è diverso da quello a cui mirava l’Apostolo nell’evangelizzare il regno di Gesù Cristo; ma se essi pretendessero raggiungere un tal fine, sia coll’annunziare o difendere tesi profane, sia col portare sul pulpito vane critiche di storia o inutili disquisizioni di politica e di diritto pubblico o privato, Noi non sapremmo astenerCi dal ricordar loro che la predicazione di Colui che essi devono tenere a modello non fu « in persuasibilibus humanae sapientiae verbis ». È inutile dire che nel Nostro ricordo sarebbe implicita la più aperta disapprovazione della loro audacia. E non isfuggirebbero la Nostra disapprovazione nemmeno coloro che, dopo di avere scelto convenientemente i temi delle loro prediche, si illudessero poi di provarli con argomenti profani a preferenza delle ragioni che, come da ricche miniere, potrebbero dedurre dai Libri santi e dalle dotte lezioni dei Padri e dei Dottori della Chiesa. Anche a costoro Noi vorremmo ricordare che San Paolo non si è presentato ai fedeli di Corinto « in sublimitate… sapientiae ».
L’Apostolo non si presentò nemmeno « in sublimitate sermonis »; epperò alieno dall’esempio di San Paolo, anzi contrario ad esso, Noi vorremmo dire il linguaggio di chi, per soverchia ricercatezza di parole o per troppo eccelsi voli di fantasia, non permettesse al volgo di accogliere i suoi insegnamenti. Nelle parole di San Paolo: « in sublimitate sermonis », forse è indicata anche la forma del dire o la maniera del porgere, e poiché il gran Maestro dei predicatori dice di non essersi presentato « in sublimitate sermonis », chi potrà tollerare che i predicatori dell’epoca nostra usurpino ai tribuni la foga del dire e si mostrino così accesi nel volto, così irruenti nella parola, così smaniosi nel gesto da degradarne le scene del teatro? A voi, dilettissimi figli, non vogliamo celare la Nostra amarezza: il Nostro cuore è stato trafitto dalla voce di chi, non ha guari, Ci diceva che alcuni predicatori ai dì nostri non rifuggono da queste forme teatrali perché il popolo sembra gradirle. Fosse anche vero che tale apparisse ai dì nostri il gusto di molti fra quei che vanno a predica, i sacri oratori, che tengono San Paolo a modello, lungi dal secondare un tal gusto, dovrebbero condannare chiunque ha contribuito a corromperlo in così orribile guisa. E non vi ravvisano essi le « persuasive della umana sapienza »? Non ricordano che San Paolo ha detto: « praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis »? Ricordatelo almeno voi, o dilettissimi, affinché la vostra predicazione in Roma non differisca da quella dell’Apostolo: non sia ciò che la predicazione di San Paolo non fu.
Ma in un quadro non basta l’assenza di macchie, è necessario altresì il positivo concorso di bei lineamenti: epperò a poter bene apprezzare la predicazione di San Paolo, dopo di aver riconosciuto ciò che essa non fu, è d’uopo studiare anche ciò che essa realmente è stata. Noi avventuratissimi! lo abbiamo appreso dalla bocca dello stesso Dottor delle Genti, il quale, dopo di aver detto di non aver predicato ai Corinti con le persuasive parole della umana sapienza, ha soggiunto di averlo bensì fatto « nella manifestazione di spirito e di virtù; sed in ostensione spiritus et virtutis». Queste parole, al dir di San Tommaso, hanno certamente il senso di affermare che ai credenti nella predicazione di San Paolo era dato lo Spirito Santo, appunto come gli Atti degli Apostoli ricordano di coloro che ascoltavano le parole di San Pietro: « adhuc loquente Petro verba haec, cecidit Spiritus Sanctus super omnes qui audiebant verbum » (Act., X, 44). E del pari può dirsi con lo stesso Angelico Dottore che la predicazione di San Paolo era « manifestazione di virtù », perché non di rado era seguita da miracoli (Marc., XVI, 20), in adempimento delle divine promesse: «Domino cooperante et sermonem confirmante, sequentibus signis » (S. Thom., Comm. in Ep. S. Pauli). Ma richiamate, o dilettissimi, un’altra volta il pensiero allo scopo a cui mirava direttamente San Paolo quando indirizzava la sua prima lettera ai fedeli di Corinto. Voi non indugerete a riconoscere che in bocca all’Apostolo il più forte argomento per condannare i disordini introdotti a Corinto doveva essere l’opposizione, diciamo meglio, la contraddizione di essi agli insegnamenti da lui dati nei diciotto mesi della sua dimora in Acaia. Quei disordini costituivano un’aperta violazione delle leggi da lui proclamate ed imposte, per divina missione, ai novelli seguaci della religione cristiana; erano un pratico disprezzo di quelle virtù, che egli aveva additato prezioso e necessario corredo dei discepoli di Gesù Cristo. Nessuna cura perciò avrebbe potuto essere più naturale, nessun ammonimento più opportuno, che il richiamare i fedeli di Corinto allo spirito cristiano da lui inculcato e alla cristiana virtù da lui raccomandata nei giorni della sua predicazione in mezzo ad essi: epperò « praedicatio mea … in ostensione spiritus et virtutis », ecco la parola di San Paolo che, succedendo a quella onde siamo ammaestrati su ciò che la predicazione di lui non fu, ci insegna pure ciò che essa realmente è stata.
Credereste voi però che la predicazione di San Paolo sia stata « manifestazione di spirito cristiano e di cristiana virtù » solo per i primi fedeli di Corinto? Ah! voi non ignorate, dilettissimi figli, che tale dev’essere anche la predicazione di tutti coloro che aspirano a camminare dietro le orme del Dottor delle Genti. Riflettete perciò che la vostra predicazione in quest’Alma Città non sarà simile a quella di Colui che avete scelto a vostra guida e modello, se anch’essa non sarà « in ostensione spritus et virtutis ». Lo spirito del cristiano consiste nel riconoscere Iddio come nostro Padrone assoluto e come nostro Sovrano Legislatore. A questo spirito si informano la fedeltà del servo, la sottomissione e l’obbedienza del suddito. Oh! intendete dunque bene, dilettissimi figli, che nell’imminente Quaresima dovrete anzitutto difendere i diritti di Dio sulle creature, non allontanandone il pensiero se non per insistere sui doveri delle creature stesse verso Iddio. Tutto ciò che accade nel mondo dev’essere spiegato alla luce della fede. Questo ammirabile lume, per non accennare che ad una parte dei suoi insegnamenti, ci fa comprendere che le private sventure sono meritati castighi, o almeno esercizio di virtù per gli individui, e che i pubblici flagelli sono espiazione delle colpe onde le pubbliche autorità e le nazioni si sono allontanate da Dio. I sacri oratori che, ad imitazione di San Paolo, vogliano rinnovata nel mondo la manifestazione dello spirito cristiano « in ostensione spiritus », devono dunque esortare i fedeli a ricevere dalle mani di Dio così le private sventure come i pubblici flagelli, senza punto mormorare contro la Divina Provvidenza, ma procurando di placare la Giustizia Divina per le colpe degli individui e delle nazioni.
Lo spirito del cristiano deve inoltre riconoscere in tutti gli uomini altrettanti fratelli, creati ad immagine e somiglianza dello stesso Dio, redenti tutti dal Sangue divino e tutti incamminati alla stessa patria del cielo. Or chi tenga ciò presente non può dimenticare che la carità è il vincolo che unisce tutti gli uomini, epperò il sacro oratore deve « in ostensione spiritus » cantare le glorie di questa regina delle cristiane virtù, senza permettere che l’uman cuore accolga sentimenti di odio e di vendetta, nemmeno quando per avventura si tratti della difesa di cari interessi o di antichi diritti.
Non vi rechi meraviglia, o carissimi, che un lieve accenno sullo spirito del cristiano Ci abbia naturalmente condotti ad entrare nel campo della cristiana virtù. È così intimo il nesso fra le due cose, che anche San Paolo diceva la sua predicazione non essere stata solo « nella manifestazione dello spirito; in ostensione spiritus », ma anche in quella della virtù, « in ostensione spiritus et virtutis ». E non è l’idea del figlio congiunta a quella del padre? il ricordo del padre non trae seco quello del figlio? Non altrimenti il sacro oratore alla dimostrazione della vera essenza dello spirito cristiano deve far succedere l’indicazione della cristiana virtù, che trae da quella la sua forza, anzi l’origine sua.
Vorremmo dire l’importanza di quest’ultima parte della sacra predicazione. Ma certamente voi già Ci avete prevenuto, o dilettissimi figli: senza dubbio il cuor vostro si apre già alla speranza del frutto, che dovrà essere il miglior premio delle vostre fatiche nell’imminente Quaresima. E dovremmo Noi rammentarvi che questo frutto sarà tanto maggiore quanto più sollecita cura voi porrete nell’indicare in concreto la particolare virtù, che i vostri ascoltatori dovranno praticare, in conformità degli insegnamenti da voi ricevuti? San Paolo — già l’abbiamo detto — non si limitava all’« ostensione spiritus », ma passava anche a quella « virtutis ». Oh! i predicatori di Roma non facciano dissertazioni accademiche, ma discorsi morali ed esortazioni alla pratica delle virtù; non si contentino di dar gusto agli orecchi, ricordino di dover giovare all’anima. E all’anima gioveranno se, dopo di avere convenientemente illustrata una verità cattolica, additeranno ai fedeli le pratiche conseguenze che da quella cattolica verità devono trarre per il miglioramento della loro vita individuale, per il più savio indirizzo della famiglia e per il più sicuro avviamento della società ad un verace benessere.
Una dolce e cara fiducia pervade l’anima Nostra e di soave letizia la inonda in questo istante: è la fiducia che appunto così, « in ostensione spiritus et virtutis », voi, o dilettissimi figli, predicherete in Roma nella imminente Quaresima. Da Roma si irradia la fede; esce da Roma la parola che corregge gli abusi: oh! parta pure da Roma l’impulso a restituire alla sacra predicazione la forma apostolica: « sermo meus et praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, sed in ostensione spiritus et virtutis ».
Al Nostro augurio, che i predicatori di Roma possano al termine della Quaresima ripetere ed appropriarsi queste parole di San Paolo, sono interessati in particolar modo i parroci di quest’Alma Città, perché essi, i quali devono attendere tutto l’anno alla istruzione dei loro fedeli, naturalmente desiderano che questi non abbiano gusti depravati in ordine alla sacra predicazione. A Noi dunque si uniscano i parroci di Roma, che con piacere salutiamo ora adunati alla Nostra presenza sotto l’amorosa guida del Nostro Cardinale Vicario, si uniscano a Noi nel pregare il Signore a rendere conforme a quella di San Paolo la predicazione dei quaresimalisti di Roma nel 1917, perché quanto più sarà apostolica, altrettanto più sarà efficace. Che se all’appagamento del Nostro voto manca ancora qualche cosa, Noi preghiamo il Signore di supplirvi coll’abbondanza della grazia, che copiosa invochiamo da Lui nell’impartire ai predicatori e ai parroci di Roma, nonché a quanti ora Ci fanno gradita corona, l’Apostolica Benedizione.

IL FRUTTO DELLO SPIRITO E’ L’AMORE (Paolo presenta l’amore come…)

dal sito:

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/2002-2003/Il_frutto_dello_Spirito_%E8_l’_amore.html

IL FRUTTO DELLO SPIRITO E’ L’AMORE
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Paolo presenta l’amore come frutto dello Spirito, cioè come il risultato dell’agire dello Spirito Santo in noi. Nella Lettera ai Galati, dopo aver elencato alcuni atteggiamenti tipici che emanano dall’amore, conclude dicendo: “contro queste cose non c’è legge”. Il motivo è chiaro: l’amore, e tutto ciò che emana dall’amore1, è al di sopra di ogni legge. L’amore supera la legge, non è soggetto a nessuna legge. Dice infatti Gesù che dall’amore di Dio e del prossimo dipende tutta la legge (Mt 22,40). E Paolo, riecheggiando la parola di Gesù, afferma: “Tutta la legge trova la sua pienezza in una sola parola: «Amerai il prossimo tuo come te stesso»” (Gal 5,14). È grande l’importanza di queste affermazioni. Esse costituiscono un criterio che mette sotto giudizio ogni legge formulata dall’uomo. Ogni legge è valida, è giusta, è vera solo se emana da un sincero amore per ogni uomo; non lo è quando crea o tende a sostenere tradizioni in cui tanti si sentono emarginati.
Per capire meglio tutto ciò, è necessario valutare un po’ il senso della parola “amore”. Oggi c’è un’inflazione galoppante di questa parola e tante, troppe volte, è un puro sinonimo di “erotismo”, che non proviene certamente dallo Spirito, ma dalle opere della carne che si manifestano nell’impurità, nel libertinaggio, nelle orge (Gal 5,19s), nell’esaltazione dell’IO. Ci troviamo in un campo totalmente profano, che la Bibbia ben conosce, tanto che ha imposto delle chiare scelte ai primi traduttori, cioè a coloro che ci hanno dato la cosiddetta Bibbia dei Settanta. La domanda che si ponevano era: “Come inculturare la fede biblica nel mondo greco?”. Si misero all’opera e lo fecero con grande saggezza. Si distanziarono in modo chiaro da una cultura in cui l’Eros era il massimo dell’estasi e della comunione con il divino e scelsero da essa il verbo, se così possiamo dire, più banale per poi colmarlo dell’altissimo significato religioso che ha nella Bibbia. Il verbo scelto è agapân da cui proviene la parola agápê. Il verbo allora significava semplicemente essere contento, accogliere, salutare, vedere di buon occhio e, a volte, preferire. I primi traduttori se ne servirono per indicare quell’amore che si irradia da Dio, l’amore del potente che solleva l’umile e lo innalza al di sopra degli altri, l’amore diffusivo, attivo che vuole il bene dell’altro, non centrato sull’IO, ma sul TU, perché Dio ci vuole sempre come dei TU di fronte a lui.
Esaminiamo in sintesi il senso dell’amore, nell’Antico Testamento prima e nel Nuovo poi, e scopriremo come la Rivelazione è colma di amore.

Antico Testamento

Il verbo ebraico che viene tradotto con “amare” e la parola “amore” esprimono tutto ciò che ancora oggi si dice con questi due termini. Con essi l’Antico Testamento indica l’amore fondamentale che spinge a “far dono di sé alla persona amata”. Non c’è amore se non c’è un TU. L’amore è una forza spirituale inspiegabile, connaturata alla persona. In esso possiamo distinguere un carattere profano o immanente e uno religioso e teologico, anche se sono le espressioni amorose del primo tipo (rapporti fra i sessi, fra i genitori e i figli, fra gli amici) che ci permettono di risalire a quelle del secondo tipo e di misurarne la portata nel campo religioso e teologico.
In questo secondo campo, l’idea di “amore” esprime nel popolo d’Israele le relazioni con il Dio dell’Alleanza ed è chiaro che l’amore di Dio precede l’amore dell’uomo o del suo popolo. Dio ha amato i padri (cioè Abramo, Isacco e Giacobbe), ha scelto la loro posterità, l’ha fatta uscire dall’Egitto e con essa ha stabilito la sua Alleanza (Dt 4,37; 5,3). Il libro del Deuteronomio (c. 5) elenca le norme dell’Alleanza, le Dieci Parole o Comandamenti, ma si ha l’impressione che l’autore senta che le relazioni con Dio non si possono stabilire come Legge, sono relazioni di amore, perché la risposta umana all’amore può solo fondarsi sull’amore che supera ogni legge. E allora insegna ad agire come si suole agire per amore e dice: “Amerai il Signore, Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze” (Dt 6,4). Il “tutto”, ripetuto con forza tre volte, fa capire che l’autore ci esorta a impegnare la totalità dell’energia che è in noi per far sorgere dal sentimento di amore una convinzione che regoli tutto il nostro modo di vivere. In pratica ci dice che per vivere in pienezza il nostro rapporto con Dio dobbiamo impiegare tutta la nostra personalità (cuore e anima). Ed è solo da questo rapporto di amore con Dio, che nasce il rapporto di amore con i propri simili: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18), un comandamento che viene dato per “imitare Dio”, per essere “santi come Dio è santo” (Lv 19,2). La deduzione è evidente: se amo Dio, debbo, in sintonia con Dio, amare il prossimo.
Nel capitolo 19 del libro del Levitico la parola “prossimo” indica l’essere umano che più mi è vicino spiritualmente e materialmente; certamente i parenti, i connazionali, ma anche l’ospite (Lv 19,34), e persino il nemico (Es 23,4). Il testo più espressivo è quello di Prv 25,21: “Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere”.
Sono pochi accenni ma sufficienti per affermare che ci sono tutte le premesse per passare alla definitiva rivelazione in Cristo Gesù.

Nuovo Testamento

Nella prima Lettera di Giovanni si legge: “Noi amiamo perché Dio ci ha amati per primo” (4,19); e subito si aggiunge: “Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede… Chi ama Dio, ami anche suo fratello” (4,20s). È quanto ci ha già insegnato il libro del Levitico (c. 19): l’amore, dono di Dio, è diffusivo ed è imitazione di Dio. La novità è che ora noi possiamo imitare Dio, perché c’è in noi la capacità di vivere questo amore del fratello, del prossimo. Dio infatti “ha effuso il suo amore nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).
Una deduzione è qui inevitabile: l’amore che sentiamo per Dio è un “dono di Dio” che può essere vissuto solo con la forza dello Spirito Santo che è in noi. Solo così possiamo amare come Dio ci ama; e possiamo ripercorrere quella via che Paolo chiama: la via migliore, la via dell’amore (1 Cor 13); e possiamo anche parlare dell’amore come “frutto dello Spirito”.
È bella la parola “frutto”! Suona come un invito a gustare, ad assaporare, a sperimentare l’amore che Dio ha per noi e che ci è donato in Cristo per mezzo dello Spirito. Chi davvero lo vive sperimenta in sé un’onda di gioia divina, che lo porta ad aprirsi, in sintonia con Dio, agli altri, a sentirsi capace di comunicare al prossimo il bene che lo riempie, procurandogli godimento e gioia. L’amore, dono di Dio, non annulla l’amore umano insito nella natura; lo sublima impedendogli di essere centrato sull’IO e rendendolo dono totale alla persona amata fino al sacrificio. L’amore umano è vero solo se è rivolto a un TU. E se è impossibile vivere da soli il vero amore umano, tanto più impossibile è vivere da soli l’amore di Dio che ci viene donato dallo Spirito: bisogna donarlo! L’amore esige sempre l’altro cioè il prossimo.
Ne abbiamo già parlato, citando il Levitico; ora però dobbiamo ascoltare Gesù, rivelazione piena dell’amore del Padre, perché porta alla perfezione l’insegnamento antico. Quando un maestro della Legge gli chiese: “Chi è il mio prossimo?”, Gesù, raccontando la “Parabola del Buon Samaritano”, non gli risponde con la classifica che abbiamo riportato sopra (parenti, genitori-figli, l’ospite, il nemico), ma capovolge la domanda e sovverte l’antica gerarchia imperniata sull’Io. Gesù istituisce una nuova gerarchia al centro della quale c’è il Tu. È qualcosa di estremamente concreto che si realizza intorno all’uomo che soffre. Colui che si trova per caso più vicino a colui che soffre ha verso di lui i doveri del “prossimo”: deve diventare lui “prossimo” dell’altro; non deve chiedersi: “Chi è il mio prossimo?”, ma chiedersi: “Come faccio a diventare prossimo di chi è nel bisogno?”. La risposta è semplice: Avvicinandomi aiutandolo, anche se si tratta di un “nemico”.
Nemico è chi si sente separato da me, anche se vicino; nemico è colui che non mi ama, che mi perseguita. Ebbene, Gesù, superando anche qui la logica antica: “Fu detto agli antichi, ma io vi dico…”, vive egli stesso questo suo insegnamento, rendendosi ospite, “prossimo”, di coloro che gli tendono un tranello; e lo fa mettendosi a tavola con loro, cercando di dialogare con loro e pregando per loro (Lc 5,29-3l; 14,1-6; 23,34). Gesù fa dell’amore per i nemici l’atteggiamento che i membri del nuovo popolo eletto devono tenere verso i figli di questo mondo. Essi devono amare senza pensare di essere ricambiati, prestare anche quando sanno che non vi sarà restituzione, dare senza riserve e senza limiti. Essi devono accollarsi l’ostilità del mondo senza opporre resistenza e con spirito di sacrificio (Lc 6,28). Siamo nel campo dell’assoluta gratuità. L’amore che Gesù ci insegna è infatti donazione totale di sé all’altro senza cercare gratificazioni. Questo è amare come Dio ci ama. È Dio che ha annullato la distanza tra noi e lui e nel Figlio lo ha fatto in modo perfetto. La perfezione di questo amore sta nell’annullare ogni distanza nel farsi prossimo, nel diventare prossimo.
Ci sono tanti modi per farlo. Basta ascoltare Gesù quando dice: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare avevo sete e mi avete dato da bere…”. Ci sono tanti modi per vivere l’amore. L’amore infatti ha tanti nomi: dove c’è fame l’amore è pane; dove c’è solitudine, l’amore è compagnia, dove c’è emarginazione, l’amore è comunione. L’amore ha tanti nomi, ma è l’altro, la situazione dell’altro, che mi dice quale nome deve avere il mio amore.
Gesù cerca il bene di tutti. In Gesù l’amore è, come dice Paolo, pazienza, benignità, benevolenza, sopportazione… Chi fissa lo sguardo su Gesù, si accorge che l’amore dell’altro è rivelazione del vero volto di Dio. Paolo contemplando Gesù in croce dice: “Perché mi amava ha dato la sua vita per me”. La vita di Gesù è dono totale di sé agli altri sino al supremo sacrificio. Gesù insegnandoci con l’esempio ad amare ci vuole guarire dentro, vuole guarire il nostro cuore perché sia sempre in sintonia con il suo e con quello del Padre. Tale è il significato delle sue parole: “Amatevi come io vi ho amato”. Solo così si può rivelare il vero volto di Dio e solo così, vivendo di speranza e di fede, si può vivere un amore che è eternità.
Sì, un amore che è eternità. Perché nel mondo futuro la fede sarà assorbita dalla visione, la speranza dal possesso del bene sperato e solo l’amore rimarrà per sempre, perché l’amore è Dio.

Preghiamo

O Padre che ci hai amati nel Figlio tuo e che in lui ci hai insegnato a vivere quell’amore che viene da te, continua a effonderlo nel nostro cuore e donaci sempre la forza del tuo Spirito, solo così riusciremo ad amare in te ogni persona. È grande la fiducia che hai in noi, o Padre. Tu ci doni ideali immensi che assorbono la totalità delle nostre forze. Questo a volte ci spaventa. Ma poi ascoltando il Figlio tuo comprendiamo che si tratta di compiere un cammino. Il Figlio tuo ci fa coraggio quando ci dice: “Sforzatevi!”. Egli esige solo che ci sforziamo ogni giorno nell’imitarlo, amando gli altri come egli ci ha amati e nel rivelare, vivendo nell’amore, il tuo vero volto, o Padre. Che la gioia dell’amore che ci ha insegnato sia sempre in noi. Amen!

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