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IL CORPO DELLA NOSTRA UMILIAZIONE

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(credo Chiesa Evangelica)

IL CORPO DELLA NOSTRA UMILIAZIONE

L’opera di redenzione dell’uomo peccatore, perfettamente compiuta da Gesù sulla croce, sarà totalmente adempiuta in noi quando, al suo ritorno, il corpo della nostra umiliazione sarà trasformato in un corpo conforme a quello della sua gloria. In questa attesa dobbiamo essere consapevoli non soltanto delle notevoli potenzialità del nostro corpo, ma anche dei suoi limiti.
“Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove aspettiamo anche il Salvatore, Gesù Cristo, il Signore, che trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, mediante il potere che egli ha di sottomettere a sé ogni cosa” (Fl 3:20-21)

Un “vaso di terra” e una “tenda”
Non si può dire quanta speranza e consolazione si trovano nelle parole sopracitate, scritte dall’apostolo Paolo mentre era in carcere (Fl 1:13). Ogni figlio di Dio trova forza nel sapere che tutta la sofferenza che vive, tutte le miserabili esperienze conosciute nel corpo non solo avranno fine, ma lasceranno spazio ad una eternità che vivremo con un corpo glorioso!
Questa consapevolezza ci rallegra e ci dà un sano realismo per il presente, tenendoci lontano da illusioni di trionfalismi prematuri.
Infatti l’apostolo Paolo, unitamente all’atteso ritorno del Signore Gesù dal cielo, vedeva il momento in cui i corpi dei credenti saranno trasformati.
Dichiara che aspettiamo “il Salvatore, Gesù Cristo, il Signore” (v. 20). Questo chiarisce il fatto che la nostra salvezza sarà completa e manifestata quando “il Salvatore” redimerà anche il nostro corpo (Eb 10:28; Ro 8:23b), mentre per ora la nostra vita “è nascosta con Cristo in Dio” (Cl 3:3).
Quindi, come “cittadini del cielo” abbiamo in vista un meraviglioso appuntamento, nel frattempo però siamo“nel corpo” e in esso non c’è gloria.
Al “corpo naturale” (1Co 15:44) si addicono infatti aggettivi quali: “corruttibile” (v. 42), “ignobile”, “debole” (v. 43),“mortale” (v. 53).
Una prima immagine in linea con questi termini è quella del “vaso di terra” (2Co 4:7), che illustra bene la natura del nostro corpo.
Richiamando infatti la medesima figura del vaso, l’apostolo afferma che i vasi di legno e di terra sono per un uso ignobile, mentre per un uso nobile si scelgono vasi d’oro e d’argento (2Ti 2:20). Anche noi metteremmo nel posto più in vista della casa un vaso pregiato, non un vaso di terra! E il nostro corpo è… un vaso di terra!
Altra immagine: tanto l’apostolo Paolo come l’apostolo Pietro (2Co 5:1-10, 2P 1:13-14) scrivono paragonando il corpo ad una tenda, cioè ad una dimora temporanea alla pari di quella che un pellegrino sposta in continuazione fino a quando, disfatta, la dovrà lasciare. Mentre una casa è solida e duratura, la tenda esprimeprecarietà.
È “il corpo della nostra umiliazione”: il termine medesimo, “umiliazione”, ci ricorda la parola “humus”, che significa proprio terra.
Dunque niente di glorioso, ma bassezza e pochezza.
Si tratta di una umiliazione non cercata né da cercare (a differenza di quella interiore): il nostro corpo manifesta “la nostra umiliazione” a prescindere da quello che noi vorremmo, e questo sottolinea ancora meglio che non ci possono essere per il corpo terreno, così com’è, innalzamento e gloria.
Dobbiamo tuttavia considerare che il nostro corpo non è di per sé qualcosa di negativo da disprezzare.Se pensassimo questo, disprezzeremmo l’opera del nostro Creatore, al quale Davide si rivolgeva così:
“Io ti celebrerò, perché sono stato fatto in modo stupendo” (Sl 139:14).
Qualunque sia la realtà del nostro corpo, esso è una stupenda creazione di Dio.
La dimostrazione che Dio non disprezza i nostri corpi la vediamo anche nell’averli fatti diventare il tempio dello Spirito Santo:
“Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio?”(1Co 6:19).
Questo è il segnale che la redenzione non riguarderà soltanto spirito e anima, ma anche il corpo del credente.
Ogni cosa a suo tempo, però.
In quello che segue vorrei cercare di approfondire il significato della frase riportata nel titolo dell’articolo vedendo nella Scrittura quali sono le manifestazioni dell’umiliazione che al momento ci riguarda.

Esposizione al peccato
Fino a che vivremo in questo corpo dovremo fronteggiare il pericolo di cadere nel peccato. Infatti, anche se come credenti, in quanto “morti con Cristo” non siamo più “nella carne” ma siamo “nello Spirito” (Ro 8.9) – in altre parole: la posizione di legittimo comando spetta ora esclusivamente allo Spirito Santo! – pur nondimenonon siamo ancora insensibili ai richiami della carne, che continua a manifestare i suoi desideri e far sentire i suoi richiami.
Se nel nostro cammino daremo retta ai suggerimenti della carne, il nostro corpo eseguirà azioni di peccato. Occorre qui precisare che il corpo non equivale alla “carne”, anche se in alcuni versetti il termine “carne”significa proprio corpo fisico, materia (ad esempio in Romani 8:3b o in 1Timoteo 3:16). Infatti, mentre la“carne” ha una connotazione solo negativa, per il corpo fisico le cose sono diverse.
Per spiegare questo concetto, ci viene in aiuto un esempio: il nostro corpo è come uno strumento (Ro 6:13), di per sé neutro, ma potenzialmente sia esecutore di male sia esecutore di bene a seconda di chi lo comanda.
Possiamo dire che, se è vero che anche con la propria interiorità, con la mente ed il cuore, l’uomo può commettere peccato, il corpo fisico è il più noto agente esecutore di azioni condannate dal Signore.
Tra le cose che “odia il Signore” (Pr 6:16-19) ci sono peccati compiuti con gli occhi (alteri), la lingua (bugiarda), le mani (che spargono sangue innocente), i piedi (che corrono frettolosi al male).
Anche Paolo, dimostrando l’universalità del peccato, cita la partecipazione di ogni parte del corpo nel fare il male, come espresso in vari passaggi dell’Antico Testamento ripresi in Romani 3:13-18. Ci sono peccati quali gozzoviglie e ubriachezze, e i peccati di natura sessuale: fornicazione, adulterio, orge, impurità, sodomia (Ro 13:13; 1Co 6:9, 13-18; Ga 5:19-21; Ef 5:3-5; Cl 3:5; 1Te 4:3-5; 1P 4:3).

Quant’è miserabile e deplorevole un simile uso del corpo!
Per questo, coloro i quali sono “risuscitati con Cristo” devono camminare “in novità di vita” (Ro 6:4) prestando le proprie membra non più “al peccato, come strumenti d’iniquità” ma “come strumenti di giustizia a Dio” (Ro 6:13).
Dunque, con lo strumento “corpo” posso fare cose gradite a Dio, cose giuste, posso servirlo.

Tutti i giorni, tutte le ore c’è da scegliere.
La decisione giusta è di “presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale” (Ro 12:1).
Per farlo convintamente c’è bisogno di una mente rinnovata, che darà al corpo l’input di fare la volontà di Dio (Ro 12:2).
Il corpo farà il bene se comandato da una mente che fa propri i pensieri di Dio, farà il male se sarà diretto da una mente allineata ai ragionamenti del mondo.
Un giorno avremo il corpo della gloria, che non potrà più essere prestato al peccato, perchè il peccato non ci sarà più!
Perciò la redenzione splenderà con forza perchè questo corpo di oggi, di cui abbiamo fatto in passato un uso sbagliato (non sia più così ora!) avrà un sostituto che lo farà dimenticare completamente.

Fatica e stanchezza
Con l’ingresso del peccato nell’esperienza umana, è arrivata anche la fatica nell’adempimento dei nostri impegni:
“Mangerai il pane con il sudore del tuo volto” (Ge 3:19).
Ci spendiamo per svolgere attività, per spostarci, per studiare… ma arriviamo ad un punto in cui avvertiamo che tutto questo diventa pesante, e poi insostenibile, perchè le nostre energie si esauriscono. Quindi ci sentiamo stanchi e ci dobbiamo fermare, riposare, dilazionare le cose da fare.
Dio invece non è soggetto a queste limitazioni: “Egli non si affatica e non si stanca” (Is 40:28), “…non sonnecchierà né dormirà” (Sl 121:4).
Eppure, questo Dio “è stato manifestato in carne” (1Ti 3:16): nella persona del Signore Gesù Cristo si è fatto uomo con un corpo simile al nostro, con l’unica differenza che quel corpo non fu mai prestato al peccato e di conseguenza non doveva subire la morte quale “salario” del peccato stesso.

Le domande di Giobbe a Dio:
“Hai tu occhi di carne? Vedi tu come vede l’uomo? Sono i tuoi giorni come i giorni del mortale, i tuoi anni come gli anni degli esseri umani…?” potevano avere risposta affermativa da parte di Gesù, Dio incarnato.
Il nostro Salvatore ha conosciuto le limitazioni di questo “vaso di terra”, e i Vangeli ce ne rendono testimonianza: passando per la Samaria, vicino al pozzo di Giacobbe, Gesù fu “stanco del cammino” (Gv 4:6).
Tutto quello che il Signore Gesù sperimentò nella sua incarnazione fa sì che egli ci possa comprendere e possa simpatizzare con noi “nelle nostre debolezze” (Eb 4:15).
Chi di noi non ha sospirato desiderando che in un attimo finisse la stanchezza avvertita, quando proprio non ce la facevamo più?
In momenti simili dobbiamo ricordare che il nostro Signore ci è vicino e ci capisce.
Lo stress è uno dei problemi più comuni del nostro tempo. Troppo spesso chiediamo a noi stessi uno sforzo così intenso che mette a dura prova non solo il nostro corpo, ma anche la nostra emotività che ad esso è intimamente connessa.
Abbiamo bisogno di saggezza per selezionare le cose da fare, eliminando quelle dannose e inutili, dando priorità alle cose davvero importanti. Siamo sicuri che non ci stiamo procurando da soli delle ansie inutili, che ci spingono a fatiche non necessarie?
«Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?” (Mt 6:25)
Chiediamoci altresì: stiamo dando spazio all’impegno per la Chiesa? Al servizio?
Saranno energie ben spese quelle destinate all’opera di Dio e a compiere le buone opere (1Co 15:58; 1Te 2:9).
In questo corpo siamo soggetti a numerose limitazioni, perciò è importante avere chiare le giuste priorità per spenderci in ciò che davvero vale.

Malattie e dolore
Questo è l’aspetto che probabilmente ci impressiona di più e ci fa sentire più marcatamente l’umiliazione nel nostro fisico.
Il nostro corpo è soggetto ad una infinità di patologie, di malesseri e di dolori.
L’essere umano è addirittura dato alla luce in mezzo al dolore, quello del parto!
Inoltre il nostro corpo, pur essendo adattabile ad una gamma di situazioni diverse a seconda del luogo e della stagione, risente sensibilmente della condizione ambientale in cui si trova: caldo, freddo, umidità, arsura, inquinamento ecc…
Di solito, a parlare di dolori e malanni sono gli anziani, che conoscono quelli dovuti all’età, eppure le malattie colpiscono tutti, e spesso capiamo quanto dovremmo essere riconoscenti per un corpo in salute solo di fronte alla perdita di quest’ultima.
Con le malattie l’umiliazione è chiaramente riscontrabile, talvolta lasciandoci del tutto impotenti ad osservare il decorso di mali per i quali non ci sarà guarigione.
Non è piacevole ammalarsi e non poter più fare le cose di prima. Non è facile aspettare una guarigione che non è sicuro arrivi. Non è per niente bello convivere con dolori e malesseri per anni e anni. La mente diventa un campo minato in cui dubbi e ribellione potrebbero far vacillare la nostra fede in Dio.
Certo, le malattie non sono una passeggiata, sono una prova ed una afflizione.
Ma quando vengono accettate da chi le vive come circostanze permesse dal Signore, esse diventanostrumento nelle sue mani per produrre “pazienza, esperienza, speranza” (Ro 5:3-4) e “costanza” (Gm 1:3).

Ci sono molte occasioni in cui Dio interviene e ci guarisce.
Per Davide, Dio era degno di lode anche perché “risana tutte le tue infermità” (Sl 103:3). Del resto, il Signore Gesù ha compiuto un’infinità di guarigioni, mostrando la potenza di Dio e anche una grande compassione nei confronti di chi è ammalato (Mt 4:23-25).
Uno dei segni che accompagnò i credenti dell’era apostolica fu la guarigione degli ammalati (Mc 16:18; At 3:1-8, 5:12-16).
Epafrodito, un compagno d’opera di Paolo, si ammalò gravemente ma Dio ebbe pietà di lui e lo guarì (Fp 2:25-30).
Eppure Dio non guarì in tutti i casi e non ci guarirà sempre. Infatti, è anche attraverso le malattie e le disabilità che Dio può trarsi gloria, come nel caso dell’uomo nato cieco (Giovanni 9) oppure formarci spiritualmente per conoscerlo meglio, come avvenne per Giobbe.
A dimostrazione di questo principio possiamo guardare non un credente additabile come mancante di fede o carnale, ma niente meno che l’apostolo Paolo (2Co 12:7-10).
Che cosa rispose il Signore all’apostolo che per tre volte gli chiedeva liberazione dalla sua dolorosa infermità?
“La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza”.
Il Signore portava avanti il suo piano con Paolo in un modo migliore lasciandogli quell’infermità piuttosto che togliendola.
La grazia del Signore era con Paolo anche con quella infermità, e la debolezza del suo essere era la condizione ottimale affinché la grazia si mostrasse.
Infatti, per quale ragione “noi abbiamo questo tesoro in vasi di terra”?
Ecco la risposta:
“… affinché questa grande potenza sia attribuita a Dio e non a noi” (2Co 4:7).
E questo non è tutto.
Guardiamo a quest’altro passo:
“Voi non mi faceste torto alcuno; anzi sapete bene che fu a motivo di una malattia che vi evangelizzai la prima volta; e quella mia infermità, che era per voi una prova, voi non la disprezzaste né vi fece ribrezzo; al contrario mi accoglieste come un angelo di Dio, come Cristo Gesù stesso. Dove sono dunque le vostre manifestazioni di gioia? Poiché vi rendo testimonianza che, se fosse stato possibile, vi sareste cavati gli occhi e me li avreste dati.” (Ga 4:13-15).

Paolo aveva un problema agli occhi. Proprio per questo riesce, sì, a scrivere di suo pugno la lettera ai Galati, ma con grossi caratteri (Ga 6:11). Però questo suo problema aveva generato due cose molto positive.
La prima era che, proprio a causa di questa malattia, Paolo aveva evangelizzato i Galati.
La seconda era stata l’affettuosa cura che i Galati avevano dimostrato per Paolo. Che cosa impariamo?
Dio ha un piano sempre migliore rispetto ai nostri progetti, in cui le malattie sono escluse. Senza quella malattia di Paolo, i Galati come avrebbero ricevuto il Vangelo?
Può darsi! Allora, anche se noi ci ritroviamo in un letto d’ospedale, il Signore ci userà per testimoniare di Cristo al nostro vicino!
Le malattie inoltre ci offrono l’occasione di assistere ed aiutare chi soffre, portando il peso insieme a chi è ammalato. Non dimentichiamo che uno dei doni spirituali definiti dalla Parola è proprio quello delle “assistenze”(1Co 12:28), e gli ammalati sono certamente una categoria molto numerosa tra i possibili assistiti.
Sarà nella gloria che il dolore non ci sarà più (Ap 21:4); per il momento malattia e dolore ci testimoniano con molta chiarezza l’umiliazione di questo corpo.

QUANDO L’INIZIO FA CORTOCIRCUITO CON LA FINE, AD ANDARE A FUOCO SIAM

http://www.tempidifraternita.it/archivio/bodratoweb/bodrato13.htm

QUANDO L’INIZIO FA CORTOCIRCUITO CON LA FINE, AD ANDARE A FUOCO SIAMO NOI

Si consiglia di leggere questo articolo tenendo presenti i sequenti passi biblici: Romani 5, 12- 21 e 8, 18-27; I Corinti 15, 20-28; Filippesi, 2, 5-11; Colossesi 1, 15-20; Apocalisse, cap. 21-22.

Proprio perché comincia coi racconti dell’origine e termina con le immagini di una rivelazione (apocalisse), che adombrano la conclusione ultima, la Bibbia non può non contenere pagine che tentano un incontro tra questi suoi due estremi. L’inizio preordina in qualche modo la fine e la fine inevitabilmente rimanda alle grandi attese e ai fondamentali valori dell’inizio. Lo abbiamo chiarito in termini generali in uno dei nostri primi interventi, ma qui ora dobbiamo tornarci con maggiore attenzione. Infatti la ripresa neotestamentaria del tema delle origini si caratterizza proprio per lo stretto rapporto posto tra primo e ultimo nell’interpretazione della figura di Gesù, anzi quasi traforma la loro potenziale relazione in una sorta di cortocircuito cristologico.
Tutto ciò solleva un’infinità di questioni esegetiche e teologiche tutt’altro che semplici, come abbiamo visto durante la rilettura del prologo del Vangelo di Giovanni. Se in Gesù si incontrano, infatti, l’originaria potenza creatrice del Verbo, quella storico-rivelatrice dello Spirito e, in ultimo, la realizzazione escatologica della pienezza in Dio della creazione e della storia, Gesù è la sintesi del tutto, la verità di Dio e la verità dell’uomo, il compimento che riassume in sè ogni altro essere e ogni altra attesa, ma, come Crocefisso-Risorto, ne è anche la radicale problematizzazione.

L’esegesi tipologica come strumento neotestamentario di lettura e di scrittura biblica
Tutti sappiamo che le pagine che compongono il Nuovo Testamento nascono dal bisogno di tradurre in annuncio e in testimonianza scritta la fede cristologica dei primi seguaci di Gesù. Potremmo anche tentare di articolare in tempi e livelli diversi le tappe che hanno portato alla professione esplicita di tale fede, per meglio comprendere che essa non forma un blocco unico e non corrisponde, sic et cimpliciter, alla predicazione di Gesù. Ma questo ci condurrebbe lontano. Ci basti qui tenere presente il fatto che tutto il Nuovo Testamento è frutto di una riflessione sull’esperienza del proprio incontro, diretto o indiretto, col Nazareno che, per tradursi in scritto teologicamente orientato e orientante, in cristologia appunto, si vale di una profonda rilettura dell’Antico Testamento, di una sua continua rivisitazione per mezzo di citazioni esplicite e implicite, di rimandi e rielaborazioni. In sostanza si potrebbe quasi dire che i libri cristiani della Bibbia nascono come ricucitura di quelli ebraici intorno alla figura di Gesù di Nazaret detto il Cristo.
Anche questa è una caratteristica della Bibbia, quella di essere un libro che mette in scena la propria stesura, che tematizza ed esplicita la propria natura aperta, capace di continui aggiornamenti e completamenti. Per di più dovuti ad una lettura che si fa scrittura, che genera pagine nuove, degne di diventare compagne delle antiche e sorgente di altre infinite riletture e riscritture.
E’ così che hanno operato Paolo, Giovanni e le loro scuole, che ha operato l’autore della lettera agli Ebrei e quello dell’Apocalisse. Quando hanno cercato di dare corpo teologico e forma letteraria e simbolica alla propria convinzione di fede che Gesù era il Cristo, hanno evocato i temi teologici, le forme letterarie, i simboli portanti della fede veterotestamentaria, hanno utilizzato le grandi figure della Scrittura per convogliarle e raccoglierle intorno alla persona del loro eroe. Hanno dato vita ad una straordinaria operazione esegetico-creativa che va sotto il nome di tipologia.
Ce lo documenta con straordinaria chiarezza Earle Ellis nel suo studio sull’uso de L’antico Testamento nel primo cristianesino (Brescia, 1999). « L’esegesi tipologica era già stata impiegata nel giudaismo, ma per il cristianesimo primitivo essa divenne la chiave fondamentale per l’interpretazione scritturistica della figura e della missione di Gesù. » Essa si basa, infatti, sulla convinzione che gli eventi cristiani della salvezza si spiegano come realizzazione di analoghi eventi testimoniati dalla storia passata di Israele. Considera questi ultimi come anticipazioni e figure, come tipi o antitipi del Cristo. Tratta anzi a sua volta il Cristo stesso come prefigurazione e anticipazione, come tipo profetico del compimento futuro dell’intero processo redentivo (p. 141).
Ora, in generale, nel Nuovo Testamento la tipologia si presenta come tipologia della creazione e tipologia dell’alleanza. La prima presenta Adamo come « tipo di colui che doveva venire » (Rom 5, 14) e Gesù come nuovo Adamo, capace di rovesciarne l’umano destino di morte in destino di vita (I Cor 15, 22). La seconda fa di Gesù il nuovo Mosè e degli eventi dell’Esodo dei « tipi » della nuova alleanza, dei « tipi » che « vennero messi per scritto quale ammonimento per noi su cui è giunta la fine dei tempi » (I Cor 10, 6-11). Il che porta ad un terzo genere di tipologia, quella escatologica. Poiché, infatti la nuova alleanza, associata alla morte e resurrezione di Gesù, sfocia in una nuova creazione, le due prime tipologie non solo possono intrecciarsi, ma di necessità si incontrano nell’immediata apertura ad una dimensione nuova e diversa del creato e della storia.
E’ esattamente per questo che Paolo può parlare di una creazione che attende la propria liberazione dalla rivelazione dei figli di Dio (Rom 8, 19), che gli autori delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei possono presentarci Gesù come primizia del creato, capo della chiesa storica e primogenito dei risorti e dei riconciliati con Dio (Col 1, 15-20, Ebr 1-2), che il visionario dell’Apocalisse può aprire la sua prima lettera alle sette chiese qualificando l’emissario, Gesù risorto, come il Primo e l’Ultimo (2, 8) e chiudere la sua opera con una promessa che riassume enfaticamente tutto questo processo di risintetizzazione cristologica e martiriale del processo creativo e redentivo: « Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omnicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna. » (22, 12-15).

La cristologia come modello deflagrativo del presente
Ora questa ripresa sintetica del tema creativo e redentivo, posti in così stretta relazione con la realizzazione del loro fine ultimo, ci obbliga a renderci conto che il nostro non è affatto un credo pacificamente rassicurante e che la Bibbia cristiana, proprio perché non ci consente di dimenticare il passato, ma continuamente lo rilancia verso il futuro, è un libro esplosivo, un libro che fa del presente una sorgente di infinito e mai esausto dinamismo. Il che è evidente soprattutto per la cristologia, che privata di tale carattere dinamico e dirompente e letta come una dottrina metafisica degli attributi essenziali del Nazareno, diventa un « busillis » indecifrabile.
Il presente cristiano è per definizione un presente inquieto e lacerato, un presente in lotta per diventare quello che già sa di essere, ma ancora non sperimenta in tutta la sua pienezza. Un presente che potremmo paolinamente definire come un presente in corsa o in gara e che nulla esenta da questa situazione agonica di attesa e di tensione: non la storia con la sua specifica conflittualità, ma neppure la natura, con le sue tradizionali prerogative di fissità e perfezione.
Abbiamo in proposito già ricordato il passo in cui Paolo parla della creazione impaziente « Di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rom 8, 21),. Ma ora dobbiamo capire che quest’opera non consiste solo nella restaurazione di uno stato iniziale, temporaneamente deturpato dal peccato, bensì di qualcosa di totalmente nuovo e rivoluzionario, tanto rispetto all’essere originario del mondo, quanto e al nostro stare post-cristico. « Sappiamp bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come ancora potrebbe sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. » (8, 22-25).
Il che vale anche per il parallelo tipologico Adamo-Cristo. Gesù, come nuovo ed ultimo Adamo, non si limita a cancellare le colpe e i mali introdotti nella vita dalla trasgressione di Adamo, in quanto « il dono di grazia non è come la caduta ». « Se infatti per la caduta di uno solo morirono molti….molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo  » (Rom 5, 15-17). Egli è un « tipo » di Adamo che supera il padre naturale di tutti gli uomini, non soltanto perché, « pur essendo nella forma di Dio » (Filippesi 2, 6 e Gen 1, 26), « non considerò lo stato di equaglianza a Dio come una possibile preda » (Fil 2, 6; Gen 3, 5-6), ma anche perché, con la sua scelta di obbedienza fino alla morte, manifestò una vocazione alla signoria ben superiore a quella affidata da Dio ad Adamo e ottenne « un nome che è al di sopra di ogni altro nome…Un nome…di fronte al quale si piega ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra » (Fil 2, 7-11).

Se anche la creazione dove rinnovarsi
Siamo ad un passo dalle affermazioni cristologiche del prologo di Giovanni e delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei sulla preesistenza di Gesù Cristo alla natura e sulla sua stessa funzione creatrice; affermazioni che abbiamo esaminato nell’ultimo articolo e che ci sono sembrate davvero problematiche. Ma siamo anche ad un passo dal coglierne, insieme, il limite, la necessità e la paradossalità.
Il limite, perché in nessuna di queste professioni di fede cristologica, Gesù è presentato come Dio per essenza e per pacifica connaturalità, ma sempre e solo in relazione dinamica privilegiata con Lui, in rapporto di vicinanza e prossimità operativa molto stretta, in funzione mediatrice insostituibile nel momento creativo, in quello storico rivelativo e in quello escatologico.
La necessità perché senza una propria forte coloritura cristologica difficilmente la teologia cristiana potrebbe presentarsi come fedele rielaborazione innovativa di quella ebraica: fedele nella linea della progressiva e sempre più radicale interpretazione kenotico-redentiva dell’operare di Dio; innovativa nella scelta incarnazionista ed escatologica.
Paradossale perché proprio ciò che costituisce l’originalità della teologia cristiana, la sua forte enfasi cristologica, non si limita a caricare il Cristo di tutte le tensioni della natura e della storia, ma con lui carica di tali tensioni anche il cristiano e il suo tempo, vale a dire il nostro presente, conducendolo al limite della rottura.
E’ così che ci troviamo sfidati a vivere ogni nostra giornata come se si trattasse dell’attimo in cui il Regno può fare irruzione nella storia, ad esercitare, insieme, la virtu paziente e fiduciosa dell’attesa, l’operosità attiva di chi sa che da essa dipende ben più del suo destino, il coraggio di anticipare nella realtà mondana i segni di un futuro totalmente nuovo. E’ così, infine, che siamo invitati a far nostra la convinzione che il fondamento di tutto ciò non sta nella sicura conoscenza di un passato, ben saldo, ma nello slancio di una fede che tutto proietta al di là del già dato, come speranza: persino il vero essere dei cieli e della terra nuova in cui sognamo di ritrovarci risorti e liberati dalla morte e dal male.
Non abbiamo letto, forse, che coloro, che con bianche vesti, lavate dal sangue dell’Agnello, potranno aver parte all’albero della vita (Ap 22, 14), non si troveranno nel giardino edenico della prima creazione ma in una città martire della storia, trasformata in Gerusalemme celeste (21, 9-27)? Non ci è stato annunciato che tutto ciò comporterà la scomparsa del cielo e della terra di prima e, in forma assoluta e definitiva, del mare (21, 1)? Che analoga sorte toccherà alle tenebre e alla notte e, di conseguenza, allo stesso ritmo quotidiano del loro alternarsi con la luce del giorno (22, 5)?
Solo immagini, certo, non più che figure e simboli, ma simboli, figure e immagini che ci fanno capire che neppure l’opera « molto buona » del primo capitolo di Genesi regge alla prova dell’escaton cristico; che neppure la creazione col suo Dio può da sola essere presa come punto d’appoggio solido e definitivo per aprire, senza problemi, la bella formula di un credo cristiano.

Aldo Bodrato

L’INNO CRISTOLOGICO DELLE LETTERE DI PAOLO – LA CONDIVISIONE ATTORNO ALLA PAROLA DI DIO

http://web.cathol.lu/servicesdienste/pastorale-biblique/se-convertir-au-christ/article/les-hymnes-christologiques-des

(traduzione Google dal francese)

L’INNO CRISTOLOGICO DELLE LETTERE DI PAOLO

2. LA CONDIVISIONE ATTORNO ALLA PAROLA DI DIO

Per leggere e condividere intorno a testo selezionato
Per Paolo, Gesù è il « primogenito » di un popolo chiamato a vivere la pienezza della vita secondo la volontà di Dio « , il solo saggio » (Rm 16,27). L’inno che apre la Lettera ai Colossesi (scritti tra gli anni 61 e 63), esprime chiaramente questo concetto (cfr. Col 1,15-20). Nella prima parte (vv. 15-17), l’autore è stupito di vedere il Cristo, « immagine del Dio invisibile », presiederà come « Primogenito » tutta la creazione, perché è  » da lui « e » per lui « tutto è stato creato. E ‘Cristo che dà coerenza a tutta la creazione, perché in lui abita la pienezza del piano creativo di Dio (cfr. Ef 1,10; 1Cor 15:28, Rev. 1.18, 2.8, 21, 6). Nella seconda parte (vv. 18-20), l’autore loda Cristo come sorgente della nuova creazione, e il risultato finale del primo: è il « Capo del Corpo », il « principio » e  » primogenito dei morti.  » Per l’autore, l’evento di Cristo, specialmente la sua risurrezione, non può essere inteso come un evento isolato, raggiungendo solo l’uomo Gesù di Nazareth, come se un evento cosmico. Infatti, Gesù risorto è la risurrezione di tutta l’umanità è avviata (cfr. 1 Cor 15). Il rilascio in attesa che attraversava l’intera creazione diventa realtà ora (cfr. Rm 8,18-22; 1Cor 3,22).
Infatti, in un altro inno, nella lettera inviata al scritto tra gli anni 61 e 63 Efesini, Paolo proclama che Gesù è il « Amato », in cui siamo benedetti. In Cristo, Dio ci ha riempito con le Sue benedizioni a lui ci adotta come suoi figli (cfr. Ef 1,3-14). Uno è, infatti, per Paul, il significato nascosto di tutta la storia umana è ora rivelata in Cristo crocifisso e risorto (cfr. Rm 16,25 s, 3.11; 2 Timoteo 1:09) Dio, fedele a Progetto creatore, ha fatto in Gesù, le nuove e definitive diritti (leggi Ef 4,24; 2 Cor 5,17), che era latente nel « primo Adamo » (leggi 1 Cor 15,35-49). In definitiva, attraverso l’incarnazione Dio ha mostrato che il Signore Risorto è il significato, il centro e il fine della creazione e tutti noi. In lui il disegno di Dio si realizza concretamente e definitivamente in una persona, nella ricca espressione di L. Boff Teologo: lui « utopia divenne luogo / topos ». Se la storia umana continua e avanza in mezzo a forti dolori del parto dell’umanità finale (cfr. Mc 13,8; Rm 8,22), dopo la risurrezione di Gesù, la quota discepoli questa passeggiata annunciando, da discorso e la pratica della solidarietà con la sofferenza, alla fine della strada, non è la morte o una sciocchezza, ma la vita, la giustizia di Dio Padre che ama gli uomini creò per pura filantropia.
La ragione per l’esistenza di Cristo, non può essere oggetto di peccato umano e ancor meno l’ira di un Dio vendicativo che è amore, il vero motivo di Dio fatto uomo è quindi in questo amore Dio ha voluto creare per l’amore al di là di se stessa. In questo senso, la croce non è voluta da Dio, ma è « contingente », è nella storia come conseguenza del rifiuto di Gesù e del suo messaggio e non come un sacrificio imposto dal Padre al Suo Figlio « Carissimi ». Così, la croce rivela, come San Giovanni, la gloria di Dio, che ci ha amati fino alla fine della sua vita, a condividere la condizione umana, con tutto ciò che ha drammatiche. Cristo è il « primogenito di tutta la creazione » è stato pianificato da Dio da tutta l’eternità per avvicinarsi all’uomo e fargli vedere il « vero cammino che conduce alla pienezza della vita » (cfr. Giovanni 14:6 ). L’Uomo-Dio, Gesù Cristo, è la prima voluta da Dio, e in lui tutte le creature è venuto per essere e sono ugualmente amati.

GIOIA E FORZA DELL’APOSTOLO – (passi dalle lettere di Paolo e commento)

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(testo dei passi scritturistici e sotto commento perché sul sito i passi si leggono al passaggio del mouse e in una pagina separata)

LUMEN CHRISTI B 30

GIOIA E FORZA DELL’APOSTOLO
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2Cor 2,1-11
2 Perché se io rattristo voi, chi mi rallegrerà se non colui che è stato da me rattristato? 3 Perciò vi ho scritto in quei termini che voi sapete, per non dovere poi essere rattristato alla mia venuta da quelli che dovrebbero rendermi lieto, persuaso come sono riguardo a voi tutti che la mia gioia è quella di tutti voi. 4 Vi ho scritto in un momento di grande afflizione e col cuore angosciato, tra molte lacrime, però non per rattristarvi, ma per farvi conoscere l`affetto immenso che ho per voi. 5 Se qualcuno mi ha rattristato, non ha rattristato me soltanto, ma in parte almeno, senza voler esagerare, tutti voi. 6 Per quel tale però è già sufficiente il castigo che gli è venuto dai più, 7 cosicché voi dovreste piuttosto usargli benevolenza e confortarlo, perché egli non soccomba sotto un dolore troppo forte. 8 Vi esorto quindi a far prevalere nei suoi riguardi la carità; 9 e anche per questo vi ho scritto, per vedere alla prova se siete effettivamente obbedienti in tutto. 10 A chi voi perdonate, perdono anch`io; perché quello che io ho perdonato, se pure ebbi qualcosa da perdonare, l`ho fatto per voi, davanti a Cristo, 11 per non cadere in balìa di satana, di cui non ignoriamo le macchinazioni.
Ef 4,25-32
25 Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri. 26 Nell`ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, 27 e non date occasione al diavolo. 28 Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. 29Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano. 30 E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione. 31 Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. 32 Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.
2Cor 7,8-10
[…] 7 e non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi. Egli ci ha annunziato infatti il vostro desiderio, il vostro dolore, il vostro affetto per me; cosicché la mia gioia si è ancora accresciuta. 8 Se anche vi ho rattristati con la mia lettera, non me ne dispiace. E se me ne è dispiaciuto – vedo infatti che quella lettera, anche se per breve tempo soltanto, vi ha rattristati – 9 ora ne godo; non per la vostra tristezza, ma perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi. Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra; 10 perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte.
Gv 16,19-23
16 Ancora un poco e non mi vedrete; un po’ ancora e mi vedrete ». 17 Dissero allora alcuni dei suoi discepoli tra loro: « Che cos`è questo che ci dice: Ancora un poco e non mi vedrete, e un po’ ancora e mi vedrete, e questo: Perché vado al Padre? ». 18 Dicevano perciò: « Che cos`è mai questo « un poco » di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire ». 19 Gesù capì che volevano interrogarlo e disse loro: « Andate indagando tra voi perché ho detto: Ancora un poco e non mi vedrete e un po’ ancora e mi vedrete? 20 In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. 21 La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell`afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. 22 Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e 23 nessuno vi potrà togliere la vostra gioia. In quel giorno non mi domanderete più nulla.
2Cor 2,14-17
14 Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero! 15 Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo fra quelli che si salvano e fra quelli che si perdono; 16per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la vita. E chi è mai all`altezza di questi compiti? 17Noi non siamo infatti come quei molti che mercanteggiano la parola di Dio, ma con sincerità e come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, noi parliamo in Cristo
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San Paolo ha dovuto scrivere una lettera che è andata perduta per rimproverare un membro o più membri della comunità (cfr. lCor 5); così l’Apostolo manifesta la sua autorità sulle comunità a lui affidate; ma l’autorità si esercita in un clima di carità, e, per san Paolo, tale carità è anche effusione del cuore mediante gioia e tristezza
2Cor 2,1-11: anche qui possiamo notare come san Paolo si immedesima per così dire con la comunità.
La carità che Paolo raccomanda è segno distintivo dei cristiani e ogni divisione è ricercata da Satana. Il comandamento nuovo infatti è quello dell’unione nella carità e la liturgia eucaristica si propone come finalità propria di creare tale unione di amore. Fondamento dell’unità dei cristiani è l’essere membri dell’unico corpo di Cristo.
Ef 4,25-32: il rinnovamento dell’uomo interiore implica la ricerca dell’unità di tutti.
La tristezza di Paolo è causata dalla consapevolezza dei dissensi fra i fratelli. Paolo non sopporta queste divisioni anche se l’unità della comunità non può’ essere frutto della debolezza
Di per sé la tristezza non è peccato, poiché il Signore l’ha provata ed è soltanto effetto di una situazione negativa. Essa però va sopportata nella pace; come? riguardando non se stessi ma soltanto il bene della comunità e dei fratelli. Dimenticando se stessi e considerando gli altri, la tristezza è partecipazione alla sofferenza di Cristo, il quale ha sofferto di tutti i peccati dell’umanità e in particolare di tutte le mancanze di amore.
2Cor 7,8-10: frutto della vera tristezza secondo Dio è il pentimento e la gioia che segue.
Per distinguere se la nostra tristezza è vera o meno, bisogna chiederci se guardiamo a Gesù o a noi stessi.
Bisogna anche ricordare come la vita è un succedersi di momenti di tristezza e di gioia
Gv 16,19-23: il mistero pasquale viene anticipato nella vita quotidiana.

Il profumo di Cristo
2Cor 2,14-17: l’apostolo partecipa al trionfo:, di Cristo. Il passo fa riferimento all’usanza dei generali romani vincitori che entravano in trionfo e per i quali bruciavano l’incenso: per loro era l’onore, per i vinti, la morte.
Il profumo è richiamo vitale che attira verso ciò che è favorevole allo sviluppo del vivente. In qualche modo è estensione della sostanza che emana il profumo.
Da parte nostra ciò significa che dobbiamo vivere sempre più profondamente lo spirito di Cristo e conformarci in profondità al suo essere di Figlio di Dio. Nella misura in cui vivremo da figli di Dio, anche noi saremo il profumo di Cristo.

Tale profumo va recepito poi secondo le disposizioni di colui che lo percepisce; sollecita quindi la libertà altScuola di preghiera passi scritturistici

LA CONVERSIONE DI PAOLO E LA NOSTRA

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LA CONVERSIONE DI PAOLO E LA NOSTRA

Nel capitolo 22mo degli ATTI degli Apostoli, Paolo ricorda il suo incontro con il Signore Gesù sulla via di Damasco e così racconta:   “Io sono un giudeo, nato a Tarso, in Cilicia, ma educato in questa città, istruito ai piedi di Gamaliele, nella rigorosa osservanza della legge dei padri, pieno di zelo per Dio, come lo siete voi tutti oggi. Io ho perseguitato a morte questa Via, mettendo in catene e gettano in prigione uomini e donne, come me ne fa testimonianza anche il sommo sacerdote e tutto il consiglio degli anziani. Da essi avevo anzi ricevuto lettere per i fratelli di Damasco e stavo andando per condurvi incatenati a Gerusalemme anche quelli che si trovavano là, perché vi fossero puniti. Or mentre io ero in viaggio e mi stavo avvicinando a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso una gran luce venuta dal cielo mi sfolgorò tutt’intorno. Io caddi a terra e udii una voce che mi diceva. ‘Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?’ Io rsposi:’Chi sei, o Signore?’ E mi disse: ‘Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti’. Quelli che mi accompagnavano videro la luce, ma non udirono la voce di colui che parlava. Io ripresi: ‘Che debbo fare, Signore?’. E il Signore mi disse: ‘Alzati, và a Damasco e là ti sarà detto tutto ciò che è stabilito che tu faccia’. Ma poiché non potevo più vedere per lo splendore di quella luce, fui condotto per mano dai miei compagni di viaggio e giunsi a Damasco. Un certo Anania… mi disse: ‘ Saulo, fratello mio, torna a vedere!’ E io nella stessa ora riuscii a vederlo. Egli disse:‘Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il giusto e a udire una parola dalla sua bocca, poiché tu renderai testimonianza a suo favore presso tutti gli uomini di ciò che hai visto e udito’. (At 22,3-15)  Comincio la mia presentazione con un’affermazione che risuona fortemente nella mia mente e più ancora nel mio cuore. Eccola: La ‘carta vincente’ della nostra vita è la conversione. Conversione: una parola che da diversi anni a questa parte, molti hanno avuto paura di pronunciare, forse perché è stata spesso confusa col proselitismo, o con il lasciare una religione per un’altra, o forse perché é stata intesa come un rinnegare, uno sconfessare necessariamente tutto il passato di una vita. Anche in occasione dell’Anno Paolino (2008-2009), mentre Benedetto XVI parlò così tanto della conversione di San Paolo, alcuni studiosi non vollero per nulla parlare di questa realtà. Ad ogni modo questa è la realtà su cui noi ci soffermeremo insieme: la conversione di Paolo e nostra. Perché?  Perché sono convinto che a fondamento della vita di ogni persona impegnata nella costruzione del Regno, a fondamento della vita di ogni apostolo e di ogni suo rinnovamento, c’è sempre una grande svolta, una profonda trasformazione nell’intimo della persona; c’è una conversione causata da una chiara illuminazione da parte dello Spirito di Dio e dall’azione di Cristo che attira a sé la persona. Nella vita dell’apostolo delle genti, Paolo di Tarso, vediamo in modo meraviglioso quanto ciò sia vero. E Paolo ci ispira e ci dice: Volete essere apostoli di Cristo? Volete rinascere come apostoli per avere un entusiasmo tutto nuovo? Se sì, lasciatevi afferrare da Lui, lasciatevi convertire, cioè trasformare da Cristo. E’ così che il grande vescovo Mariano Magrassi a cui ero legato da amicizia, descriveva la conversione: come un essere afferrati da Cristo, come una illuminazione da parte dello Spirito, che poi diventa un processo di crescita; attraverso di esso il rivestirsi di Cristo diventa sempre più intenso e tende al compimento. Notiamo che l’illuminazione, inizio della conversione, può essere istantanea, la ‘crescita nella conversione’, richiede tempo.  Due autori che, oltre a Mons. Magrassi mi hanno ispirato tanto per quanto riguarda il significato del termine conversione in San Paolo e in noi, sono: il benedettino tedesco Anselm Grun e il gesuita italiano Francesco Rossi de Gasperi. E naturalmente, ho preso ispirazione anche da Papa Benedetto XVI.  Nel suo libro intitolato ‘Paolo e l’esperienza religiosa cristiana’, Anselm Grun dice: “ Quando Paolo non vide più nulla, allora vide Dio… si aprì al vero Dio, al Padre di Gesù Cristo… fece l’esperienza decisiva della sua vita…quella di Gesù Cristo crocifisso e risorto… fece l’esperienza della morte e risurrezione di Gesù come capovolgimento di tutti i criteri umani…fece l’esperienza dell’iniziazione a una vita nuova… l’esperienza dell’invio in missione… l’esperienza mistica…” Se tutto ciò non è conversione. che cos’è la conversione?  Nel suo libro intitolato ‘Paolo di Tarso evangelo di Gesù’, il Gesuita Francesco Rossi de Gasperi, che si interessa alle radici ebraiche della fede cristiana e parla con maestria e concretezza di “continuità trasfigurata” tra Prima e Ultima Alleanza ( nel nostro linguaggio tradizionale: Vecchio e Nuovo Testamento ), parla della trasfigurazione operata in Paolo dalla sua ‘ora di Damasco’. Paolo viene presentato come il grande testimone di Cristo che ha colto luminosamente la continuità trasfigurata tra Prima e Nuova Alleanza e, allo stesso tempo, la novità di quest’ultima, mediante la “rottura” significata dalla croce di Cristo Gesù crocifisso e risorto. Apprezzo molto la precisione e la delicatezza di P. Rossi de Gasperi nelle sue presentazioni che fanno capire la conversione come una realtà completamente nuova e come le radici ebraiche del Cristianesimo dovrebbero portare a estirpare ogni radice di antigiudaismo in ambiente cristiano.   E veniamo al Papa.  Papa Benedetto XVI ha descritto la conversione di Paolo così: “Gesù entrò nella vita di Paolo e lo trasformò da persecutore in apostolo. Quell’incontro segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come prima; adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il suo Vangelo in qualità di apostolo.”  Citerò ancora il Papa. Intanto però a quanto di mio ho detto sopra, aggiungo questo pensiero: Il fatto che Paolo sia rimasto ebreo, lo prendo, per così dire, per scontato. Infatti la Grazia non distrugge il bene che trova nella persona, ma costruisce sulla realtà che trova, purificandola e facendola crescere. Su di essa poi costruisce una realtà che si presenta come completamente nuova e gratuita, come fu l’incontro di Paolo con Cristo Gesù. In comunione con questo grande apostolo e con tutta la Chiesa, mettiamoci in cammino per un processo di crescita rinnovato, perché, lungo la strada, anche noi abbiamo a fare un’esperienza profonda del Cristo e abbiamo ad essere conquistati dal suo amore e veramente trasformati da Lui. Ma Cristo deve diventare un’esperienza per noi, con i tre aspetti costitutivi di questa esperienza:  - la convinzione che Cristo non è soltanto un grande personaggio del passato, come lo è per molti. Cristo è vivo. E’ questa la nostra grande benedizione proclamata da Paolo in modo così forte: 1Cor 15:12-22  - la convinzione che la presenza di Cristo non è passiva. Cristo agisce per la nostra salvezza e per la salvezza del mondo: Rm 8,31-39  - l’ospitalità, cioè l’accoglienza di Cristo e della sua azione salvifica a livello mentale, di cuore e viscerale: Fil 2,5-11   ALCUNE CONSEGUENZE FORTI DELL’INCONTRO CON CRISTO – Una grande umiltà che si traduce in obbedienza a Cristo Gesù nella consapevolezza che è Lui che dà la vita, è Lui che ci sostiene, è soltanto in Lui che troviamo salvezza. L’unica cosa che noi possiamo fare per la salvezza nostra e degli altri, è lasciarci amare da Lui ed è collaborare con Lui, mettendo tutta la nostra fiducia nella potenza dello Spirito.  - La contemplazione di Cristo per rivestirci di Lui. Nel nostro ordine di valori e di realtà importanti, abbiamo tre elementi che presento secondo la loro importanza: la mistica (l’esperienza spirituale del lasciarci amare da Dio); l’etica (che indica ciò che è per la gloria di Dio e ciò che è bene per noi e per gli altri. A me piace mettere l’etica nel contesto di Mi 6,8: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare teneramente e camminare umilmente con il tuo Dio”; l’ascetica (disciplina spirituale, cammino di vita nello Spirito del Signore).  - Il passaggio dalla prospettiva dell’autoreferenzialità, alla prospettiva ‘aperta’ che ci fa considerare prima di tutto Cristo e l’altro. Siamo strumenti vivi di salvezza nelle mani di Cristo Gesù per gli altri e con gli altri.  - Il bisogno di evitare ogni estraneità, ogni stile ‘assente’ nel relazionarci agli altri, valorizzando così il Vangelo e considerando le persone che incontriamo, come grandi doni di Dio e nelle situazioni concrete della loro vita. Ciò significa comunicazione e comunione. – Il passaggio dall’atteggiamento di chi “lavora per Dio” – che presenta il pericolo dell’attivismo e dell’amare più la vigna del Signore che il Signore della vigna – a quello di chi “fa il lavoro di Dio” – che implica discernimento – e poi a quello di chi ha questo grande desiderio: lasciare che “Dio lavori in lui e per mezzo di lui”.  E’ quest’ultimo l’atteggiamento che ci fa essere contemplativi in azione e che fa sì che il nostro apostolato sia un condividere con gli altri ciò che Dio ci dona nella contemplazione (l’unico apostolato che è efficace!).   Paolo, apostolo per vocazione! E anche noi chiamati come lui. La vocazione di ogni apostolo: un dono di grazia e un impegno esigente. Ma niente paura! Ricordiamo la profonda convinzione di Paolo: Quando ci fidiamo del Signore, non possiamo essere delusi.   L’INCONTRO DI CRISTO CON PAOLO E IL NOSTRO INCONTRO CON LUI   (Da MISSIONE COME INCONTRO di Nicoletta Gatti in COMUNIONE E MISSIONE, della diocesi di Trento) Riporto questo testo perché, nella sua semplicità e chiarezza – così mi sembra -, fa sentire l’incontro di Cristo con Paolo non solo come missione, ma anche come conversione: «E avvenne che mentre era in viaggio e stava per avvi­cinarsi a Damasco all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo, e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”» (At 9,3-4). C’è un incontro nella vita di Paolo che costituisce un punto di non ritorno. Continuamente nelle sue lettere si riferisce a questo momento, come se la sua esistenza, la sua preghiera e il suo annuncio fossero una continua e crescente interiorizzazione dell’esperienza vissuta (Gal 1,15-17; Fil 3,7-13). Ma cosa accade lungo la strada? Paolo sperimenta la vicinanza di Dio, incontra il Messia a lungo atteso, l’Emmanuele annunciato dai profeti. Lo incontra come il Figlio crocifisso e Risorto, il Figlio dato per la salvezza del mondo. Da questo momento Paolo vive per Lui: «Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). L’amore manifestato nella croce diviene la forza trainante della sua esistenza: «…l’amore di Cristo ci spinge» (2Cor 5,14). Nella lettera ai Romani (8,35-37), leggiamo parole che deve aver ripetuto a se stesso migliaia di volte: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la per­secuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di Colui che ci ha amati». Persecuzione e sofferenza sono accolte come partecipazione alla passione di Cristo (1Tes 2,8; 2Cor 4,10), come immersione nella sua morte (Rom 6,4-6), perché una cre­atura nuova possa venire alla luce: una persona che ha come proprio io, l’io di Gesù. In Lui, Paolo può vivere persino la prigio­nia e la morte come un’occasione per crescere nella «piena maturità di Cristo» (Ef 4,13), ed imparare a condividere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5): lo svuotamento, l’incarnazione, l’umiltà, l’obbedienza, il farsi «tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).  Dall’intimità con Gesù, nasce la missione. La passione bruciante per l’annuncio, la gelosia materna verso le Chiese da Lui fondate, i viaggi continui, i pericoli affrontati… tutto scaturisce dall’amore sovrabbondante che sperimenta nella relazione con Cristo. Da questa relazione parte ed a questa relazione vuole ricondurre le comunità da lui fondate.  Luca ha compreso bene questo: nel libro degli Atti, l’at­tività di Paolo è descritta come «testimonianza» (cfr. 18,5; 20,21.24; 23,11) e «servizio» (cfr. 20,19; 26,16). Afferrato e posseduto da Cristo è posto come segno della potenza di Dio dinanzi alle nazioni (cfr. 13,47):… Paolo è «servo del Dio Altissimo» (At 16,17), un Dio che lo ha conquistato (Fil 3,12), trasformando il suo cuore nel cuore di Cristo.  Credo che questo sia il segreto di Paolo. Egli ripete anche a noi che la Missione nasce, cresce e respira a tu per tu con una persona: Cristo…”   “O Dio che hai illuminato tutte le genti con la parola dell’apostolo Paolo, concedi a noi di essere testimoni della tua verità e di camminare sempre nella via del Vangelo. Per Cristo nostro Signore.” (dalla liturgia)

IN SIMPLICITATE CORDIS

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IN SIMPLICITATE CORDIS (anche Paolo)

BUSSOLE PER LA FEDE

10 novembre 2013

di Don Giuseppe Liberto

Certi linguaggi popolari confondono la semplicità evangelica con la semplicioneria degli sciocchi. Semplicità cristiana non è puro atteggiamento psicologico ma luce in splendore di verità, purezza di cuore e di sguardo, umiltà di spirito. La semplicità è una delle qualità dello stesso Gesù il quale “svuotò se stesso” e, rinunciando alle prerogative divine, s’incarnò per diventare carne della nostra umana natura (cf Fil 2, 5-11). Come Gesù, anche il cristiano, vivendo la sua vita di fede in simplicitate cordis, è pienamente configurato al suo Signore e Maestro. Nel discorso della montagna, Gesù, al riguardo, dà alcune preziose indicazioni. Innanzitutto, istruisce che occorre avere l’occhio semplice che è riflesso e luminosità del cuore: La lucerna del corpo è l’occhio, se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il corpo sarà nella luce (Mt 6,22). Il Maestro esorta ancora a essere semplici come le colombe e furbi come i serpenti (Mt 10,16). Una semplicità, quindi, che è candore interiore, purezza di cuore, vivacità di spirito e incapacità di pensare e operare il male. In effetti, la furbizia, armonizzata con la semplicità, è prudenza e preveggenza. La sola furbizia senza semplicità è sottoprodotto dell’intelligenza, la usano soltanto il losco, il falso, il tenebroso, il contorto. La semplicità che vuole Gesù si oppone a complicazione, a doppiezza, a violenza, ad avidità di avere e di potere, al successo senza scrupoli, a manipolazioni disoneste. E’ illuminante la parabola, più che del fattore “infedele”, come spesso è qualificato, del fattore “furbo”, un impiegato di alto livello che, non amministrando bene, perde la fiducia del suo ricco padrone (cf Lc 16, 1-13). A Gesù non interessa l’infedeltà del fattore, evidentemente riprovevole, ma la risolutezza con cui mette al sicuro il proprio futuro. Gesù desidera che i figli della luce usassero la stessa furbizia pronta, decisa e radicale per operare il bene. Luca mette in evidenza il fatto che la ricchezza disonesta non è soltanto quella accumulata coi furti e gl’inganni, ma la ricchezza in se stessa. Per Gesù “farsi degli amici” che poi ci accoglieranno nelle “dimore eterne”, significa aiutare il mendicante, cioè “colui che non è accolto”. Il tesoro dell’accoglienza è comunione d’amore che resiste a ogni tempo. Il denaro e la ricchezza, abitualmente, dividono e isolano. L’amministratore “furbo” li userà per farsi aprire le porte accoglienti. Tutto si capovolge con lo stile dell’accoglienza. In questa terra, i beni devono servire per costruire la comunione fraterna (Atti 2, 42-45), solo così saranno vincoli d’amicizia che apriranno le dimore eterne del regno futuro.  Qui in terra, gli amici di Dio, che devono diventare nostri amici, sono i poveri. Il cristiano, nella semplicità di cuore e con l’evangelica furbizia dell’intelligenza, deve essere risoluto nello spendersi per gli altri. Con la morte, la ricchezza scompare; nell’eternità sopravviverà soltanto l’amore. San Paolo, scrivendo ai romani di allora, li esorta a essere semplici “di fronte al male”, cioè a vivere nella semplicità sia quando si riceve il male, che mai dev’essere ricambiato a nessuna condizione, sia nel non operare il male, presentandosi al mondo nella totale innocenza e trasparenza: Vi raccomando, fratelli, di guardarvi da coloro che provocano divisioni e ostacoli contro l’insegnamento che avete appreso: tenetevi lontani da loro. Costoro, infatti, non servono Cristo nostro Signore, ma il proprio ventre e, con belle parole e discorsi affascinanti, ingannano il cuore dei semplici. La fama della vostra obbedienza è giunta a tutti: mentre dunque mi rallegro di voi, voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male (Rm 16,17-19). Anche nella lettera ai Filippesi, l’apostolo insegna che la semplicità è la qualità propria dei figli di Dio che vivono in rapporto d’amore col Padre: Siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete risplendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita (Fil 2,15). Nella semplicità, la comunità si armonizza per vivere la comunione e realizzare l’unità nella verità. La Chiesa, uscita dal vortice d’amore della Pentecoste, viveva in concordia nella letizia e semplicità di cuore (cf Atti 2,46). La semplicità è totale carità, splendore di verità, amore di comunione, disinteresse nel donare, accortezza nel respingere il male e furbizia nell’operare il bene. Soltanto il sapiente possiede questa virtù evangelica. Lo sciocco, invece, è doppio, egoista, invidioso, ambiguo, malizioso e malevolo. La semplicità è sintesi armoniosa e feconda di perfezione. Dio è semplicità assoluta perché è sintesi di ogni perfezione. Il semplice è beato perché possiede il tesoro più prezioso e amato: la divina sapienza. La semplicità, come anche la chiarezza, è dono dello Spirito. Semplicità e chiarezza sono qualità che si integrano tra loro. Scaturiscono dalla verità e la costruiscono. Il semplice è l’asceta che tende a raggiungere l’essenziale delle cose e ne diffonde la luce e la fragranza. Il semplice, con la sua intelligenza intuitiva e chiara, opera in profondità più che in apparenza. La chiarezza gli dà uno sguardo limpido e trasparente, la verità lo immerge nella luminosità della trascendenza, egli scruta la realtà con gli occhi di Dio e la creazione con lo sguardo del Creatore. Sulla linea di Marta e Maria, il semplice ricerca, con tutte le forze, il valore irrinunciabile dell’unum necessarium che è, innanzitutto e soprattutto, la ricerca del Regno di Dio e della sua giustizia, perché il resto sarà dato in sovrappiù (cf Mt 6,33). Sulla via della semplicità, il credente progredisce e porta frutti di bene e di bellezza, perché si mette sulla via della Provvidenza e dell’abbandono in Dio. La semplicità è l’atteggiamento dei miti delle Beatitudini, cioè di quelli che possederanno la terra. La ricerca della verità nella semplicità non è facile. Essa, infatti, proprio perché cerca e desidera soltanto la verità, non può che seguire l’itinerario della croce. È insieme scienza e sapienza della croce e conduce sempre al martirio. Non, però, a un martirio di fallimento e di disonore, ma al martirio di vittoria e di gloria. Dinanzi alle mille tensioni e alle innumerevoli questioni che ci investono drammaticamente giorno dopo giorno, si esigono risposte chiare che fanno emergere la verità in un contesto di chiarezza e di semplicità. Talvolta, però, le risposte non arrivano, e allora bisogna attendere pregando come Gesù al Getsemani. Il vero credente, che vive nella semplicità evangelica, sa attendere con spirito di pazienza e il cuore ricolmo d’amore. Solo allora le angosce, generate dalle torbide tortuosità diaboliche, si risolveranno in mistica profezia di semplicità evangelica come risposta luminosa offerta all’uomo spirituale che vive il suo impegno nella verità della carità, nella libertà di spirito e nell’umiltà di cuore.

Giuseppe Liberto

STATE SALDI NELLA FEDE (citazioni a lettere di Paolo e riflessioni)

http://www.tanogabo.it/religione/saldi_nella_fede.htm

STATE SALDI NELLA FEDE

Colossesi 2,6-7 Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie.

Galati 5,1 Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù.

Ebrei 3,14 Siamo diventati infatti partecipi di Cristo, a condizione di mantenere salda sino alla fine la fiducia che abbiamo avuta da principio.

Colossesi 2,8 Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.

2Corinzi 6,14 Non lasciatevi legare al giogo estraneo degli infedeli. Quale rapporto infatti ci può essere tra la giustizia e l’iniquità, o quale unione tra la luce e le tenebre?

Efesini 5,7,8,10 Non abbiate quindi niente in comune con loro. Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; Cercate ciò che è gradito al Signore

RIFLESSIONI: La nostalgia di quell’Ospite gradito “ll punto di partenza di ogni cammino di ricerca è costituito dal luogo e dal tempo in cui si è posti. Dobbiamo chiederci: «Dove mi trovo?», e dobbiamo declinare questa domanda secondo prospettive molteplici. A livello personale: «quali sono le mie certezze e le mie relazioni, la mia vocazione e le mie prospettive?». A livello sociale e culturale: «quali pensieri attraversano il mondo, e quali eventi stanno segnando la storia? Cosa mi offre e cosa mi chiede la società in cui abito?». In questo punto di partenza abbiamo già una certezza, importante e per nulla scontata: non siamo uomini per caso”. Così si è introdotto il Card. Dionigi Tettamanzi nella sua catechesi ai giovani, ai quali ha ricordato la necessità di “un respiro che porti l’uomo oltre il proprio limite ed oltre il confine delle sue possibilità”, invitando a cercare e ad accogliere Dio, quale “ospite gradito”.

Card. Dionigi Tettamanzi, in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù del 2011, scrisse sul tema Saldi nella fede: (qui c’è un link al testo itegrale ma si apre con Word)

Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi.  Ai catecumeni di Costantinopoli san Gregorio Nazianzeno, detto anche “il Teologo”, consegna questa sintesi della fede trinitaria: “Innanzi tutto, conservatemi questo prezioso deposito, per il quale io vivo e combatto, con il quale voglio morire, che mi rende capace di sopportare ogni male e di disprezzare tutti i piaceri: intendo dire la professione di fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Io oggi ve la affido. Con essa fra poco vi immergerò nell’acqua e da essa vi trarrò. Ve la dono, questa professione, come compagna e patrona di tutta la vostra vita. Vi do una sola divinità e potenza, che è Uno in Tre, e contiene i Tre in modo distinto. Divinità senza differenza di sostanza o di natura, senza grado superiore che eleva, o inferiore che abbassa […]. Di tre infiniti è l’infinita connaturalità. Ciascuno considerato in sé è Dio tutto intiero […]. Dio le Tre Persone considerate insieme […]. Ho appena incominciato a pensare all’Unità ed eccomi immerso nello splendore della Trinità. Ho appena incominciato a pensare alla Trinità ed ecco che l’Unità mi sazia…” [San Gregorio Nazianzeno, Oratio, 40, 41: PG 36, 417].

 

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