Archive pour la catégorie 'LETTERE PAOLINE E DEUTERO PAOLINE (da più lettere)'

BENEDETTO XVI, SAN PAOLO (11, 2008) LA DECISIVITÀ DELLA RISURREZIONE.

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20081105.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 5 novembre 2008

SAN PAOLO (11).

L’IMPORTANZA DELLA CRISTOLOGIA: LA DECISIVITÀ DELLA RISURREZIONE.

Cari fratelli e sorelle,

“Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede… e voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15,14.17). Con queste forti parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto che quel Crocifisso “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15,4) – così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro gravitazionale. L’intero insegnamento dell’apostolo Paolo parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma previo (cfr 1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il suo annuncio (kerygma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi.

E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l’importanza della tradizione che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra “ricevere” e “trasmettere”. San Paolo attribuisce molta importanza alla formulazione letterale della tradizione; al termine del passo in esame sottolinea: “Sia io che loro così predichiamo” (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce l’unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo. La tradizione a cui si ricollega è la fonte alla quale attingere. L’originalità della sua cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione. Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui s’esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa. E così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà del “Dio con noi”, quindi la realtà della vera vita.

E’ qui opportuno precisare: san Paolo, nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione dottrinale organica – non vuol scrivere quasi un manuale di teologia – ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque, ma pieno di fede e di teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione sull’essenziale: noi siamo stati “giustificati”, cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per noi. Emerge innanzitutto il fatto della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda. In quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianza di chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come dato oggettivo. Paolo dà perciò – come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema delle apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi dell’annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico. Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è essere testimone della risurrezione. Vorrei citare solo un testo: Paolo, arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa circostanza nella quale è in gioco per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: “Io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti” (At 23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (cfr 1 Ts 1,9s; 4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (cfr Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1).

Ma possiamo domandarci: qual è, per san Paolo, il senso profondo dell’evento della risurrezione di Gesù? Che cosa dice a noi a distanza di duemila anni? L’affermazione “Cristo è risorto” è attuale anche per noi? Perché la risurrezione è per lui e per noi oggi un tema così determinante? Paolo dà solennemente risposta a questa domanda all’inizio della Lettera ai Romani, ove esordisce riferendosi al “Vangelo di Dio … che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,3-4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio “con potenza”. Il Gesù umiliato fino alla morte di croce può dire adesso agli Undici: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28, 18). E’ realizzato quanto dice il Salmo 2, 8: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra”. Perciò con la risurrezione comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli – comincia il Regno di Cristo, questo nuovo Regno che non conosce altro potere che quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima: Gesù è Dio! Per san Paolo la segreta identità di Gesù, più ancora che nell’incarnazione, si rivela nel mistero della risurrezione. Mentre il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l’intimo rapporto di Gesù con Dio, un rapporto che si rivela pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore dei morti e dei vivi (cfr Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (cfr Rm 4,25).

Tutto questo è gravido di importanti conseguenze per la nostra vita di fede: noi siamo chiamati a partecipare fin nell’intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo. Dice l’Apostolo: siamo “morti con Cristo” e crediamo che “vivremo con lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici: “Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11; cfr 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce non è una teoria – è la realtà della vita cristiana. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui. Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, anzi a loro ne tocca un po’ di più, perché vivere la fede esprime il coraggio di affrontare la vita e la storia più in profondità. Tuttavia solo così, sperimentando la sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante in noi (cfr Col 3,1-4; Ef 2,6); dall’altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione geme e soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell’attesa della redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (cfr Rm 8,18-23).
In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e nella fede “tocca” il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede, dobbiamo confessarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia In questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va trasformandosi nell’ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (cfr 1 Cor 15,20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.

LA MISERICORDIA DI DIO SPERIMENTATA E PROCLAMATA DA SAN PAOLO (RM 9, 22-23) (DA UN TESINA)

http://www.collevalenza.it/Riviste/2007/Riv1007/Riv1007_05.htm

« DA VASI DI IRA A VASI DI MISERICORDIA » (RM 9, 22-23)

Estratto dalla Tesina di Licenza presso la Pontificia Università Gregoriana Istituto di spiritualità
Roma 2006/2007

III CAPITOLO

LA MISERICORDIA DI DIO SPERIMENTATA E PROCLAMATA DA SAN PAOLO

« Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione,
il quale ci consola in ogni nostra tribolazione » (2Cor 1,3-4)

3.1.5 – 1° Lettera a Timoteo 1,12-13
In 1Tim 1,12-13, Paolo ci fa interpretare moralmente la sua conversione:
« Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù.
Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna » (1Tim 1,12-16)
Paolo ricorda a se stesso e a Timoteo la sua conversione, nella quale sovrabbondò veramente la grazia di Dio che, in un istante fece di un persecutore e bestemmiatore un Apostolo. Per questo Paolo sente il bisogno di ringraziare il Signore Gesù che gli apparve sulla via di Damasco: pur avendo delle attenuanti, quali l’ignoranza e la mancanza di fede, si riconosce come peccatore, anzi il primo dei peccatori, oggetto in quanto tale della misericordia di Dio.
Paolo presenta l’apostolato come un servizio o ministero talmente importante che non si può realizzare senza una speciale forza che venga da Dio: perciò egli ringrazia Cristo non solo di averlo scelto per il ministero, ma di averlo anche fortificato.
All’origine della sua conversione sta una sovrabbondanza di grazia e di amore da parte di Dio che lo rinnovò interiormente, facendo fiorire nel suo cuore il prodigio della nuova fede e della nuova carità, che non solo terminano nel Cristo, ma da lui hanno principio e alimentazione: « dove aveva abbondato il peccato, sovrabbondò la grazia » (Rm 5,20).
Paolo inserisce la sua conversione nel quadro più generico della condotta di Dio verso i peccatori che Cristo è venuto a salvare. Essendo l’Apostolo il primo e più grande dei peccatori, può ben servire da esempio per tutti gli altri ad avere fiducia nella misericordia e longanimità di Cristo per ottenere la vita eterna.
Paolo sperimenta la misericordia di Dio e la augura a tutte le comunità da lui fondate e a tutti i suoi figli: « grazia, misericordia e pace » (1Tim 1,2). Si tratta dell’amore gratuito e salvante di Dio rivelatosi e comunicato in Cristo che dà un contenuto nuovo al kaire (sta bene, sii felice), greco-pagano. L’amore che accoglie e perdona, cioè la misericordia, è di sapore biblico. La pace rimanda ancora a quella tradizione biblica che attende per il tempo finale il shalom messianico, cioè la felicità piena e duratura. Dio « nostro salvatore » si fa incontro ai credenti cristiani nei doni salvifici che la fede in Gesù fa pregustare come pegno e anticipo della speranza19.

3.1.6 – 2° Lettera ai Corinti 12, 1-10
Paolo scrivendo alla comunità di Corinto a proposito della sua chiamata permette di penetrare profondamente nella sua anima, ricordando ai Corinti, in questa lettera, « dalle molte lacrime » (2,4), la grazia straordinaria che « un uomo »20 ha ricevuto quattordici anni prima.
« Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo21.
Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto. « Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza ». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio delle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole e allora che sono forte » (2 Cor 12, 1-2.7-10).
Nel prosequio del racconto Paolo sottolinea come Dio abbia provveduto al rimedio ed all’antidoto al pericolo di cadere in superbia, che questa esperienza di rivelazione poteva causare: « Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia » (v.9) .
Paolo si immerge allora, immediatamente, nella preghiera, che, anche se appare semplicemente come richiesta di allontanamento della spina nella carne, mi piace considerarla come esperienza di incontro con il Signore per discernere le proprie mozioni interiori. Emerge gradualmente, così, nel profondo del suo essere attraverso questa preghiera, l’intuizione e l’ispirazione da parte del suo Dio, che lo porta a sperimentare ciò che evidenzia e rivela, in modo evidente, con la frase: « A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore perché l’allontanasse da me ed egli mi ha detto. « Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza » (2 Cor 12, 8-9).
Questa «asqene¢ia» fa certo e sicuro Paolo solo della fiducia del suo Signore, ed in questo slancio d’amore formula tutto il programma del suo apostolato. Così può guardare alle sue «debolezze» in relazione esistenziale con la forza di Dio e giungere ad una certezza operativa: « Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo…: quando sono debole è allora che sono forte » (2 Cor 12, 9b-10b) .
In Galati 6, 14 Paolo dice:
« non c’è altro vanto per me che nella croce del Signore Gesù Cristo per mezzo della quale io sono stato crocifisso al mondo e il mondo è stato crocifisso a me ».
Paolo si chiede: volete che io mi vanti? Io mi vanto della croce di Gesù che vive in me, che è croce di morte e di risurrezione, e nessuno mi dia più fastidio perché io porto le stigmate, i segni di questa presenza crocifissa e risorta di Gesù che vive in me (cfr. Gal 6,17). Anzi, io porto a compimento, a favore della Chiesa, i patimenti di Cristo, a favore di questa Chiesa, della mia Chiesa! (cfr. Col 1,24).
Questa è la mistica apostolica di Paolo. Paolo non è un visionario, quella di Paolo non è la mistica delle grazie infuse destinate a pochi. La mistica di Paolo è la mistica di un uomo contemplativo nell’azione. Paolo parla della sua esperienza mistica, di lui, di questo uomo si vanterà, di se stesso invece non si vanta, se non nelle sue debolezze. Lui si vanterà della grazia di Dio che lo ha trasfigurato e lo ha fatto tempio della sua gloria. Non può vantarsi se non nella sua infermità, perché nella su infermità, nella sua incapacità di arrivare lì dove è chiamato ad essere, la grazia di Dio sovrabbonda e lo trasfigura.
C’è l’invito forte a guardare i luoghi delle « proprie prigioni ». Contemplare « la spina nella carne », che è l’invito a morire a se stesso, accettando la propria debolezza e quella degli altri: « perché si estenda su di me la potenza di Cristo ». La propria « debolezza kenotica » permette alla potenza di Cristo di fare i miracoli dell’amore, e di un apostolato e di un annuncio di vita fecondo, trasfigurante e provocante.
È una spirale progressiva. Paolo invita, come ha fatto lui, a penetrare nella gradualità della debolezza della propria crescita umana e spirituale in ogni qui ed ora, che si attua nel trovare il « dettaglio specifico » della volontà del Padre per me, non generico, ma legato direttamente e proporzionalmente alla propria debolezza, alla propria infermità e alla forza del Cristo, che così – e solo così -, cresce fino alla piena maturità, che è la maturità del Cristo che vive in me, ed allora si diventa il buon profumo di Cristo per gli altri e per il mondo (cfr. 2 Cor 2,16).
Tre volte Paolo chiede al Signore di togliergli il pungolo nella carne. Qui Paolo è perfettamente in comunione con la preghiera di Gesù nel Getsemani. Gesù per tre volte chiede come Paolo che il Padre gli tolga quel pungolo nella carne che è la volontà del Padre, quel calice da bere. Questa volta Paolo non è accontentato come in At 16,26. Paolo è conformato totalmente alla richiesta di Gesù. È chiamato a sudare sangue per essere trovato nel Figlio dal Padre ed essere oggetto del compiacimento del Padre (cfr. Lc 22,39-46): « Ti basta la mia grazia ». Ecco la risposta del Padre nel Cristo che vive in lui.
L’evento di Damasco ha segnato per Paolo una svolta reale, ma non lo ha cambiato immediatamente, anzi ha proteso verso « una direzione opposta tutto il suo intatto temperamento fatto di intelligenza, generosità, ardore e tenerezza » (cfr. 1 Cor 4, 19-21; Fil 3, 2;1 Ts 2, 7-9 ; Gal 4,18-19). Paolo, nel suo cammino di formazione al discernimento della volontà di Dio, « di ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rom 12,2b), prende coscienza, per prima cosa, che la sua esperienza umana e cristiana deve essere permanentemente in stato di conversione, in quanto stato di perenne chiamata di Dio a trascendersi ed a trasformarsi in quel livello di perfezione, che è tipico ed originale per ciascuna persona per giungere alla « piena maturità di Cristo » ( Ef 4,13) nello stato di « uomo nuovo, creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera » (Ef 4, 24). Per questo non cessa di « ringraziare con gioia il Padre, che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce; è lui, infatti, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto » (Col 1, 12-13).
È ben evidente da tutti i racconti dell’incontro con Cristo sulla via di Damasco come la conversione sia legata indissolubilmente alla libera iniziativa di Dio, non un Dio garante del patrimonio asettico e normativo della Torah, Dio geloso e vendicatore, ma in una presenza continua di un Gesù, che dall’inizio della storia con Paolo, si presenta per quello che è: « Io sono Gesù, che tu perseguiti » ( At 26, 15b).
La chiamata è soprattutto per Paolo, allora, conversione ( = «meta¢noia» ) verso il « nou~V » di Cristo, per discernere e scegliere « e¢n Cristw~ » i sentieri e gli orizzonti di questa sequela personale ed istaurare un rapporto di amicizia, che si fonda e si radica nella risposta e costituisce la stessa logica della sequela cristica paolina al cui servizio è posta ogni esperienza di discernimento: « Non sono più io che vivo ma lui vive in me… Chi mi separerà dall’amore di Cristo… » (cfr. Gal 2, 20a; Rom 8,35 a).
Paolo, almeno secondo il racconto lucano degli Atti, è oggetto-soggetto, non solo di una « Cristofania », ma anche di una « Staurofania » (stauros=croce): Gesù gli si presenta come colui che ha nella sua Croce il suo punto di vista decisivo. Essere trovato in Lui (cfr. Fil 3,9), vivere di Lui e per Lui (cfr. Rom 14,8) significa, da subito, per Paolo penetrare nel mistero-realtà dell’essere con-crocifisso con Lui, con-sepolto con Lui, con-risuscitato con Lui (cfr. Rom 6, 3-8).
(segue)
19 Cfr. R. FABRIS, Le lettere di Paolo, Borla, Roma 1980, III, 345-346.
20 La menzione di se stesso in terza persona a proposito di questa rivelazione, può essere un indizio di umiltà ma anche un’eco dello straniamento che l’estasi gli aveva fatto sentire nei confronti della vita presente. Cfr. AA.VV., Le lettere di San Paolo, Paoline, Roma 1978, 221-222.
21 Le speculazioni rabbiniche conoscevano due, tre e perfino sette cieli: San Paolo adotta qui la cosmografia dei tre cieli: il primo, dell’atmosfera; il secondo, degli astri; il terzo, del cielo, dimora di Dio e dei beati, quindi paradiso.

QUANDO L’INIZIO FA CORTOCIRCUITO CON LA FINE, AD ANDARE A FUOCO SIAMO NOI (Lettere di San Paolo, Apocalisse)

http://www.tempidifraternita.it/archivio/bodratoweb/bodrato13.htm

QUANDO L’INIZIO FA CORTOCIRCUITO CON LA FINE, AD ANDARE A FUOCO SIAMO NOI

Si consiglia di leggere questo articolo tenendo presenti i sequenti passi biblici: Romani 5, 12- 21 e 8, 18-27; I Corinti 15, 20-28; Filippesi, 2, 5-11; Colossesi 1, 15-20; Apocalisse, cap. 21-22.

Proprio perché comincia coi racconti dell’origine e termina con le immagini di una rivelazione (apocalisse), che adombrano la conclusione ultima, la Bibbia non può non contenere pagine che tentano un incontro tra questi suoi due estremi. L’inizio preordina in qualche modo la fine e la fine inevitabilmente rimanda alle grandi attese e ai fondamentali valori dell’inizio. Lo abbiamo chiarito in termini generali in uno dei nostri primi interventi, ma qui ora dobbiamo tornarci con maggiore attenzione. Infatti la ripresa neotestamentaria del tema delle origini si caratterizza proprio per lo stretto rapporto posto tra primo e ultimo nell’interpretazione della figura di Gesù, anzi quasi traforma la loro potenziale relazione in una sorta di cortocircuito cristologico.
Tutto ciò solleva un’infinità di questioni esegetiche e teologiche tutt’altro che semplici, come abbiamo visto durante la rilettura del prologo del Vangelo di Giovanni. Se in Gesù si incontrano, infatti, l’originaria potenza creatrice del Verbo, quella storico-rivelatrice dello Spirito e, in ultimo, la realizzazione escatologica della pienezza in Dio della creazione e della storia, Gesù è la sintesi del tutto, la verità di Dio e la verità dell’uomo, il compimento che riassume in sè ogni altro essere e ogni altra attesa, ma, come Crocefisso-Risorto, ne è anche la radicale problematizzazione.
L’esegesi tipologica come strumento neotestamentario di lettura e di scrittura biblica
Tutti sappiamo che le pagine che compongono il Nuovo Testamento nascono dal bisogno di tradurre in annuncio e in testimonianza scritta la fede cristologica dei primi seguaci di Gesù. Potremmo anche tentare di articolare in tempi e livelli diversi le tappe che hanno portato alla professione esplicita di tale fede, per meglio comprendere che essa non forma un blocco unico e non corrisponde, sic et cimpliciter, alla predicazione di Gesù. Ma questo ci condurrebbe lontano. Ci basti qui tenere presente il fatto che tutto il Nuovo Testamento è frutto di una riflessione sull’esperienza del proprio incontro, diretto o indiretto, col Nazareno che, per tradursi in scritto teologicamente orientato e orientante, in cristologia appunto, si vale di una profonda rilettura dell’Antico Testamento, di una sua continua rivisitazione per mezzo di citazioni esplicite e implicite, di rimandi e rielaborazioni. In sostanza si potrebbe quasi dire che i libri cristiani della Bibbia nascono come ricucitura di quelli ebraici intorno alla figura di Gesù di Nazaret detto il Cristo.
Anche questa è una caratteristica della Bibbia, quella di essere un libro che mette in scena la propria stesura, che tematizza ed esplicita la propria natura aperta, capace di continui aggiornamenti e completamenti. Per di più dovuti ad una lettura che si fa scrittura, che genera pagine nuove, degne di diventare compagne delle antiche e sorgente di altre infinite riletture e riscritture.
E’ così che hanno operato Paolo, Giovanni e le loro scuole, che ha operato l’autore della lettera agli Ebrei e quello dell’Apocalisse. Quando hanno cercato di dare corpo teologico e forma letteraria e simbolica alla propria convinzione di fede che Gesù era il Cristo, hanno evocato i temi teologici, le forme letterarie, i simboli portanti della fede veterotestamentaria, hanno utilizzato le grandi figure della Scrittura per convogliarle e raccoglierle intorno alla persona del loro eroe. Hanno dato vita ad una straordinaria operazione esegetico-creativa che va sotto il nome di tipologia.
Ce lo documenta con straordinaria chiarezza Earle Ellis nel suo studio sull’uso de L’antico Testamento nel primo cristianesino (Brescia, 1999). « L’esegesi tipologica era già stata impiegata nel giudaismo, ma per il cristianesimo primitivo essa divenne la chiave fondamentale per l’interpretazione scritturistica della figura e della missione di Gesù. » Essa si basa, infatti, sulla convinzione che gli eventi cristiani della salvezza si spiegano come realizzazione di analoghi eventi testimoniati dalla storia passata di Israele. Considera questi ultimi come anticipazioni e figure, come tipi o antitipi del Cristo. Tratta anzi a sua volta il Cristo stesso come prefigurazione e anticipazione, come tipo profetico del compimento futuro dell’intero processo redentivo (p. 141).
Ora, in generale, nel Nuovo Testamento la tipologia si presenta come tipologia della creazione e tipologia dell’alleanza. La prima presenta Adamo come « tipo di colui che doveva venire » (Rom 5, 14) e Gesù come nuovo Adamo, capace di rovesciarne l’umano destino di morte in destino di vita (I Cor 15, 22). La seconda fa di Gesù il nuovo Mosè e degli eventi dell’Esodo dei « tipi » della nuova alleanza, dei « tipi » che « vennero messi per scritto quale ammonimento per noi su cui è giunta la fine dei tempi » (I Cor 10, 6-11). Il che porta ad un terzo genere di tipologia, quella escatologica. Poiché, infatti la nuova alleanza, associata alla morte e resurrezione di Gesù, sfocia in una nuova creazione, le due prime tipologie non solo possono intrecciarsi, ma di necessità si incontrano nell’immediata apertura ad una dimensione nuova e diversa del creato e della storia.
E’ esattamente per questo che Paolo può parlare di una creazione che attende la propria liberazione dalla rivelazione dei figli di Dio (Rom 8, 19), che gli autori delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei possono presentarci Gesù come primizia del creato, capo della chiesa storica e primogenito dei risorti e dei riconciliati con Dio (Col 1, 15-20, Ebr 1-2), che il visionario dell’Apocalisse può aprire la sua prima lettera alle sette chiese qualificando l’emissario, Gesù risorto, come il Primo e l’Ultimo (2, 8) e chiudere la sua opera con una promessa che riassume enfaticamente tutto questo processo di risintetizzazione cristologica e martiriale del processo creativo e redentivo: « Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omnicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna. » (22, 12-15).
La cristologia come modello deflagrativo del presente
Ora questa ripresa sintetica del tema creativo e redentivo, posti in così stretta relazione con la realizzazione del loro fine ultimo, ci obbliga a renderci conto che il nostro non è affatto un credo pacificamente rassicurante e che la Bibbia cristiana, proprio perché non ci consente di dimenticare il passato, ma continuamente lo rilancia verso il futuro, è un libro esplosivo, un libro che fa del presente una sorgente di infinito e mai esausto dinamismo. Il che è evidente soprattutto per la cristologia, che privata di tale carattere dinamico e dirompente e letta come una dottrina metafisica degli attributi essenziali del Nazareno, diventa un « busillis » indecifrabile.
Il presente cristiano è per definizione un presente inquieto e lacerato, un presente in lotta per diventare quello che già sa di essere, ma ancora non sperimenta in tutta la sua pienezza. Un presente che potremmo paolinamente definire come un presente in corsa o in gara e che nulla esenta da questa situazione agonica di attesa e di tensione: non la storia con la sua specifica conflittualità, ma neppure la natura, con le sue tradizionali prerogative di fissità e perfezione.
Abbiamo in proposito già ricordato il passo in cui Paolo parla della creazione impaziente « Di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rom 8, 21),. Ma ora dobbiamo capire che quest’opera non consiste solo nella restaurazione di uno stato iniziale, temporaneamente deturpato dal peccato, bensì di qualcosa di totalmente nuovo e rivoluzionario, tanto rispetto all’essere originario del mondo, quanto e al nostro stare post-cristico. « Sappiamp bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come ancora potrebbe sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. » (8, 22-25).
Il che vale anche per il parallelo tipologico Adamo-Cristo. Gesù, come nuovo ed ultimo Adamo, non si limita a cancellare le colpe e i mali introdotti nella vita dalla trasgressione di Adamo, in quanto « il dono di grazia non è come la caduta ». « Se infatti per la caduta di uno solo morirono molti….molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo  » (Rom 5, 15-17). Egli è un « tipo » di Adamo che supera il padre naturale di tutti gli uomini, non soltanto perché, « pur essendo nella forma di Dio » (Filippesi 2, 6 e Gen 1, 26), « non considerò lo stato di equaglianza a Dio come una possibile preda » (Fil 2, 6; Gen 3, 5-6), ma anche perché, con la sua scelta di obbedienza fino alla morte, manifestò una vocazione alla signoria ben superiore a quella affidata da Dio ad Adamo e ottenne « un nome che è al di sopra di ogni altro nome…Un nome…di fronte al quale si piega ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra » (Fil 2, 7-11).
Se anche la creazione dove rinnovarsi
Siamo ad un passo dalle affermazioni cristologiche del prologo di Giovanni e delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei sulla preesistenza di Gesù Cristo alla natura e sulla sua stessa funzione creatrice; affermazioni che abbiamo esaminato nell’ultimo articolo e che ci sono sembrate davvero problematiche. Ma siamo anche ad un passo dal coglierne, insieme, il limite, la necessità e la paradossalità.
Il limite, perché in nessuna di queste professioni di fede cristologica, Gesù è presentato come Dio per essenza e per pacifica connaturalità, ma sempre e solo in relazione dinamica privilegiata con Lui, in rapporto di vicinanza e prossimità operativa molto stretta, in funzione mediatrice insostituibile nel momento creativo, in quello storico rivelativo e in quello escatologico.
La necessità perché senza una propria forte coloritura cristologica difficilmente la teologia cristiana potrebbe presentarsi come fedele rielaborazione innovativa di quella ebraica: fedele nella linea della progressiva e sempre più radicale interpretazione kenotico-redentiva dell’operare di Dio; innovativa nella scelta incarnazionista ed escatologica.
Paradossale perché proprio ciò che costituisce l’originalità della teologia cristiana, la sua forte enfasi cristologica, non si limita a caricare il Cristo di tutte le tensioni della natura e della storia, ma con lui carica di tali tensioni anche il cristiano e il suo tempo, vale a dire il nostro presente, conducendolo al limite della rottura.
E’ così che ci troviamo sfidati a vivere ogni nostra giornata come se si trattasse dell’attimo in cui il Regno può fare irruzione nella storia, ad esercitare, insieme, la virtu paziente e fiduciosa dell’attesa, l’operosità attiva di chi sa che da essa dipende ben più del suo destino, il coraggio di anticipare nella realtà mondana i segni di un futuro totalmente nuovo. E’ così, infine, che siamo invitati a far nostra la convinzione che il fondamento di tutto ciò non sta nella sicura conoscenza di un passato, ben saldo, ma nello slancio di una fede che tutto proietta al di là del già dato, come speranza: persino il vero essere dei cieli e della terra nuova in cui sognamo di ritrovarci risorti e liberati dalla morte e dal male.
Non abbiamo letto, forse, che coloro, che con bianche vesti, lavate dal sangue dell’Agnello, potranno aver parte all’albero della vita (Ap 22, 14), non si troveranno nel giardino edenico della prima creazione ma in una città martire della storia, trasformata in Gerusalemme celeste (21, 9-27)? Non ci è stato annunciato che tutto ciò comporterà la scomparsa del cielo e della terra di prima e, in forma assoluta e definitiva, del mare (21, 1)? Che analoga sorte toccherà alle tenebre e alla notte e, di conseguenza, allo stesso ritmo quotidiano del loro alternarsi con la luce del giorno (22, 5)?
Solo immagini, certo, non più che figure e simboli, ma simboli, figure e immagini che ci fanno capire che neppure l’opera « molto buona » del primo capitolo di Genesi regge alla prova dell’escaton cristico; che neppure la creazione col suo Dio può da sola essere presa come punto d’appoggio solido e definitivo per aprire, senza problemi, la bella formula di un credo cristiano.

Aldo Bodrato 

PAOLO E LA CROCE – DI GIOVANNI BISSOLI

http://letterepaoline.net/2009/04/10/paolo-e-la-croce/

PAOLO E LA CROCE

DI GIOVANNI BISSOLI

Riproponiamo il testo di un intervento che Giovanni Bissoli, docente di Giudaismo e Nuovo Testamento, ha tenuto presso il trentaquattresimo Corso di Aggiornamento Biblico-Teologico dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme (25-28 marzo 2008). Il testo originale si può leggere qui (in formato pdf).

Paolo, appena dopo tre giorni che arrivò a Roma, chiamò presso di sé «i più in vista dei Giudei» per presentare loro il suo caso giudiziario e discolparsi dalle accuse. Questi gli risposero: «Noi non abbiamo ricevuto nessuna lettera sul tuo conto dalla Giudea, né alcuno dei fratelli è venuto a riferire o parlar male di te» (At 28,21). Il testo è riportato da Eusebio di Cesarea, che osserva com’era uso delle autorità della madrepatria inviare ai correligionari in tutte le parti del mondo lettere informative mediante dei “legati” o “apostoli” (In Is. 18,1-2).
Anche Saulo era stato inviato alle sinagoghe di Damasco con lettere creditizie contro «i seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati» (At 9,2). Per lo zelo che lo distingueva, prima di essere apostolo di Cristo, fu apostolo giudeo. Uno scritto pseudo-clementino, che può essere preso come un romanzo, lo fa intervenire dopo che Giacomo ha invitato la folla a ricevere il battesimo e lui esorta gli israeliti a non lasciarsi sedurre dai discepoli di un mago. Quando Giacomo gli vuole replicare, incita la folla contro i cristiani e lui stesso se la prende con il fratello del Signore (Rec. I,70).
Saulo aveva studiato alla scuola di Gamaliele: non era un “poliziotto”, ma un esegeta. Come tale combatteva la nuova fede non con la spada, ma con la parola. Quando richiama il suo passato, lo recrimina come un errore, non come un crimine. Per lui giudeo, come poteva essere il Cristo Gesù, giustiziato sul patibolo e per questo «maledetto da Dio» (cf. Dt 21,23: «L’appeso [sul patibolo] è una maledizione di Dio»)? Perciò mediante la sua argomentazione in pubblico e nelle sinagoghe «voleva distruggere la fede» (Gal 1,23; At 9,21), e «devastava la ekklesía» (Gal 1,13).
Anche Giustino conferma che era convinzione dei Giudei del suo tempo che Gesù fosse, in quanto morto sulla croce, «maledetto da Dio» (Dial., 32,1; 89.2; 90,1; 96,1). Quando Paolo scriveva di «Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei» (1Cor 1,23), doveva parlare per esperienza personale. La scala dei valori della cultura contemporanea non pensava differentemente. Ce ne dà un saggio Cicerone, in un suo discorso del 63 a.C.: «Quanto dolorosa è l’ignominia di una sentenza giudiziaria, quanto penosa una multa pecuniaria, quanto misero l’esilio; tuttavia in ogni disgrazia ci resta un aspetto di libertà. Anche se siamo minacciati di morte, moriamo da uomini liberi. Ma il carnefice, la benda sugli occhi e la parola stessa “croce” stia lontana non solo dal corpo, ma anche dal pensiero, dagli occhi e dagli orecchi di un cittadino romano. Perché non soltanto l’accadimento di queste cose o la loro sopportazione, ma la sola eventualità, la prospettiva, la menzione stessa è indegna di un cittadino romano e di un uomo libero» (Pro Rabirio 5,16).
È ben nota una lettera di Plinio il Giovane (legato imperiale di Traiano in Bitinia, 111-113 d.C.), che descrive l’assemblea eucaristica e l’agape cristiana. In questa ricorre la sentenza che ci interessa: la religione cristiana è superstitio prava immodica, che possiamo tradurre: «[è una] credenza smisuratamente stolta», dato che parla di un salvatore crocifisso (Ep. X 96,8).
Questo punto di vista lo conferma anche Paolo: «È piaciuto a Dio salvare i credenti attraverso la stoltezza della predicazione» (1Cor 1,21). «È piaciuto a Dio»: l’espressione indica un atto libero di Dio. Paolo la usa, ricordando la sua esperienza: «Quando è piaciuto a Dio di rivelare suo Figlio attraverso di me» (Gal 1,15). In quel momento cadde il sistema di valori in cui l’ebreo Saulo credeva: «Circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,5-8).
L’inno, conservatoci in Fil 2,6-11, ci presenta la cristologia creduta e celebrata fin dai primi anni del cristianesimo: di Gesù Cristo ricorda la natura divina ed eterna nell’uguaglianza con Dio, l’abbassamento nell’assunzione della natura umana, umiliandosi sino alla morte – e morte di croce – e per questo l’esaltazione universale di Gesù Signore “a gloria di Dio Padre”. Ma perché proprio la croce? È il punto più basso cui potesse arrivare, scandalo per il “giudeo”, stoltezza per il “pagano”. Paolo non attenua la durezza del linguaggio.
Abbiamo ricordato l’espressione biblica di Dt 21,23: «L’appeso [sul patibolo] è una maledizione di Dio», cui Paolo si rifà in Gal 3,13. Ne possiamo aggiungere un’altra, non meno forte: «Colui che non conosceva peccato, Dio lo fece (epoíesen) “peccato” in nostro favore» (2Cor 5,21). Parlando del giovenco che serviva per il sacrificio di espiazione, Lv 4,21 in ebraico scrive: hatta’t haqqahal hû, che è reso in greco hamartía synagogês estin: «è “peccato” per l’assemblea». La traduzione italiana semplifica e chiarisce: «è il sacrificio di espiazione per l’assemblea» (traduzione liturgica della CEI). A proposito dell’espiazione, Paolo dice di Cristo: «Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione […] nel suo sangue» (Rm 3,25).
Letterariamente le espressioni sono figure retoriche, metonimie (trasferenza di significato), in cui si prende l’astratto per il concreto o viceversa, perché si tratta sempre di concetti contigui. Ma cosa significano a livello religioso? Mediante la ribellione a Dio la creatura cade sotto il potere del peccato e ha come conseguenza la morte fisica e spirituale (Rm 1,32; 5,12.14; 6,16.21.23). Dio prende sul serio la colpa dell’uomo, altrimenti poteva sembrare che soprassedesse alla colpa (Rm 3,23 s.). Ma croce, sacrificio, espiazione e redenzione non sono atti punitivi, bensì salvifici: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15,3; cf. 1Gv 2,2; 4,10; 1Pt 3,18: «Cristo è morto per i peccati»; cf. Mc 10,45: «dare la propria vita in riscatto per molti», che fa eco a Is 53,10-12; così nell’istituzione dell’Eucaristia, «sangue… versato per molti»: Mc 14,24).
Nel linguaggio di Paolo: «Ha dato se stesso per i nostri peccati» (Gal 1,4); «mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi» (Rm 5,6); «Uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti» (2Cor 5,14).
Con una bella immagine l’apostolo descrive la situazione che Dio istaura con Cristo crocifisso: «Annullando il documento scritto del nostro debito, le cui conseguenze erano a noi sfavorevoli, egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce» (Col 2,13).
Purtroppo nel nostro tempo accadono spesso dei sequestri di persona a scopo di estorcere soldi alle famiglie facoltose. Nel mondo biblico capitavano casi di schiavitù in occasione di guerra sia a causa di debiti. Chi avrebbe pagato il riscatto? La legge biblica ci dice che toccava al parente più prossimo, chiamato perciò “redentore”. Nell’esodo è Dio, in quanto legato da alleanza con gli antichi padri, che interviene a liberare Israele dalla schiavitù. In seguito il rito dell’agnello pasquale è “memoriale” di questo benefico intervento divino.
Il sangue di Cristo, agnello della nuova Pasqua, toglie tutta l’umanità dalla signoria del peccato per restituirla a Dio: «Con lui siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui siete anche stati insieme risuscitati» (Col 2,12); «È per lui [Dio] che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione» (1Cor 1, 30). Con la croce è tolta la colpa dell’uomo, l’uomo è sottratto al potere del peccato (Rm 6,17s.22): Cristo si è consegnato «per i nostri peccati» in modo da «strapparci da questo mondo perverso» (Gal 1,4).
Una cosa ancora aggiunge Paolo: l’uomo è sottratto alla condanna del giudizio, al potere della morte (Rm 7,5 s.; 1Cor 15,56), ma Cristo è anche la fine della Legge come mezzo di salvezza (Rm 10,4 s.; Gal 2,21; cf. 2,16; 2Cor 3,14): «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5).
Il fatto che Cristo morì per noi è tale, che Paolo può dire che noi siamo morti con lui (Col 2,20; Gal 2,19; 6,14: con-crocifissi), cioè l’uomo naturale come tale, sottratto al potere del peccato con il battesimo (Rm 6,4-10) e unito alla morte di Cristo, vive ed è “in Cristo” (2Cor 5,14). La risurrezione di Cristo non è solo sigillo che nella croce opera Dio (Rm 8,34), ma lavora anche sui fedeli come giustificazione (Rm 4,25), opera una nuova esistenza per il cristiano (Rm 6,4; Col 2,12) e mira al compimento dell’azione di Dio per ciascuno, alla piena figliolanza (Rm 8,11.17-23; 1Cor 6,14; 15,16.20; 2Cor 4,14 ecc.), altrimenti «la vostra fede è vana e voi siete ancora nei vostri peccati» (1Cor 15,17).
Come avviene questo? La morte in croce di Cristo è avvenuta «una volta per sempre» nel passato. Ma Dio rende efficace questo fatto appena una creatura accetta l’azione di Dio mediante la fede e ratifica la sua adesione interiore mediante il battesimo: «Quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte. Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,3-4). Il cristiano è “nuova creatura” (2Cor 5,17; Gal 6,15).
Per Paolo non c’è che un unico vangelo (Gal 1,6-7): nella croce e nella risurrezione appare l’estremo e definitivo atto d’amore di Dio (Rm 8,32). È opera di amore del Padre che dà a noi il Figlio in croce (Rm 5,8; 8,39), amore del Figlio che si dà per noi (Gal 1,4; 2,20): per questo il vangelo non si può comprendere se non con lo Spirito (1Cor 2,7-10).
Paolo ha sempre considerato la persona e l’opera di Cristo nella prospettiva della croce. Dio non ha tolto i peccatori dalla loro situazione agendo dall’esterno, ma operando dentro la loro situazione. Com’è avvenuto? Ci è facile tenere a mente la frase: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4). Ha preso corpo dalla vergine Maria colui che non «conosce peccato», ma assume «il corpo del peccato» (Rm 6,6), «il corpo votato alla morte» (Rm 7,24): «(Dio) mandando il proprio figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, ha condannato il peccato nella carne» (Rm 8,3).
Noi non potevamo uscire dalla nostra situazione senza speranza, ma il giusto, l’innocente, il Figlio di Dio si è immedesimato con noi e ne ha portato le conseguenze. Cristo in croce si è identificato con noi, perché noi ci identificassimo con lui, cioè diventassimo “giustizia di Dio” (2Cor 5,21b): «Tutto però viene da Dio» (2Cor 5,18). Tutto viene da Dio, tutto è grazia sua. All’apostolo è affidato «il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18).
Paolo scrive allora che la sua sapienza è «Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1Cor 2,2). Non è un vangelo a contenuto ridotto, quasi non voglia parlare del Risorto, al contrario (cf. 1Cor 15). Ma la croce è l’evento decisivo della salvezza, che dà morte alla morte / peccato e nello stesso tempo dà la vita. In altre parole: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).

SE CRISTO NON FOSSE PIU’ SCANDALO E FOLLIA PER UOMINI E POPOLI (1984) – H. U. v. Balthasar:

http://www.meetingrimini.org/detail.asp?c=1&p=6&id=88&key=3&pfix=

SE CRISTO NON FOSSE PIU’ SCANDALO E FOLLIA PER UOMINI E POPOLI (1984)

MEETING DI RIMINI 1984

Mercoledì 29 agosto

Di fronte ad una folla di almeno quindicimila persone prende la parola von Balthasar, una delle più grandi figure della teologia contemporanea, che di recente ha ricevuto il premio « Paolo VI » dalle mani di Papa Wojtyla. Quello che segue è il testo integrale della sua relazione.

H. U. v. Balthasar:

Miei cari ascoltatori, il tema che mi avete riservato – Se Cristo non fosse più scandalo e follia per uomini e popoli – ha un titolo alquanto teatrale, sebbene esprima perfettamente il vostro intento. Il mio sarà quello di reinserirlo nel suo contesto biblico, così da renderlo pienamente comprensibile Scandalo è una parola del Vangelo e proviene senza dubbio dal Cristo stesso. Significa esattamente: trabocchetto, trappola che si richiude sull’animale, ma anche pietra d’inciampo, ostacolo che può fare inciampare e cadere. Follia è una parola usata da San Paolo per mettere in evidenza che la saggezza di Dio, manifestata soprattutto nella Croce del Signore, oltrepassa e contraddice ogni saggezza puramente umana e a quest’ultima può apparire come insipienza, come follia. Per capire bene bisogna aggiungere immediatamente la frase paolina: « la follia di Dio è più sapiente degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini » (1 Cor 1, 25).Prendiamo in esame, per prima, la parola scandalo che nel Nuovo Testamento appare 54 volte. Ci sono due tipi di scandalo: quello degli uomini che seducono i deboli, i piccoli, coloro che credono nell’esistenza del peccato e ai quali bisognerebbe attaccare una pietra al collo per farli sprofondare nel mare. La libertà umana è minacciata dalla sua stessa debolezza: sventurati coloro che ne abusano. Ma c’è un altro scandalo, quello del Cristo stesso, soprattutto del Cristo crocifisso, scandalo inevitabile per l’intera ragione umana, scandalo voluto e istituito, del resto, da Dio stesso, poiché sta scritto: « Ecco, io pongo in Sion una pietra d’inciampo, una pietra di scandalo; ma chi crede in essa non sarà confuso » (Rom 9,33). Se Dio istituisce lo scandalo in Sion, dà immediatamente anche il modo di evitarlo: chi crede in lui – è il Cristo quello di cui si parla – non sarà confuso. Ma chi è colui che crede non solo per un pezzo di cammino, come la folla, come la maggior parte degli apostoli, ma fino alla fine scandalosa, come quelle poche donne, come Maria e il discepolo prediletto? Unicamente colui che aderisce fino in fondo. San Pietro ripete: « Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare…e chi pone su essa la sua fede non sarà confuso » (1 P 2,6), e aggiunge: « Essi vi inciampano perché non credono alla Parola » (1 P 2,8), perché credono solo finché piace loro e sembra loro ragionevole e non finché la Parola dura, e cioè fino all’ignominia della Croce, in cui tutta la saggezza e la potenza umana sembrano confuse, in cui sembra contraddetta ogni parola del Cristo stesso, in cui sembra spenta ogni speranza in lui, il Messia. Sarà necessario molto tempo, anche dopo la Resurrezione, perché questi discepoli si convincano che la loro fede era insufficiente: « l’annuncio delle donne sembra loro « puro vaneggiamento » (Luc 24,11), Gesù deve rimproverare loro la loro incredulità (Me 16,14). Ed eccoci al secondo termine. La follia. Non si vuol credere se non a ciò che si comprende con la propria umana sapienza, a ciò che rientra nelle proprie categorie anche le più sublimi: ciò che le oltrepassa, la sapienza di Dio, appare irrazionale. Noi siamo quei saggi e quei capaci ai quali, secondo le parole di Gesù, Dio ha nascosto il suo mistero; mentre i piccoli non distinguono ciò che comprendono ancora da ciò che non comprendo no più, ma procedono senza esitazione e ingoiano, per così dire, il boccone tutto in una volta. Secondo le parole del Cristo, essi sono i soli cui rivela tutta la sua sapienza misteriosa. Nelle categorie dei saggi e capaci insieme, Paolo include sia i Giudei sia i Pagani. I Giudei chiedono dei segni per credere, crederanno solo a ciò che avranno visto, l’apostolo Tommaso sarà l’ultimo nel Vangelo a reclamare la visione. I Greci sono in cerca della saggezza, anch’essi limitano il loro assenso a ciò che sembra loro saggio, la loro capacità di comprendere le cose intellettuali sarà la peggior pietra d’inciampo. Hanno una filosofia sottile ma chiusa, con un’allacciatura in alto, senza apertura ad una cosa che li supera. Se costruiscono un altare ad un Dio ignoto, è ancora dedicato ad una di quelle numerose ampio, io divinità incluse nel loro ben noto Olimpo. Aldilà non c’è che un ‘destino’ che non interessa più la sapienza, perché lui stesso non ne ha Tutto ciò è forse molto più vicino alla nostra epoca che non a quella di Gesù, sebbene il problema sia sempre lo stesso. Ma siamo progrediti molto in saggezza puramente umana, sia ampliando immensamente il campo delle nostre conoscenze cosmiche, psicologiche e sociologiche, sia riducendo dei problemi un tempo filosofici, e in un certo senso apertamente discutibili, in risultati acquisiti delle cosiddette ‘scienze umane’, sia semplicemente vietando – e questo è il positivismo – di porre il problema della causa ultima (problema considerato insolubile) per limitarsi alle questioni risolvibili dei rapporti intramondani. Al limite, possiamo allargare il campo di tali conoscenze ad un al di là che E morte do spiritismo e l’occultismo lo fanno a delle forze psicologiche non ancora ben note. I Russi, a partire dal loro materialismo, si ostinano a scoprire nuove armi da guerra, ma qualsiasi divenire autentico della scienza umana è escluso da queste ricerche. Ecco a che punto siamo, tutti insieme, Paesi dell’Est e paesi occidentali. All’Est predomina il materialismo, in Occidente il positivismo. E non crediate che questa evoluzione si arresti davanti alle porte della Chiesa. Oggi più che mai la Chiesa è minacciata da una lacerazione che la scinde fino in fondo in due campi che, girando entrambi intorno allo scandalo e alla follia divina, sono nocivi in ugual misura. Quello che è chiamato ‘progressismo’ è un aperto rifiuto dello scandalo, si deve adattare la dottrina cristiana alla comprensione dell’uomo d’oggi. Certi esegeti delle due sponde dell’oceano vi si applicano eliminando come superate sia alcune parole di Cristo che alludono alla sua prossima resurrezione e morte, sia soprattutto, e qui si uniscono ad essi celebri teologi, il senso della Croce come sacrificio offerto al Padre ‘pro nobis’. Poiché Gesù non ha menzionato il senso salvifico della sua morte né per il popolo d’Israele, né per tutta l’umanità, questa interpretazione della Croce deve essere una pia invenzione della teologia tardiva (come si usa dire) di San Paolo e di San Giovanni. Piuttosto che un sacrificio vicario per il peccato del mondo, bisogna vedervi una testimonianza suprema dell’amore paterno che, essendo sempre infinito e incondizionato, non ha bisogno di essere riconciliato ed è del resto incapace di cambiamento. Non si tratta di un’ira divina che, per mezzo della Croce, dovrebbe cedere ad un amore ormai totale. Ma, noi rispondiamo, che strana follia di Dio, dimostrare la sua affezione per noi consegnando il suo Figlio eterno a quell’atroce supplizio, non per la remissione dei peccati, ma come prova del suo amore! Questo non è certo ciò che pensa il Nuovo Testamento e soprattutto la Lettera agli Ebrei. Lasciamo da parte tutte le teorie che vedono in Gesù solo una specie di profeta (lo si trova in molti libri ebraici contemporanei che reclamano Gesù per Israele), esse non vedono che il compimento dell’Antico Testamento è anche un rovesciamento (finita la Terra Santa! finito il popolo etnico: partite, andate nel mondo intero per annunciare la Buona Novella a tutti popoli! Da allora, come hanno sentito con immensa gioia i Padri de a Chiesa, il mondo intero è terra santa.). Lasciamo da parte anche tutte le chiese laterali e settarie che si riferiscono unicamente ad un Gesù storico, o ad una Bibbia letterale e che non vogliono accettare una presenza perpetua e attiva dello Spirito Santo di Gesù nella sua Chiesa santa, sacramentale e istituzionale, come la vuole Cristo che istituisce Pietro capo della sua Chiesa indefettibile e Maria Madre di tutta la comunità santa: il Cristo di costoro resterà astratto e inaccessibile oppure l’approccio con lui sarà pietistico, soggettivo e sdolcinato. Ma quest’ultima riflessione ci porta ad un nuovo aspetto dello scandalo e della follia divina: la Chiesa del Cristo partecipa intimamente a queste qualità, ma solo se professa una fede totale nella Croce salvifica del Signore. Una Chiesa liberale e progressista non ha bisogno di essere perseguitata, si fa fuori da sola. Ma aggiungiamo una parola sulla tendenza contraria: il tradizionalismo. Esso non nega espressamente lo scandalo del Cristo e quello della sua Chiesa, ma il centro del suo interesse è altrove: nell’affermazione che non si deve toccare il deposito tramandato che per esso si esprime innanzitutto nella ‘lettera’: la ‘lettera’ della messa di Pio V, la ‘lettera’ dei Concili precedenti, il Vaticano II il quale, interpretando alcune verità secondo lo Spirito, avrebbe tradito la ‘lettera’ e sarebbe perciò inaccettabile. Questo è la negazione implicita della presenza di Cristo per mezzo atteggiamento dello Spirito nella Chiesa di tutti i tempi, quindi anche in quella d’oggi. Lo scisma rappresentato dal tradizionalismo estremo e antiromano non è che una nuova forma di un letteralismo sopraggiunto dopo ogni Concilio ecumenico importante, fin da Nicea e Calcedonia. E’ una forma di razionalismo che, invece di credere allo Spirito che regna nella Chiesa, si fida del proprio sapere, del proprio maggior sapere, e tradisce quindi la folle sapienza di Dio per aderire alla propria umana sapienza. Ma c’è un fenomeno affine di cui non vogliamo dimenticarci: ci si può fissare talmente e in modo unilaterale sul concetto di scandalo cristiano e di follia di Dio da farne una teoria inglobante che non lascia più spazio ad una sapienza divina al di là di questi concetti esprimono. Allora la follia divina diventa per me una cosa spiritualmente manipolabile, un metodo filosoficamente applicabile, una dialettica. E’ in questo modo che il Luteranesimo giunge a parlare di un Dio la cui sapienza ha necessariamente un aspetto diabolico, che la Bontà divina è al tempo stesso Collera divina, cosa che, alla fine, porterà al razionalismo dialettico di Hegel per il quale la Croce, il Venerdì Santo è, come egli dice, speculativa, cioè la legge stessa della ragione, che la si chiami umana o divina. La danza sacra che i filosofi di oggi fanno attorno all’hegelismo, ultima tappa della filosofia prima del materialismo e del positivismo, si rivela infeconda e sterile, gira solo attorno a se stessa, dimenticando sempre più il vero mistero: quello della Croce e della sua presenza reale nella Chiesa di tutti i tempi per mezzo dello Spirito. Nessuna sapienza umana può manipolare lo scandalo cristiano e la follia di Dio a proprio conto. Ed è proprio ciò che dobbiamo ricordare alle due Americhe, che quest’anno sono in particolare a tema del vostro Meeting, pero sebbene le loro ideologie siano ben diverse e in molti punti perfino opposte. L’America del Nord, che è in testa nelle ricerche tecniche, sociologiche e psicologiche tende ad erigere la ragione ad assoluto. Concederà un proprio posto al fenomeno religioso, in quanto atteggiamento umano privilegiato, ma non si curerà del lato oggettivo di questa o quella religione che si presenterà come rivelata, conoscerà una tolleranza senza limiti per tutte le forme, anche totalmente contrarie fra loro, di espressioni dogmatiche o quasi dogmatiche; e questo porterà alla convinzione che tutti quelli che credono in qualcosa di sacro saranno per i cristiani dei cristiani anonimi, gli come saranno, per esempio, per i buddisti dei buddisti anonimi. Sull’elenco telefonico di Los Angeles ci sono in fila pagine e pagine di Chiese di tutti i tipi i cui templi passano spesso da una setta all’altra. Un aspetto di scandalo, in questo, è una follia più umana che divina, una follia che non preoccupa nessuno; come in Italia sono stati soppressi i manicomi, così negli Stati Uniti si tollera con benevolenza ogni forma più o meno inoffensiva di credenza religiosa degli uomini. Si potrebbe dire che è preoccupante il fatto che nel Continente non ci possa essere persecuzione per una Chiesa che conservi, al suo centro, il vero scandalo cristiano. Il cristiano, purché si comporti in modo moralmente tollerabile per la società, sarà lasciata in pace. Il moralismo generale avrà partita vinta e la testimonianza cristiana, che per noi porta al martirio, gli sarà sottomessa come una specie al genere Certo, ci sarà la lotta delle razze (e non delle classi) e Martin Luter King, ottimo cristiano, sarà il martire di questa lotta, ma la sua morte sarà piuttosto la vittoria di una razza che di una religione. Nell’America del Sud incontriamo un razionalismo totalmente diverso. E’, e qui bisogna semplificare, la lotta fra due forme razionalistiche e politiche di comprensione del cristianesimo. Non vale la pena insistere sul cosiddetto cattolicesimo dei cosiddetti oppressori, che potrebbe quasi sempre ridursi a una forma di tradizionalismo H quale permette ad una classe dirigente l’espressione classica di una fede cattolica limitata alla recita di un Credo e alla pratica dei sacramenti. Da tutto questo, scandalo e follia sono esclusi. Mentre cattolicesimo e diritto politico sono intimamente congiunti. Il contrario di questo amalgama è più difficile da definire ed è noto come teologia della liberazione. Il problema è sapere in che senso si tratta di una teologia cristiana propriamente detta o di un movimento sociologico che si serve, a ragione o a torto, del Vangelo. Non metto assolutamente in dubbio la buona fede di molti, perfino della maggior parte di quei teologi che si riconoscono nella teologia della liberazione. Ma la domanda terribilmente scottante è un’altra: con che diritto si servono del Vangelo e del suo scandalo per fare politica? L’opzione per i poveri può essere detta centrale nell’atteggiamento di Gesù, ma vi vede Egli solo i materialmente poveri o tutti i poveri diavoli non piuttosto indigenti o ricchi che falliscono la loro entrata nel Regno dei Cieli? C’è, certamente, la difficoltà dei ricchi di passare per la cruna dell’ago, e la forza di testi simili. Ma non sono né la ricchezza né il potere politico che per Gesù separano il Regno in due campi. Il povero che non possiede alcun comfort in terra è più aperto alla Buona Novella del ricco pieno di preoccupazioni economiche. Ma bisogna forse aiutare il povero ad acquisire una parte di questo benessere? C’è, senza dubbio, un limite molto stretto fra miseria, che deve essere in tutti i casi soppressa, e povertà, che può essere una grazia che ci avvicina al Regno. Charles Péguy con molta ragione ci ha inculcato questa distinzione, egli non fa altro che seguire la parabola del Samaritano. Ed è la carità cristiana, essa sola, che ci deve animare a seguirlo, una carità che ispira una politica, ma che non si identifica con essa. Fra le due c’è una differenza livello. Due gesuiti francesi ce lo dicono sotto ogni punto di vista: P. Fracou che lavora in Cile e che ci ha dato quel libro dal titolo famoso: « Prima (di tutto) il Vangelo », cioè prima della politica. Esso ristabilisce lo scandalo della Croce unica di Cristo e vieta di confonderlo con quello della miseria umana. P. Pierre Ganne, mio vecchio amico durante gli studi teologici, che purtroppo è morto, nel suo nuovo libro sullo Spirito Santo ci inculca: concetto di Alleanza è che solo l’uomo libero è capace di stabilire dei rapporti veri, è l’uomo libero che diventa giusto e non l’uomo giusto che diventa libero. L’Esodo comincia con la liberazione; dopo, all’interno di questa liberazione (operata da Dio), si può chiedere al popolo di stabilire dei rapporti giusti. La decisione di giustizia parte dall’uomo; se il suo cuore è schiavo, egli non può avere il concetto di rapporti giusti guardate Lenin. Non ci sono esempi di rivoluzioni che non abbiano rafforzato il regime amministrativo e poliziesco. Non dimentichiamo che Satana si traveste da angelo di luce. Le nostre illusioni sono spesso a base di generosità. La libertà degli altri non è qualcosa che io scelgo. Non ne sono la fonte. La perversione del paternalismo porta a proclamare: Io scelgo il tuo benessere, la tua felicità. Ora, il mondo è pieno di questa pretesa, di scegliere la nostra felicità, è perfino un tema politico. In questo mondo il Vangelo è inintelligibile. Leggete tutto il libro, pubblicato da ‘Centurion’, 1984. La politicizzazione della carità è quindi un altro modo di pervertire la follia della Croce. Ma lasciamo ai latino-americani la loro chance di trovare nella loro situazione estremamente difficile l’equilibrio che permetta eli unire teologia e politica senza identificarle. Concludiamo ricordando che lo scandalo della Croce e la follia di Dio non sono affatto degli slogans a nostra disposizione. Entrambi i termini, il cui significato converge, non sono altro che l’espressione del fatto che la Sapienza divina ci supera infinitamente. San Paolo ce lo ripete in tutte le letture. Questa sapienza ci supera, ma non ci è sottratta. Avendo finito di inculcare il mistero della Croce, sofferta pro nobis, l’Apostolo continua: Aiuto sì, la sapienza che noi esponiamo fra i (cristiani diventati) perfetti Dio l’ha rivelata a noi per mezzo dello Spirito che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. L’uomo terreno non accoglie le cose proprie dello stato di Dio; per lui sono stoltezza e non le può capire, perché è grazie allo Spirito che si giudica. Ma l’uomo spirituale giudica tutte le cose, (perché) noi possediamo il pensiero di Cristo. Noi l’abbiamo, non come un possesso, ma sempre come dono. E questo dono ci è dato non per noi, ma per essere comunicato e questo dono liberatore si diffonde solo nella comunione. E la comunione che libera ed è la libertà, essa sola, che rende possibile la comunione. Ma noi non costruiamo né la libertà né la comunione. Entrambe e la loro unità sono pura grazia di Dio.

…ANNO PAOLINO UN ITINERARIO PER SPOSI E GENITORI CHE SCATURISCE DAGLI SCRITTI DELL’APOSTOLO

http://www.parrocchiadiquinto.it/sites/default/files/articoli/allegati/ART.%20DALLA%20LETTERA%20DI%20PAOLO%20AGLI%20SPOSATI.pdf

NEL CONTESTO DELL’ANNO PAOLINO UN ITINERARIO PER SPOSI E GENITORI CHE SCATURISCE DAGLI SCRITTI DELL’APOSTOLO

Dalla « lettera » di s. Paolo agli sposi e ai genitori

Dagli scritti paolini è facile accogliere spunti e provocazioni, proposte e intuizioni per elaborare comportamenti, costruire progetti e sviluppare esami di coscienza da parte delle coppie di sposi e delle famiglie. Teologia e pastorale del matrimonio in s. Paolo. Tutto si riassume nell’amore. Il rapporto genitori-figli. Da sottolineare il sano realismo mostrato dall’apostolo su questi temi. I primi seguaci di Cristo si ritrovavano nelle case. Già in Atti 2 avviene il passaggio dal tempio alla casa, con la « frazione del pane » nella dimora accogliente di un membro del gruppo di credenti: sono le prime « chiese domestiche ». L’incontro con Cristo coinvolge tutte le dimensioni del vissuto, compreso lo sposarsi e l’abitare. San Paolo, pur non essendo sposato, è vissuto con coppie di sposi. Si pensi all’anno e mezzo trascorso a Corinto in casa di Aquila e Priscilla, i due coniugi che gli hanno dato il lavoro e l’hanno aiutato con
grande generosità sul piano pastorale. L’apostolo li definisce «miei collaboratori in Cristo Gesù». In 1Cor 16,15 Paolo cita la famiglia di Stefana «primizia dell’Acaia», distintasi per il grande impegno. Molti dei 72 collaboratori dell’apostolo, menzionati negli Atti e nelle Lettere, erano sposati. È questo un segnale inequivocabile che l’attiva collaborazione tra l’apostolo e qualche precisa famiglia cristiana ha dato frutti insperati. Da qui un criterio spirituale e pastorale sempre valido: la sinergia tra istituzione (parrocchia, diocesi) e famiglia, tra sacerdote e sposi, apre le porte dell’evangelizzazione. Paolo attribuisce tanto valore all’istituto matrimoniale da scrivere: «Se qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele»
(1Tim 5,8). La prima e più importante verifica della fede personale e dell’appartenenza alla chiesa passa
attraverso il proprio stile di vita familiare. La teologia del matrimonio Paolo non ha scritto un trattato specifico sul matrimonio, ma ha affrontato questa tematica rispondendo a quesiti postigli dalle comunità da lui fondate o prendendo posizione su situazioni reali della vita dei cristiani. Pur esaltando la verginità per i valori di libertà, di offerta totale a Dio e, quindi, di anticipo della situazione escatologica, e pur risentendo dell’impostazione tradizionale dei ruoli nella famiglia antica, l’apostolo introduce varie novità per il matrimonio. Egli ribadisce anzitutto il comando del Signore circa la fedeltà e l’indissolubilità del legame sponsale. Il coniuge è il primo prossimo da amare, fino a costituire un essere solo (Ef 5,28). Sia in Ef che in Col, Paolo modula il rapporto marito-moglie sul rapporto Cristo-chiesa: è questa la massima valorizzazione della relazione coniugale. In Ef 5,1-2.21-33 viene ripetuto per tre volte il verbo agapao: mai il mondo greco e latino aveva usato tale verbo per indicare il rapporto uomo e donna, solitamente riconducibile a
passionalità (eros). Qui invece si allude ad un amore gratuito e fedele. Il marito è sì « capo », ma solo nel modo in cui Cristo è capo e salvatore della chiesa, in quanto cioè è disposto a donare radicalmente la propria vita. È la pasqua della famiglia, con la crocifissione dell’egoismo in ciascun membro. L’amore autentico tra due coniugi diventa così partecipazione al « mistero » della comunione divina e dell’alleanza di Dio col suo popolo. Con originale profondità, Paolo immerge l’amore dei due sposi all’interno di quel grande gorgo che è l’amore infinito ed eterno di Dio.
La vita coniugale diventa pertanto una manifestazione dell’amore stesso di Dio e uno strumento di santificazione per i coniugi. Gli sposi sono chiamati ad amarsi l’un l’altro come «Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25): è questo il metro di misura del loro amore. Il matrimonio è la consacrazione di un legame, che non è solo giuridico o funzionale o psicologico, ma si radica in Dio. Per sposarsi, occorre essere in cinque: lo sposo, la sposa, il Padre, il Figlio e lo Spirito. Bisognerebbe ricordarlo nella tentazione della separazione. I coniugi cristiani si amano, con le fragilità e i limiti di tutti ma, se lo fanno affidandosi al Signore, il loro amore diventa luminoso e contagioso, si trasforma in un annuncio spontaneo e quotidiano.
LINEE DI PASTORALE FAMILIARE
La vita dei fedeli sposati poneva ogni giorno problemi concreti, che esigevano indicazioni pratiche per vivere da cristiani in famiglia. Ecco alcuni consigli di Paolo:
- A causa del rispetto che dovete avere per Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri (Ef 5,21). L’amore è reciproca sottomissione: il termine « coniuge » significa « stare sotto lo stesso giogo », liberamente accolto. È tener conto della volontà dell’altro, dialogare e, a volte, pure rinunciare, per il bene comune della coppia e della famiglia. ? Il corpo è per il Signore e il Signore è per il corpo (1Cor 6,13). La corporeità e la sessualità rivelano il bisogno di Dio come pienezza di comunione, e quindi non possono essere riducibili a ricerca di sé o del solo piacere egoistico. Questo postula una conversione permanente per vivere al meglio i doni di Dio.
- Non astenetevi tra voi se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera; ma poi ritornate insieme, perché satana non vi tenti nei momenti di passione (1Cor 7,5). Contro la tendenza spiritualista del tempo, basata sull’opposizione corpo-spirito, Paolo riconosce l’importanza dell’esercizio della sessualità nella coppia, poiché «i vostri corpi sono membra di Cristo» (1Cor 6,15).
- Non fate delle vostre membra delle armi di ingiustizia al servizio del peccato (Rm 6,13). Paolo evidenzia i peccati sessuali più diffusi: l’adulterio, il disordine nei rapporti coniugali, l’andare con prostitute, la dissolutezza, le varie forme di impurità, la passione colpevole. Libertà non equivale mai a libertinismo e certi comportamenti escludono dal Regno perché non lasciano trasparire la « nuova creatura » redenta da Cristo, ma le catene della schiavitù idolatrica.
- Purificatevi dal vecchio lievito per essere una pasta nuova (1Cor 5,7). L’amore degli sposi deve essere « casto », per diventare oblativo. Castità coniugale non è astensione, ma misura e armonia: è la vera arte di amare. La castità è un’energia che regola l’uso della sessualità come dono reciproco e come occasione di crescita umana e spirituale (1Cor 7,1-9).
- Quelli che usano del mondo è come se non ne usassero appieno (1Cor 7,31). La verginità proietta oltre il presente, ha valore escatologico. Il credente vive nella realtà quotidiana del mondo, con tutte le sue gioie e fatiche, ma la sperimenta in modo quasi verginale, non stabilendosi in essa. Anche il matrimonio e la famiglia non sono realtà ultime e definitive, in attesa della pasqua finale.
NELL’AMORE, TUTTO
Per san Paolo nulla va anteposto a Cristo e nulla va vissuto senza Cristo: dunque, anche la vita sponsale e familiare non viene né idolatrata né relativizzata, ma passata al vaglio della pasqua del Cristo crocifisso e risorto. Oggi l’apostolo inviterebbe non a « sposarsi in chiesa », come solitamente si dice, ma a sposarsi « nel Signore »: il fulcro non è sul luogo materiale, ma piuttosto sulla fede autentica in Cristo, il che poi postula anche il valore del luogo sacro per la celebrazione del sacramento. La meditazione dei testi paolini aiuterebbe i nubendi, le loro famiglie e comunità a saper distinguere l’essenziale dal relativo e il sostanziale dall’apparente, imparando a fare scelte più oculate e alternative alla sapienza di questo mondo consumistico perché povero del profumo di Cristo. Sono innumerevoli le indicazioni che l’apostolo invia alle sue comunità e che si potrebbero tranquillamente applicare alla famiglia. Citiamo, come esempio, il consiglio di essere costruttori di verità nell’amore: «Vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa, verso di lui che è il capo della chiesa» (Ef 4,15-16). Gli antichi greci abbinavano al termine verità quello di franchezza: per loro era una conquista della democrazia e significava libertà di parola, apertura all’altro, coraggio di dire ciò che si pensa, comunicazione autentica. Senza la franchezza, i rapporti interpersonali rischiano di essere formali, convenzionali e opportunistici. È l’invito ad una comunicazione schietta e genuina, non condita da sotterfugi o doppi sensi, malizie o infedeltà. Paolo scrive questa esortazione alla chiesa nel suo insieme, affinché cresca unita edificandosi nell’amore. Ma tutto questo vale anche per la cellula più piccola della chiesa, che è la famiglia. Il consiglio
sottolinea l’importanza dell’ascolto e della parola, del dialogo e della comprensione reciproca. Occorre mettere in disparte l’idea che l’inganno sia utile e la sincerità risulti necessariamente brutale. Nell’inno all’amore della 1Cor 13 afferma che la carità si compiace della verità, non approva mai comportamenti ingiusti, non li condivide e non li giustifica. La combinazione di gentilezza e schiettezza è la carta vincente della comunicazione e del dialogo in famiglia, della sua crescita serena. In Rom 12,1-2 Paolo chiede ai cristiani, e quindi anche alla famiglia credente, non di vivere fuori dal mondo, ma di non conformarsi allo stile di vita dominante, di non lasciarsi intossicare dalla mentalità
comune, di discernere ciò che è in linea col Vangelo e avendo il coraggio di andare controcorrente, se richiesto dalla fedeltà al Signore e dalla sintonia con il suo corpo vivente, che è la chiesa. Paolo afferma poi che il vero culto spirituale consiste nell’«offrire i propri corpi come sacrificio gradito a Dio». È la logica dell’incarnazione, che consiste nel declinare l’amore in scelte di vita quotidiana, in atteggiamenti etici concreti. Dio, facendosi uomo, ha santificato ogni ambiente, ogni momento dell’esistenza ordinaria. Spesso ci si ostina a cercare Dio nella straordinarietà, nei tempi forti, in luoghi speciali, dimenticando che egli abita nel tempio dei nostri corpi fragili e stanchi e nel tempio dei nostri
appartamenti e dei nostri uffici. Paolo apre una straordinaria prospettiva, quando suggerisce di offrire a Dio la pesantezza delle fatiche quotidiane come culto spirituale gradito a Dio! Non manca il riferimento alla preghiera perseverante e al generoso servizio del Signore, alla semplicità e al perdono, alla condivisione e all’umiltà, all’accoglienza premurosa e alla collaborazione nel bene, alle opere buone che costituiscono i monili più belli sui volti femminili. L’apostolo distingue il comandamento del Signore circa il non separarsi dal suo personale consiglio circa le possibile scelte future. Molto incoraggiante l’affermazione paolina secondo la quale il marito non credente viene
santificato dalla moglie credente e viceversa (1Cor 7,14). È il frutto maggiore della grazia di Dio, la quale trasforma un coniuge in un ponte per l’altro sulla strada salvifica che va oltre il tempo e lo spazio. Paolo non teme di affrontare con chiarezza le situazioni di scandalo (1Cor 5,1-5), suggerendo prospettive di purificazione per il soggetto e la comunità. Con interessanti consigli inoltre dimostra interesse circa il ruolo delle vedove nella comunità cristiana (1Tm 5, 3-16).
RAPPORTO GENITORI-FIGLI
Paolo tiene in tal conto l’ambiente familiare che, per descrivere l’intensità del rapporto avuto con le sue comunità, usa spesso l’analogia con l’amore di un padre e di una madre: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature» (1Ts 2,7); «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!» (Gal 4,19); «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo» (Cor 4,14-15). L’apostolo in quest’ultimo testo pare affermare che un vero padre vale più di diecimila maestri! E ancora prende spunto dal latte e dal cibo solido, esperienza tipica dello svezzamento, per indicare la condizione immatura dei cristiani di Corinto, ai quali raccomanda: «Sia che
mangiate sia che beviate, tutto fate per la gloria di Dio» (1Cor 10,31. Mentre Paolo dà parecchie indicazioni e consigli ai coniugi, scrive invece poche righe (in Ef 6,1-4 e in Col 3,20-21) sul rapporto genitori-figli. Anche questa può essere un’indicazione educativa: l’amore più grande verso il proprio figlio si manifesta anzitutto nel rispetto e nell’intimità col proprio partner. Prima si è sposi e poi si diventa genitori e tra le due dimensioni vige un rapporto direttamente proporzionale: come si può essere autentici genitori, attenti e premurosi verso i figli, se non si è uniti e in cammino come sposi? Eppure, quanto è facile proiettarsi sui figli, dando per scontato il rapporto col proprio coniuge con
il quale si è ricevuta la benedizione del Signore! Per l’apostolo i figli sono « santi » (1Cor 7,14), cioè partecipano della grazia che anima la vita dei loro genitori. La fede non è « esterna » alla coppia, ma insita nell’esperienza condivisa e trasmessa. Poi raccomanda ai figli: «Obbedite ai vostri genitori nel Signore» (Ef 6,1). Omettendo tanti precetti
sapienziali (Sir 3,1-16; 7,27-28), Paolo invita ad un atteggiamento di obbedienza con due motivazioni: perché « è giusto », in riferimento alla consueta relazione tra le generazioni e alla concezione ellenistica di virtù. La seconda motivazione rimanda al quarto comandamento, sottolineando che esso è il primo comando del Signore legato ad una promessa: una vita lunga e felice. Non ci si improvvisa pellegrini della storia, se non ci si lascia accompagnare da chi ci ha preceduto facendo tesoro della sua saggezza di vita. Umiltà e disponibilità, da una parte, e responsabilità e consegna, dall’altra, sono le condizioni per uno scambio generazionale proficuo. Il cristianesimo non ama la separazione dei giovani dagli adulti e dagli anziani, ma tende alla comunione, pur nell’originalità di ciascuna età. Paolo rivolge poi una duplice esortazione ai padri: «Non esasperate i vostri figli, ma nutriteli con l’educazione e la disciplina del Signore». Dapprima li invita a non pretendere troppo dai propri figli, a non infierire su di loro con punizioni troppo severe. Poi l’aspetto positivo e propositivo di una sana educazione, fatta di rimproveri e di incoraggiamenti, di fermezza e di tenerezza a partire « dal Signore ». La fede, con i valori umani che essa origina e purifica, illumina e feconda anche l’impegno educativo nella famiglia. La sola fermezza, infatti, inasprisce i figli, la sola tenerezza manca di robustezza interiore, così utile per affrontare la vita. Paolo perciò invita a « nutrire » i figli, cioè a coinvolgersi nel progetto educativo
familiare, non demandabile ad alcun altro. Accoglienza e amore, assieme a valori chiari e a precisi punti di riferimento, costituiscono l’argine entro il quale il fiume della vita può essere utilmente contenuto. Per san Paolo, « educare » i figli implica il « lasciarsi educare dal Signore » in un atteggiamento di ascolto e di ricerca, di fiducia e di coraggio, nella certezza che la fede aiuta l’umanità propria e altrui ad esprimersi in pienezza e a costruire un ambiente più umano. La chiesa domestica come esperta in umanità.
IL SANO REALISMO
San Paolo rifiuta lo spiritualismo asettico, il manicheismo di parte, il soggettivismo relativista. Attingendo alla propria esperienza e alla vita problematica delle sue comunità, egli conosce la fragilità di ogni persona, sebbene investita della grande vocazione sponsale e familiare. Per questo (cf. Ef 4,26) raccomanda di non peccare nell’ira. Non dice di non arrabbiarsi mai, ma di non mancare di rispetto, aggredendo, disprezzando o sminuendo il proprio partner o la propria prole. E aggiunge: «Non tramonti il sole sopra la vostra ira». In altre parole: a volte, in famiglia, sono inevitabili il conflitto e la tensione; l’importante è sapersi spiegare e riconciliarsi presto, così da dormire sereni e in pace con tutti. Nell’inno alla carità l’apostolo afferma che «l’amore non si adira». Chi ama non esaspera, non assume posizioni
rigide e intransigenti, non vive di nostalgia per un passato che inevitabilmente passa e muta, né impone scelte per un futuro che si costruisce gradualmente insieme. L’amore non aggredisce, non vuole dominare né sopraffare.
Alternanza di « bastone e carità » (1Cor 4,21): è la fatica di ogni genitore ed educatore. Anche all’emergenza educativa si applica il mistero pasquale di morte e risurrezione. Non si tratta quindi di una tecnica, ma di un’esperienza nuova, generata dallo Spirito che rende presente ed operante Cristo, signore e maestro di ogni persona. No al genitore-padrone, al genitore-amico e al genitore-rinunciatario! In molti passi Paolo consiglia la mitezza e la tolleranza, il perdono e la riconciliazione, ma anche l’esemplarità e il coinvolgimento personale, fino al dono di sé : sono questi gli atteggiamenti veramente rivoluzionari del cristiano, che portano alla civiltà dell’amore. È la semina e la testimonianza più che il risultato secondo i criteri umani. Dagli scritti paolini è facile accogliere spunti e provocazioni, proposte e intuizioni per elaborare comportamenti, costruire progetti e sviluppare esami di coscienza da parte delle coppie di sposi, delle famiglie nella loro interezza e delle comunità parrocchiali, come pure da parte delle associazioni e dei
movimenti cattolici.

Guglielmoni L. – Negri F.

DECALOGO PER LA COPPIA (da 1Cor 13,4-8)
1. L’amore è paziente: «Siate impegnati, non pigri: pazienti nelle tribolazioni, perseveranti nella preghiera» (Rom 12,11-12). «La chiave che apre ogni porta è la pazienza. Ottieni la gallina covando l’uovo, non rompendolo» (A. Glasow).
2. L’amore è benevolo: «Il vostro amore sia sincero. Fuggite il male, seguite fermamente il bene» (Rom 12,9). «Il Signore ci ha creati per fare cose piccole con grande amore. Questo amore deve cominciare dalla nostra casa, dalla porta del vicino… Siate l’espressione vivente della gentilezza di Dio» (Madre Teresa).
3. L’amore non è invidioso, né geloso: «Siate premurosi nello stimarvi gli uni gli altri» (Rom 12,10). «Tenetevi gli uni accanto agli altri, ma non troppo vicini, così come il cipresso e la quercia non crescono l’una all’ombra dell’altra» (K. Gibran).
4. L’amore non si vanta, non si gonfia: «Andate d’accordo tra voi. Non inseguite desideri di grandezza, volgetevi piuttosto verso le cose umili» (Rom 12,16). «Matrimonio riuscito: la condizione di una piccola comunità costituita da un padrone, una padrona e due servi: in tutto, due persone» (Anonimo).
5. L’amore non manca di rispetto: «Ciascuno ami la propria moglie come se stesso e la donna sia rispettosa verso il marito» (Ef 5,33). «Tratta tua moglie come se fosse un purosangue e non sarà mai una donna rozza» (Anonimo).
6. L’amore non cerca il suo interesse: «Dio vi ha scelti e vi ama. Perciò abbiate sentimenti nuovi: misericordia, bontà, umiltà, pazienza e dolcezza» (Col 3,12). «Se ciascun partner è disposto a dare il 75% di se stesso in un rapporto, si avrà il 50% in più di quello che serve per un’unione perfetta» (Leo Buscaglia).
7. L’amore non si adira: «Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possono servire per la necessaria edificazione» (Ef 4,29). «Liberatevi dalle piccole seccature. Certo, siete diversi: ma non è per questo che vi siete innamorati?» (Anonimo).
8. L’amore non tiene conto del male ricevuto: «Sopportatevi a vicenda: se avete motivo di lamentarvi gli uni degli altri, siate pronti a perdonare, come il Signore ha perdonato a voi» (Col 3,13). «Chiedere scusa è la supercolla della vita: può riparare quasi tutto» (Lynn Johnston).
9. L’amore non gode dell’ingiustizia: «Vostra cintura sia la verità, vostra corazza le opere giuste» (Ef 6,14). «Una coppia di novelli sposi chiese al maestro di spiritualità: « Cosa dobbiamo fare perché il nostro amore duri? ». Rispose il maestro: « Amate insieme altre cose »» (A. De Mello).
10. L’amore si compiace della verità: «Bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri… Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito di sapienza (Ef 4,25.15). «Il solo modo di dire la verità è parlare con amore» (D. Thoreau). L’amore tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. Inseguite l’amore (1Cor 14,1).

«GUARDATE ALLA ROCCIA DA CUI SIETE STATI TAGLIATI»

http://www.usminazionale.it/2013_03/ko.htm

«GUARDATE ALLA ROCCIA DA CUI SIETE STATI TAGLIATI»

MARIA KO HA FONG

In un momento di depressione e di smarrimento del popolo d’Israele, il profeta Isaia lancia con fierezza questo invito: «Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti. Guardate ad Abramo, vostro padre, …» (Is 51,1-2). Il padre Abramo è garanzia di buona qualità, è prova della «radice santa » (cf Rm 11,16), è segno di speranza per il futuro, è motivo di fiducia e di coraggio.
Nell’Anno della fede accogliamo l’invito del profeta e guardiamo a questa roccia da cui anche noi cristiani siamo stati tagliati. Fissiamo lo sguardo a questo «nostro padre nella fede» (Rm 4,12) vissuto quattromila anni fa. Molto si è detto della fede
esemplare di Abramo. Paolo ne ha parlato con grande ammirazione (cf Rm 4,3.11.18; Gal 3,6-9), l’autore della Lettera agli Ebrei, nel solenne elogio della fede degli antenati, insiste particolarmente sulla fede di Abramo (Eb 11,8.17). Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo vede modello per eccellenza: obbediente nella fede (nn. 143-147). Noi qui, rileggendo le pagine bibliche su Abramo, piuttosto che
sottolineare la sua risposta di fede, focalizziamo l’attenzione su come Dio, in modo mirabile, suscita la fede in questo nostro grande «padre di tutti i credenti».

L’amore sovrabbonda sul peccato
Nella Genesi la storia di Abramo è situata su uno sfondo cupo. Il racconto della vocazione (Gen 12) segue immediatamente quello della costruzione della torre di Babele (Gen 11), che segna il punto culmine del susseguirsi di peccati. Nonostante il grande amore di Dio, l’uomo gli volta le spalle e si allontana da lui. Attraverso una serie di eventi il male cresce e dilaga fino a delinearsi in dimensione universale.
Dal peccato di Adamo ed Eva al fratricidio di Caino, alla violenza di Lamech, alla malvagità irrefrenabile della generazione di Noè e all’orgoglio sfacciato dei costruttori della torre di Babele, gli anelli della catena del male s’infittiscono e diventano sempre più robusti.
L’amore di Dio però è più forte del peccato. Egli, giusto e misericordioso, pur castigando, ha dei gesti di tenerezza sorprendente: le tuniche di pelli con cui riveste Adamo e Eva (Gen 3,21), il segno di protezione imposto a Caino (Gen 4,15), l’arca di Noè (Gen 6,14ss) e l’arcobaleno (Gen 9,12-17). Sono tutte espressioni di un amore sorprendente e sovrabbondante, garanzie sicure che il creato può ancora avere un futuro bello, testimonianze incontestabili che tra delitto e castigo non c’è pura e semplice simmetria. Paolo dirà: «Dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20).
Il Dio che ha creato la terra bella e buona e l’ha resa feconda per l’uomo non desiste dal suo progetto originario, nonostante la risposta «negativa dell’uomo al suo amore gratuito. Egli vuole ancora assicurare all’umanità felicità, dignità e libertà su questa terra. Egli è ancora amante della vita, ha ancora fiducia nell’uomo e nella sua potenzialità di bene. Per questo riprende il suo piano in termini nuovi con l’elezione di Abramo.
Con la costruzione della torre di Babele sembra che la rottura tra uomo e Dio e la perdita di unità dell’umanità siano ormai definitive, ma non è questa la fine della storia. Fra i gruppi dispersi c’è il clan di Terach, da cui Dio chiamerà Abramo come colui nel quale saranno benedette tutte le genti (Gen 12,3). Tra il racconto della torre di Babele e quello della chiamata di Abramo ci sono degli elementi in chiara contrapposizione. Gli uomini prendono l’iniziativa dicendo l’un l’altro: «Venite, facciamo mattoni…»; «Venite, costruiamo una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo» (Gen 11,3), mentre Dio dice ad Abramo: «Vattene … verso il paese che io ti indicherò» (Gen 12,1). Il motivo della costruzione della torre è: «Facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra» (Gen 11,3); quello che Dio presenta ad Abramo invece è: «Renderò grande il tuo nome, … in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2-3). La conclusione dell’episodio di Babele è: «Il Signore disperse gli uomini su tutta la terra» (Gen 11,9), al contrario, quello della chiamata di Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3).

La promessa eccede i desideri
Il Signore disse ad Abramo: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Gen 12,1). Il Signore si presenta senza tanti preamboli, così farà anche con Mosè, con Samuele, con Isaia, Geremia e tanti altri personaggi biblici. Egli non si impone con il suo essere Creatore e Signore potente, ma si fa percepire come una presenza misteriosa, una forza attraente, un’apertura affascinante, una sfida che risveglia le energie, le risorse e gli aneliti dentro l’uomo. Egli incontra l’uomo nel momento esatto in cui l’uomo si sforza di essere uomo, cioè quando coltiva dentro di sé ideali autentici e lotta per realizzarli.
Abramo parte. Questa risposta all’invito di Dio non lo trasforma automaticamente in un uomo santo; semplicemente la sua vita assume un nuovo spessore, un nuovo senso, una nuova determinazione e s’impregna di una nuova presenza. Da nomade vagante nel mondo egli diventa cittadino della terra promessa. È noto il paragone che il filosofo Emmanuel Lévinas fa tra Ulisse e Abramo. Ulisse, alla fine di un lungo viaggio si ritrova nella sua stessa casa, al punto di partenza; Abramo invece, si mette in cammino affidandosi completamente a quella presenza misteriosa che lo precede, e alla fine si trova in una terra nuova, spazio di vita designato a lui e alla sua discendenza.
In fondo, per un nomade come Abramo, conducendo un’esistenza precaria e instabile ai margini dei grandi imperi del secolo XX a.C., il sogno più grande era di avere una vita sicura, una terra fertile, pascoli tranquilli, figli numerosi. Dio gli viene incontro proprio qui. Avviene così un abbraccio fra promessa divina e speranza umana. Entrando nei desideri e nei sogni dell’uomo, Dio non li soffoca, non li blocca, ma li dilata, li eleva. Con le sue promesse egli incoraggia l’uomo a trascendersi, a mirare più in alto. «Farò di te un grande popolo e ti benedirò,… in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2-3). La promessa di Dio eccede i desideri. Abramo intuisce che quello che lo attende va oltre la sua fragile vita, la sua breve storia, la sua piccola famiglia e i suoi timidi sogni di prosperità e sicurezza.

In alto e in avanti
Le promesse di Dio ad Abramo possono essere riassunte in queste parole: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle» (Gen 15,5); «Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sguardo verso il settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occidente» (Gen 13,14). Sono parole molto belle, simboliche, suggestive, poetiche; parole di amicizia e di fiducia. Il Signore invita il padre del suo popolo eletto ad uscire all’aperto, a guardare in alto e guardare in avanti. Dio dialoga con l’uomo nei larghi spazi dell’amore e della bellezza, non nell’angustia dei diritti e doveri. Egli vuole che i cittadini della sua terra abbiano uno guardo ampio e rivolto in alto, che siano capaci di affrontare l’infinito con il candore e la semplicità del bambino che si mette a contare le stelle.
I padri della Chiesa, riflettendo sulla dignità dell’uomo, fanno notare che a differenza degli animali, l’uomo ha il corpo eretto, lanciato verso l’alto e non strisciante per terra come il serpente, né curvo o piegato con la testa e lo sguardo verso il basso. Siamo creature fatte per guardare in alto, ma purtroppo non sviluppiamo a sufficienza questo dono. Assomigliamo più agli animali se non sappiamo guardare in cielo. Nel libro del profeta Osea il Signore dice con rammarico: «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo» (Os 11,7). Nella liturgia eucaristica il celebrante, all’inizio della preghiera eucaristica, invita l’assemblea: «Sursum corda – In alto il vostro cuore!», perché è necessario avvicinarsi al mistero con il cuore in alto. Noi rispondiamo con tanta tranquillità e ovvietà: «Sono rivolti al Signore». È una risposta che non sempre corrisponde alla realtà. E sappiamo contare le stelle? La nostra vita è segnata da tanti numeri e codici e dobbiamo fare sempre dei conti. Cosa contiamo? Molti nostri contemporanei non sanno contare altro che il denaro. Il contare le stelle dice stupore, innocenza e semplicità, fantasia e bellezza, ampiezza di orizzonte, grandezza di cuore, speranza e gioia, senso ludico e poetico della vita.

Dio si compromette
La fiducia di Dio nell’uomo suscita la fiducia dell’uomo in Dio e in se stesso. La promessa di Dio all’uomo gli infonde gioia e gratitudine, coraggio e ottimismo, e lo spinge a donarsi con generosità agli altri. Così vediamo Abramo che abbandona tutto e parte secondo le indicazioni di Dio, innalza un altare in ringraziamento a Dio, tratta con generosità Lot, accoglie con amore gli ospiti, riceve il dono inatteso del figlio Isacco ed è pronto ad offrirlo in sacrificio, pur con immenso dolore. La promessa di Dio ha fatto grandi cose nel padre del popolo d’Israele.
C’è ancora di più. Dio non solo promette dei beni, ma si compromette personalmente, entra in una relazione più profonda, stabilisce legami di prossimità e di comunione, stringe un’alleanza con l’uomo. Egli dichiara: «Sarò il vostro Dio» (Gen 17,8). «Renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione» (Gen 12,1), promette ancora Dio ad Abramo. Ciò non significa che Dio, oltre ai beni materiali, garantisce gloria e fama al patriarca. Il nome di Abramo sarà reso grande e fonte di benedizione perché assunto da Dio stesso nel momento della sua autopresentazione. Dio ha voluto qualificarsi con il nome di Abramo, si è compiaciuto d’essere proclamato ed invocato «il Dio di Abramo» (Es 3,15). Qui sta la grandezza del nome di Abramo: è entrato a far parte del biglietto da visita di Dio. E qui sta soprattutto la grandezza di Dio, un Dio che non si vergogna di legarsi al nome, al volto, alla vita e alla storia delle sue creature, un Dio che si fida, si compromette, pur conoscendo la fragilità umana. L’autore della lettera agli Ebrei dice bene: «Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città» (Eb 11,16).

Maria Ko Ha Fomg fma
Biblista
Via Cremolino, 141 – 00166 Roma

12345...13

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01