Archive pour la catégorie 'LETTERE PAOLINE E DEUTERO PAOLINE (da più lettere)'

COLLEGIO « SAN PAOLO APOSTOLO » – GIOVANNI PAOLO II (San Paolo)

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1981/documents/hf_jp-ii_hom_19810124_visita-collegio-san-paolo_it.html

(ho cercato : « il timore di Dio in San Paolo » e tra gli altri risultati il motore di ricerca mi ha dato questo)

VISITA AL PONTIFICIO COLLEGIO MISSIONARIO INTERNAZIONALE « SAN PAOLO APOSTOLO »

OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II

Cappella del’Istituto

Sabato, 24 gennaio 1981

Carissimi Sacerdoti!

1. È per me una grande gioia potermi oggi incontrare con voi, in questo Collegio dedicato a san Paolo Apostolo, dove avete la vostra dimora, mentre frequentate l’Università di “Propaganda Fide”, per sviluppare e completare i vostri studi filosofici e teologici e la vostra preparazione pastorale. Nelle visite, che sto compiendo ai vari Istituti e Atenei della Città di Roma, non poteva e non doveva mancare, nella circostanza così singolare della festa del Collegio, questo incontro con voi, che venite da ogni parte del mondo e che portate qui, nel centro della Cristianità, le caratteristiche e le ansie dei vostri popoli e delle vostre culture.
Accogliete perciò il mio saluto cordiale e affettuoso, che si rivolge prima di tutto al Cardinale Prefetto e al Segretario della Sacra Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, ai Superiori e ai Responsabili del Collegio, e si estende poi a ciascuno di voi personalmente, comprendendo anche tutti coloro che collaborano in varie mansioni per il buon andamento della casa e della vita in comune. È un saluto che vuole esprimere compiacimento e apprezzamento per la buona volontà che dimostrate nel vostro impegno di studio e di aggiornamento, per un più efficace ministero adatto alle esigenze della società, e per un aiuto illuminato e concreto alle Comunità ecclesiali delle vostre nazioni e delle vostre diocesi. Ed è un saluto che intende anche manifestare la mia riconoscenza per la vostra fedeltà alla Sede Apostolica e per le preghiere che offrite per la mia persona e per la mia missione universale.
2. Desidero però che l’odierno incontro attorno all’altare, celebrando il Sacrificio eucaristico, divenga per tutti voi anche uno stimolo ad una vita sacerdotale sempre più santa e ad un impegno sempre più responsabile nei vostri studi e nei vostri ideali. E proprio le letture della liturgia si prestano ad alcune riflessioni di notevole importanza per tale scopo.
Nella prima lettura abbiamo sentito ciò che il Signore dice per mezzo del profeta Isaia: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,10-11). Sono espressioni ben note, che hanno fatto riflettere i Padri e i Dottori della Chiesa, i santi e i mistici di tutte le epoche e che destano impressione anche nei nostri animi, perché affermano l’assoluta potenza ed efficacia della Rivelazione di Dio: nessun ostacolo o rifiuto umano può fermarla o spegnerla. Noi sappiamo che la “Parola di Dio”, nella pienezza dei tempi, si è incarnata: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio… E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,1.14) ed è rimasta presente nella storia umana per mezzo della Chiesa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). La “Parola di Dio” è sempre efficace, perché prima di tutto mette in crisi la ragione umana: le filosofie semplicemente razionali e temporali, le interpretazioni solamente umanistiche e storicistiche, sono sconvolte dalla “Parola di Dio”, che risponde con suprema certezza e chiarezza agli interrogativi posti al cuore dell’uomo, e lo illumina circa il suo vero destino, soprannaturale ed eterno, e gli indica la condotta morale da praticare, come autentica via di serenità e di speranza. Non solo: la “Parola di Dio” dà “luce” e “via”, si fa vita di grazia, partecipazione alla stessa vita divina, inserimento nel misterioso ma reale dinamismo della redenzione dell’umanità. Infatti Gesù si definì “luce del mondo”: “Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me, non rimanga nelle tenebre” (Gv 12,46) e vita delle anime.
Forti di questa certezza che viene da Dio, bisogna avere il coraggio della sua Parola! Nessuna paura della Verità: la “Parola di Dio” è sempre efficace, non è inerte, non è mai sconfitta, non torna a Dio umiliata e delusa! E allora, vi dico con san Paolo: “Comportatevi come figli della luce” (Ef 5,8). Certamente, la “Parola di Dio” è sconvolgente perché, dice il Signore: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8); mette in crisi, perché è esigente, è affilata come spada a doppio taglio, è basata non su discorsi persuasivi di umana sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza (cf.1Cor 2,4-5). “Nessuno si illuda – scriveva san Paolo ai Corinzi –. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio… Quindi nessuno ponga la sua gloria negli uomini!” (1Cor 3,18-19.21). C’è infatti una falsa sapienza che può tentare e illudere, confondendo e facendo diventare presuntuosi. Commentando l’affermazione: “Rendiamo a Dio un culto a lui gradito, con riverenza e timore, perché il nostro Dio è un fuoco divoratore (Eb 12,28-29), il Cardinale Newman, un appassionato di san Paolo, così diceva: “Il timore di Dio è il principio della sapienza; fino a quando non vedrete Dio come un fuoco consumatore, e non vi avvicinerete a Lui con riverenza e con santo timore, per il motivo di essere peccatori, non potrete dire di essere nemmeno in vista della porta stretta… Il timore e l’amore devono andare insieme; seguitate a temere, seguitate ad amare fino all’ultimo giorno della vostra vita. Questo è certo; dovete però sapere che cosa vuol dire seminare quaggiù nelle lacrime se volete mietere in gioia nell’al di là” (Card. Newman, Parochial and Plain Sermons, Vol. I, Serm. XXIV; cf. J. H. Newman, La mente e il cuore di un grande, Bari 1962, p. 230).
3. Nella seconda lettura, il celebre episodio della conversione di san Paolo, da lui stesso narrato agli Ebrei di Gerusalemme, è ugualmente denso di insegnamenti per la vostra vita sacerdotale. Sulla via di Damasco, caduto nella polvere, san Paolo viene abbacinato dalla luce sfolgorante di quel Gesù che egli perseguita nei cristiani; ne segue la sua conversione immediata e decisiva, evidente opera miracolosa della grazia di Dio, perché Paolo doveva essere il primo autorevole interprete del messaggio di Cristo, divinamente ispirato. Il Divino Maestro gli comanda di alzarsi e di proseguire il cammino; e da quel momento, si può dire, san Paolo diventa nostro maestro e guida nel conoscere ed amare Cristo.
Ma soprattutto devono interessarci e farci meditare le parole del giusto Anania: “Il Dio dei nostri Padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca, perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito” (At 22,14-15). Queste parole si possono applicare anche ad ogni sacerdote, ministro di Cristo. Anche voi siete stati scelti, anzi predestinati dall’Altissimo a conoscere la “Parola di Dio”, a incontrarvi con Cristo, a partecipare agli stessi suoi poteri divini, per annunziarlo e testimoniarlo davanti a tutti gli uomini. Come Paolo, convertito alla verità, si gettò con ardente fervore nella sua missione di apostolo e di testimone, e nessuna difficoltà riuscì più a fermarlo, così fate anche voi. Il mondo ha bisogno di anime fervorose e ardimentose, umili nel comportamento, ma ferme nella dottrina; generose nella carità, ma sicure nell’annunzio; serene e coraggiose, come Paolo, che in mezzo a difficoltà e contrasti di ogni genere, sovrabbondava di gioia in ogni sua tribolazione, perché per lui vivere era Cristo e morire un guadagno (cf. 2Cor 7,4; Fil 1,21).
L’Evangelista san Marco riferisce le ultime parole di Gesù, categoriche e imperative: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo; ma chi non crederà, sarà condannato” (Mc 16,15-16). Esse significano che è positiva volontà di Dio che il messaggio evangelico sia annunziato a tutto il mondo e che si creda alla “Parola di Dio”. L’essere sacerdoti è indubbiamente una dignità immensa ed eccelsa; ma è anche una grande responsabilità. Siate sempre consapevoli della vostra grandezza e degni della fiducia che Dio ha posto in voi!
Carissimi, vi illumini nei vostri studi e vi conforti nei vostri propositi Maria Santissima, che in questi giorni preghiamo come “Madre dell’Unità della Chiesa”, e che sempre invochiamo “Sede della Sapienza”, “Causa della nostra letizia”.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE DI PAOLO IN ALCUNE SUE LETTERE

http://digilander.libero.it/davide.arpe/PaoloCombattenteSpirtuale.htm

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE DI PAOLO IN ALCUNE SUE LETTERE

1 Tessalonicesi 5,1-8: 1 Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; 2 infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. 3E quando la gente dirà: « C’è pace e sicurezza! », allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire. 4Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. 5Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre. 6 Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri. 7Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; e quelli che si ubriacano, di notte si ubriacano. 8 Noi invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza.
Romani 8,6-15: 5Quelli che vivono secondo la carne, tendono verso ciò che è carnale; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, tendono verso ciò che è spirituale. 6Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. 7Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. 8Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. 9Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 10Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. 11E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. 12Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, 13perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. 14Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. 15 E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: « Abbà! Padre! »
Romani 13,11-14: 11E questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti. 12La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. 13Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. 14Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non lasciatevi prendere dai desideri della carne.
Efesini 1,20-22: 20Egli, Dio, manifestò la sua potenza in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro. 22 Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: 23 essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.
Efesini 4,20-32: 20Ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, 21se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, 22ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, 23a rinnovarvi nello spirito della vostra mente 24e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità. 25 Perciò, bando alla menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. 26 Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, 27e non date spazio al diavolo. 28Chi rubava non rubi più, anzi lavori operando il bene con le proprie mani, per poter condividere con chi si trova nel bisogno. 29Nessuna parola cattiva esca dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano. 30E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. 31Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. 32Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.
Efesini 6,10-20: 10 Per il resto, rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua potenza. 11Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. 12La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. 13Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove. 14State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; 15i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. 16Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; 17prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio. 18In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, e a questo scopo vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi. 19E pregate anche per me, affinché, quando apro la bocca, mi sia data la parola, per far conoscere con franchezza il mistero del Vangelo, 20per il quale sono ambasciatore in catene, e affinché io possa annunciarlo con quel coraggio con il quale devo parlare.
1 Corinti 9,24-27: 24 Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! 25Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre. 26Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; 27anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato.
1 Corinti 13,1-7.12-13: 1Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. 2E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. 3 E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. 4La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, 5non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. 7Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
8La carità non avrà mai fine. 12Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. 13Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!
Galati 5,16-24: 16Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. 17La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. 18Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. 19Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, 20idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, 21invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. 22Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; 23contro queste cose non c’è Legge. 24Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri.
Galati 6,7-9: 6Chi viene istruito nella Parola, condivida tutti i suoi beni con chi lo istruisce. 7Non fatevi illusioni: Dio non si lascia ingannare. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. 8Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna. 9E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo. 10Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede.
Filippesi 4,10-15: 10 Ho provato grande gioia nel Signore perché finalmente avete fatto rifiorire la vostra premura nei miei riguardi: l’avevate anche prima, ma non ne avete avuto l’occasione. 11Non dico questo per bisogno, perché ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione. 12So vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. 13Tutto posso in colui che mi dà la forza. 14Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni. 15Lo sapete anche voi, Filippesi, che all’inizio della predicazione del Vangelo, quando partii dalla Macedonia, nessuna Chiesa mi aprì un conto di dare e avere, se non voi soli…
2 Timoteo 2,5: 3Come un buon soldato di Gesù Cristo, soffri insieme con me. 4Nessuno, quando presta servizio militare, si lascia prendere dalle faccende della vita comune, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato. 5Anche l’atleta non riceve il premio se non ha lottato secondo le regole. 6Il contadino, che lavora duramente, dev’essere il primo a raccogliere i frutti della terra. 7Cerca di capire quello che dico, e il Signore ti aiuterà a comprendere ogni cosa. 

ST. PAUL PRAYER WARRIOR [San Paolo guerriero della preghiera]

http://www.stceciliacalgary.com/reflectionsOnStPaul/StPaul_insert6.htm

ANNO DI SAN PAOLO

ST. PAUL PRAYER WARRIOR

[San Paolo guerriero della preghiera]

(traduzione Google dall’inglese, ho provato, è comprensibile)

Ognuno di noi almeno una volta nella nostra vita ha lottato con la preghiera. Anche gli Apostoli si rivolse a Gesù e disse. « Signore, insegnaci a pregare ». Lc. 11:01 . Gesù risponde con la preghiera che è universale per tutti i cristiani, la preghiera del Signore, o, come noi, come cattolici conosciamo, il Padre Nostro. Come leggiamo attraverso le lettere di St. Paul e dei suoi viaggi missionari registrate negli Atti degli Apostoli vediamo il filo costante della preghiera che attraversa le pagine della Sacra Scrittura. Siamo tutti chiamati alla preghiera. E ‘la linfa vitale del nostro rapporto con Gesù. Senza la preghiera diventiamo spiritualmente impoverito e soggetto alle tentazioni del mondo, la carne e il diavolo. St. Paul ci può insegnare tanto per quanto riguarda la preghiera come la sua vita è stato catturato in Cristo, e quindi tutto quello che faceva e diceva era in risposta a questa profonda relazione con Gesù che è stata alimentata dalla preghiera. Uno dei miei preferiti conti di St. Paul in preghiera può essere trovato in Atti 16: 25 . Paolo e Sila sono stati picchiati e imprigionati in seguito alla liberazione di una giovane donna da uno spirito di divinazione. Leggiamo che, « a mezzanotte, mentre Paolo e Sila, pregando, cantavano inni a Dio come i loro compagni prigionieri ascoltavano, un forte terremoto ha scosso improvvisamente il posto. » Mettiti in questa situazione e fare la domanda. Avrei, dopo essere stato flagellato e picchiato, gettato in una prigione puzzolente, incatenato da catene, essere lodando Dio con la preghiera, cantavano inni? O dovrei essere pieno di autocommiserazione, la rabbia per essere stato ingiustamente imprigionato o dire: « Dio non ti importa di me? » St. Paul e Sila ci danno un esempio di fede e di fiducia assoluta in Dio, non importa quali siano le circostanze che si trovano dentro il risultato è che non solo sono liberati dal carcere, ma il carceriere e tutta la sua famiglia sono convertiti e battezzati che notte stessa. St. Paul in tutta le sue lettere prega incessantemente e intercede per le Chiese che ha stabilito durante i suoi viaggi missionari. Egli è veramente un guerriero preghiera, un intercessore straordinario. Basta leggere Efesini 3:14-21 . « Ecco perché mi inginocchio davanti al Padre da cui ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, e io prego che egli concederà doni in linea con la ricchezza della sua gloria egli rafforzerà interiormente attraverso il lavoro di. il suo Spirito. maggio Cristo abiti nei vostri cuori per mezzo della fede, e può la carità è la radice e il fondamento della tua vita. Così sarete in grado di cogliere appieno, con tutti i santi, l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo , e l’esperienza questo amore che sorpassa ogni conoscenza, in modo che si può raggiungere la pienezza di Dio stesso. A colui che ora potenza che già opera in noi, può fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, a lui la gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli. Amen.  » Si inginocchia davanti al Padre pregare non solo con la sua mente e le labbra, ma con tutto il corpo. Egli prega che Dio concederà a noi i doni di cui abbiamo bisogno per servirlo in modo efficace. Egli prega che saremo rafforzati dallo Spirito Santo. Egli prega che saremo fedeli e pieno di amore per l’altro e per conoscere l’amore che Dio ha per ciascuno di noi. Poi, nella gioia alza la sua voce, dando gloria a Dio e concludendo con le Amen. L’affermazione di fede, credo. Durante i restanti mesi di quest’anno dedicate a St. Paul, apriamo nuovamente la Bibbia e preghiera leggiamo queste parole sacre e preghiere di St. Paul in modo che anche noi possiamo essere rafforzati nella fede e crescere nell’amore per Cristo e la sua Chiesa.

Peter Thompson.

St. Paul, prega per noi.

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – GIUSEPPE BARBAGLIO – PDF – due parti divido in due

http://www.giuseppebarbaglio.it/Articoli/finesettimana130190.pdf

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – PDF – due parti divido in due

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

VERBANIA PALLANZA, 13-14 GENNAIO 1990

LE DOMANDE DELL’UOMO TRA NATURA E STORIA E LE RISPOSTE IN PAOLO

Il problema essenziale è il rapporto tra noi e il mondo. Il mondo è natura, ma anche storia e gli attori della storia sono gli uomini. Mentre la natura è il regno della necessità, la storia è il regno della libertà. C’è però anche la cultura che sta tra natura e storia: l’uomo , collocandosi nella natura e nella storia, produce le istituzioni del suo vivere (familiari e sociali), modi di pensare e di essere. Quale senso ha la nostra vita, la nostra storia, la nostra natura, dato che apparteniamo ad entrambe? Gestiamo la storia ma apparteniamo anche alla natura. Mentre gli animali sono totalmente assorbiti nella natura l’uomo, oltre che nella natura, ha una presenza significativa nella storia. Lo gnosticismo ha posto il problema con tre interrogativi fondamentali: donde veniamo? chi siamo? dove andiamo? E’ un problema ineludibile per l’uomo di ogni generazione che pensa e riflette, a differenza degli animali. La ricerca di risposte rispecchia situazioni specifiche. Noi ci poniamo le stesse domande degli gnostici, ma in situazioni nuove e perciò dobbiamo cercare nuove risposte adeguate alla situazione in cui viviamo. C’è un problema ecologico che riguarda tutti, c’è la novità del dialogo tra le religioni, c’è la presenza di movimenti pacifisti, c’è la crescente disparità di ricchezze nel mondo, c’è una sfrenata ricerca del profitto che mette il silenziatore alle grandi domande di senso. Cercheremo di trovare delle risposte in Paolo, delle risposte certamente datate. Anche Paolo, come del resto anche Gesù e i profeti, non sfuggiva al criterio della storicità. Paolo è una voce che, pur essendo datata come Cristo e i profeti, noi riconosciamo come espressiva della fede cristiana. Ci indica un cammino consono alla fede cristiana anche se in una cultura particolare.

1 Corinzi 8,4-6: un solo Dio e Signore
E’ un testo molto significativo che Paolo trae dalla tradizione e lo fa suo, rielaborandolo, per esprimere la fede nei suo tratti essenziali: la fede creazionistica e la fede soteriologica della salvezza. Dice Paolo a proposito delle carni immolate agli dei pagani, che la tradizione giudaica vietava di mangiare non solo nei luoghi di culto dove si sacrificavano gli animali ma anche quando venivano vendute al mercato. « Quanto poi al cibarsi delle carni immolate agli idoli sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo (l’idolo è una nullità), e non c’è dio se non uno solo. Infatti anche se ci sono dei cosiddetti dei sia in cielo sia in terra, come di fatto ci sono molti dei e signori… » Sembra una contraddizione, ma prosegue: « per noi invece c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto (la totalità del mondo) viene e noi esistiamo per lui, e c’è un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale tutto è, e noi siamo mediante lui ». Paolo dice che se vogliamo considerare la situazione concreta guardandoci intorno, vediamo che molti sono gli dei, molti i signori. A quel tempo, ma non solo a quel tempo, c’era uno spreco di dei e signori. L’imperatore era Dio, Cesare Augusto era un titolo divino, Adriano si faceva lodare come il salvatore del mondo, gli dei orientali erano « signori », gli eroi erano i figli di Dio. Anche il mondo di oggi è pieno di dei e signori, perché è pieno di servi. Se non ci fossero i servi
non ci sarebbero i signori. Sono i servi che creano l’altro come signore di se stessi. « ma per noi », per le nostre soggettività, dice Paolo, « non ci sono dei e signori perché c’è un solo Dio, il Padre, e un solo Signore, Gesù Cristo » . E’ un credo costruito su di un motivo creazionale.

Colossesi 1,15-20
E’ un testo straordinariamente bello. E’ da notare che questi testi della chiesa primitiva, giunti a noi attraverso la testimonianza di Paolo e della sua scuola, usano un poco la enfasi, esprimono la lode, sono poetici. Non c’è grande precisazione teologica, e molti termini esprimono l’emozione dei credenti che professano in quel modo la loro fede. Non bisogna insistere molto sui particolari. « Gesù Cristo – dice Colossesi – è l’immagine e l’icona del Dio invisibile ».
Paolo rilegge l’affermazione creazionale dell’uomo a immagine di Dio in senso cristologico, « primogenito di ogni creatura ». C’è un rapporto molto stretto tra Gesù e la creazione in Paolo. « Poiché in lui sono state create tutte le cose, sia quelle che stanno nei cieli che sulla terra, sia quelle visibili che quelle invisibili, sia i troni, sia le signorie, sia i principati, si le potestà ». Si tratta del quadro cosmologico di allora, soprattutto degli ambienti dell’Asia Minore legati ad una pregnosi, in cui tra Dio e l’umanità c’erano esseri intermedi che dominavano la storia, gli eoni. In questa
concezione si dice che Cristo ha vinto gli eoni e quindi ogni dominatore è messo fuori gioco. « Tutte le cose sono state create » Si tratta di un perfetto che indica qualcosa che è avvenuto e che perdura, cioè tutto è stato creato dal primo giorno e resta creato. « Egli è prima di tutte le cose e la totalità delle cose ha consistenza in lui; Lui è la testa del corpo
della chiesa, lui che è l’arché, il principio, il prototipo di ogni creazione e di ogni risurrezione, affinché abbia il primato in tutte le cose, poiché in lui piacque a Dio di fare abitare tutta la pienezza e mediante lui riconciliare tutte le cose, facendo pace mediante il sangue della sua croce e mediante lui sia le cose che ci sono sulla terra, come quelle che sono nel cielo ». Il motivo centrale è la correlazione tra la totalità e l’unità di Gesù. Tutto è mediante lui, verso lui e
consistente in lui; le preposizioni « en », « dia », « eis » stanno ad indicare un rapporto molto forte di comunità essenziale tra l’universo e l’unità singolare, che è Gesù. Tutto (ta panta) è stato creato e tutto è stato riconciliato. Il beneficiario della riconciliazione è lo stesso di quella della creazione, la totalità della realtà, noi e il mondo 2Corinzi 5,17 e Galati 6,15

I due testi sono carichi di significati.
Dice 2Corinzi 5,17:
« Cosicché se uno è in Cristo è una creatura nuova di zecca ». Si usa l’aggettivo « kainé » che a differenza di « neos » indica novità qualitativa, non ripetitiva. Il tema della creatura nuova ha una lunga storia alle spalle. E’ presente nel Deuteroisaia e in Isaia: l’escatologia è una proiezione nel futuro della creazione. L’originalità in Paolo sta nel dire che la « creatura nuova » si realizza nella storia se uno è in Cristo. Non c’è « verranno i cieli e terra nuova », ma la « creatura nuova » è già qui. Paolo, così diverso da Gesù, in questa intuizione profondissima è suo discepolo contro ogni concezione apocalittica. Due sono i motivi presenti in questi testi: la dimensione cristologica della creazione e la dimensione
escatologica della creatura nuova. Tutto, l’uomo e il mondo, è stato creato, è creatura (ktisis) di fronte al creante (ktisas). La Bibbia offre qui una prima fondamentale risposta alle domande su chi siamo, donde veniamo e dove andiamo. Il rapporto tra la totalità come creatura e il creante è un rapporto strutturale. Non può esistere creatura senza creante. Non è un rapporto che è stato all’inizio per poi interrompersi, ma persiste. Noi siamo stati, siamo e saremo creatura di fronte al creante. E’ un rapporto costitutivo del nostro essere nei confronti di Dio e di Dio nei nostri confronti. Ci definiamo, gli uni e gli altri, su questa linea della creazione.

divinizzazione dell’uomo e del mondo
Questo sta ad indicare che l’uomo (e il mondo) non è un assoluto, non è Dio di se stesso. Fa parte della comprensione essenziale dell’uomo la coscienza della creaturalità propria e del mondo. Quindi fa parte della coscienza umana il processo di sdivinizzazione dell’uomo e del mondo. Non c’è nessun dio e nessun signore a questo mondo perché non ci deve essere nessun servo a questo mondo. Nessuno a questo mondo può essere l’oggetto davanti al quale piegare le ginocchia e levare l’incenso, invocare la clemenza, dipendere schiavisticamente. Non c’è nessun padre da scegliere a
questo mondo, perché c’è un solo Dio, il Padre. L’unica categoria che definisce l’uomo nel suo essere profondo rispetto a Dio è la fraternità, la sorellanza. Non c’è nessun padre nel senso signorile. Ancora, il nostro essere creatura di fonte al creatore vuol dire che noi e il mondo siamo stati voluti, fatti da Dio creante, che ha comunicato la sua vita, il suo Spirito. I racconti della creazione in Genesi ci dicono che Dio ha soffiato nei viventi il suo Spirito. La categoria del dono libero è essenziale per capire il senso della totalità di fronte a Dio. Dio creatore non ha nessuna gelosia, nessuna competizione, nessuna rivalità nei nostri confronti e quindi nessuna violenza, dato che la violenza nasce dalla rivalità. Dio è gratuitamente comunicativo, comunica il suo Spirito, la sua vita senza la logica commerciale del do ut des. Dio dà perché è così per nativa esigenza del suo comunicare. Quello che è suo viene condiviso. Il problema della creazione è il problema della condivisione da parte di Dio al mondo e a noi. Dio non vuole godere da solo della sua vita, ma vuole condividerla con gli uomini, con gli animali, con il mondo in generale. La dinamica della creazione è la dinamica della condivisione. Non è un dono mosso da calcoli o da condizionamenti.

un dono di Dio irrevocabile
Procedendo poi su questo motivo di fondo della totalità che è creatura di fronte a Dio che è creatore, capiamo che noi siamo stati voluti e fatti una volta per tutti senza pentimento. E’ vero che c’è nella bibbia il racconto del pentimento di Dio per avere fatto il mondo e dell’invio del diluvio, ma il mondo è poi salvato, e l’arcobaleno diventa il segno dell’alleanza cosmica con Dio che si impegna a non distruggere mai più la vita. Il dono di Dio, la condivisione di Dio è irrevocabile. Se Dio revocasse questa sua comunicazione e donazione cesserebbe di essere quello che è, il creante
(ktisas). Nonostante tutto permane la fedeltà di Dio a questo mondo, l’unico creato e voluto da Dio. Dio non ha alternative: si è definito liberamente ma irrevocabilmente creante (ktisas) di questa creatura (ktisis). L’errore della corrente apocalittica è stato quello di ammettere la possibilità di fare un altro mondo. La dimensione di fondo della apocalittica, espressa nel IV libro (apocrifo) di Esdra, si esprime nella creazione di un secondo mondo, perché il primo è riuscito male. Invece non c’è un’altra umanità, alla quale Dio si è legato liberamente, ma indissolubilmente. L’incarnazione è nella logica della creazione, è pensabile solo all’interno della creazione: se questo mondo non fosse
il mondo di Dio, perché Dio avrebbe dovuto venire a questo mondo, avrebbe dovuto prendersene cura, volerne la salvezza? A questa domanda non poteva rispondere Marcione che aveva diviso la creazione dalla salvezza operata da Cristo. E’ il tallone di Achille di Marcione. C’è un mondo solo che Dio ha voluto e che ha fatto e che resta il suo mondo: questo.

alterità Dio mondo
Altra dimensione importante è che Dio creatore è altro da noi creature, è diverso. Il mondo è non Dio, e Dio è non mondo. Questa alterità tra Dio e il mondo è un elemento caratteristico della fede creatrice contro ogni tipo di immanentismo, che attenua i confini tra Dio umanità e mondo. La concezione creazionistica invece traccia una linea assolutamente invalicabile tra Dio e il mondo. Il mondo in quanto « ktisis » di fronte al « ktisas » è altro da Dio e vive nella sua mondanità, nella sua profanità, non è mescolato al divino. Al contrario della mitologia pagana in la mescolanza è
dominante. Proprio della visione biblica è la separatezza: il mondo è diverso da Dio e Dio è diverso dal mondo.
Ora la concezione di alterità rende possibile la relazione, perché la relazione esiste tra due diversità, tra due altri. Se c’è mescolanza non c’è relazione, ma confusione. Il concetto di persona rinvia ad una soggettività come individualità assolutamente irripetibile. E’ molto importante questa visione perché ci sollecita ad assumerci la piena responsabilità delle realtà mondane, senza cercare responsabili divini: Dio non manda e non toglie la malattia, la guerra non è un castigo di Dio o la pace un premio. La procreazione è una realtà puramente mondana, come la realtà sessuale. L’autorità tra gli uomini non viene da Dio, ma è una scelta operata da persone che delegano a qualcuno un potere per alcuni scopi. Così la famiglia, la società, gli eventi storici. Il Dio creatore non è un soggetto storico, mondano, Dio è altro. Potremmo dire che Dio è la fonte della vita ma non agisce come soggetto magari più grande, più potente, come siamo portati ad immaginarlo. I cristiani a Roma erano tacciati di essere atei perché avevano ripulito il mondo di tutti gli dei, di tutti i signori di cui il mondo politeistico era pieno.

l’uomo interlocutore rischioso di Dio
C’è quindi una autonomia dell’umanità e del mondo da Dio, un’autonomia propria delle creature di fronte al creatore, però la creatura, che é il risultato del movimento di comunicazione, di partecipazione, di condivisione, è interlocutrice libera di Dio; noi siamo soggettività. La differenza tra l’uomo e la natura è che la natura è determinata, mentre l’uomo è una possibilità di essere, è storia. La natura è dato, ma la storia è da farsi. L’uomo, attraverso le sue scelte, è
possibilità di essere, ma anche possibilità di autodistruzione. Dio e noi siamo in dialogo, ma un dialogo altamente rischioso. Dio ha di fronte una soggettività, che può scegliere liberamente, anche di dire di no. Il Dio creatore è un Dio audace e avventuroso che accetta di avere di fronte a sé uno che ha mille volti, e possibilità. Dio entra in un gioco pericoloso, rischioso. Tutto questo è stato percepito dal salmo 8 in cui si dice: « hai fatto l’uomo di poco inferiore ad un dio ». Nella creazione Dio ha di fronte a sé un altra soggettività, che si definisce nelle scelte sue libere, di fronte alla quale può solo proporsi, non imporsi. Questo Dio avventuroso si autolimita; si è imposto alla natura, ma non all’uomo, che si definisce per conto proprio. Dio rischia sempre di essere messo in scacco nel suo progetto, perché ha un progetto con l’uomo, al quale si limita a proporlo e le cui risposte sono quanto mai avventurose. E’ un Dio che per il suo progetto non minaccia, non terrorizza, non punisce il dialogante.

il Dio bifronte nella Bibbia
Il limite del discorso biblico è proprio quello di avere mantenuto la faccia del Dio punitore, presente negli stereotipi religiosi di tutti i tempi. In un libro del 1920 circa, Rudolf Otto, un filosofo della religione, intitolato « Il sacro », afferma che lo schema abituale di visione del divino negli uomini di tutti i tempi è costruito su una immagine religiosa del « mysterium » di Dio, della realtà nascosta di Dio, che ha due facce. C’è il « mysterium fascinans » – che affascina con la sua bontà, la sua generosità, con l’essere fonte di vita, di perdono, di grazia, di salvezza, un Dio benefico – e c’è l’altra
faccia del « mysterium tremendum », del nume tremendo, terribile. L’uomo ha sempre vissuto il divino – il dio monoteistico e le divinità – con questa griglia interpretativa, come « mysterium tremendum » e come « mysterium fascinans ». Anche nella bibbia questo appare con molta chiarezza (sto scrivendo un un libro su questo Dio come Giano bifronte). Il Dio della Bibbia paga un alto prezzo a questo stereotipo religioso della duplice faccia. C’è un testo del Deuteroisaia che dice: « io sono colui che dà la vita, io sono colui che dà la morte ». Dio nella sua faccia benefica dà la vita, però ha anche l’altra faccia tremenda della morte. Le due facce sono state unite per cui il Dio che dà la vita poi domanda conto dell’uso che noi abbiamo fatto, e minaccia la punizione nel caso facciamo un uso distorto o cattivo. E’ una faccia violenta. Siamo in contrasto con la logica creazionistica per la quale Dio partecipa la vita senza merito
nostro, per sua nativa spinta. Dio si propone all’uomo indeterminato che ha davanti, a questo dialogante così inafferrabile, senza proclamare minacce, senza spargere terrore, senza comminare punizioni. Non è un Dio violento. Con la nostra risposta negativa siamo noi che ci creiamo la morte con le nostre mani. L’uomo si gioca la vita e la morte. Se dice di no a Dio non è che Dio gli manda la morte; la morte è una realtà mondana, nostra, solo la vita è il dono di Dio. Dio viene escluso o può essere escluso da noi, che siamo un dialogante capriccioso, ma mai Dio può escludere noi che lo escludiamo perché è donazione, comunicazione, soffio di vita: non si riprende per punizione il soffio di vita. Dobbiamo assumere il dato primordiale della fede creazionale come elemento assolutamente caratterizzante e non introdurre elementi religionistici estranei che offuscano, stravolgono la faccia partecipativa. Dio è tutto in questo darsi e non c’è in lui alcun pentimento, alcun riprendersi i doni, perché è sempre « ktisas ».

il mondo è donato da Dio nella sua materialità: oltre il dualismo
Da questi testi paolini si coglie un altro importante elemento: il mondo è « ktisis », donato da Dio, anche nella sua materialità, nella sua naturalità, è da accettare con gioia, con gratitudine, da godere anche, da custodire con cura e rispetto. La fede creazionistica esclude ogni concezione dualistico-spiritualistica. La visione dualistica ha contaminato il mondo del passato ed ammorba ancora oggi le coscienze nella tradizione cattolica. Secondo questa concezione la realtà – « ta panta » – viene suddivisa in realtà spirituale e in realtà materiale. La realtà spirituale, l’uomo nella sua coscienza e nella sua anima immortale, è positiva e tutto il resto è realtà negativa. Il dualismo spiritualistico, che rifiuta come male tutto ciò che non è spirituale, che non è immateriale, è un fenomeno postbiblico. Nella Bibbia infatti si dice che il Verbo si è incarnato, si è fatto « sarx », (Giovanni). « Sarx » è la materialità, la naturalità. Noi dobbiamo ricuperare le radici bibliche. Se la tradizione cristiana cattolica ha accolto la visione dualistico-spiritualista dell’ambiente circostante è stata infedele alle sue origini. C’è da ricuperare, attraverso la fede creazionistica, questo aspetto gioioso per cui le persone godono di questo mondo che è creatura, è dono, senza per questo negare l’infiltrazione del male, il peccato. E’ strano che nella nostra tradizione cattolica si siano accolti aspetti profondamente infedeli alla visione biblica. Per esempio, la verginità di Maria nella Bibbia non ha una connotazione antisessuale ma è un modo per esprimere la fede nel figlio di Dio, che esiste solo in Matteo e in Luca, ma non in Paolo e in Giovanni. E’ in funzione della figliolanza divina che nasce la credenza nel concepimento verginale di Gesù. In questa maniera si vuole affermare che Gesù è il figlio di Dio, il dono di Dio.

la creazione in prospettiva cristologica
Paolo caratterizza la creazione in senso cristologico, inserendo fin dalle origini Gesù Cristo nel rapporto tra « ktisis » e « ktisas », tra creatura e creante, con diverse formule: in Cristo, mediante Cristo, verso Cristo; sono modi per indicare la mediazione di Gesù Cristo nella creazione. Il rapporto « ktisis »- »ktisas » non è più un rapporto diretto, ma mediato da un terzo, Gesù di Nazareth. Dire che tutta la creazione è avvenuta in Cristo, mediante Cristo ed è finalizzata a Cristo, vuol dire che Gesù costituisce il senso di tutto. Uscendo dalle formule che riecheggiano il discorso della causalità – la causalità strumentale o efficiente, la causalità formale, finale – potremmo dire che Gesù Cristo è il senso del mondo, di « ta panta », ed è impressionante che sia una persona individuo che dà senso alla totalità. Potremmo dire che Gesù è la chiave di lettura di « ta panta », è il centro aggregante per cui « ta panta » non è un insieme di cose, ma è un’unità unificata da lui. Gesù è la luce rivelante il senso della totalità, è il traguardo verso cui corre la totalità, è la forza traente: sono tutti modi per dire che Gesù di Nazereth, morto e risorto, é il senso del mondo. Gesù, che è un uomo qualunque, un uomo debole, un uomo impotente, uno degli ultimi, uno dei vinti della storia, è il centro: lui, il crocifisso e il risorto. « Ta panta », il tutto, riflesso nell’uno Gesù di Nazareth. Però l’uno Gesù di Nazareth non è un individuo chiuso in sé, è il prototipo dell’umanità. Paolo questo l’ha visto chiaramente quando nel cap. 5,12 di Romani parla di Cristo come del secondo Adam, il secondo prototipo dell’umanità, oppure in 1 Corinti 15,20-29.45-49. L’uno Gesù non è separato dalla totalità dell’umanità, ma è il primo tipo e immagine nel quale c’è tutta l’umanità. La totalità trae senso dall’uomo qualunque, debole, fragile.

gli ultimi al centro della creazione e della storia
Il « ta panta » é fatto da Dio per gli ultimi, per i crocifissi, per i vinti: questo è il progetto di Dio creatore, un progetto che viene contestato dalla storia che mette in croce Gesù di Nazareth, che mette in croce gli ultimi, i deboli, gli impotenti. Il progetto di Dio viene contestato dagli uomini forti che creano la società dei violenti, dei privilegiati. Gesù di Nazareth crocifisso e risorto è segno di contraddizione nella storia: Dio ha risuscitato, rendendogli giustizia, colui che, rappresentativo degli ultimi, è stato messo in croce. In questo modo Gesù, benché l’umile, il debole, l’ultimo, il vinto, è il centro del creato. Ecco allora la dialettica drammatica della storia: il progetto di Dio, che Dio può solo proporre e non
imporre, di mettere Gesù al centro è rigettato dall’umanità, che rifiuta che gli ultimi siano al centro e li rimette al margine e crea la società dei forti, dei violenti, dei privilegiati; ma Dio risuscitando Gesù ricolloca al centro quelli che sono stati estromessi. L’interpretazione che dà Paolo di Gesù come centro sconvolge il senso comune che attribuisce il
centro ai violenti e ai potenti. La crocifissione nasce dall’esperienza della violenza coalizzata. I violenti fanno solidarietà fra loro a danno dei deboli. Nei testi della passione si legge che tutti sono coalizzati: le autorità giudaiche di
vertice, gli anziani, i sommi sacerdoti, Pilato, la folla stessa: si crea la società dei violenti che violenta l’indifeso che è Gesù. Ma Dio risuscita il debole, il violentato, il crocifisso. Dio ricolloca al centro quelli che sono stati discriminati, contestando la società dei violenti che occupa il centro della storia. Oggi nel dialogo fra le religioni si tende a sottacere che Gesù è il centro, però questo vuol dire non riconoscere che è il figlio di Dio e farlo diventare uno dei tanti profeti. Ma se lo confessiamo figlio di Dio, se per noi è l’unico Signore, come dice Paolo, non dobbiamo avere delle remore, ben sapendo che è al centro come il crocifisso, come il prototipo dei crocifissi. Si ribalta la logica dei forti e dei violenti che si coalizzano per espungere i deboli. Paolo dice che Gesù è l’Adam, ha senso per l’umanità, un senso che noi cogliamo nella fede. Siamo liberi di coglierlo o no, ma se è l’Adam vuol dire che è il prototipo di ogni uomo, sia esso indiano, cinese, africano, occidentale, orientale. Come questo debba essere interpretato secondo le varie culture è un altro
discorso, ma non è che avendo delle difficoltà dobbiamo negare i punti di partenza che sono l’oggetto elementare della nostra fede. Per noi c’è un solo Dio, il Padre, ed un solo Signore, Gesù Cristo. Si può rinunciare a credere in questo, ma è in gioco il centro della fede non un elemento periferico. Gesù è il centro non in quanto Gesù di Nazareth, ma in quanto morto e risorto. Dire il risorto vuol dire esattamente l’universalizzazione del senso che ha Gesù di Nazareth per tutta l’umanità. E’ certo incarnato nella cultura, paga un debito alla cultura, c’è un problema di superamento della cultura, ma proprio per questo diciamo che è al centro in quanto crocifisso e risorto. Se dicessimo infatti che è solo Gesù di
Nazareth, il problema sarebbe complicato perché bisognerebbe mettere al centro anche la sua cultura. Se invece è Gesù morto e risorto, risorto vuol dire la capacità di Gesù di essere il simbolo di tutta l’umanità al centro della storia come essere debole, fragile, secondo il progetto di Dio.

animati dallo Spirito del risorto
Paolo dice inoltre che noi siamo « ktisis kainé » – nuova creatura – se siamo in Cristo, cioè se siamo animati dallo Spirito del risorto, se siamo investiti dalle forze nuove di questo Spirito vivificante. Spirito vivificante non vuol dire qualcosa che è immateriale nei confronti di ciò che è materiale, ma qualcosa che è vita nei confronti di ciò che è morte. l’antitesi è tra vita e morte, non tra immaterialità e materialità. Lo Spirito del risorto, con il suo dinamismo, viene donato a tutti e da questo punto di vista Gesù è simbolo per tutta l’umanità. Lo Spirito non è monopolio di alcuni
gruppi o di alcune culture. Su questo ha visto molto bene Giovanni quando dice: « lo Spirito soffia dove vuole », come il vento, giocando sul doppio significato di « pneuma » e « ruah » in ebraico. Lo Spirito non ha confini. Cristo è universalizzabile, è simbolo di tutta l’umanità in quanto dona il suo Spirito a tutti gli uomini. Tutti gli uomini ricevono lo Spirito se sono in Cristo. Il dinamismo delle scelte allora diventa dinamismo dell’agape, dell’amore oblativo, comunicativo, costruttivo. Da questo punto di vista (Galati 5,16-25, Romani 8,1-17) la nuova creatura nasce là dove c’è l’uomo « pneumatikos », animato dallo « pneuma », spirituale, non nel senso di uomo dedito alla vita del pensiero, immateriale, ma dedito ad una vita umana condotta secondo il dinamismo dello Spirito che è alternativo al dinamismo della « sarx », all’egocentrismo che induce a costruirsi un mondo chiuso in se stesso, un microcosmo senza porte e senza finestre, autosufficiente. La creazione nuova, dice Paolo, è già presente dove l’uomo si lascia animare dal dinamismo dello Spirito che è donato a tutti. L’uomo può rifiutare lo Spirito, contrastandolo, facendosi guidare dall’altro
dinamismo che è dentro di noi, il dinamismo della « sarx ». La nuova creazione a livello personale vuol dire l’uomo che vive eticamente non guidato da leggi esterne, da norme, da comandamenti – questa è la grande rivoluzione di Paolo – ma guidato dallo Spirito che è dentro di noi, dal dinamismo dell’agape. Docilità al dinamismo dello Spirito: questa è la spiritualità. In Matteo la spiritualità non ha questo senso, è semplicemente una vita condotta nell’obbedienza alla legge di Dio che è manifestata attraverso Cristo. Paolo ha sostituito ad una guida esterna dell’uomo – le leggi, le norme, le autorità, le parole – il dinamismo interno donato dallo Spirito di Cristo. « Vi dico però, – scrive Paolo Galati 5,l6 – camminate (agite) nello Spirito e in questo modo voi non porterete a compimento le cupidigia della carne ». La « sarx » per Paolo è l’uomo che vive nella cupidigia (epitsumìa) delle cose, del possedere per sé, nello strappare agli altri, nelle gelosie, nelle invidie. Già nella tradizione biblica e giudaica del tempo c’era l’equiparazione tra peccato e cupidigia. « La « sarx » nelle sue cupidigie si oppone allo Spirito e lo Spirito ha impulsi contrari alla carne. Queste cose sono antitetiche le une alle altre, affinché voi non facciate quello che desiderate fare nella cupidigia. Se voi vi lasciate condurre dallo Spirito non siete sotto la legge ». La nuova creatura, resa possibile dal dono del risorto e che si realizza alla condizione di lasciarsi guidare dallo Spirito, manifesta la presenza dell’escatologia. Non c’è da una lato la vecchia creazione vigente e dall’altro la nuova creazione che verrà, ma già esiste la « kainé ktisis ». E’ la nuova e originale concezione che Cristo e poi Paolo hanno portato: la fine è dentro la storia, il traguardo è già dentro il cammino, l’oggi è pieno delle forze vivificanti del mondo ultimo, futuro. Sullo sfondo c’è la concezione del mondo creato che si è alienato negando la propria creaturalità, seguendo i percorsi della « sarx ». Il mondo creato alienato è ora in via di riscatto. La nuova « ktisis »,
creazione, è condizionata: si rende presente se e nella misura in cui siete in Cristo, in cui vi lasciate guidare dallo Spirito, in cui contrastate il dinamismo della carne. Il riscatto è soltanto incominciato, la sua realizzazione piena è oggetto di speranza; ma ciò che noi attendiamo per il futuro già lo possiamo anticipare e vivere nell’oggi se siamo in Cristo. La svolta è già avvenuta nel dono dello Spirito che dà il principio del nuovo mondo. Importante è che questo principio attivo e creativo abbia spazio, non sia contrastato, negato, soffocato. Il futuro, la nuova creazione, è una possibilità aperta che possiamo realizzare attraverso la solidarietà con Cristo risorto, sia pure incoativamente e
precariamente perché permane il peso di quell’altro dinamismo. L’AT era approdato, attraverso il filone profetico che inventa l’escatologia – il salto di qualità nella storia – alla soluzione apocalittica: Dio ha fatto due mondi perché questo mondo si è corrotto a tal punto da essere irrecuperabile e quindi destinato alla distruzione. Alla fine sarà sostituito, verrà gettato come una zavorra e scenderà dal cielo un nuovo mondo bello e fatto. In queste nuova scialuppa che verrà data all’umanità entreranno quelli che sono fedeli alla legge mentre gli altri saranno estromessi una volta per sempre. Gesù e Paolo non hanno accolto questa visione apocalittica, perché non ammettono il principio dei due mondi creati. Questo mondo è l’oggetto di tutte le loro speranze però non rimandate al futuro: la svolta ha inizio nella risurrezione di Cristo in cui è dato il principio del nuovo mondo. Questa situazione dialettica di storia ed escatologia, di presente e futuro ultimo, di fine e cammino, è la soluzione cristiana. Il rapporto tra creazione ed escatologia si colloca dentro questa concezione: non sono due realtà separate, ma l’escatologia è dentro la creazione. E’ l’escatologia di questo mondo, di questa storia, e non di un altro mondo, di un’altra storia. Questa è la risposta fornita da Paolo alle domande iniziali su chi siamo? donde veniamo? dove andiamo?

1 Tessalonicesi 4,13-18: una vita nella speranza
In 1Tessalonicesi 4,13-18 Paolo dice che la vita cristiana è una vita nella speranza e in essa non deve aver spazio la tristezza di fronte alla morte, l’ombra sinistra della morte che aleggia sulla vita come ultima parola sull’esistenza. Il fondamento della speranza è la risurrezione di Cristo, una speranza che poggia sulla fede. Paolo fa una distinzione tra quei credenti che sono vivi alla venuta di Cristo (riteneva prossima la fine del mondo) che non passeranno attraverso la morte, ma entreranno nel mondo nuovo per rapimento sull’immagine di Elia o del patriarca Enoch che sono stati rapiti da Dio, e i credenti che sono già morti, che saranno risuscitati. Però sia i rapiti che i risuscitati andranno incontro a Cristo, per essere sempre con lui. Il traguardo della speranza, il traguardo finale dell’esistenza cristiana, già iniziato, consiste nella comunione indefettibile con il Signore Gesù oltre la morte o la fine dell’uomo.

1 Corinzi 7,29-31: il tempo si è contratto
C’è un altro testo caratteristico in 1 Corinzi 7,29-31 in cui Paolo fa una raccomandazione: « Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto conciso, dunque quelli che hanno mogli siano come se non le avessero, e quelli che piangono come se non piangessero, e quelli che godono come se non godessero, e quelli che acquistano come se non possedessero, e quelli che usufruiscono del mondo come se non ne usassero appieno; perché sta passando la figura di questo mondo ».
E’ da rimarcare questa concezione del tempo: « il tempo si è fatto conciso ». Nel mondo greco il tempo era considerato come un fiume che fluisce lentamente e indefinitamente, che va e ritorna. Per Paolo invece il tempo si è rattrappito, si è fatto una breve linea segnata dal passare di questo mondo sulla scena. Paolo pensa ancora alla fine imminente del mondo, la cui caducità viene vissuta in modo altamente drammatico e anche illusorio. In questa precarietà il nostro esistere, le nostre esperienze fondamentali non devono essere assolutizzate: bisogna viverle « os me », « come se ». Non
sono cose indifferenti, ma sono esperienze da relativizzare. Gli stoici proclamavano l’epateia, l’essere emotivamente indifferenti di fronte alla realtà. Paolo dice che le esperienze umane non sono il tutto, non sono un assoluto. Questo mondo non è qualcosa di permanente ed eterno e pertanto le esperienze umane di questo mondo risentono della transitorietà. Sullo sfondo di questa visione c’è una certa escatologia e una conseguente etica.

1 Corinzi 15: Cristo primizia e risuscitatore
E’ la trattazione più completa e più profonda della escatologia in Paolo. Paolo parte dalla risurrezione di Cristo per fondare la speranza nella risurrezione nostra. Dice: se Cristo è risuscitato vuol dire che anche noi risusciteremo. In 1 Tessalonicesi si limitava a dire che se Cristo è risuscitato anche noi risusciteremo, senza approfondire le motivazioni. Nella prima lettera ai Corinzi invece Paolo riesce a trovare la spiegazione profonda. Cristo non è risuscitato come caso unico, ma come « aparché », come primizia. E’ un termine che ha una tradizione alle spalle: « aparché » erano i primi
covoni raccolti che dovevano essere offerti al tempio come riconoscimento del dono di Dio. Inoltre Paolo aggiunge un’altra formula: Cristo è risuscitato come nuovo Adam, come prototipo di una nuova umanità di risorti. Come il primo Adamo era il prototipo della prima umanità, Cristo è il prototipo, principio attivo della nuova umanità. E’ risuscitato come risuscitatore di altri. Paolo dice alla fine del cap. 8 « è il figlio in mezzo a tanti fratelli ». Questo è il disegno di Dio: Cristo centro della storia con tanti fratelli intorno, che siamo noi. La seconda cosa da notare in questo testo è la risurrezione dei corpi su cui Paolo insiste molto. A Corinto dicevano che noi siamo già risuscitati nella nostra anima, erano degli spiritualisti; Paolo invece dice che la risurrezione riguarda i corpi. Per corpo Paolo intende non la parte materiale, ma la struttura basica dell’uomo, per cui se c’è il corpo c’è l’uomo e se non c’è il corpo non c’è l’uomo.
Questa struttura basica è una struttura relazionale, è la relazionalità verso Dio, verso gli altri e verso il mondo; se togliamo una di queste relazionalità non c’è l’uomo. La risurrezione coglie l’uomo in questa sua triplice relazionalità. Questa relazionalità ontologica, dice Paolo, noi la possiamo vivere esistenzialmente in termini negativi o in termini positivi. Posso viverla in termini negativi negando la mia creaturalità, considerando gli altri i miei schiavetti o assumendo un atteggiamento idolatrico o rapace nei confronti del mondo. In questo modo, vivendo in modo egocentrico la triplice relazionalità, per Paolo divento carnale (negando che Dio sia il nostro Dio, che gli altri siano i nostri fratelli, negando che il mondo sia l’habitat dell’uomo). Per Paolo la risurrezione dei corpi è la trasformazione piena di questa triplice relazionalità vissuta in modo positivo, secondo il dinamismo dello Spirito per cui l’uomo accoglie Dio come il Padre suo, gli altri come suoi fratelli ed il mondo come l’habitat suo e di tutta la famiglia umana. Questa
triplice relazionalità vissuta positivamente fa sì che il corpo sia pneumatico, spirituale, animato totalmente dallo Spirito, secondo il dinamismo dell’agape. Questa spiritualizzazione già è cominciata, dice Paolo: se voi vi fate condurre dallo Spirito non vivete più secondo la carne, siete i figli di Dio, vivete in Cristo. La speranza non riguarda qualcosa di totalmente nuovo, non si riferisce ad una realtà assolutamente assente dalla storia, ma tende alla pienezza di una realtà già iniziata nella storia. La pneumatizzazione della triplice realtà, che é al presente ancora precaria perché il dinamismo della carne continua ad agire e c’è un ritorno del passato dentro di noi, sarà piena con la risurrezione.
La spiritualizzazione del soma umano è data dallo Spirito vivificante di Cristo, a immagine di Cristo, l’uomo pienamente trasformato dallo Spirito. Cristo è il primo risuscitato, che ci risuscita a sua immagine.

Filippesi 3, 20-21: a immagine del suo corpo glorioso
Dice: « La nostra cittadinanza (politeuma) è nei cieli da cui aspettiamo che venga il Salvatore nostro Gesù Cristo », ‘cieli’ è il simbolo del mondo trasfigurato pienamente dallo Spirito « il quale trasfigurerà il nostro misero corpo a immagine del suo corpo glorioso ». La nostra triplice relazionalità che già é stata investita dalle forze dello Spirito sarà totalmente investita dallo Spirito di Cristo il quale ci trasfigurerà, opererà la metamorfosi piena in modo che il nostro corpo sia
glorioso, investito dello splendore divino dei risorti ad immagine sua.

Romani 8,12-25: anche la natura partecipa della risurrezione
Il testo più nuovo da questo punto di vista è Romani 8,18-25. Già parlando della risurrezione dei corpi Paolo introduce anche la natura, il mondo, dentro il processo di trasformazione perché una delle tre relazioni è verso il mondo. Però in questo testo  »ktisis » (creazione) è solo il mondo creato naturale, a differenza del mondo umano. Dice: quello che è avvenuto avviene e avverrà di noi, passato presente e futuro, è avvenuto avviene e avverrà per la natura. Paolo mette in parallelismo la nostra vicenda di soggetti storici con la natura. E’ interessante la solidarietà tra il mondo umano ed
il mondo inanimato ed animale. Al presente, dice Paolo, noi gemiamo e viviamo una esperienza dolorosa e drammatica, viviamo la durezza del cammino umano nella storia; anche il mondo inanimato geme nella sofferenza. Noi gemiamo ed il mondo geme. Nel futuro noi aspettiamo il riscatto dei figli di Dio, la risurrezione, la pneumatizzazione piena o anche la glorificazione (nei testi biblici, gloria – « doxa » in greco e « kabòd » in ebraico – non è mai l’onore, come per noi, ma esprime lo splendore della presenza di Dio). Similmente la natura dovrà essere glorificata e liberata per partecipare della libertà dei figli di Dio. Nel passato condividiamo il peccato, la corruzione nostra e del mondo. La creazione segue il
destino dell’uomo. La storia della salvezza coglie direttamente l’uomo e coglie la natura per partecipazione all’uomo.

dalla fede sgorga la speranza nella trasformazione dell’umanità e del mondo
Primo punto importante di questi testi è la connessione tra speranza e fede, la speranza nasce dalla fede nella risurrezione di Cristo e noi risorgeremo per influsso suo e ad immagine sua. Secondo: la speranza riguarda la sorte di questa umanità e di questo mondo, non ci sarà sostituzione ma trasfigurazione, assumerà una nuova forma restando se stessa. I cieli nuovi e la terra nuova di cui parla Isaia sono questi cieli, questa terra, ma in una nuova forma; il futuro riguarda i nostri corpi attuali, non corpi nuovi creati ad hoc. Questo è importante perché la speranza non ci fa uscire da
questo mondo, ma si tratta di essere attivi nella trasformazione di questo mondo. Terzo: il futuro finale già è iniziato; la comunione indefettibile è già nella comunione non ancora salda con Cristo. Il riscatto futuro già è iniziato. Il mondo sta partorendo nei dolori, nei contrasti, nelle contraddizioni della storia, nella crocifissione dell’esistenza. I dolori ci sono, ma sono i dolori di una nuova vita. La nuova nascita è già iniziata perché sono iniziate le doglie. La storia e l’escatologia sono mescolate, le forze del nuovo mondo sono già presenti, ma sono ancora in lotta con le forze del vecchio mondo, con la « sarx ». La nuova nascita avviene nella minaccia di impedire l’uscita del nuovo: non si tratta di un pacifico possesso. Questo nostro presente ha già in parte la configurazione del futuro; nel deserto sono già germinate
le nuove pianticelle, in attesa della piena fioritura.

un mondo da non adorare
Questo è importante anche per i rapporti tra storia ed escatologia, e non solo tra creazione ed escatologia. Paolo, anche se non aveva i nostri problemi, è interessato alla natura. Nel mondo di allora era molto presente una tendenza alla divinizzazione della natura e delle sue forze. Le religioni immanentistiche divinizzano la natura, le sue forze vitalistiche, oppure le forze astrali. L’imperatore Amenofi IV in Egitto aveva sostituito la religione ufficiale del dio Amon con quella del dio Aton, il disco solare. Invece la concezione creazionistica della Bibbia e di Paolo è contro la divinizzazione
della natura che non è la grande madre da adorare. Chi ha una concezione divinizzata della natura, ritiene che la natura non possa essere violata. Sarebbe empio trasformare la natura, intervenire nei suoi sacri meccanismi. Chi divinizza la natura ha un atteggiamento idolatrico nei suoi confronti ed adora le cose, divenendone schiavo. Invece, chi ha una concezione creazionistica si serve delle cose. Paolo dice: « tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio ».

un mondo di cui godere con gratitudine
La concezione creazionistica è anche contro il disprezzo spiritualistico-dualistico della natura e delle cose. Lo spiritualismo era presente oltre che nella filosofia greca, in tutto lo gnosticismo. Nello gnosticismo l’uomo era visto come una scintilla divina, che per un caso drammatico è caduta dagli altissimi cieli in questo mondo. L’uomo è quindi una scintilla divina rivestita della corazza materiale, che nell’assumere la mondanità non ricorda più la sua origine divina e si ritiene una cosa del mondo. Non ha più coscienza di sé, è totalmente alienata, si ritiene parte di questo mondo
opaco. Ma ecco che viene, dagli spazi celesti, il logos, anch’esso scintilla divina, che assume il corpo come un vestito puramente esterno, per non dar troppo nell’occhio. Viene a ricordare alle scintille smemorate ed alienate la loro origine divina. Esse riacquistano la coscienza di sé e si liberano dalle corazze materiali con la « gnosi ». Questa coscienza di sé provoca un grande desiderio della morte come liberazione non solo interiore ma anche esteriore, al fine di potersi ricongiungere al grande fuoco divino. In questa concezione il mondo è visto come un carcere, che rende abietto e
alienato l’uomo. La concezione creazionistica invece è contro ogni visione dualistica e quindi la natura è « ktisis », è
creatura, è dono, è grazia da accogliere, da godere, da usare con gratitudine dice Paolo nella 1Corinzi 10,25-26 o in Romani 14,6. Questo uso deve essere fatto senza assolutizzazioni, con un distacco interiore, come se non ne usassimo. Da questo punto di vista si può inserire il discorso dell’uso corretto della natura, delle forze, delle energie, senza abusarne.

un mondo da condividere
Una terza considerazione: questo uso della natura, secondo la visione biblica e paolina, non solo deve avvenire ll’insegna della parsimonia, ma soprattutto secondo la logica della condivisione. La preoccupazione dominante della visione biblica è la giustizia. A questo proposito Paolo si esprime in 1 Corinzi 11. Nella comunità si riunivano per la cena del Signore, al termine della quale si celebrava l’eucarestia. L’eucarestia era il punto terminale di un pranzo comune che era segno della commensalità, della solidarietà fra i credenti. Ci si riuniva intorno ad una tavola imbandita da chi aveva cibi e bevande. A Corinto la maggioranza erano schiavi, nullatenenti, oltre a scaricatori di porto, e a artigiani. Succedeva che i più ricchi, giunti con le loro provviste, mangiavano tra loro, bevevano e si ubriacavano, mentre i poveracci, impegnati nel lavoro, giungevano alla fine. Tutti insieme quindi celebravano l’eucarestia. Paolo dice che alcuni erano rimpinzati ed ubriachi e gli altri non avevano niente, ma questo afferma « non è celebrare il pranzo del Signore perché non fate il pranzo comune, anzi la vostra celebrazione è una condanna per voi ». Paolo dice che l’eucarestia è espressione della commensalità, dell’essere insieme alla stessa tavola sia con quelli che la imbandiscono perché hanno da portare cibi e bevande, sia con quelli che non hanno niente da portare se non lo stomaco da riempire. Questo è l’aspetto maggiormente sottolineato in tutta la Bibbia, tutta pervasa dalla sete di giustizia e quindi dalla logica della condivisione. Il movimento ecologista dovrebbe essere molto attento oltre che ad un uso corretto, non rapace dei beni, ad un uso condiviso, perché ancor prima dell’uso rapace c’è il problema dell’uso ingiusto e discriminante. Oltre l’uso opulento dei saccheggiatori c’è la rapacità solo per sé sulla pelle degli altri. Paolo sottolinea il tema della commensalità, della
partecipazione, come aveva fatto Gesù con i suoi discepoli alla vigilia della morte nel segno della commensalità umana.

una natura coinvolta nella storia della salvezza
Un quarto filone di riflessione riguarda la natura in quanto coinvolta nella storia dell’uomo nel bene e nel male, perché la natura è una dimensione essenziale dell’uomo. L’essere dell’uomo al mondo caratterizza la storia della salvezza. Il mondo senza l’uomo non è immaginabile come non è immaginabile nella concezione creazionistica l’uomo senza il mondo. La natura non è soggetto della storia della salvezza, dato che l’unico soggetto è l’uomo, ma se l’uomo ha una dimensione mondana, la natura viene coinvolta in questa storia, sia nel bene che nel male. E’ coinvolta nel male quando la relazione uomo natura si concretizza in un atteggiamento di idolatria o di disprezzo o di rapina o di possesso esclusivo del mondo. E’ coinvolta nel bene quando la relazione uomo natura avviene nella logia del rispetto e della condivisione.

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – GIUSEPPE BARBAGLIO – PDF II PARTE

http://www.giuseppebarbaglio.it/Articoli/finesettimana130190.pdf

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – PDF II PARTE

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

VERBANIA PALLANZA, 13-14 GENNAIO 1990

LE DOMANDE DELL’UOMO TRA NATURA E STORIA E LE RISPOSTE IN PAOLO

la creazione in prospettiva cristologica Paolo caratterizza la creazione in senso cristologico, inserendo fin dalle origini Gesù Cristo nel rapporto tra « ktisis » e « ktisas », tra creatura e creante, con diverse formule: in Cristo, mediante Cristo, verso Cristo; sono modi per indicare la mediazione di Gesù Cristo nella creazione. Il rapporto « ktisis »- »ktisas » non è più un rapporto diretto, ma mediato da un terzo, Gesù di Nazareth. Dire che tutta la creazione è avvenuta in Cristo, mediante Cristo ed è finalizzata a Cristo, vuol dire che Gesù costituisce il senso di tutto. Uscendo dalle formule che riecheggiano il discorso della causalità – la causalità strumentale o efficiente, la causalità formale, finale – potremmo dire che Gesù Cristo è il senso del mondo, di « ta panta », ed è impressionante che sia una persona individuo che dà senso alla totalità. Potremmo dire che Gesù è la chiave di lettura di « ta panta », è il centro aggregante per cui « ta panta » non è un insieme di cose, ma è un’unità unificata da lui. Gesù è la luce rivelante il senso della totalità, è il traguardo verso cui corre la totalità, è la forza traente: sono tutti modi per dire che Gesù di Nazereth, morto e risorto, é il senso del mondo. Gesù, che è un uomo qualunque, un uomo debole, un uomo impotente, uno degli ultimi, uno dei vinti della storia, è il centro: lui, il crocifisso e il risorto. « Ta panta », il tutto, riflesso nell’uno Gesù di Nazareth. Però l’uno Gesù di Nazareth non è un individuo chiuso in sé, è il prototipo dell’umanità. Paolo questo l’ha visto chiaramente quando nel cap. 5,12 di Romani parla di Cristo come del secondo Adam, il secondo prototipo dell’umanità, oppure in 1 Corinti 15,20-29.45-49. L’uno Gesù non è separato dalla totalità dell’umanità, ma è il primo tipo e immagine nel quale c’è tutta l’umanità. La totalità trae senso dall’uomo qualunque, debole, fragile. gli ultimi al centro della creazione e della storia Il « ta panta » é fatto da Dio per gli ultimi, per i crocifissi, per i vinti: questo è il progetto di Dio creatore, un progetto che viene contestato dalla storia che mette in croce Gesù di Nazareth, che mette in croce gli ultimi, i deboli, gli impotenti. Il progetto di Dio viene contestato dagli uomini forti che creano la società dei violenti, dei privilegiati. Gesù di Nazareth crocifisso e risorto è segno di contraddizione nella storia: Dio ha risuscitato, rendendogli giustizia, colui che, rappresentativo degli ultimi, è stato messo in croce. In questo modo Gesù, benché l’umile, il debole, l’ultimo, il vinto, è il centro del creato. Ecco allora la dialettica drammatica della storia: il progetto di Dio, che Dio può solo proporre e non imporre, di mettere Gesù al centro è rigettato dall’umanità, che rifiuta che gli ultimi siano al centro e li rimette al margine e crea la società dei forti, dei violenti, dei privilegiati; ma Dio risuscitando Gesù ricolloca al centro quelli che sono stati estromessi. L’interpretazione che dà Paolo di Gesù come centro sconvolge il senso comune che attribuisce il centro ai violenti e ai potenti. La crocifissione nasce dall’esperienza della violenza coalizzata. I violenti fanno solidarietà fra loro a danno dei deboli. Nei testi della passione si legge che tutti sono coalizzati: le autorità giudaiche di vertice, gli anziani, i sommi sacerdoti, Pilato, la folla stessa: si crea la società dei violenti che violenta l’indifeso che è Gesù. Ma Dio risuscita il debole, il violentato, il crocifisso. Dio ricolloca al centro quelli che sono stati discriminati, contestando la società dei violenti che occupa il centro della storia. Oggi nel dialogo fra le religioni si tende a sottacere che Gesù è il centro, però questo vuol dire non riconoscere che è il figlio di Dio e farlo diventare uno dei tanti profeti. Ma se lo confessiamo figlio di Dio, se per noi è l’unico Signore, come dice Paolo, non dobbiamo avere delle remore, ben sapendo che è al centro come il crocifisso, come il prototipo dei crocifissi. Si ribalta la logica dei forti e dei violenti che si coalizzano per espungere i deboli. Paolo dice che Gesù è l’Adam, ha senso per l’umanità, un senso che noi cogliamo nella fede. Siamo liberi di coglierlo o no, ma se è l’Adam vuol dire che è il prototipo di ogni uomo, sia esso indiano, cinese, africano, occidentale, orientale. Come questo debba essere interpretato secondo le varie culture è un altro discorso, ma non è che avendo delle difficoltà dobbiamo negare i punti di partenza che sono l’oggetto elementare della nostra fede. Per noi c’è un solo Dio, il Padre, ed un solo Signore, Gesù Cristo. Si può rinunciare a credere in questo, ma è in gioco il centro della fede non un elemento periferico. Gesù è il centro non in quanto Gesù di Nazareth, ma in quanto morto e risorto. Dire il risorto vuol dire esattamente l’universalizzazione del senso che ha Gesù di Nazareth per tutta l’umanità. E’ certo incarnato nella cultura, paga un debito alla cultura, c’è un problema di superamento della cultura, ma proprio per questo diciamo che è al centro in quanto crocifisso e risorto. Se dicessimo infatti che è solo Gesù di Nazareth, il problema sarebbe complicato perché bisognerebbe mettere al centro anche la sua cultura. Se invece è Gesù morto e risorto, risorto vuol dire la capacità di Gesù di essere il simbolo di tutta l’umanità al centro della storia come essere debole, fragile, secondo il progetto di Dio.
animati dallo Spirito del risorto Paolo dice inoltre che noi siamo « ktisis kainé » – nuova creatura – se siamo in Cristo, cioè se siamo animati dallo Spirito del risorto, se siamo investiti dalle forze nuove di questo Spirito vivificante. Spirito vivificante non vuol dire qualcosa che è immateriale nei confronti di ciò che è materiale, ma qualcosa che è vita nei confronti di ciò che è morte. l’antitesi è tra vita e morte, non tra immaterialità e materialità. Lo Spirito del risorto, con il suo dinamismo, viene donato a tutti e da questo punto di vista Gesù è simbolo per tutta l’umanità. Lo Spirito non è monopolio di alcuni gruppi o di alcune culture. Su questo ha visto molto bene Giovanni quando dice: « lo Spirito soffia dove vuole », come il vento, giocando sul doppio significato di « pneuma » e « ruah » in ebraico. Lo Spirito non ha confini. Cristo è universalizzabile, è simbolo di tutta l’umanità in quanto dona il suo Spirito a tutti gli uomini. Tutti gli uomini ricevono lo Spirito se sono in Cristo. Il dinamismo delle scelte allora diventa dinamismo dell’agape, dell’amore oblativo, comunicativo, costruttivo. Da questo punto di vista (Galati 5,16-25, Romani 8,1-17) la nuova creatura nasce là dove c’è l’uomo « pneumatikos », animato dallo « pneuma », spirituale, non nel senso di uomo dedito alla vita del pensiero, immateriale, ma dedito ad una vita umana condotta secondo il dinamismo dello Spirito che è alternativo al dinamismo della « sarx », all’egocentrismo che induce a costruirsi un mondo chiuso in se stesso, un microcosmo senza porte e senza finestre, autosufficiente. La creazione nuova, dice Paolo, è già presente dove l’uomo si lascia animare dal dinamismo dello Spirito che è donato a tutti. L’uomo può rifiutare lo Spirito, contrastandolo, facendosi guidare dall’altro dinamismo che è dentro di noi, il dinamismo della « sarx ». La nuova creazione a livello personale vuol dire l’uomo che vive eticamente non guidato da leggi esterne, da norme, da comandamenti – questa è la grande rivoluzione di Paolo – ma guidato dallo Spirito che è dentro di noi, dal dinamismo dell’agape. Docilità al dinamismo dello Spirito: questa è la spiritualità. In Matteo la spiritualità non ha questo senso, è semplicemente una vita condotta nell’obbedienza alla legge di Dio che è manifestata attraverso Cristo. Paolo ha sostituito ad una guida esterna dell’uomo – le leggi, le norme, le autorità, le parole – il dinamismo interno donato dallo Spirito di Cristo. « Vi dico però, – scrive Paolo Galati 5,l6 – camminate (agite) nello Spirito e in questo modo voi non porterete a compimento le cupidigia della carne ». La « sarx » per Paolo è l’uomo che vive nella cupidigia (epitsumìa) delle cose, del possedere per sé, nello strappare agli altri, nelle gelosie, nelle invidie. Già nella tradizione biblica e giudaica del tempo c’era l’equiparazione tra peccato e cupidigia. « La « sarx » nelle sue cupidigie si oppone allo Spirito e lo Spirito ha impulsi contrari alla carne. Queste cose sono antitetiche le une alle altre, affinché voi non facciate quello che desiderate fare nella cupidigia. Se voi vi lasciate condurre dallo Spirito non siete sotto la legge ». La nuova creatura, resa possibile dal dono del risorto e che si realizza alla condizione di lasciarsi guidare dallo Spirito, manifesta la presenza dell’escatologia. Non c’è da una lato la vecchia creazione vigente e dall’altro la nuova creazione che verrà, ma già esiste la « kainé ktisis ». E’ la nuova e originale concezione che Cristo e poi Paolo hanno portato: la fine è dentro la storia, il traguardo è già dentro il cammino, l’oggi è pieno delle forze vivificanti del mondo ultimo, futuro. Sullo sfondo c’è la concezione del mondo creato che si è alienato negando la propria creaturalità, seguendo i percorsi della « sarx ». Il mondo creato alienato è ora in via di riscatto. La nuova « ktisis », creazione, è condizionata: si rende presente se e nella misura in cui siete in Cristo, in cui vi lasciate guidare dallo Spirito, in cui contrastate il dinamismo della carne. Il riscatto è soltanto incominciato, la sua realizzazione piena è oggetto di speranza; ma ciò che noi attendiamo per il futuro già lo possiamo anticipare e vivere nell’oggi se siamo in Cristo. La svolta è già avvenuta nel dono dello Spirito che dà il principio del nuovo mondo. Importante è che questo principio attivo e creativo abbia spazio, non sia contrastato, negato, soffocato. Il futuro, la nuova creazione, è una possibilità aperta che possiamo realizzare attraverso la solidarietà con Cristo risorto, sia pure incoativamente e precariamente perché permane il peso di quell’altro dinamismo. L’AT era approdato, attraverso il filone profetico che inventa l’escatologia – il salto di qualità nella storia – alla soluzione apocalittica: Dio ha fatto due mondi perché questo mondo si è corrotto a tal punto da essere irrecuperabile e quindi destinato alla distruzione. Alla fine sarà sostituito, verrà gettato come una zavorra e scenderà dal cielo un nuovo mondo bello e fatto. In queste nuova scialuppa che verrà data all’umanità entreranno quelli che sono fedeli alla legge mentre gli altri saranno estromessi una volta per sempre. Gesù e Paolo non hanno accolto questa visione apocalittica, perché non ammettono il principio dei due mondi creati. Questo mondo è l’oggetto di tutte le loro speranze però non rimandate al futuro: la svolta ha inizio nella risurrezione di Cristo in cui è dato il principio del nuovo mondo. Questa situazione dialettica di storia ed escatologia, di presente e futuro ultimo, di fine e cammino, è la soluzione cristiana. Il rapporto tra creazione ed escatologia si colloca dentro questa concezione: non sono due realtà separate, ma l’escatologia è dentro la creazione. E’ l’escatologia di questo mondo, di questa storia, e non di un altro mondo, di un’altra storia. Questa è la risposta fornita da Paolo alle domande iniziali su chi siamo? donde veniamo? dove andiamo? 1 Tessalonicesi 4,13-18: una vita nella speranza In 1Tessalonicesi 4,13-18 Paolo dice che la vita cristiana è una vita nella speranza e in essa non deve aver spazio la tristezza di fronte alla morte, l’ombra sinistra della morte che aleggia sulla vita come ultima parola sull’esistenza. Il fondamento della speranza è la risurrezione di Cristo, una speranza che poggia sulla fede. Paolo fa una distinzione tra quei credenti che sono vivi alla venuta di Cristo (riteneva prossima la fine del mondo) che non passeranno attraverso la morte, ma entreranno nel mondo nuovo per rapimento sull’immagine di Elia o del patriarca Enoch che sono stati rapiti da Dio, e i credenti che sono già morti, che saranno risuscitati. Però sia i rapiti che i risuscitati andranno incontro a Cristo, per essere sempre con lui. Il traguardo della speranza, il traguardo finale dell’esistenza cristiana, già iniziato, consiste nella comunione indefettibile con il Signore Gesù oltre la morte o la fine dell’uomo.
1 Corinzi 7,29-31: il tempo si è contratto C’è un altro testo caratteristico in 1 Corinzi 7,29-31 in cui Paolo fa una raccomandazione: « Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto conciso, dunque quelli che hanno mogli siano come se non le avessero, e quelli che piangono come se non piangessero, e quelli che godono come se non godessero, e quelli che acquistano come se non possedessero, e quelli che usufruiscono del mondo come se non ne usassero appieno; perché sta passando la figura di questo mondo ». E’ da rimarcare questa concezione del tempo: « il tempo si è fatto conciso ». Nel mondo greco il tempo era considerato come un fiume che fluisce lentamente e indefinitamente, che va e ritorna. Per Paolo invece il tempo si è rattrappito, si è fatto una breve linea segnata dal passare di questo mondo sulla scena. Paolo pensa ancora alla fine imminente del mondo, la cui caducità viene vissuta in modo altamente drammatico e anche illusorio. In questa precarietà il nostro esistere, le nostre esperienze fondamentali non devono essere assolutizzate: bisogna viverle « os me », « come se ». Non sono cose indifferenti, ma sono esperienze da relativizzare. Gli stoici proclamavano l’epateia, l’essere emotivamente indifferenti di fronte alla realtà. Paolo dice che le esperienze umane non sono il tutto, non sono un assoluto. Questo mondo non è qualcosa di permanente ed eterno e pertanto le esperienze umane di questo mondo risentono della transitorietà. Sullo sfondo di questa visione c’è una certa escatologia e una conseguente etica.

1 Corinzi 15: Cristo primizia e risuscitatore E’ la trattazione più completa e più profonda della escatologia in Paolo. Paolo parte dalla risurrezione di Cristo per fondare la speranza nella risurrezione nostra. Dice: se Cristo è risuscitato vuol dire che anche noi risusciteremo. In 1 Tessalonicesi si limitava a dire che se Cristo è risuscitato anche noi risusciteremo, senza approfondire le motivazioni. Nella prima lettera ai Corinzi invece Paolo riesce a trovare la spiegazione profonda. Cristo non è risuscitato come caso unico, ma come « aparché », come primizia. E’ un termine che ha una tradizione alle spalle: « aparché » erano i primi covoni raccolti che dovevano essere offerti al tempio come riconoscimento del dono di Dio. Inoltre Paolo aggiunge un’altra formula: Cristo è risuscitato come nuovo Adam, come prototipo di una nuova umanità di risorti. Come il primo Adamo era il prototipo della prima umanità, Cristo è il prototipo, principio attivo della nuova umanità. E’ risuscitato come risuscitatore di altri. Paolo dice alla fine del cap. 8 « è il figlio in mezzo a tanti fratelli ». Questo è il disegno di Dio: Cristo centro della storia con tanti fratelli intorno, che siamo noi. La seconda cosa da notare in questo testo è la risurrezione dei corpi su cui Paolo insiste molto. A Corinto dicevano che noi siamo già risuscitati nella nostra anima, erano degli spiritualisti; Paolo invece dice che la risurrezione riguarda i corpi. Per corpo Paolo intende non la parte materiale, ma la struttura basica dell’uomo, per cui se c’è il corpo c’è l’uomo e se non c’è il corpo non c’è l’uomo. Questa struttura basica è una struttura relazionale, è la relazionalità verso Dio, verso gli altri e verso il mondo; se togliamo una di queste relazionalità non c’è l’uomo. La risurrezione coglie l’uomo in questa sua triplice relazionalità. Questa relazionalità ontologica, dice Paolo, noi la possiamo vivere esistenzialmente in termini negativi o in termini positivi. Posso viverla in termini negativi negando la mia creaturalità, considerando gli altri i miei schiavetti o assumendo un atteggiamento idolatrico o rapace nei confronti del mondo. In questo modo, vivendo in modo egocentrico la triplice relazionalità, per Paolo divento carnale (negando che Dio sia il nostro Dio, che gli altri siano i nostri fratelli, negando che il mondo sia l’habitat dell’uomo). Per Paolo la risurrezione dei corpi è la trasformazione piena di questa triplice relazionalità vissuta in modo positivo, secondo il dinamismo dello Spirito per cui l’uomo accoglie Dio come il Padre suo, gli altri come suoi fratelli ed il mondo come l’habitat suo e di tutta la famiglia umana. Questa triplice relazionalità vissuta positivamente fa sì che il corpo sia pneumatico, spirituale, animato totalmente dallo Spirito, secondo il dinamismo dell’agape. Questa spiritualizzazione già è cominciata, dice Paolo: se voi vi fate condurre dallo Spirito non vivete più secondo la carne, siete i figli di Dio, vivete in Cristo. La speranza non riguarda qualcosa di totalmente nuovo, non si riferisce ad una realtà assolutamente assente dalla storia, ma tende alla pienezza di una realtà già iniziata nella storia. La pneumatizzazione della triplice realtà, che é al presente ancora precaria perché il dinamismo della carne continua ad agire e c’è un ritorno del passato dentro di noi, sarà piena con la risurrezione. La spiritualizzazione del soma umano è data dallo Spirito vivificante di Cristo, a immagine di Cristo, l’uomo pienamente trasformato dallo Spirito. Cristo è il primo risuscitato, che ci risuscita a sua immagine. Filippesi 3, 20-21: a immagine del suo corpo glorioso Dice: « La nostra cittadinanza (politeuma) è nei cieli da cui aspettiamo che venga il Salvatore nostro Gesù Cristo », ‘cieli’ è il simbolo del mondo trasfigurato pienamente dallo Spirito « il quale trasfigurerà il nostro misero corpo a immagine del suo corpo glorioso ». La nostra triplice relazionalità che già é stata investita dalle forze dello Spirito sarà totalmente investita dallo Spirito di Cristo il quale ci trasfigurerà, opererà la metamorfosi piena in modo che il nostro corpo sia glorioso, investito dello splendore divino dei risorti ad immagine sua. Romani 8,12-25: anche la natura partecipa della risurrezione Il testo più nuovo da questo punto di vista è Romani 8,18-25. Già parlando della risurrezione dei corpi Paolo introduce anche la natura, il mondo, dentro il processo di trasformazione perché una delle tre relazioni è verso il mondo. Però in questo testo  »ktisis » (creazione) è solo il mondo creato naturale, a differenza del mondo umano. Dice: quello che è avvenuto avviene e avverrà di noi, passato presente e futuro, è avvenuto avviene e avverrà per la natura. Paolo mette in parallelismo la nostra vicenda di soggetti storici con la natura. E’ interessante la solidarietà tra il mondo umano ed il mondo inanimato ed animale. Al presente, dice Paolo, noi gemiamo e viviamo una esperienza dolorosa e drammatica, viviamo la durezza del cammino umano nella storia; anche il mondo inanimato geme nella sofferenza. Noi gemiamo ed il mondo geme. Nel futuro noi aspettiamo il riscatto dei figli di Dio, la risurrezione, la pneumatizzazione piena o anche la glorificazione (nei testi biblici, gloria – « doxa » in greco e « kabòd » in ebraico – non è mai l’onore, come per noi, ma esprime lo splendore della presenza di Dio). Similmente la natura dovrà essere glorificata e liberata per partecipare della libertà dei figli di Dio. Nel passato condividiamo il peccato, la corruzione nostra e del mondo. La creazione segue il destino dell’uomo. La storia della salvezza coglie direttamente l’uomo e coglie la natura per partecipazione all’uomo. dalla fede sgorga la speranza nella trasformazione dell’umanità e del mondo Primo punto importante di questi testi è la connessione tra speranza e fede, la speranza nasce dalla fede nella risurrezione di Cristo e noi risorgeremo per influsso suo e ad immagine sua. Secondo: la speranza riguarda la sorte di questa umanità e di questo mondo, non ci sarà sostituzione ma trasfigurazione, assumerà una nuova forma restando se stessa. I cieli nuovi e la terra nuova di cui parla Isaia sono questi cieli, questa terra, ma in una nuova forma; il futuro riguarda i nostri corpi attuali, non corpi nuovi creati ad hoc. Questo è importante perché la speranza non ci fa uscire da questo mondo, ma si tratta di essere attivi nella trasformazione di questo mondo. Terzo: il futuro finale già è iniziato; la comunione indefettibile è già nella comunione non ancora salda con Cristo. Il riscatto futuro già è iniziato. Il mondo sta partorendo nei dolori, nei contrasti, nelle contraddizioni della storia, nella crocifissione dell’esistenza. I dolori ci sono, ma sono i dolori di una nuova vita. La nuova nascita è già iniziata perché sono iniziate le doglie. La storia e l’escatologia sono mescolate, le forze del nuovo mondo sono già presenti, ma sono ancora in lotta con le forze del vecchio mondo, con la « sarx ». La nuova nascita avviene nella minaccia di impedire l’uscita del nuovo: non si tratta di un pacifico possesso. Questo nostro presente ha già in parte la configurazione del futuro; nel deserto sono già germinate le nuove pianticelle, in attesa della piena fioritura.

un mondo da non adorare Questo è importante anche per i rapporti tra storia ed escatologia, e non solo tra creazione ed escatologia. Paolo, anche se non aveva i nostri problemi, è interessato alla natura. Nel mondo di allora era molto presente una tendenza alla divinizzazione della natura e delle sue forze. Le religioni immanentistiche divinizzano la natura, le sue forze vitalistiche, oppure le forze astrali. L’imperatore Amenofi IV in Egitto aveva sostituito la religione ufficiale del dio Amon con quella del dio Aton, il disco solare. Invece la concezione creazionistica della Bibbia e di Paolo è contro la divinizzazione della natura che non è la grande madre da adorare. Chi ha una concezione divinizzata della natura, ritiene che la natura non possa essere violata. Sarebbe empio trasformare la natura, intervenire nei suoi sacri meccanismi. Chi divinizza la natura ha un atteggiamento idolatrico nei suoi confronti ed adora le cose, divenendone schiavo. Invece, chi ha una concezione creazionistica si serve delle cose. Paolo dice: « tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio ». un mondo di cui godere con gratitudine La concezione creazionistica è anche contro il disprezzo spiritualistico-dualistico della natura e delle cose. Lo spiritualismo era presente oltre che nella filosofia greca, in tutto lo gnosticismo. Nello gnosticismo l’uomo era visto come una scintilla divina, che per un caso drammatico è caduta dagli altissimi cieli in questo mondo. L’uomo è quindi una scintilla divina rivestita della corazza materiale, che nell’assumere la mondanità non ricorda più la sua origine divina e si ritiene una cosa del mondo. Non ha più coscienza di sé, è totalmente alienata, si ritiene parte di questo mondo opaco. Ma ecco che viene, dagli spazi celesti, il logos, anch’esso scintilla divina, che assume il corpo come un vestito puramente esterno, per non dar troppo nell’occhio. Viene a ricordare alle scintille smemorate ed alienate la loro origine divina. Esse riacquistano la coscienza di sé e si liberano dalle corazze materiali con la « gnosi ». Questa coscienza di sé provoca un grande desiderio della morte come liberazione non solo interiore ma anche esteriore, al fine di potersi ricongiungere al grande fuoco divino. In questa concezione il mondo è visto come un carcere, che rende abietto e alienato l’uomo. La concezione creazionistica invece è contro ogni visione dualistica e quindi la natura è « ktisis », è creatura, è dono, è grazia da accogliere, da godere, da usare con gratitudine dice Paolo nella 1Corinzi 10,25-26 o in Romani 14,6. Questo uso deve essere fatto senza assolutizzazioni, con un distacco interiore, come se non ne usassimo. Da questo punto di vista si può inserire il discorso dell’uso corretto della natura, delle forze, delle energie, senza abusarne. un mondo da condividere Una terza considerazione: questo uso della natura, secondo la visione biblica e paolina, non solo deve avvenire ll’insegna della parsimonia, ma soprattutto secondo la logica della condivisione. La preoccupazione dominante della visione biblica è la giustizia. A questo proposito Paolo si esprime in 1 Corinzi 11. Nella comunità si riunivano per la cena del Signore, al termine della quale si celebrava l’eucarestia. L’eucarestia era il punto terminale di un pranzo comune che era segno della commensalità, della solidarietà fra i credenti. Ci si riuniva intorno ad una tavola imbandita da chi aveva cibi e bevande. A Corinto la maggioranza erano schiavi, nullatenenti, oltre a scaricatori di porto, e a artigiani. Succedeva che i più ricchi, giunti con le loro provviste, mangiavano tra loro, bevevano e si ubriacavano, mentre i poveracci, impegnati nel lavoro, giungevano alla fine. Tutti insieme quindi celebravano l’eucarestia. Paolo dice che alcuni erano rimpinzati ed ubriachi e gli altri non avevano niente, ma questo afferma « non è celebrare il pranzo del Signore perché non fate il pranzo comune, anzi la vostra celebrazione è una condanna per voi ». Paolo dice che l’eucarestia è espressione della commensalità, dell’essere insieme alla stessa tavola sia con quelli che la imbandiscono perché hanno da portare cibi e bevande, sia con quelli che non hanno niente da portare se non lo stomaco da riempire. Questo è l’aspetto maggiormente sottolineato in tutta la Bibbia, tutta pervasa dalla sete di giustizia e quindi dalla logica della condivisione. Il movimento ecologista dovrebbe essere molto attento oltre che ad un uso corretto, non rapace dei beni, ad un uso condiviso, perché ancor prima dell’uso rapace c’è il problema dell’uso ingiusto e discriminante. Oltre l’uso opulento dei saccheggiatori c’è la rapacità solo per sé sulla pelle degli altri. Paolo sottolinea il tema della commensalità, della
partecipazione, come aveva fatto Gesù con i suoi discepoli alla vigilia della morte nel segno della commensalità umana. una natura coinvolta nella storia della salvezza Un quarto filone di riflessione riguarda la natura in quanto coinvolta nella storia dell’uomo nel bene e nel male, perché la natura è una dimensione essenziale dell’uomo. L’essere dell’uomo al mondo caratterizza la storia della salvezza. Il mondo senza l’uomo non è immaginabile come non è immaginabile nella concezione creazionistica l’uomo senza il mondo. La natura non è soggetto della storia della salvezza, dato che l’unico soggetto è l’uomo, ma se l’uomo ha una dimensione mondana, la natura viene coinvolta in questa storia, sia nel bene che nel male. E’ coinvolta nel male quando la relazione uomo natura si concretizza in un atteggiamento di idolatria o di disprezzo o di rapina o di possesso esclusivo del mondo. E’ coinvolta nel bene quando la relazione uomo natura avviene nella logia del rispetto e della condivisione.

L’IMITAZIONE DI CRISTO SECONDO SAN PAOLO

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L’EDUCAZIONE È DINAMISMO E VITA

L’IMITAZIONE DI CRISTO SECONDO SAN PAOLO

« Fatevi miei imitatori »: è questo il primo passo da fare sulla strada che porta alla vera conformazione a Cristo Signore. Non è che in questo modo Paolo pretenda di sostituirsi a Cristo Gesù: ci mancherebbe altro! Egli intende solo dire che i cristiani di Filippi devono imitare il modo con cui egli vive di Cristo e lotta per Cristo…

Il tema della imitazione di Cristo entra di diritto nel discorso intorno alla pedagogia di Paolo; a esso infatti l’apostolo dedica alcune pagine del suo epistolario tra le più belle e più illuminanti. Una attenta riflessione ci aiuterà a mettere ulteriormente a fuoco il metodo pedagogico di Paolo. Dobbiamo rilevare subito che l’imitazione di Cristo trova una mediazione umana nell’esempio dello stesso Paolo e ha come modello finale addirittura Dio:  ancora una volta una articolazione triplice che rende agile e ardito il pensiero di Paolo. Si direbbe che Paolo non conosce ostacoli né confini nel portare a compimento il suo progetto educativo. Notiamo fin d’ora che il tema dell’imitazione di Dio è eccezionale nel Nuovo Testamento. Nelle lettere paoline è piuttosto l’apostolo ad apparire come l’imitatore di Cristo e a offrirsi per ciò stesso all’imitazione dei fedeli. Ma qui egli apre un orizzonte nuovo sul quale siamo sollecitati a muoverci per arrivare allo stesso traguardo al quale ha potuto giungere egli stesso.   »Fatevi miei imitatori »:  è questo il primo passo da fare sulla strada che porta alla vera conformazione a Cristo Signore. Non è che in questo modo Paolo pretenda di sostituirsi a Cristo Gesù:  ci mancherebbe altro! Egli intende solo dire che i cristiani di Filippi devono imitare il modo con cui egli vive di Cristo e lotta per Cristo:  « Quello che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me è quello che dovete fare » (4, 9). Qualcuno potrebbe vedere in queste espressioni una volontà quasi coercitiva di Paolo ma, a ben considerare, non è così. Qui emerge invece quella profonda convinzione per la quale Paolo sa che il cammino da lui intrapreso dopo la conversione di Damasco corrisponde pienamente alla volontà di salvezza che Dio nutre verso ogni uomo e donna di buona volontà. Ma torniamo all’esortazione di Paolo:  « Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi ». Viene spontanea la domanda:  in che cosa i cristiani di Filippi dovrebbero imitare l’apostolo? La risposta può essere solo questa:  essi devono imitarlo nel modo in cui egli vive di Cristo e lotta per Cristo. Lo lascia intendere anche quando scrivendo ai cristiani di Tessalonica afferma:  « Voi siete diventati imitatori nostri e del Signore avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grandi tribolazioni » (1 Tessalonicesi, 1, 6). Imitare Cristo e l’apostolo vuol dire dunque soffrire a motivo del vangelo. Si evince che « imitare » non significa tanto cercare di riprodurre gli atteggiamenti o le virtù morali di qualcuno; per il discepolo di Cristo significa piuttosto accettare la condizione di « servo sofferente » che fu quella di Gesù e anche di Paolo:  « Se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi » (Giovanni, 15, 20). Paolo si preoccupa pure di assicurare la perseveranza dei suoi destinatari in questo impegno educativo:  « Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi » (4, 1). A nulla varrebbe essere cresciuti alla scuola di ottimi maestri se non si persevera nel cammino intrapreso, disposti anche a pagare di persona, quando è necessario. Questa è « maturità nella fede »:  « Quanti dunque siamo perfetti(…) dal punto al quale siamo giunti, continuiamo ad andare avanti come abbiamo fatto finora » (3, 15-16). Notiamo pure come Paolo insista nel qualificare i destinatari della sua lettera come « fratelli »:  questo porta a pensare che la fraternità tra credenti ha sì un fondamento sacramentale innegabile, ma nello stesso tempo si manifesta nel comune impegno a procedere come in cordata sulla via che porta alla conformazione a Cristo, unica mèta di ogni progetto educativo in ambito cristiano. Non solo perché l’unione fa la forza, ma soprattutto perché nella comunione ecclesiale è presente e opera lo Spirito del Signore. Agli abitanti di Tessalonica Paolo si offre come modello anche per la sua laboriosità:  « Sapete infatti, fratelli, come dovete imitarci:  poiché non abbiamo vissuto oziosamente fra voi né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno(…) Non che non ne avessimo il diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare » (2 Tessalonicesi, 3, 7-9). Quanto sia vero che l’ozio è il padre dei vizi lo sanno in molti, ma lo sanno soprattutto gli educatori. Per questo non è affatto disdicevole che Paolo si proponga come modello anche sotto questo profilo. Il metodo educativo di Paolo gode di una unità profonda che coinvolge tutti gli aspetti della vita umana, nessuno escluso. « Come io lo sono di Cristo »:  la mera imitazione di Paolo non sarebbe significativa in un contesto cristiano. Paolo lo sa benissimo; per questo egli si affretta a dire:  « Fatevi miei imitatori « come » io lo sono di Cristo » (1 Corinzi, 11, 1). In quel « come » non è indicata solo la modalità, ma anche il motivo. « Paolo chiede ai Corinzi di imitarlo perché lui stesso imita Cristo. In questo modo anch’essi imiteranno Cristo. È questo un tema di ordine etico che corrisponde al « seguire Cristo » nei vangeli » (Traduzione ecumenica della Bibbia):  ecco il significato profondo di quella espressione. Ma noi intravediamo che modalità e motivo si intrecciano e quasi si identificano. È lui stesso, Paolo, a farcelo capire quando sempre agli stessi destinatari scrive:  « Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri « perché » sono io che vi ho generati in Cristo Gesù mediante il vangelo. Vi esorto, dunque:  fatevi miei imitatori! » (4, 15-16). Sembra di poter riconoscere in queste parole un misto di polemica e di ironia:  per Paolo comunque educare vuol dire generare. Lo dice senza mezzi termini con l’intenzione di farci capire quanto gli è costato sobbarcarsi a questo compito. Del resto educare, nella sua etimologia, non significa « tirar fuori »? Con la sua predicazione e con tutta la sua vita Paolo ha prestato la sua collaborazione al Signore perché quanti ascoltavano la sua parola potessero rinascere in Cristo. Questa, per Paolo, è l’unica cosa che deve stare a cuore ad un vero educatore. Cerchiamo ora di comprendere più a fondo la metafora del parto con la quale Paolo cerca di esprimere la differenza che corre tra lui e gli altri pedagoghi. Cristo sulla croce ha sofferto dolori paragonabili a quelli del parto:  lo lascia intendere l’apostolo Pietro quando afferma che facendo risorgere Gesù « Dio lo ha sciolto dalle angosce della morte » – nel testo greco il termine odìnas che indica anche i dolori del parto. Allo stesso modo Paolo può affermare:  « Sono io che vi ho generati in Cristo Gesù », come altrove scrive:  « Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi » (Galati, 4, 19). Annoto che la frase « partorisco nel dolore » in greco è resa dal solo verbo odìno. Quanto sia dolorosa l’esperienza dell’educatore è notorio, ma qui Paolo ci lascia anche intendere che nell’opera educativa, come nell’esperienza della maternità, si intrecciano gioie e dolori, fatiche e speranze. Dobbiamo perciò convenire che le modalità (il « come » di 1 Corinzi, 11, 1) con le quali Paolo ha esercitato il suo ministero apostolico corrispondono in pieno al motivo (il « perché » di 1 Corinzi, 4, 15) per il quale può rivendicare di essere l’unico vero pedagogo dei cristiani di Corinto. « Imitatori di Dio »:  l’affermazione può sembrare esagerata, quasi temeraria, ma Paolo la utilizza a ragion veduta nella parte parenetica della sua lettera ai cristiani di Efeso:  « Fatevi dunque imitatori di Dio quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amati e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore »(5, 1-2). I cristiani di Efeso potranno dire di imitare Dio se si comporteranno da figli suoi, cioè se nutriranno la vera pietas nei suoi confronti e se tradurranno nelle scelte di vita le istanze concrete della figliolanza di cui godono. Nello stesso tempo, per poter vantare questo privilegio, essi devono eccellere nella carità perché questo è il nome di Dio (vedi 1 Giovanni, 4, 8). A ben considerare, tutta l’opera educativa di ispirazione cristiana non è altro che una continua e indefessa iniziazione all’amore verso Dio e verso i fratelli. Su questo preciso dettaglio dovrebbe confrontarsi ogni educatore quando si mette di fronte a Dio per verificare la validità del suo impegno e della sua missione. Ma ai cristiani è data anche una mediazione speciale, quella di Cristo Gesù:  « Nel modo che anche Cristo vi ha amati e ha dato se stesso per noi ». Educare significa imprimere nei discepoli non uno « schema », che è segno di staticità e di morte, quanto piuttosto una « forma », che è segno di dinamismo e di vita. Lo dice lo stesso Paolo:  « Non schematizzatevi su questo mondo, ma trasformativi rinnovando la vostra mente » – così letteralmente secondo il testo greco. La forma alla quale Paolo si riferisce è certamente quella del Padre, la cui immagine è impressa in ogni suo figlio; ma è anche quella di Cristo perché Dio, il Padre, « ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli » (Romani, 8, 29). Portiamo dunque una duplice « forma » in noi:  quella del Creatore e quella del Redentore. Noi dovremmo essere riconoscibili e riconosciuti da questa duplice forma che ci fa unici e irripetibili per Dio e per il mondo.  

« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO – Giuseppe Barbaglio

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=79

Incontri di « Fine Settimana »
percorsi su fede e cultura
anno 34° – 2012/2013

Annunciare e testimoniare oggi la buona notizia

« UN TEMPO PER NASCERE, UN TEMPO PER MORIRE » NEI VANGELI E NELLE LETTERE DI PAOLO

(DIVIDO IN DUE, VANGELI E PAOLO)

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio

Verbania Pallanza, 13-14 febbraio 1993

3. PAOLO
Rifletteremo ora su come Paolo ha vissuto la sua esistenza particolare qualificata dalla missione apostolica e su come ha interpretato il senso profondo dell’esistere nella precisa angolatura dell’esistere cristiano.
un rapporto personale con i Tessalonicesi
La personalità di Paolo appare nelle sue lettere in cui affronta problemi ecclesiastici, teologici, causati dalle situazioni concrete delle sue comunità o in cui parla di sé. Al di là dello sviluppo teologico del suo pensiero emerge il soggetto, lo spessore umano di Paolo, che viveva in modo molto unitario la sua esperienza umana e apostolica.
Seguiamo le lettere nell’ordine cronologico partendo dalla 1 Tessalonicesi che ha scritto da Corinto a cavallo dell’anno 50. E’ il primo scritto della Bibbia cristiana, circa 20 anni dopo la morte di Gesù. In questo scritto le connotazioni più personali sono esplicite; i primi tre capitoli sono una rievocazione dell’incontro che ha avuto con i Tessalonicesi. Non era rimasto a lungo a Tessalonica, da cui era dovuto fuggire inseguito dalla inimicizia dei giudei della sua stirpe; fece sosta ad Atene e giunse a Corinto. Paolo era molto preoccupato che la comunità potesse estinguersi poiché la sua opera non era stata completata. Tessalonica era la capitale della provincia romana di Macedonia e Corinto la capitale di Acaia. Paolo scrive rievocando l’incontro con i Tessalonicesi e, in 2,8 dice: « voi c’eravate talmente cari che a noi piaceva comunicare a voi non solo il Vangelo di Dio, ma anche le nostre stesse vite ». Il « noi » include i suoi collaboratori Timoteo e Sila. Paolo intende il suo esistere come una realtà da comunicare. Giunto ad Atene inviò Timoteo a raccogliere informazioni e questi lo raggiunse poi a Corinto con buone notizie sulla comunità che resisteva e che, dice Paolo ha « un buon ricordo di me ». In 3,8 dice « abbiamo ricevuto questa notizia, ora sì vediamo che voi state saldi nel Signore ». Il rapporto di Paolo come apostolo nella sua comunità non è solo funzionale, ma è personale, una comunione interpersonale.

Paolo assume il volto del Vangelo
Paolo costituì poi una comunità a Corinto di nuovo tipo perché era formata da incirconcisi in un ambiente greco. Corinto era una grossa metropoli che contava mezzo milione di abitanti, era centro culturale (Atene viveva allora un momento di eclisse) e commerciale. Il rapporto di Paolo con questa sua comunità, in cui era rimasto due anni e mezzo, è stato molto controverso, perché, dopo la sua partenza, erano subentrati altri predicatori di orientamento diverso che avevano ottenuto il consenso della comunità mettendola contro Paolo.
In 1 Corinti 2,1-5, Paolo parla della sua venuta. La comunità di Corinto era un po’ tronfia, piena di sé per la nuova esperienza, e con atteggiamenti trionfalistici. Paolo reagisce e dice: « anch’io fratelli quando venni da voi non ero portatore di una sapienza eccellente o di capacità retorica » – logos, abilità nel parlare e sophia, pensiero penetrante -. Il pensiero greco era incentrato, dal punto di vista culturale, sulla sapienza e sulla eleuteria, la libertà personale e politica. Paolo dice: non sono venuto facendomi scudo di parola retorica e di pensiero penetrante « sono venuto ad annunciarvi il mistero di Dio ed ho ritenuto bene, in mezzo a voi, di annunciarvi solamente Gesù Cristo e costui crocifisso ». Il crocifisso era la contraddizione più palese nei confronti di un mondo molto orgoglioso, molto superbo della propria saggezza umana. La croce aveva origine barbara, persiana, era riservata ai paria, ai ribelli e la sensibilità greca, molto raffinata, la rifiutava. Paolo si presentava sulla scena di Corinto in antitesi alla cultura dell’ambiente; « io venni in mezzo a voi nella debolezza – en asteneia – nel timore e in grande tremore » nella pochezza umana dell’annunciatore Il mio annuncio, il mio kerigma non venne in mezzo a voi con parole persuasive di sapienza ma con la manifestazione dello spirito della sua potenza affinché la vostra fede non sia basata sulla sapienza umana, ma sulla forza di Dio ».
In questo testo possiamo notare come la forma del Vangelo di Paolo incentrato sul Cristo crocifisso diventa la forma della sua vita. Non è il rifiuto del pensiero e della riflessione, ma il rifiuto di un pensiero che si erge a metro della realtà. C’è l’identificazione tra l’esistere di Paolo e il Vangelo di cui è portatore. Non è un funzionario del Vangelo, non lo vende sul mercato come se fosse un prodotto, ma Paolo assume il volto del Vangelo. Paolo è l’apostolo crocifisso non nel senso della sofferenza, ma della debolezza: il crocifisso è il segno della debolezza del figlio di Dio e della debolezza di Dio nella storia.
A Corinto la comunità si era suddivisa in gruppuscoli ed ognuno di essi aveva come sua bandiera un grande esperto; c’era il gruppo di Paolo, di Apollo, un predicatore cristiano di Alessandria formatosi secondo i canoni della paideia greca, dotato quindi di logos splendente e di sophia, c’era il gruppo di Cefa e il gruppo di Cristo. Vi era una personalizzazione dell’esperienza cristiana e Paolo reagisce dicendo che l’esperienza cristiana dipende da Cristo e non dal predicatore « forse che Paolo è stato crocifisso per noi? Forse che siete stati battezzati nel nome di Paolo? ». In 3,5 dice: « Chi è Paolo? Chi è Apollo? Sono soltanto amministratori (oiconomoi) », L’oiconomos era uno schiavo o un liberto che nella casa dei ricchi aveva compito di amministratore dei beni. Poiché costoro dicevano: io sono di Cefa, io sono di Apollo, Paolo rovescia il rapporto « tutto appartiene a voi, noi siamo vostri, ma voi siete di Cristo ».
Paolo modello di esistenza cristiana attenta ai deboli
L’esistere di Paolo come amministratore della casa emerge soprattutto al cap. 9 della 1 Corinti dove si presenta come modello, esempio di una esperienza cristiana attenta ai deboli nella comunità. Nella comunità di Corinto c’erano i forti ed i deboli che avevano molti scrupoli riguardo le carni immolate agli idoli. Nelle città greche e romane del tempo la maggioranza delle macellerie vendeva carne che era stata immolata al tempio. La carne infatti veniva in parte destinata ai sacerdoti, in parte bruciata, in parte data ai devoti e quella che eccedeva veniva venduta nelle macellerie. Alcuni cristiani avevano problemi di coscienza nel mangiarla mentre altri addirittura si sedevano nei ristoranti collegati al tempio in luoghi in cui si consumava il banchetto sacro da parte di colui che aveva offerto i sacrifici e dei suoi amici. Il capo ristorante, il macellaio e il sacerdote chiamato « magheiros » erano la stessa persona. C’era un intrico di significati sociali, sacri ed anche idolatrici. I forti esibivano la loro libertà interna, l’eleuteria, ostentandola ed i deboli erano scandalizzati.
Paolo dice che si deve fare attenzione ai deboli per i quali lui è il fratello, per i quali Cristo è morto. Il simbolo religioso diventa la ragione di un comportamento di attenzione al fratello debole: si deve rinunciare alla libertà quando questa si traduce in uno svantaggio per il fratello debole. Paolo dice: « Guardate a me. Non sono forse io libero, non sono forse apostolo? »
In quanto apostolo Paolo aveva diritto di essere mantenuto dalla comunità che era orgogliosa di farlo, invece ha rinunciato ed ha lavorato con le sue mani per mantenersi. La comunità era rimasta molto scossa ed aveva dato interpretazioni negative come se Paolo non si sentisse un vero apostolo, dicendo che i veri apostoli come Cefa e come i fratelli di Gesù, si erano dati alla missione e si facevano mantenere. Paolo rivendica il diritto e dice al v.12 « ma noi non ci siamo avvalsi di questo diritto bensì tutto sopportiamo per non creare un qualsiasi ostacolo al Vangelo di Gesù ». Paolo non ha voluto farsi mantenere perché non si potesse sospettare un suo interesse privato nell’annuncio del Vangelo. Nel mondo greco lavorare con le mani era compito di ceti molto bassi, popolari e veniva disprezzato; l’ideale greco e romano era l’otium, la contemplazione, la riflessione filosofica, la lettura. Paolo annunciando il Vangelo gratuitamente si sottraeva al sospetto di interesse privato, ma, lavorando manualmente come artigiano, si esponeva al disprezzo della società-bene del tempo. Negli ambienti stoici e cinici invece il fatto di lavorare personalmente era ritenuto un’espressione di libertà.
A quel tempo vi erano predicatori propagandisti religiosi e filosofici il cui problema di mantenimento era risolto in quattro modi: c’era chi entrava nella casa del re oppure in casa di personaggi importanti come precettore (ad es. Aristotele era istitutore dei figli di Filippo) ma il rischio era di perdere la libertà di giudizio; c’era chi si faceva dare un salario per l’insegnamento; c’era chi mendicava come i cinici; c’era infine chi lavorava personalmente per salvare la propria libertà. Il grande modello del mondo stoico di chi lavorava per essere libero era Socrate. Paolo ha scelto questa strada e dice, 9, 19-23: « Essendo io libero da tutto mi sono fatto schiavo di tutto affinché io possa guadagnare parecchie persone e sono diventato per i giudei come un giudeo perché potessi guadagnare i giudei, per quelli che sono sotto la legge mi sono fatto come uno sotto la legge pur non essendo io sotto la legge affinché io potessi guadagnare quelli che sono sotto la legge; per quelli che sono senza legge io mi sono fatto come uno senza legge pur non essendo io un fuorilegge nei confronti di Dio, ma sono dentro la legge di Cristo affinché potessi guadagnare quelli che sono senza legge. Mi sono fatto a favore dei deboli come uno che è debole affinché io potessi guadagnare il debole; io mi sono fatto tutto a tutti per guadagnare in ogni modo alcuni. Tutto io faccio per amore del Vangelo affinché io sia compartecipe con voi del Vangelo ». La parola tutto « panta » ritorna continuamente: come plurale neutro, come dativo (pasin), per tutte le persone, per rendere un linguaggio di totalità che riflette la totalità della dedizione di Paolo. L’esistenza di Paolo è intesa come dedizione totale assumendo i costumi altrui; non è il nostro problema dell’inculturazione del Vangelo, ma dell’evangelista.
La sua adattabilità ha però un punto fisso ed é l’amore del Vangelo. Nei versi 24-27 Paolo prosegue usando l’immagine dello sport, molto sentita dal mondo greco. I giochi di Corinto erano secondi solo ai giochi di Olimpia; l’atleta che vinceva la corsa non riceveva denaro, ma la corona che a Corinto era di rami di pino intrecciati, diventando così celebre. « Non sapete che quelli che corrono nello stadio, tutti corrono, ma uno solo prende il premio? Così voi correte per prenderlo. Chiunque lotta nell’agone sportivo si disciplina in tutto e quelli lo fanno per una corona corruttibile. Noi invece corriamo per ricevere una corona incorruttibile. Perciò io corro non come uno che corre senza una meta fissa, faccio pugilato non come un pugile che colpisce l’aria, bensì colpisco sotto l’occhio il mio corpo (era il pugno più offensivo), e lo riduco in schiavitù affinché non avvenga che, dopo aver fatto l’araldo agli altri, io stesso finisca squalificato ». Paolo non si sente un uomo sicuro, non è un « superman ». Da una parte ha una dedizione totale per salvare qualcuno, ma dall’altra permane il timore, per cui si sottopone a severissima autodisciplina.
fiducia e speranza in colui che dà la vita piena
Al cap. 15 della I Corinti Paolo ricorda il momento drammatico che ha vissuto a Efeso e si esprime in termini metaforici: ho combattuto con le fiere e l’ho fatto perché avevo la speranza nella resurrezione. Se ho messo la vita a repentaglio, dice, l’ho fatto nella speranza di ricevere da Dio una vita piena. Paolo sente che la sua vita è preziosa, ma è pronto a pagare questo prezzo alto, a vendere la sua vita, non per masochismo, ma per creare vita agli altri e a se stesso. Nella 2 Corinti ritorna sul pericolo mortale che ha corso ad Efeso. Dice in 1,8 « non vogliamo infatti che voi ignoriate come noi nell’Asia siamo stati assaliti da una tribolazione, siamo stati oberati al di là delle nostre forze a tal punto che abbiamo dubitato di potere vivere e noi abbiamo portato dentro di noi la sentenza di morte affinché non riponessimo la fiducia in noi stessi, ma in Dio il quale risuscita i morti. Ci ha riscattati da tale morte e ci riscatterà affinché noi riponessimo la nostra speranza anche per il favore della vostra preghiera ». Paolo ha avvertito enormemente il pericolo e dall’altra parte ha la sorpresa di essere stato risparmiato e questo, dice, mi ha dato una lezione. Paolo ha imparato da questa esperienza drammatica a riporre la fiducia e la speranza in colui che dà la vita ed aggiunge: questo ve lo dico perché impariate.
In 2 Corinti 7,2 dice a questa comunità che lo aveva fatto soffrire moltissimo perché aveva dato ragione ai suoi avversari, ripercorrendo la vicenda, « voi avete un grande posto nel mio cuore ». E al verso 5 « la mia vita all’esterno è avvolta da lotte e all’interno vi sono paure ».
il valore dell’annuncio
La lettera ai Filippesi viene scritta da Paolo mentre si trova in prigione nella prospettiva di una condanna capitale. Poi Paolo verrà liberato, ma sarà nuovamente arrestato a Gerusalemme, portato a Cesarea, quindi a Roma dove subirà la sentenza di morte. Paolo si trova dunque in catene, con probabilità a Efeso. Oltre al pericolo di essere condannato a morte, vive anche il disagio creato dagli avversari che avevano approfittato della sua disgrazia per succedergli nella comunità. La reazione di Paolo è in 1,18 « io godo perché, o per motivi sinceri o anche abbietti, Cristo è annunciato ». Paolo, che è stato accusato di avere identificato troppo se stesso con il Vangelo, in questa occasione separa se stesso dal Vangelo e sottolinea il valore dell’annuncio. La reazione di fronte alla sentenza capitale è di incertezza; Paolo non sa se desiderare la morte perché in tal modo si unirebbe a Cristo oppure l’assoluzione per continuare ad essere utile. « Sono ondeggiante », dice, ma dopo lungo pensare conclude che preferirebbe sopravvivere (Filippesi 1,21-22).
un esempio di autarchia
Un altro testo molto bello sul costume di Paolo è un esempio di autarchia. L’essere economicamente autosufficiente era un ideale dei cinici, chiamati cani perché vivevano nella povertà, nel distacco totale, come Diogene. I Filippesi, che amavano molto Paolo, gli avevano mandato aiuti mentre si trovava in prigione. I detenuti infatti non venivano mantenuti, e si nutrivano solo se parenti o amici provvedevano. Gli avevano anche mandato uno per compagnia, come si usava. Paolo ne è felice, però rimanda questi dicendo « ve ne ringrazio, però ho imparato nella vita ad essere autarchico, ho imparato a vivere nella ricchezza ed ho imparato a vivere nella povertà » (Filippesi 4,11 ss.)
un inno di trionfo sulla morte
In 1 Corinti cap.15,54-55 c’è un inno di trionfo sulla morte: « La morte è stata ingoiata nella vittoria. Dov’è o morte la tua vittoria? Dov’è il tuo pungiglione? », e prosegue al verso 57: « sia reso grazie a Dio il quale dà a noi la vittoria mediante il Signore nostro Gesù ». In 15, 26 la morte è definita « l’ultimo nemico dell’uomo ».
Paolo ha, in quanto erede della tradizione ebraica, una concezione altamente drammatica della morte e ritiene che la morte sia anche l’ultimo nemico di Cristo. La sua teologia è sempre caratterizzata dalla categoria della forza, della potenza. Confrontandosi con la domanda: chi ha il dominio del mondo? dice: la morte che tutti ci falcia. Però Cristo vuole essere il padrone del mondo, il Signore. Allora, dice Paolo, il nemico nostro è anche il nemico di Cristo; se noi crediamo alla signoria di Cristo speriamo che Lui vinca la morte in noi, per una causa sua. Cristo vince la morte in noi per sé perché si tratta della sua signoria. E’ un inno nella fede, nella speranza: che vinca Cristo! Non è una certezza, è una fiducia.
E’ un testo che viene ripreso nel cap. 8 di Romani dove Paolo dice che ci sono forze terribili di morte contro di noi. « Che cosa diremo? Se Dio è per noi, chi potrà essere contro di noi? Non ha risparmiato il figlio suo, anzi lo ha consegnato, a favore di tutti noi, alla morte. Se ha fatto questo, non ci farà dono, insieme con Cristo, di tutte queste cose? Chi ci accuserà? Chi accuserà gli eletti di Dio? Cristo è colui che è morto, anzi è risuscitato e siede alla destra di Dio ed intercede per noi ». L’azione di Cristo non è solo al passato, ma allo stato attuale intercede, è il nostro avvocato. « Chi mai potrà separarci dall’amore di Cristo? La tribolazione, l’angustia, la persecuzione, la fame, la nudità, i pericoli, la spada… ma in tutte queste traversie noi stravinciamo (ipernikomenon) a causa di colui che ci ha amati. Siamo persuasi che né morte né vita né angeli né principati né le cose presenti né le cose future né altezza né profondità né alcuna altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che lui ha per noi in Cristo Gesù nostro Signore ». La fiducia è in questo amore indistruttibile che Dio ha per noi. Paolo vive la sua esistenza in questa fiducia radicale nell’amore di Dio e di Cristo.

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