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LA GARA, LA LOTTA E LA BATTAGLIA – (soprattutto Paolo)

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LA GARA, LA LOTTA E LA BATTAGLIA – (soprattutto Paolo)

ANASTASIO KIOULACHOGLOU

In Ebrei 12:1-2 noi leggiamo: Ebrei 12:1-2 “Anche noi, dunque, poiché siamo circondati da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Per la gioia che gli era posta dinanzi egli sopportò la croce, disprezzando l’infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio.” In questo passaggio noi siamo chiamati a correre con perseveranza questa gara che ci è proposta. Questo passaggio presenta il nostro cammino Cristiano, la nostra vita Cristiana, come una gara che abbiamo bisogno di correre: 1. con perseveranza 2. fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Paolo in un altro posto, in Filippesi questa volta, parla di nuovo a proposito di questa gara. Là noi leggiamo: Filippesi 3:12-14 “Non che io abbia già ottenuto tutto questo o sia già arrivato alla perfezione; ma proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo {Gesù}. Fratelli, io non ritengo di averlo già afferrato; ma una cosa faccio: dimenticando le cose che stanno dietro e protendendomi verso quelle che stanno davanti, corro verso la mèta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù.” Paolo non si conta se stesso come avendo già ottenuto il premio. Invece egli una cosa faceva: dimenticava le cose che stavano dietro e si protendeva verso quelle che stavano davanti, per ottenere il premio della vocazione celeste di Dio in Cristo Gesù. C’era una meta da raggiungere, un premio da ricevere. Paolo con considerava il premio come avendolo già ottenuto. Invece egli focalizzò la sua vita per ricevere questo premio. Egli era ad obiettivo orientato con lo scopo di ottenere il premio della vocazione celeste di Dio in Cristo Gesù. 1 Corinzi 9:24-27 “Non sapete che coloro i quali corrono nello stadio corrono tutti, ma uno solo ottiene il premio? Correte in modo da riportarlo. Chiunque fa l’atleta è temperato in ogni cosa; e quelli lo fanno per ricevere una corona corruttibile; ma noi, per una incorruttibile. Io quindi corro così; non in modo incerto; lotto al pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi, tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia squalificato.” Paolo stava correndo una corsa mirando ad una corona incorruttibile. La sua vita era orientata verso un obiettivo ed il suo obiettivo era di ricevere la corona incorruttibile dalle mani del Signore. Non avrebbe permesso a niente e nessuno di interferire con questo scopo. Egli non stava correndo in un modo incerto. Egli sapeva il Suo scopo ed egli era sicuro per il premio che lo stava aspettando. Come gli atleti disciplinano se stessi avendo in mente il loro scopo di vincere la loro gara, così anche Paolo disciplinava il suo corpo, ponendo attenzione che non fosse disqualificato. Però la gara che Paolo stava correndo non era solo per Paolo. Anche noi corriamo nello stesso stadio. La stessa corona, lo spesso premio, ci sta aspettando. Andando avanti, la corsa che stiamo correndo è anche presentata come una lotta nel passaggio di sopra di 1 Corinzi. Paolo ne parla anche in altri posti. Uno di loro è 1 Timoteo, dove Paolo, dando istruzioni a Timoteo scrive il seguente; 1 Timoteo 6:12 “Combatti il buon combattimento della fede, afferra la vita eterna alla quale sei stato chiamato e in vista della quale hai fatto quella bella confessione di fede in presenza di molti testimoni.” C’è un buon combattimento – il buon combattimento della fede – che dobbiamo combattere. Anche nella sua lettera ai Galati, Paolo chiedendosi quale fosse il loro stato della fede, scrive: Galati 5:7-10 “Voi correvate bene; chi vi ha fermati perché non ubbidiate alla verità? Una tale persuasione non viene da colui che vi chiama. Un po’ di lievito fa lievitare tutta la pasta. Riguardo a voi, io ho questa fiducia nel Signore, che non la penserete diversamente; ma colui che vi turba ne subirà la condanna, chiunque egli sia.” Essi correvano bene ma non più. Qualcuno li ostacolò, li turbò. Sembra anche che in questa corsa ci sia anche un competitore, qualcuno che non vuole che noi corriamo, se possibile, non correre affatto. Paolo parla di nuovo a proposito della gara e del combattimento in 2 Timoteo 2:3-5 1 Timoteo 2:3-5 “Sopporta anche tu le sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù. Nessuno, prestando servizio come soldato, s’immischia nelle faccende della vita, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato. Allo stesso modo quando uno lotta come atleta non riceve la corona, se non ha lottato secondo le regole.” La corsa diventa un combattimento e il combattimento diventa una guerra. L’atleta è anche come un soldato ed il soldato è anche un lottatore. E come un buon soldato deve sopportare le sofferenze. Riassumendo quanto sopra possiamo fare le seguenti conclusioni di un buon corridore della gara, o di un buon soldato: Quindi, un buon soldato o corridore: i) corre la gara con perseveranza. Come Barnes nel suo commentario spiega: “La parola perseveranza in questo posto vuol dire che: dobbiamo correre la gara senza permettere a noi stessi di essere ostacolati da nessun impedimento, e senza abbandonare o indebolirsi lungo la strada. Incoraggiati da molti esempi di quelli che hanno corso la stessa gara prima di noi, dobbiamo perseverare come essi fecero fino alla fine.” ii) Egli non corre in un modo incerto. Egli non batte l’aria. Di fronte i suoi occhi ha il suo scopo, il premio, la corona imperitura. Come Barnes di nuovo spiega; In un modo incerto – (??? ad?´??? ouk adelos). Questa parola non viene utilizzata in nessuna altra parte del Nuovo Testamento. Nella letteratura classica solitamente vuol dire “oscuramente”. Qui vuol dire che egli non sapeva a quale scopo stava correndo. “Io non corro a casaccio; io non mi esercito per niente; Io so a cosa mirare e tengo i miei occhi fissati sull’oggetto; Io ho lo scopo e la corona in vista.” iii) Egli si disciplina e sa molto bene che anch’egli può essere disqualificato. Per quanto riguarda il pericolo di squalifica, Paolo ci dice in 2 Corinzi: 2 Corinzi 13:5 “Esaminatevi per vedere se siete nella fede; mettetevi alla prova. Non riconoscete che Gesù Cristo è in voi? A meno che l’esito della prova sia negativo.” Il buon corridore, esamina se stesso, controlla per vedere se è nella fede. Egli testa e disciplina se stesso. Continuando, il buon soldato non s’immischia nelle faccende della vita. Fa così per poter piacere a colui che l’ha scelto. Noi non possiamo essere soldati di Gesù Cristo e nello stesso tempo avere pieno interesse nei nostri affari. Quando c’è la chiamata per i soldati, essi lasciano indietro i loro affari, le fattorie, negozi e vanno alla guerra. Ora questo non vuol dire che perché siamo soldati di Gesù Cristo dobbiamo lasciare la nostra occupazione. Paolo stesso faceva tende per guadagnarsi da vivere. Ma non dobbiamo essere “immischiati”, preoccupati con esso. Come il “Matthew Henry’s commentary of the whole Bible” dice: “La più grande preoccupazione di un soldato dovrebbe essere di piacere al suo generale; quindi la grande preoccupazione di un Cristiano dovrebbe essere piacere a Cristo, per essere approvato da lui. Il modo per compiacere a lui che ci ha scelto ad essere soldati è di non immischiarsi con gli affari di questa vita, ma libero da tali aggrovigliamenti poiché potrebbero ostacolarci nella nostra santa guerra.” In altre parole direi, di certo abbiamo occupazioni nella quale operiamo o obbligazioni che hanno bisogno delle nostre attenzioni. MA non dobbiamo essere aggrovigliati, intrappolati, stressati, con tutto questo. Queste non sono le mete che noi abbiamo qui. Noi siamo qui per piacere al nostro Generale, essere buoni soldati di GESÙ CRISTO. Noi siamo in una battaglia e non dobbiamo sistemarci come se non lo fossimo! Prolungandomi su questo soggetto, vorrei citare cosa il Signore Gesù disse nella parabola del seminatore: le ansietà di questo mondo, gli inganni della vita ed i piaceri della vita – vale a dire i grovigli con le cose del mondo, Paolo parla di questo – rendono la Parola di Dio infruttuosa. In questa parabola molti cominciano bene. La Parola di Dio fu seminata e spuntò in molti cuori. Pertanto solo l’ultima categoria diede frutto. Questo mostra anche che il numero di quelli che finiscono la gara fruttuosa non è necessariamente uguale al numero che la cominciò. Andiamo a vedere l’ interpretazione che il Signore diede a questa parabola: Luca 8:11-15 “Or questo è il significato della parabola: il seme è la parola di Dio. Quelli lungo la strada sono coloro che ascoltano, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore, affinché non credano e non siano salvati. Quelli sulla roccia sono coloro i quali, quando ascoltano la parola, la ricevono con gioia; ma costoro non hanno radice, credono per un certo tempo ma, quando viene la prova, si tirano indietro. Quello che è caduto tra le spine sono coloro che ascoltano, ma se ne vanno e restano soffocati dalle preoccupazioni, dalle ricchezze e dai piaceri della vita, e non arrivano a maturità. E quello che è caduto in un buon terreno sono coloro i quali, dopo aver udito la parola, la ritengono in un cuore onesto e buono e portano frutto con perseveranza.” La seconda e terza categoria cominciarono bene ma essi non finirono bene. Cominciare la gara non è quindi la sola cosa importante. Dopo aver cominciato la gara, quello che è importante è di continuare a correre. Ed il solo modo per continuare a correre con perseveranza è guardando a Gesù colui che crea la fede e la rende perfetta; combattendo la battaglia, con lo scopo di piacere al Generale e non aggrovigliarsi con gli affari della vita. C’è l’ idea sbagliata che diventare Cristiano vuol dire un biglietto per una vita facile, piena di piaceri. La parola “benedizioni” è arrivata a significare che Dio concede qualsiasi cosa che ti fa piacere. Una vita facile in molti casi diventa la meta. Noi dobbiamo fare attenzione che questo non diventi il nostro scopo. La nostra meta qui è di servire il Signore Gesù Cristo e l’aggrovigliarsi, l’attenzione sulle cose di questo mondo può fare una cosa sola: rendere il seme seminato nei nostri cuori infruttuoso. La nostra meta in questa vita non è soddisfare la definizione della società di un uomo di successo. Se Paolo e Pietro e l’altra gente fedele fossero viventi oggi non sarebbero stati valutati molto dalla società. Paolo lascio tutti i privilegi terrestri che aveva, tutto quello che la sua società riconosceva come valori, al fine di acquisire Cristo. Come egli ci dice in Filippesi 3:4-11 Filippesi 3:4-11“benché io avessi motivo di confidarmi anche nella carne. Se qualcun altro pensa di aver motivo di confidarsi nella carne, io posso farlo molto di più; io, circonciso l’ottavo giorno, della razza d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio di Ebrei; quanto alla legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della chiesa; quanto alla giustizia che è nella legge, irreprensibile. Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte, per giungere in qualche modo alla risurrezione dei morti.” Ci sono molte cose che Paolo aveva conseguito prima di diventare Cristiano. Paolo era qualcuno che la sua società onorava. Egli era un uomo “di successo”, secondo le definizioni della sua società, del mondo. Tuttavia egli considerò queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo. Per diventare fruttuoso in Cristo, noi dobbiamo sopportare le difficoltà, dobbiamo sopportare le tentazioni e dobbiamo lasciar perdere di avere confidenza nelle ricchezze o nel nostro potere. Se diventiamo Cristiani solo per diventare un po’ più ricchi o un po meglio del nostro vicino o per evitare questa o quella difficoltà, o per ottenere alcuni “benedizioni” allora abbiamo capito male. Come Paolo dice in 1 Corinzi 15:19: 1 Corinzi 15:19 “Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini.” Se noi abbiamo fiducia in Cristo solo in questa vita, se il nostro obbiettivo di fiducia è solo in questa vita, allora noi siamo i più miseri fra tutti gli uomini. Invece lo scopo in questa vita, è di piacere a Colui che ci ha chiamati:il Signore Gesù Cristo. Egli è il nostro Generale, colui che crea la fede e la rende perfetta in noi e noi correremo la gara solo se corriamo con perseveranza, avendo gli occhi fissi SU DI LUI. Gesù Cristo non promise “tu avrai tutto” nella vita. Egli ci invitò a prendere la nostra croce (Marco 8:34). Egli veramente promise benedizioni, ma egli parla anche di difficoltà. C’è un premio ma anche una gara. Una corona ma anche una lotta. E lì che abbiamo bisogno di perseveranza e del giusto obiettivo. È molto facile correre giù dalla collina che di correre su la collina. Per correre giù abbiamo bisogno di molto poco obiettivo di orientamento: le gambe ti porteranno giù. Ma correre su abbiamo bisogno di perseveranza e di essere focalizzati nell’obbiettivo. Senza di questo tu potrai, dopo che ti senti stanco, abbandonare la gara e sederti lungo il sentiero e spendere la tua vita là. Le tre categorie della parabola del seminatore cominciarono bene, ma solo l’ultima categoria scelse di andare avanti sulla collina. Essi erano quelli in cui “[il seme] che è caduto in un buon terreno ……, dopo aver udito la parola, la ritengono in un cuore onesto e buono e portano frutto con perseveranza.” (Luca 8:15). Essi portarono frutto con perseveranza dopo aver ascoltato la parola con un cuore onesto e buono. Imposta come obiettivo il premio della alta vocazione di Dio in Cristo Gesù. Imposta come il tuo obiettivo di piacere a Dio, di essere un buon soldato di Gesù Cristo, qualunque cosa questo potrebbe richiedere. Avete provato e visto che Dio è buono. Concentrate quindi la vostra vita su di Lui La gara: il competitore Come abbiamo visto precedentemente, la vita Cristiana è presentata come una lotta. Anche leggendo Galati precedentemente, noi abbiamo visto che essi correvano bene ma qualcuno ha ostacolato la loro corsa. Abbiamo anche visto la tentazione, l’inganno delle ricchezze, le preoccupazioni di questo mondo ed i piaceri della vita che resero la seconda e la terza categoria della parabola del seminatore infruttuosa. Abbiamo anche visto nella stessa parabola che la prima categoria perse la Parola di Dio seminata in loro perché il diavolo venne e la prese via. Deve essere ovvio da quanto sopra che la gara non è una gara corsa da soli. C’è un competitore nella gara. C’è qualcuno che non vuole che noi finiamo la gara con successo. Egli si oppone al nostro obiettivo, egli vuole che ci fermiamo per non raggiungere la nostra meta. In altre parole, c’è un nemico! Efesini 6 ci parla a proposito della nostra lotta con il nemico: Efesini 6:10-12 “Del resto, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate stare saldi contro le insidie del diavolo; il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti.” Questo passaggio, come tutti i versi che lo seguono, descrive la lotta tra noi ed il nemico. Paolo non comincia subito con la descrizione della lotta. Invece egli la comincia con un invito: l’invito a fortificarsi nel Signore e nella forza della sua potenza. Non c’è nessuno come il Signore. Non è il nostro potere che può sopraffare il nostro nemico. È nel potere del Sua potenza e noi dobbiamo fortificarci in questo potere. E l’invito continua chiamandoci a mettere tutta la corazza di Dio. I lottatori hanno una corazza e noi anche soldati di Gesù Cristo ne abbiamo una. E l’armatura ha uno scopo: di restare saldi contro le insidie del diavolo. Il nemico è il diavolo ed egli è vile. Ed il passaggio continua a dirci con chi lottiamo: no contro gli uomini, no contro sangue e carne ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre. Noi lottiamo contro le forze spirituali della malvagità che sono nei luoghi celesti. C’è un nemico quindi a cui dobbiamo resistere, una lotta che dobbiamo lottare indossando un’ armatura. Versi 14-18 descrive questa armatura: Efesini 6:14-18 “State dunque saldi: prendete la verità per cintura dei vostri fianchi; rivestitevi della corazza della giustizia; mettete come calzature ai vostri piedi lo zelo dato dal vangelo della pace; prendete oltre a tutto ciò lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio; pregate in ogni tempo, per mezzo dello Spirito, con ogni preghiera e supplica; vegliate a questo scopo con ogni perseveranza. Pregate per tutti i santi.” Dio ci ha dato questa armatura ed abbiamo bisogno di metterla. Affinché siamo capaci di lottare la lotta contro il nemico. Più descrizioni ed istruzioni riguardo il competitore nella gara sono anche date in 1 Pietro 5:8-11. Là leggiamo: 1 Pietro 5:8-11 “Siate sobri, vegliate; il vostro avversario, il diavolo, va attorno come un leone ruggente cercando chi possa divorare. Resistetegli stando fermi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze affliggono i vostri fratelli sparsi per il mondo. Ora il Dio di ogni grazia, che vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo {Gesù}, dopo che avrete sofferto per breve tempo, vi perfezionerà egli stesso, vi renderà fermi, vi fortificherà stabilmente. A lui sia la potenza, in eterno. Amen.” Il diavolo è il nostro avversario, il nostro opponente. Egli cammina attorno e il suo scopo è brutale: egli ci vuole divorare. Ecco perché la Parola di Dio ci dice di essere sobri, vigilanti. Come Matthew Henry’s commentary of the Bible commenta su queste due parole: “È il loro dovere ( Cristiano ), 1. Di essere sobri, e governare il dentro ed il fuori dell’interno dell’uomo con le regole di temperanza, modestia, e mortificazione. 2. Essere vigilanti: non sicuro o negligente, ma piuttosto sospettosi del costante pericolo dal nemico spirituale, e, sotto quella apprensione, essere vigilante e diligenti prevenendo i suoi disegni e salvare la nostra anima.” Noi dobbiamo essere focalizzati nella giusta direzione. Sebbene dobbiamo essere vigilanti ed attenti, il nostro obiettivo non deve essere sul diavolo ma sul Signore Gesù Cristo. Noi dobbiamo correre la gara restando focalizzati, guardando a Lui, ed allo stesso tempo essere sobri e vigilanti a causa del nemico. Noi dobbiamo resistere il nemico, fermi nella fede. Questo forse vuol dire che dobbiamo soffrire per un po’. Da ciò diventa evidente ed anche da altri passaggi che abbiamo visto in Timoteo, che la vita Cristiana involve veramente sofferenza, difficoltà. Essa infatti comporta una lotta e richiede fermezza. Esso vuol dire che durante il nostro cammino Cristiano a volte soffriremo. Perché dico tutto ciò? Mi sto concentrando su quelli che per qualche motivo sono scoraggiati nel loro cammino Cristiano; su quelli che soffrono e su quelli che cosa si aspettano da Dio non sembra essere lì. Tu sei nel mezzo di una battaglia ma Dio è CON TE. Come Pietro disse:“ma se uno soffre come cristiano non se ne vergogni, anzi glorifichi Dio, portando questo nome.”(1 Pietro 4:16). Anche Giacomo dice: “Beato l’uomo che sopporta la prova.” ( Giacomo 1:12). Oggi io voglio incoraggiarti a superare la prova. Questo non vuol dire di pretendere che non è successo niente! Possiamo essere feriti nei sentimenti, possiamo aver domande e ci si può chiedere perché Dio permette tutto ciò. Noi dobbiamo esprimere i nostri sentimenti, apertamente a Dio. Dovremmo porgli le nostre domande e dirgli come ci sentiamo. Noi non siamo tenuti a pretendere che siamo incontaminati ed andare avanti, mentre i nostri cuori sono pieni di delusioni. Giobbe era un uomo che visse rettamente e pertanto tutto ad un tratto la distruzione venne su di lui. La sua salute fu danneggiata molto rapidamente. I suoi figli morirono. Egli perse tutte le sue proprietà e sua moglie si beffava di lui riguardo la sua fede. In più i suoi amici, lo incolparono per quello che gli era successo. Chi avrebbe mai immaginato una situazione peggio di questa? Egli non pretese di essere forte ne tanto meno maledì Dio, come sua moglie gli incoraggiò di fare. Invece egli gridò al Signore, aprendogli il cuore ed allo stesso tempo questionandolo. Il suo libro è pieno di perché e domande rivolte a Dio. Tu forse hai sofferto molto e tu forse hai molti perché. Cose che ti aspettavi non sono accadute. Poche cose sono peggiori che di una speranza insoddisfatta. Sperare che Dio lo farà, eppure non lo fa. Forse può essere un lavoro che non hai ottenuto, una moglie che non è venuta, la salute che non è stata ristorata; speranza che non è stata soddisfatta. Qualunque essa sia è una prova. Qualunque cosa sia in te NON dovete chiudere il cuore. Qualunque esso sia parlatene a Dio. Chiedi a Lui; grida a Lui, comunica con Lui. In tutte le sofferenze Giobbe non bestemmiò Dio come la sua moglie gli disse di fare. Poiché disse: “Ecco, mi uccida pure! Oh, continuerò a sperare.”(Giobbe 13:15). In tutte queste orribili sofferenze e in tutto il suo dibattito con Dio, Giobbe era fedele. Una cosa è domandare a Dio essendo in comunione ed un’altra cosa è rigettarlo. Giobbe era pieno di dolore ma sopportò la prova. Sua moglie, la quale non so se aveva la fede all’inizio o no, era anche piena di dolore ma non resistette. Forse aveva la speranza in Dio nei giorni felici ma nei giorni della sofferenza ella si smarrì……seconda categoria della parabola del seminatore. Ma Giobbe disse: “Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo di accettare il male?” (Giobbe 2:10). Giobbe era preparato e devi esserlo anche tu. Tu ti devi preparare e prendere una decisione costi quel che costi, qualunque sofferenza, qualunque speranza insoddisfatta, o qualsiasi altra cosa necessaria, tu resterai fedele fino alla fine. Fedeltà non è un’idea…..ma fedele a Dio che ha rivelato Se Stesso a te. Prendi la decisione di correre la gara fino alla fine, qualunque cosa sia necessaria, e corri con perseveranza fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta! Come Pietro dice: “Ora il Dio di ogni grazia, che vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo {Gesù}, dopo che avrete sofferto per breve tempo, vi perfezionerà egli stesso, vi renderà fermi, vi fortificherà stabilmente. A lui sia la potenza, in eterno. Amen.”

 

L’ISRAELE DI DIO (Rm)

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L’ISRAELE DI DIO

Messaggio ai Cristiani a cura del past. Veglio, ministro della Chiesa cristiana evangelica di Trieste

INTRODUZIONE

Ringrazio il Signore perché ha voluto chiamare noi, gli ultimi, i più miseri, per comunicarci la sua parola, la verità. Egli ci ha detto che soltanto la verità ci renderà liberi e che se vogliamo avere libertà abbiamo bisogno della sua parola. Abbiamo bisogno di Gesù, che è la parola di Dio. Questa è la parola che ho ricevuto dal Signore.

Leggiamo quello che è scritto nella Lettera ai Romani, capitolo 11: 1Dico dunque: Dio ha forse ripudiato il suo popolo? No di certo! Perché anch’io sono Israelita, della discendenza d’Abrahamo, della tribù di Beniamino. 2Dio non ha ripudiato il suo popolo, che ha riconosciuto già da prima. Non sapete ciò che la Scrittura dice a proposito di Elia? Come si rivolse a Dio contro Israele, dicendo: 3″Signore, hanno ucciso i tuoi profeti, hanno demolito i tuoi altari, io sono rimasto solo e vogliono la mia vita »? 4Ma che cosa gli rispose la voce divina? « Mi sono riservato settemila uomini che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal ». 5Così anche al presente, c’è un residuo eletto per grazia. 6Ma se è per grazia, non è più per opere; altrimenti, la grazia non è più grazia. 7Che dunque? Quello che Israele cerca, non lo ha ottenuto; mentre lo hanno ottenuto gli eletti; e gli altri sono stati induriti, 8com’è scritto: « Dio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchie per non udire, fino a questo giorno ». 9E Davide dice: « La loro mensa sia per loro una trappola, una rete, un inciampo e una retribuzione. 10Siano gli occhi loro oscurati perché non vedano e rendi curva la loro schiena per sempre ». 11Ora io dico: sono forse inciampati perché cadessero? No di certo! Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta agli stranieri per provocare la loro gelosia. 12Ora, se la loro caduta è una ricchezza per il mondo e la loro diminuzione è una ricchezza per gli stranieri, quanto più lo sarà la loro piena partecipazione! 13Parlo a voi, stranieri; in quanto sono apostolo degli stranieri faccio onore al mio ministero, 14sperando in qualche maniera di provocare la gelosia di quelli del mio sangue, e di salvarne alcuni. 15Infatti, se il loro ripudio è stato la riconciliazione del mondo, che sarà la loro riammissione, se non un rivivere dai morti? 16Se la primizia è santa, anche la massa è santa; se la radice è santa, anche i rami sono santi. 17Se alcuni rami sono stati troncati, mentre tu, che sei olivo selvatico, sei stato innestato al loro posto e sei diventato partecipe della radice e della linfa dell’olivo, 18non insuperbirti contro i rami; ma, se t’insuperbisci, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te. 19Allora tu dirai: « Sono stati troncati i rami perché fossi innestato io ». 20Bene: essi sono stati troncati per la loro incredulità e tu rimani stabile per la fede; non insuperbirti, ma temi. 21Perché se Dio non ha risparmiato i rami naturali, non risparmierà neppure te. 22Considera dunque la bontà e la severità di Dio: la severità verso quelli che sono caduti; ma verso di te la bontà di Dio, purché tu perseveri nella sua bontà; altrimenti, anche tu sarai reciso. 23Allo stesso modo anche quelli, se non perseverano nella loro incredulità, saranno innestati; perché Dio ha la potenza di innestarli di nuovo. 24Infatti se tu sei stato tagliato dall’olivo selvatico per natura e sei stato contro natura innestato nell’olivo domestico, quanto più essi, che sono i rami naturali, saranno innestati nel loro proprio olivo. 25Infatti, fratelli, non voglio che ignoriate questo mistero, affinché non siate presuntuosi: un indurimento si è prodotto in una parte d’Israele, finché non sia entrata la totalità degli stranieri; 26e tutto Israele sarà salvato, così come è scritto: « Il liberatore verrà da Sion. 27Egli allontanerà da Giacobbe l’empietà; e questo sarà il mio patto con loro, quando toglierò via i loro peccati ». 28Per quanto concerne il vangelo, essi sono nemici per causa vostra; ma per quanto concerne l’elezione, sono amati a causa dei loro padri; 29perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili. 30Come in passato voi siete stati disubbidienti a Dio, e ora avete ottenuto misericordia per la loro disubbidienza, 31così anch’essi sono stati ora disubbidienti, affinché, per la misericordia a voi usata, ottengano anch’essi misericordia. 32Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disubbidienza per far misericordia a tutti. 33Oh, profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto inscrutabili sono i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie! 34Infatti, « chi ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi è stato suo consigliere? 35 O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì da riceverne il contraccambio? » 36Perché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui sia la gloria in eterno. Amen.

Dio ci comunica realtà eterne. È scritto che la parola di Dio è sempre « Sì e amèn ». Egli non muta, non è una volta « sì » e l’altra « no » (2Corinzi, 1:19-20). Nel Signor Gesù non c’è né titubanza, né incertezza. Noi siamo insufficienti e imperfetti, per questo Dio ci dà secondo la misura della nostra fede (Romani, 12:6). Ci dà solo quello che possiamo portare e non ci costringe a credere quello che non riusciamo ad accettare. È scritto che i profeti profetizzano secondo la misura della loro fede, ciò significa che parlano di ciò che hanno ricevuto dal Signore nella misura in cui vi hanno creduto. Non possono dire di avere ricevuto da Dio ciò che non credono provenire dal Signore. Quello a cui non credono non lo considerano parola di Dio. Così è anche per tutti noi: quello che non crediamo non lo consideriamo parola di Dio. Il Signore ci parla in tante maniere, Dio ci sta dando tesori immensi, ricchezze meravigliose, infinite, ma noi siamo limitati, e nella nostra limitatezza riteniamo provenire dal Signore soltanto quello che riusciamo ad accettare. Dio non è avaro, ma noi siamo limitati e non siamo in grado di capire cose tanto grandi. Ma grazie a Dio abbiamo accolto la verità. Grazie a Dio abbiamo accettato Gesù, il fondamento della nostra fede e della nostra salvezza, e con Gesù la vita eterna. Su questo viene costruita l’opera di Dio. Tutta la nostra vita, tutto ciò che Dio ci dona viene messo pietra sopra pietra e così veniamo edificati in Cristo. Dio ci ha chiamati a libertà. Ma, se vogliamo piacere a Dio, non possiamo vivere una vita secondo la nostra volontà; dobbiamo vivere una vita conforme alla Sua volontà, conforme cioè a quello che Lui ci ha detto. Ora le cose che abbiamo conosciuto sono parziali: non imperfette ma parziali, perché noi, non siamo in grado di capire tutto. Come ci dice lo Spirito Santo per mezzo dell’apostolo Paolo: « Oggi noi contempliamo come in uno specchio » – cioè come di riflesso – le cose grandi di Dio, ma quando saremo col Signore, allora le vedremo direttamente, « faccia a faccia » (1Corinzi, 13:12). Allora vedremo le cose in una maniera molto più profonda, in una maniera completa. Riusciremo a comprendere la meravigliosa grandezza di Dio, perché vi saremo immersi. Saremo anche noi là, assieme a Lui. La Sacra Scrittura ci dice che non tutti i popoli sono popolo di Dio, ma soltanto uno: il Popolo di Israele. Noi abbiamo accettato Gesù, il Figlio di Dio, e in Lui siamo diventati anche noi figli di Dio. Per accettare Gesù, la Parola di Dio, abbiamo rinunciato (siamo morti) alla nostra vecchia vita e abbiamo cominciato a vivere la nuova vita che è Gesù Cristo stesso in noi. Gesù, che è la progenie d’Israele, è colui che vive in noi (come dice l’apostolo Paolo: « non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me »; Galati, 2:20). Essendo Gesù la discendenza d’Israele, tutti coloro che accettano Gesù diventano in lui l’Israele spirituale. Noi sappiamo che Israele non ha accettato Gesù. Il popolo d’Israele, ufficialmente, non ha accettato Gesù come il Messia, cioè l’Unto (Mashiach) di Dio. Non lo ha riconosciuto come figlio di Dio e non lo ha accettato come Salvatore; pertanto il popolo d’Israele non ha ottenuto la salvezza. Gesù è l’unica salvezza, l’unica via, l’unica verità e l’unica vita, l’unico attraverso cui si può essere salvati e ottenere la vita eterna. Certo, anche fra gli Israeliti ci sono coloro che hanno accettato Gesù: anche l’apostolo Pietro e l’apostolo Paolo erano israeliti, praticamente tutta la Chiesa di Gerusalemme era israelita. Quindi non è vero che nessuno del popolo d’Israele abbia accettato Gesù, anzi. Ma non la nazione d’Israele. In effetti, Israele sta ancora spettando il Messia. Ora, avendo rifiutato Gesù come figlio di Dio, ha rifiutato la salvezza e fino a oggi, quindi, il popolo d’Israele non è ancora salvato. Perciò noi che abbiamo accettato Gesù come nostro salvatore siamo diventati popolo di Dio, l’Israele spirituale, mentre il popolo d’Israele, che non ha ancora accettato Gesù, non è ancora entrato a far parte dell’Israele spirituale. Questa è solo la premessa.   L’ELEZIONE DI ISRAELE Abbiamo visto che è scritto: « Ora io dico: sono forse inciampati perché cadessero? No di certo! Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta agli stranieri per provocare la loro gelosia » (v. 11). Quindi, il popolo d’Israele non è inciampato per non rialzarsi più, non ha rifiutato per sempre Gesù l’Unto. Neanche Dio li ha rifiutati per sempre. Piuttosto: a causa del loro indurimento, del loro rifiuto, la salvezza è giunta agli altri popoli. Sin dall’inizio, prima ancora della distruzione del Tempio, i fratelli hanno subìto persecuzioni a causa della loro fede. Sono stati tutti dispersi; solo gli apostoli sono rimasti a Gerusalemme (Atti, 8:4e 11:19), gli altri sono dovuti scappare in altre città e così facendo hanno diffuso la parola di Dio, annunciando Gesù in tutti i luoghi dove sono andati. Negli scritti del Nuovo Testamento troviamo che quando l’apostolo Paolo arrivava in una città, prima di tutto entrava nella Sinagoga e lì annunciava la buona notizia della salvezza in Gesù Cristo (Atti, 13:5,14,17:1-3). Ma quando, come purtroppo è avvenuto, questo annuncio è stato rifiutato dagli ebrei, allora Paolo si è rivolto agli altri popoli (ai Gentili). Dicendo agli israeliti: « Era necessario che a voi per primi si annunciasse la Parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi ritenete degni della vita eterna, ecco, ci rivolgiamo agli stranieri » (Atti, 13:46). E così è avvenuto, il vangelo è stato annunciato agli stranieri e molti hanno accettato Gesù. Quindi, a causa della caduta del popolo d’Israele, a causa del loro rifiuto, noi che siamo stranieri (estranei alle promesse, al patto, all’elezione) siamo stati raggiunti dalla Parola di Dio e abbiamo potuto ricevere la salvezza nel Signore Gesù e diventare così popolo di Dio. Ma il piano di Dio non si ferma qui. « Ora, – continua la Scrittura – se la loro caduta è una ricchezza per il mondo e la loro diminuzione è una ricchezza per gli stranieri, quanto più lo sarà la loro piena partecipazione! Parlo a voi, stranieri; in quanto sono apostolo degli stranieri faccio onore al mio ministero, sperando in qualche maniera di provocare la gelosia di quelli del mio sangue, e di salvarne alcuni. Infatti, se il loro ripudio è stato la riconciliazione del mondo, che sarà la loro riammissione, se non un rivivere dai morti? » (vv. 13-15). Questa parola scuote profondamente. La loro caduta, il loro rifiuto è stato per noi la salvezza. Non c’era nessuno che offrisse salvezza, come non c’è tuttora nessuna religione, nessuna dottrina, che offra salvezza. Tanti parlano, predicano, insegnano a fare buone opere, penitenze, riti, purificazioni e tante altre cose, ma nessuno assicura: « facendo così sarai certamente salvato ». Dicono: « Facendo questo, diventerai migliore, sarai più gradito a Dio, riceverai l’illuminazione », ma, sino alla venuta del Signor Gesù – e ancora sino a oggi – non c’è stato nessun altro che abbia offerto la salvezza e la vita per l’eternità, gratuitamente. Solo il Signore Gesù. Solo chi accetta Gesù nel suo cuore può dire: « Sì, io sono salvato ». Perché Gesù Cristo è la salvezza. Chiunque ha accettato Gesù Cristo nel proprio cuore, ha ricevuto la salvezza. E così, chi ha accettato Gesù può dire agli altri: « Accetta Gesù nel tuo cuore e sarai salvato anche tu ». Non c’è un altro modo per essere salvati. Cosicché quando quei popoli – in quel tempo, come anche oggi – hanno udito questa parola così certa, così ferma, così chiara, hanno accettato, perché non avevano mai sentito dire che questo fosse possibile. Ma Israele ha rifiutato Gesù Cristo, e a causa di questo rifiuto noi stranieri abbiamo ottenuto grazia, perché abbiamo ricevuto la parola di Dio. E Gesù ci ha rinnovati completamente, abbiamo difatti rinunciato volentieri a tutto ciò che era vergognoso, peccaminoso, iniquo, cioè a tutto il nostro vecchio modo di vivere, le vecchie tradizioni, le nostre vecchie passioni e i vecchi piaceri; e adesso siamo nuove creature. Ora se il rifiuto dell’Unto Gesù da parte del popolo d’Israele è stato per noi la salvezza, e oggi abbiamo la gioia di poter vivere in comunione con Dio e abbiamo pace nel cuore, avendo avuta trasformata la nostra vita, se Dio ha fatto questo in noi a causa del rifiuto del popolo d’Israele, che cosa succederà quando anche il popolo d’Israele accetterà Gesù? Questo è ciò che dice la parola di Dio: « Se il loro rifiuto è stata la riconciliazione del mondo, che sarà la riammissione, se non un rivivere dai morti? » (v. 15). Visto che non c’è un modo per poter esprimere qualcosa di così grande, l’apostolo lo esprime con questa frase interrogativa. Che altro può essere, se non qualche cosa di meraviglioso? Se oggi noi cristiani abbiamo già così tanto, che cosa succederà quando Israele si ravvederà e accetterà Gesù? Essi ai quali appartengono l’adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro, le promesse e i padri, e dai quali proviene, secondo la carne, il Cristo (Romani, 9:4-5). Il popolo che ha la cultura di Dio, le tradizioni di Dio. (Mi riferisco alle tradizioni bibliche, non a quelle che ha assimilato dal mondo, corrompendosi, corruzione che poi ha anche pagato amaramente). Io ho visto che queste cose a noi mancano. Lo Spirito di Dio mi ha mostrato una cosa che non conoscevo: il popolo d’Israele ha una ricchezza che a noi cristiani manca. È vero, gli manca Gesù, e senza il figlio di Dio è privo della salvezza e della vita eterna. Ma quando Israele accetterà Gesù, la grande ricchezza che possiede diventerà patrimonio di tutto il popolo di Dio, ebrei e non ebrei. 

L’OLIVO C’è ancora qualcosa di meraviglioso. Rileggiamo la parola. « Se la primizia è santa, anche la massa è santa. Se la radice è santa, anche i rami sono santi. Se alcuni rami sono stati troncati, mentre tu che sei olivo selvatico sei stato innestato al loro posto e sei diventato partecipe della radice e della linfa dell’olivo, non insuperbirti contro i rami naturali, ma se ti insuperbisci, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te. Allora tu dirai: sono stati troncati dei rami perché fossi innestato io. Bene, essi sono stati troncati per la loro incredulità e tu rimani stabile per la fede. Non insuperbirti, ma temi, perché se Dio non ha risparmiato i rami naturali, non risparmierà neanche te. Considera dunque la bontà e la severità di Dio. La severità su quelli che sono caduti, ma verso di te la bontà di Dio, sempreché tu perseveri nella sua bontà, altrimenti anche tu sarai reciso. Allo stesso modo anche quelli, se non perseverano nella loro incredulità, saranno innestati. Perché Dio ha la potenza di innestarli di nuovo. Infatti se tu che sei stato tagliato dall’olivo selvatico per natura e sei stato contro natura innestato nell’olivo domestico, quanto più essi che sono i rami naturali saranno innestati nel loro proprio olivo. » (vv. 16-24). Ecco cosa ha preparato Dio. Questo indurimento d’Israele, durato per lungo tempo – duemila anni – ha fatto sì che la parola di Dio, cioè l’evangelo, la buona notizia, potesse venir annunciato per tutto il mondo, così che nessuno rimanesse senza la possibilità di conoscere la verità – cioè Gesù – e quindi di ricevere la salvezza e la vita eterna. Ora noi cristiani non dobbiamo giudicare gli israeliti. È vero che loro hanno perseguitato Gesù e gli apostoli, hanno rifiutato il Signore e la salvezza che egli offriva loro. Ma se ci mettiamo a giudicarli per questo, noi, nel nostro cuore per natura malvagio, siamo portati a giudicarli in modo sbagliato. Giudicando così, alcuni hanno gridato: « Perfidi Giudei! ». Per lunghi anni sono echeggiate queste terribili parole e, a causa di questo modo di interpretare e di giudicare le cose, tremende persecuzioni si sono abbattute sul popolo d’Israele. Da quello che è scritto, però, vediamo che lo Spirito ci dice: non ti inorgoglire. Ma come, proprio tu che a causa del loro indurimento hai ricevuto grazia, ora li stai trattando così duramente, giudicandoli e disprezzandoli in questa maniera? Non capisci che proprio il fatto che hanno indurito il loro cuore ha dato a te la possibilità di ricevere la verità? È vero che alcuni rami dell’olivo sono stati recisi per la loro incredulità, perché si può essere salvati solo credendo in Gesù Cristo e in nessun altro modo. Tutti allo stesso modo, ebrei e pagani, senza distinzione. Gesù è il Signore! Non uno dei signori: l’unico Signore. Quindi c’è solo una salvezza: Gesù Cristo, il Signore. Ma per quanto alcuni d’Israele, a causa della loro incredulità, siano stati recisi quali rami dell’olivo, non di meno Dio non si è dimenticato di loro. Invece, noi che eravamo parte dell’olivo selvatico, siamo stati innestati al loro posto. Così ora possiamo ricevere la grazia di Dio, cioè la sostanza grassa della radice dell’olivo. Partecipiamo, cioè, della grazia proveniente dalla salvezza che è in Cristo Gesù, l’olivo di Dio. Se loro sono stati recisi per la loro incredulità – perché non hanno accettato Gesù – e Dio ha potuto innestare noi al posto loro (e l’ha fatto davvero, perché proprio per questo noi abbiamo vita: Gesù ci ha fatto partecipi di questa grazia, e noi sappiamo che cosa è avvenuto nella nostra vita il giorno che lo abbiamo accettato, e come questa è stata veramente trasformata, non esteriormente ma in profondità dentro di noi, per poi manifestarsi anche fuori: noi lo sappiamo e possiamo testimoniarlo), se Dio è stato capace di un’opera così impossibile, innestando noi che eravamo pagani al posto dei rami recisi del popolo d’Israele, quanto più egli potrà prendere di nuovo i rami tagliati, ma naturali, e reinnestarli al loro posto. È opera più facile questa, piuttosto che ciò che il Signore ha fatto per noi. Non è difficile per l’Onnipotente reintegrare il popolo d’Israele nella grazia che ha preparato innanzitutto per loro (come è anche scritto in Romani, 1:6 e 2:10). Prima per loro e poi anche per noi, non solo per l’uno o solo per l’altro. Quindi loro non sono esclusi, anzi vengono prima di noi. Se non perseverano nell’incredulità, saranno innestati di nuovo nell’olivo, cioè in Gesù il Messia. Perché Dio ha la potenza di reinnestarli (v. 23). Vale la pena sottolinearlo: se Dio ha fatto questo con noi, tanto più può farlo con loro. Fratelli, non voglio che ignoriate questo mistero, affinché non siate presuntuosi. Infatti, è facile cadere nella presunzione, e quando questo avviene, ci si inorgoglisce e si giudica in modo errato. Non vorrei dimenticaste che « un indurimento si è prodotto in una parte d’Israele finché non sia entrata la totalità degli stranieri » (v. 25). Quindi l’indurimento si è prodotto solamente in una parte e soltanto finché non sia entrata la totalità degli stranieri, cioè dei popoli non ebrei. Dio ci ha rivelato che siamo negli ultimi tempi, anzi ci ha rivelato che i tempi sono finiti. Sono stato mandato ad annunciare queste testuali parole: « I tempi sono finiti, ravvedetevi, convertitevi a Gesù Cristo ». Questa è parola di Dio. Perciò, se i tempi sono finiti, ecco che questo « finché non sia entrata la totalità degli stranieri » ora è avvenuto. Questa condizione si concretizza ora, alla fine dei tempi, quando ormai gli stranieri, tutti i popoli, hanno ricevuto la parola di Dio. E tutto Israele sarà salvato, così come è scritto: il liberatore verrà da Sion. Egli allontanerà da Giacobbe l’empietà e questo sarà il mio patto con loro, quando toglierò via i loro peccati. Per quanto concerne l’evangelo essi sono nemici: per causa vostra, però, per consentire a voi di venire salvati. Ma per quanto concerne l’elezione, sono amati a causa dei loro padri. Perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili (v. 26-29). Cioè, come dice un’altra traduzione: senza pentimento. Dio non si pente di quanto ha dato e noi sappiamo bene che le sue promesse sono per il popolo d’Israele. Noi cristiani non abbiamo soppiantato il popolo d’Israele, come alcuni pensano. Costoro credono che il popolo d’Israele sia stato reciso e che i cristiani siano diventati popolo d’Israele al loro posto. Ma Dio ha un solo popolo, da sempre. Il popolo d’Israele rimane il suo popolo e noi cristiani non l’abbiamo soppiantato: per grazia siamo stati integrati nel popolo di Dio. Certamente nessuno entrerà nel regno dei cieli senza convertirsi e accettare Gesù: su questo non ci possono essere dubbi. Ma ciò non toglie che tutti gli israeliti che accettano Gesù sono il vero popolo d’Israele. Non tutti gli israeliti sono « Israele », come è anche scritto (Romani, 9:6), ma soltanto coloro che credono: solamente coloro che hanno accettato Gesù sono il vero Israele. Perché ci sono tanti della progenie d’Israele che non credono e anzi rifiutano la fede. Questi non saranno salvati, pur essendo nati da genitori israeliti. Ma ciò non ci dà il diritto di dedurre che noi cristiani abbiamo soppiantato Israele. No, noi siamo diventati parte del popolo d’Israele! Siamo diventati parte dell’olivo: « Innestati », come è scritto. Alcuni rami sono stati tagliati; altri, però, non sono stati tagliati. Ma il tronco non è cambiato e le radici non sono mutate: la sacra Scrittura è la stessa, le promesse sono le stesse, le profezie sono le stesse, il Signore è lo stesso. Alcuni rami sono stati tagliati e noi siamo stati innestati al posto loro, ma l’albero è sempre quello. Noi cristiani quindi siamo stati innestati e siamo entrati a far parte del popolo d’Israele. Questo è fondamentale, fratelli: Israele non è stato rifiutato. Noi cristiani non dobbiamo diventare né dei soppiantatori, come Giacobbe, e neanche dei profani, come Esaù. E noi diventiamo tali quando nel nostro inorgoglimento pensiamo di essere diventati il vero Israele. Piuttosto, abbiate l’umiltà necessaria e abbassatevi, perché a Dio non viene difficile reinnestare i rami tagliati del popolo d’Israele; mentre a noi è detto che se non perseveriamo nella verità verremo a nostra volta tagliati. Come Dio non ha esitato a rigettare quelli d’Israele che non hanno creduto, così non esiterà a rigettare neanche noi, se ci inorgogliamo. Quindi, rimani umile e sii riconoscente, perché altrimenti anche tu sarai reciso (v. 22). Fate attenzione, quindi, a non innalzarvi e a non mettervi a giudicare Israele con un cuore altero e gonfio d’orgoglio. Noi cristiani abbiamo il Vangelo, è vero, ed essi sono stati effettivamente nemici del Vangelo: ma questo è avvenuto per causa nostra, come abbiamo visto, cioè perché noi fossimo salvati. Quindi, come in passato voi siete stati disubbidienti a Dio e ora, per la loro disubbidienza, avete ottenuto misericordia – così, « anch’essi sono stati ora disubbidienti, affinché, per la misericordia a voi usata, ottengano anch’essi misericordia » (v. 31). Fratelli, è così difficile, ma è meraviglioso. Ecco ciò che dice: Voi che in passato eravate estranei alla vita di Dio, avete ottenuto misericordia, perché Israele ha indurito il suo cuore verso Gesù e non lo ha voluto accettare. Ma, come essi sono stati disobbedienti affinché voi accettaste Gesù, attraverso di voi ora, per la misericordia che voi avete ottenuta, anche loro accetteranno Gesù. Attraverso di voi, perché non c’è nessun altro che possa annunciare Gesù, se non coloro che credono in Gesù. Quindi loro, che aspettano ancora il Messia, hanno bisogno di ricevere la testimonianza da noi. Per la misericordia che è stata fatta a noi, anche loro otterranno misericordia. Così Dio ha deciso, perché nessuno si glori, perché tutti rimaniamo lì dov’è il nostro posto, cioè a terra, nella polvere, ai piedi del Signore. Dio, infatti, ha rinchiuso tutti nella disubbidienza, per fare misericordia a tutti (v. 32). Perché altrimenti Israele si sarebbe inorgoglito, come è successo in passato, perché aveva le promesse ed era il popolo eletto. Essendosi inorgogliti sono scaduti e non possono venire salvati, finché non accettano Gesù. Adesso devono ascoltare, sono costretti ad accettare Gesù attraverso noi cristiani. Ma neanche noi abbiamo motivo di inorgoglirci. Perché è a causa della loro disubbidienza che la salvezza è giunta a noi. Guardate che cosa hanno dovuto sopportare, perché noi fossimo salvati. Hanno dovuto sopportare sofferenze indicibili, perché hanno rifiutato Gesù e lo hanno consegnato ai pagani affinché fosse crocefisso. Questo li h

PAOLO, IL FARISEO CHIAMATO DA DIO

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PAOLO, IL FARISEO CHIAMATO DA DIO 

DI: P. FABRIZIO TOSOLINI, SX     FEBBRAIO 2009  

  Nella Lettera ai Filippesi Paolo vanta le sue origini: « Circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile » (Fil 3,5-6). In Gal 1,13-14 evidenzia la propria intransigenza come persecutore: « Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo; superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri ».   I FARISEI E IL MOVIMENTO DI GESÙ I Farisei sembrano essere gli eredi dei gruppi di Giudei che nel II sec. a.C. si erano opposti al progetto di ellenizzazione forzata di Antioco IV Epifane, prima sostenitori e poi perseguitati dalla dinastia Asmonea. Pongono in grande rilievo lo studio della Legge, ritenendo che essa possa guidare il comportamento umano e santificarlo fin nelle azioni più comuni. Per mettere in pratica la Legge in ogni azione della giornata, in particolare per quanto riguarda il prendere cibo, devono sottoporla a minuziosa analisi in modo da trovarvi tutte le indicazioni necessarie. Al tempo di Gesù e di Paolo sembra che le confraternite farisaiche fossero concentrate a Gerusalemme e dintorni (la vita in comune rendeva più facile l’osservanza delle regole alimentari); appartenevano in media agli strati sociali più bassi e vivevano poveramente. Il movimento che nasce attorno a Gesù mostra molti tratti di similitudine sia con gli Esseni che con i Farisei. I Vangeli presentano i Farisei come duri avversari del Cristo a motivo della separazione che avviene dopo la distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C., verso la fine del I sec. Al tempo di Gesù l’opposizione veniva da parte dei Sadducei, in particolare dalla famiglia di Anna e Caifa, sulla base di considerazioni politiche (in quanto discendente di Davide, Gesù aveva tutti i diritti di aspirare al trono di Israele). Giunto a Gerusalemme, Paolo deve essersi unito a qualcuna delle confraternite farisaiche e aver con loro studiato la Legge. Atti dice sotto la guida di Gamaliele. Non è impossibile che in questo tempo Paolo abbia sentito parlare di Gesù e forse lo abbia anche visto, quando il Rabbi di Nazaret saliva alla Città Santa.   LA REAZIONE DI PAOLO AL MOVIMENTO DI GESÙ  La predicazione di Gesù, e su Gesù da parte della prima comunità, deve aver suscitato in Paolo una forte reazione negativa: durante la sua vita pubblica Gesù mostra un’autorità superiore alla Legge e si attribuisce prerogative, quale quella di perdonare i peccati e di riformare il servizio nel Tempio, che sono solo di Dio; e questo sulla base della precisa coscienza di essere Figlio di Dio in modo superiore a quello di tutto Israele e di essere inviato da Dio per salvare il mondo e portare a tutti lo Spirito. Gesù era stato crocifisso e, siccome moriva della morte dei maledetti, Dio non poteva essere con lui. Ma i suoi seguaci stavano riempiendo Gerusalemme e il mondo giudaico della notizia della sua glorificazione, con un successo notevolissimo e con minaccia non solo per la funzione espiatrice del Tempio, ma anche per le tradizioni tramandate da Mosé (cf. At 6,13-14). Per questo, probabilmente, Paolo passa all’azione, mosso da quello zelo che era tipico delle comunità farisaiche e delle loro accese discussioni riguardo alla Legge. Non ci è chiaro come egli in concreto perseguiti i cristiani. È verosimile che si sia mosso in modo personale, autonomo, come un battitore libero, approfittando delle riunioni nelle sinagoghe per accusare pubblicamente i cristiani, contraddire il loro messaggio, obbligarli a fare pubblicamente delle affermazioni o dei giuramenti che andassero contro la loro fede (cosa che farà qualche decina d’anni dopo anche Plinio il Giovane). In questo modo egli ottiene la loro condanna da parte dei responsabili delle sinagoghe; condanna che, se non necessariamente comportava conseguenze fisiche (c’erano problemi di giurisdizione), di sicuro diventava un ostracismo morale che rendeva ai cristiani, doppiamente rifiutati (dai greci in quanto giudei, dai giudei in quanto cristiani), la vita molto difficile. È anche possibile che, in vista di questo, abbia ottenuto da parte del Sinedrio lettere di autorizzazione, che garantivano la sua autorità e ortodossia, e gli davano così una notevole forza di coercizione.   SULLA VIA DI DAMASCO LA CONVERSIONE L’apparizione di Gesù sulla via di Damasco costringe Paolo a ristrutturare tutto il suo mondo interiore. In quanto fariseo credeva nella risurrezione. Ora Gesù, vivo, si fa riconoscere da lui come colui che il Padre ha glorificato, e che, nello stesso tempo, manifesta la sua vita risorta nella Chiesa creando con essa una nuova storia. Non solo: dalla risurrezione risulta confermato quanto Gesù diceva di sé, di essere venuto e di donare se stesso per la salvezza di tutti gli uomini. Così che in Paolo l’attitudine di difensore della tradizione di Israele si rovescia nell’impegno di mettere tutti a contatto vivente, per mezzo della tradizione della comunità, con l’intenzione salvifica del Risorto. In questo modo Paolo riconosce che la Legge non può liberare dal peccato, se il Figlio di Dio è dovuto morire per espiare i peccati; anzi, se la Legge ha fornito le ragioni ad alcuni israeliti per condannare il Figlio di Dio, quel modo di interpretarla non ha più valore. La Legge ormai parla solo di Cristo e di ciò che lui è venuto a portare.   DALLA CONVERSIONE LA MISSIONE Paolo vede che il rapporto che Cristo instaura con lui avviene non più a partire dalla buona volontà umana, ma nasce e cresce per l’azione della potenza del Risorto, per la presenza dello Spirito che dà testimonianza allo spirito dell’uomo, lo guida alla confessione di fede e alla vita secondo la nuova Legge, che è la sua ispirazione nel profondo del cuore. Questa nuova Legge guida immancabilmente il cristiano sulle orme di Cristo, il quale si dona per la comunità degli uomini fino a perdere per loro le sue prerogative divine. Anche Paolo vedrà che ai doni mistici individuali è preferibile lo svuotamento di sé in vista della costruzione della famiglia di Dio, così che Cristo sia tutto in tutti. In questo modo Paolo esperimenta, interiormente ed esteriormente, nei gloriosi anni dell’impegno missionario, la mirabile corsa della Parola di Dio. Da povera e piccola parola annunziata, essa entra nel cuore e in esso si sviluppa, trasformandolo, operando in esso la fede, la speranza, la carità. La santificazione dello spirito umano si irradia nella vita visibile nel comportamento storico, nel cammino della comunità, la quale a sua volta diventa parola: parola irresistibile nella dinamica delle sue relazioni interne, quando tutti dicono le parole di Dio (cf. 1 Cor 14,25); parola che di nuovo diventa seme sulla bocca e nella vita degli annunciatori che essa invia. Sembra impossibile che Paolo abbia colto tutto questo nei brevi momenti in cui il Risorto gli fa conoscere la sua potenza. Eppure si può serenamente pensare che sia stato così, proprio come un grande albero è già tutto presente nel seme nascosto nella terra.   LE CONVERSIONI SONO L’OPERA DI DIO  Il libro degli Atti racconta tre volte l’esperienza della conversione di Paolo. L’apostolo stesso la paragonerà alla creazione (cf. 2 Cor 4,5). Sembra incredibile quanto poco poi, nell’esperienza comune della Chiesa, siano valutate le conversioni. Il fatto stesso di collocarne alcune in un’aura di straordinarietà contribuisce a distanziarle dalla vita. Eppure sono per antonomasia l’opera di Dio, il fuoco dal cielo che anche lo stesso Elia può solo invocare. Le comunità dovrebbero ritrovarsi sempre di nuovo attorno alle esperienze di conversione quasi come davanti alla Scrittura e davanti all’Eucaristia. Sono le conversioni quel mondo nuovo che Dio continua a scrivere nelle tenebre, facendole diventare giorno luminoso di risurrezione. Il resto rimane notte.   FABRIZIO TOSOLINI

SAN PAOLO APOSTOLO – TESTIMONE PRIGIONIERO

http://www.culturacattolica.it/default.asp?id=241&id_n=7211

SAN PAOLO APOSTOLO – TESTIMONE PRIGIONIERO

Autore: Re, Don Piero Curatore: Riva, Sr. Maria Gloria
Fonte: CulturaCattolica.it

La Parola non si lascia incatenare (cf 2Tim 2,9), neppure quando Paolo è costretto all’inattività del carcere. Parlano per lui le catene portate per la causa di Cristo, come scriverà ai Filippesi: «Voglio farvi conoscere, fratelli, che quanto mi è capitato ha contribuito piuttosto al progresso del Vangelo. È diventato così notorio a quelli del palazzo del governatore e a tutti gli altri che io sono prigioniero per Cristo» (Fil 1, 12s).
Il giorno dopo l’arresto, il tribuno – per saperne di più sul suo conto – porta Paolo in sinedrio. Con un abile intervento, Paolo semina divisione tra i sadducei e farisei a proposito della risurrezione. Ricondotto in fortezza, il nipote lo avvisa che 40 giudei hanno giurato di ucciderlo. Informato anch’egli del complotto, il tribuno Claudio Lisa pensa bene di inviarlo – sotto scorta e di notte – a Felice, governatore in Cesarea (cf At 22, 30-23, 35).
Passano 5 giorni e Felice ritiene di mettere a confronto il prigioniero con il sommo sacerdote Anania, arrivato da Gerusalemme con alcuni anziani e l’avvocato Tertullo. Efficace come sempre l’autodifesa, cui però non segue la scarcerazione. Insieme alla moglie giudea Drusilla, Felice si procura una serie d’incontri privati, ma senza esiti rilevanti. Anzi, per due anni trattiene il prigioniero in una sorta di libertà vigilata: non voleva inimicarsi le autorità religiose di Gerusalemme e sperava di ricevere denaro dagli amici di Paolo (cf At 24, 1-27).
A Felice succede il governatore Festo, che riserva a Paolo analogo trattamento del predecessore. Si reca a Gerusalemme per conoscere le accuse sollevate dal sinedrio, che desidererebbe si riconducesse il prigioniero in città, per poterlo eliminare durante il trasporto. Indice una assemblea a Cesarea, ove Paolo può difendersi e – al fine di non subire processo a Gerusalemme – appellarsi al tribunale di Cesare, in quel tempo Nerone. Convoca una pubblica udienza alla presenza dell’incuriosito re Agrippa, passato a salutarlo,. Paolo coglie l’occasione di narrare ancora tutta la sua vicenda e anche Agrippa ammette di non trovare capi d’accusa che meritino pena di morte o catene (cf At 25-26). Non resta che tradurre il prigioniero a Roma, visto che si è appellato a Cesare.
Il viaggio di trasferimento in Italia – 2500 Km in linea d’aria, avvenuto dal settembre del 59/60 ai primi mesi dell’inverno successivo – fu alquanto avventuroso ed è descritto con tanti particolari marinareschi in Atti 27 e 28. Il drappello di prigionieri di cui Paolo fa parte è comandato dal centurione Giulio della coorte Augusta. I venti contrari e il sopraggiungere dell’inverno rallentano la navigazione. Un terribile uragano scuote per 3 giorni la nave, che va alla deriva: il carico è buttato in acqua, per 14 giorni non c’è tempo neppure per mangiare; la nave si arena sulla riva dell’isola di Malta e tutti i 276 imbarcati – chi a nuoto, chi su tavole – riescono a mettersi in salvo.
Anche in tali tragiche circostanze, Paolo era intervenuto autorevolmente almeno 5 volte, con esortazioni incoraggianti e avvalorate da una visione, con consigli di tecnica marinara, con la preghiera di ”ringraziamento” (l’Eucaristia?) prima di rifocillarsi; sempre guidato dalla preoccupazione di salvare la vita di marinai e prigionieri (cf At 27, 9-44).
Accolti dagli indigeni ”con rara umanità”, Paolo viene morso da una vipera aizzata dal fuoco acceso per asciugarsi dalla pioggia. Non producendosi gonfiore alcuno, gli indigeni lo scambiano per un dio. Publio, il ”primo” dell’isola, ospita tutti per tre giorni; Paolo guarisce suo padre ed altri malati; ne beneficiano tutti i naufraghi, colmati di onori. Dopo tre mesi, ripartono riforniti di tutto il necessario per proseguire il viaggio (cf At 28, 1-11).
Approdano a Siracusa e poi a Reggio, quindi a Pozzuoli, allora città di ben 65.000 abitanti e porto di Roma; alcuni fratelli li trattengono per una settimana. Dopo di che, probabilmente servendosi della via Appia, si avvicinano a Roma, città con abbondanza di dei, tutti i simulacri dei quali Augusto aveva collocato in un solo tempio, il Pantheon, e che allora contava circa 1 milione di abitanti, con circa 50.000 ebrei e 13 sinagoghe. Gli vengono incontro dei fratelli che già lo conoscevano, se non altro per aver loro scritto la più importante delle sue lettere tra il 55 e il 58, stando a Corinto. Si sta realizzando il suo progetto di confrontarsi anche con i cristiani della capitale dell’impero, «perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo» (Rom 1, 8). Nella lettera aveva promesso: «Per quanto sta in me, sono pronto a predicare il vangelo anche a voi di Roma» (Rom 1, 15). Anche la visione avuta a Gerusalemme l’aveva incoraggiato: «Tu devi rendermi testimonianza anche a Roma» (At 23, 11).
Siamo attorno al marzo del 61 e il prigioniero Paolo è tenuto in ”custodia libera”, una blanda cattività che gli consentiva di abitare in una casa, vigilata da un pretoriano, e di svolgere di fatto l’attività di un uomo libero (cf At 28, 12-16).
Son passati appena 3 giorni dall’arrivo in città e già Paolo convoca alcuni notabili giudei, per raccontare la sua vicenda e precisare loro che «è a causa della speranza d’Israele che io sono legato a questa catena » (At 28, 20). Molti di più convengono dove alloggia, in un altro giorno, interamente occupato da Paolo alla sua difesa e a proporre loro la conversione a Cristo. Alcuni aderiscono, altri dal ”cuore indurito” se ne vanno in discordia tra loro. Perciò Paolo, anche stavolta purtroppo, è quanto mai risoluto a rivolgere la salvezza di Dio ai pagani (cf At 28, 17-29).
Così si conclude la narrazione di Luca: «Paolo trascorre due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglieva tutti quelli che venivano a lui, annunciando il regno di Dio e insegnando loro le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo con tutta franchezza e senza impedimento» (At 28, 30).

 

SAN PAOLO AD ATENE (interessante)

http://www.domenicanipistoia.it/sanpaolo-atene.htm

CREDERE CON IL CORPO LA LEZIONE DI PANIKKAR, TEOLOGO DI TRE RELIGIONI

di Armando Torno

SAN PAOLO AD ATENE

Ad Atene Paolo giunse per la prima volta verso l’estate del 50, giusto nella metà esatta del secolo I, a vent’anni dalla morte di Gesù. Egli proveniva dalla Macedonia e aveva già soggiornato in varie città (Filippi, Tessalonica, Berea), suscitandovi piccole comunità cristiane, frutto del suo primo viaggio missionario in Europa. Ma una città come Atene, con il suo glorioso passato politico e culturale, doveva costituire qualcosa di nuovo e affascinante.
Qui Paolo stabilì due punti di attività missionaria: la sinagoga e l’agorà (la «pubblica piazza»). L’Areòpago era fuori dalle sue intenzioni, e l’intervento al suo interno fu occasionale. Egli infatti mirava di preferenza a un contatto non tanto selettivo quanto di tipo generale e per così dire misto, come risulterà soprattutto a Corinto. Nella sinagoga, che offriva un’audience più ristretta, poteva rivolgersi in modo mirato agli Ebrei e ai «pagani credenti in Dio», cioè a coloro che erano idealmente vicini al giudaismo (cf. At 17,17a); qui era in un certo senso a casa propria. Nell’agorà, invece, per natura sua più laica e aperta, poteva parlare con chiunque incontrasse.
Essa infatti è il luogo del libero scambio, dove più evidente appare il gioco della democrazia; non per nulla nelle città dell’antico Vicino Oriente, anteriori all’ellenismo, manca uno spazio del genere «in mezzo alla città», ritenuto inutile o addirittura pericoloso.
Il discorso all’Areòpago (At 17,22- 31) secondo gli Atti degli Apostoli è il pezzo forte dell’intervento di Paolo ad Atene, e si può suddividere in un esordio (vv. 22- 23), nell’annuncio dell’unico Dio con i rischi della sua ricerca (vv. 24- 29) e nel tipico annuncio cristiano (vv. 30- 31). Vogliamo chiederci qui quale sia, in generale, il suo significato per l’incontro tra vangelo e cultura. A questo proposito, possiamo individuare tre aspetti interessanti.
L’intervento di Paolo all’Areòpago è l’unico esempio nel Nuovo Testamento di un discorso ai pagani. Va osservato che Paolo, in base al giudaismo di origine, doveva appunto considerare come «gli altri», cioè distanti e diversi, proprio i «gentili», quelli che oggi qualifichiamo genericamente come pagani. Anche se storicamente l’atteggiamento di Israele verso di loro può aver assunto forme di integrazione a vari livelli, restò sempre un giudizio di fondo, che li bollava come «un nulla» (Is 40,17) o come «peccatori» (Gal 2,15).
Ebbene, l’enorme «operazione culturale» attuata da Paolo è stata appunto quella di aprire il Dio d’Israele anche ai «gentili» e di ammetterli gratuitamente, cioè senza richiedere loro l’osservanza della legge di Mosè, ma proponendo la semplice fede nel sangue di Cristo, alla giustificazione davanti a Dio e in ultima analisi alla salvezza escatologica, sulla base non dei comandamenti formulati dal legislatore Mosè, ma delle libere promesse fatte da Dio al patriarca Abramo. Per questo Paolo si è sempre battuto: per avvicinare i lontani (cf. Ef 2,13), per ammettere e accogliere «gli altri», quelli che erano religiosamente bollati come esclusi, per superare quindi i molti recinti del sacro, della cultura, della razza, e persino del sesso (cf. Gal 3,28), tutte barriere che egli sa ormai irrimediabilmente abbattute in Cristo.
Il suo discorso all’Areòpago rappresenta il momento tipico di questa «politica». È vero che altri Giudei di ambito ellenistico operarono irenicamente nei confronti della cultura pagana: valga per tutti la figura straordinaria del filosofo-mistico Filone Alessandrino. Ma mentre Filone, pur dimostrando una conoscenza molto più ampia e approfondita della tradizione culturale greca, non rinuncia a proporre i benefici della legge mosaica, Paolo prescinde da ogni imposizione legalistica e propone semplicemente Gesù Cristo come l’unica via per giungere alla comunione con la divinità. Il discorso di Paolo all’Areòpago ci propone poi due istanze esemplari molto concrete. La prima riguarda il contatto diretto e anche fisico con «gli altri», cercandoli magari là dove essi sono e vivono, senza temere di incontrare la diversità «altrui» e di starle magari gomito a gomito, nonostante troppe volte si sia tentati dalla chiusura, dall’affermazione soltanto della «propria» diversità. La seconda istanza è un corollario della precedente: «gli altri» si incontrano veramente, non con la pretesa di strapparli alla loro cultura per imporgliene una nuova, magari antitetica, bensì adottando punti di vista della cultura altrui che possono valere come vera e propria praeparatio evangelica. La parola magica in questo senso è «inculturazione», che fa pendant con «incarnazione».
Nonostante tutta la buona volontà ecumenica di Paolo, egli tuttavia all’Areòpago annunziò il messaggio cristiano in alcuni suoi elementi tipici.
Certo, secondo il testo lucano, egli non parlò della croce di Cristo. Ma il suo discorso giunse a proporre la prospettiva del giudizio escatologico e, come suo corollario, il kerygma (o annunzio fondamentale) della risurrezione di Cristo. Ciò già poteva bastare per motivare un rifiuto, come di fatto avvenne.
Si potrebbe perciò discutere sull’eventuale necessità di cominciare il confronto con i lontani non direttamente con lo specifico kerygma cristiano, ma con dei prolegomena («premesse») che preparino alla sua accettazione. Ma resta il fatto che Paolo non premise dibattiti filosofici, se non assumendo irenicamente la palese condivisione di alcuni punti fermi della cultura greca, che sono poi quelli da noi tradizionalmente etichettati come elementi della teologia naturale (un esempio è la citazione del poeta Arato: «Di lui infatti anche noi siamo stirpe», nel v. 28). Ciò che può derivarne per ogni cristiano, al di là di ogni buona volontà di dialogo, è che non si può sfuggire all’esigenza di proporre ciò che più propriamente definisce l’identità della sua fede. Bisogna prima o poi giungere a dire che, oltre ogni nesso che lega il cristiano al ricco patrimonio delle tradizioni culturali umane, c’è qualcosa di irriducibile ad esse, qualcosa che può essere e di fatto viene giudicato «scandalo e stoltezza», di fronte a cui la sapienza del mondo viene messa in scacco (cf. 1Cor 1,17- 25). Certo è che una forte precomprensione religiosa non basta ad accogliere il vangelo. Gli Ateniesi vengono riconosciuti «molto timorati degli dèi» (v. 22), però questo non solo non valse a nulla, ma costituì forse l’ostacolo maggiore alla fede. Il vangelo infatti è sempre anche una critica della religione, cioè delle inveterate categorie, individuali e sociali, secondo le quali sembrerebbe che l’accesso a Dio sia ormai fissato irrevocabilmente in figure, istituzioni e ritualità tradizionali. Il vangelo invece annuncia a sorpresa un comportamento divino che non era stato previsto e che perciò sconvolge questi schemi. Per accoglierlo occorre una disponibilità a superare se stessi, che non è sempre facile e non si può dare per scontata. Il «Dio ignoto» degli Ateniesi (cf. v. 23) può essere metafora di tutto ciò che sta oltre ogni precomprensione e che, sulla base della rivelazione, è compito del cristiano comunicare.
L’ Areòpago di Atene, alla luce dell’esperienza di Paolo, può valere come metafora di tutte le possibili occasioni e di tutti i possibili luoghi di confronto pubblico e qualificato tra il vangelo e la cultura umana. Però, se è vero che all’Areòpago si giunge solo su invito o per un cortese trascinamento, non sempre e non a tutti è possibile accedervi. Le agorà sono invece sempre a disposizione, poiché esse sono di tutti, aperte per definizione. Se l’Areòpago richiama l’idea di un ambito riservato e in definitiva aristocratico, l’agorà propone l’idea di un ambito popolare, democratico, in cui chiunque può incontrare tutti, e al quale nessuno è precluso. Del resto è dall’agorà che si comincia: ciò che fa audience nell’agorà finisce prima o poi per approdare anche in un areòpago. Forse non è senza significato che Paolo, mentre tace il nome di Gesù nel discorso all’Areòpago, lo pronuncia invece apertamente nelle conversazioni dell’agorà (cf. vv. 17b- 18). Sembrerebbe che l’agorà sia più evangelica: essa ha comunque una destinazione universale, è per le folle. In fondo, la Galilea profonda era stata l’agorà di Gesù, e il sinedrio di Gerusalemme il suo areòpago, che l’ha messo a morte. Sembrerebbe perciò di dover riconoscere che il cristianesimo non può appartenere alle élites del potere, non solo di quello politico, ma neanche di quello religioso e neppure di quello culturale. Nel vangelo c’è qualcosa che non solo è irriducibile a queste strutture mondane, ma ne è anche in contrasto.
La menzione finale di Dionigi e Damaris (v. 34), che invece di irridere Paolo ne accolsero il messaggio, ci dice almeno che l’impegno apostolico non è senza un qualche risultato. E questo ottimismo incoraggia il lettore cristiano, il quale sa che l’odierna società così frammentata nelle specializzazioni non manca di offrire nuovi areòpaghi. L’importante è di non fruire privatisticamente della propria fede, ma di esporla pur senza ostentarla, di confrontarla senza prevaricazioni, di aprirla ad apporti altrui al di là di presunzioni autonomistiche, e di offrirla con gioiosa umiltà. Questo compito per il cristiano non è secondario, ma nativo. In fondo, la comparsa di Paolo all’Areòpago era già segnata fin dalla sua vocazione sulla strada di Damasco, quando il Signore disse: «Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15- 16). Secondarie sono solo le modalità. È per questo che gli Atti degli Apostoli non sono terminati. Essi continuano nella storia personale di ogni battezzato.

SAN PAOLO (VERSO ROMA)

http://www.30giorni.it/articoli_supplemento_id_17042_l1.htm

SAN PAOLO (VERSO ROMA)

Paolo (Saulo), ebreo di Tarso in Cilicia e cittadino romano, chiamato da Gesù tra gli apostoli mentre si sta recando a Damasco per organizzare la persecuzione contro i cristiani, è sepolto a Roma. Nella capitale dell’Impero era giunto nella primavera del 61, prigioniero, per essere sottoposto al giudizio di Nerone al quale si era appellato, in quanto cittadino romano, dopo l’arresto avvenuto a Gerusalemme nel 58, accusato da alcuni giudei di avere oltraggiato la legge di Mosè. Il viaggio di Paolo è descritto da Luca, che lo accompagnò, negli Atti degli Apostoli (At 27, 1-44): per nave a Malta, toccando prima le isole di Cipro e di Creta, poi a Siracusa, Reggio, Pozzuoli, quindi lungo la via Appia a Forum Appi (presso Terracina) e alle Tres Tabernae (Pizzo Cardinale, a pochi chilometri dall’attuale Cisterna), località presso le quali gli vennero incontro i cristiani di Roma, per giungere infine nell’Urbe. Qui rimase sotto custodia militaris (cioè libero di abitare in casa propria ma sotto la sorveglianza di un soldato) in attesa del processo, che non avvenne verosimilmente perché i suoi accusatori non si presentarono a Roma. Una tradizione indica come abitazione di Paolo un edificio presso il Tevere, dove ora sorge la chiesa di San Paolo alla Regola (qui le indagini archeologiche hanno finora attestato strutture romane della fine del I secolo d.C.); e si è voluta indicare un’altra successiva dimora dell’apostolo presso la domus di Aquila e Prisca, sull’Aventino, nel luogo dove ora sorge la chiesa dedicata a santa Prisca. Liberato dalla prigionia, forse Paolo non era più a Roma nel 64, l’anno di inizio della persecuzione neroniana. Vi tornò però subito dopo, di nuovo prigioniero e questa volta trattenuto in carcere, nel 66 o nel 67, anno in cui subì il processo e il martirio per decapitazione. Il passo di papa Clemente, già citato a proposito di Pietro, fa intuire che l’arresto di Paolo e la sua condanna avvennero per denuncia di cristiani; e alcune parole rivolte a Timoteo testimoniano del suo abbandono e della sua solitudine: «Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica» (2Tm 4, 10); «Solo Luca è con me» (2 Tm 4, 11); «Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro» (2 Tm 4, 16).
Varie tradizioni accomunano Pietro e Paolo nelle circostanze del martirio: dalla loro comune detenzione nel Carcere Mamertino a quella del loro ultimo incontro lungo la via Ostiense, poco fuori di Roma; anche se, come già detto, gli studi più recenti e accettati tendono a collocare in anni differenti il martirio di Pietro e quello di Paolo. È però costante e molto antica la tradizione, risalente al II secolo, che pone il martirio di Paolo nel luogo detto Ad Aquas Salvias, subito fuori dall’abitato cittadino, dove indagini archeologiche della fine del XIX secolo hanno attestato testimonianze risalenti al I secolo, e dove nel V secolo venne edificata la chiesa di San Paolo Ad Tres fontes, attualmente compresa nell’abbazia delle Tre Fontane. La sua sepoltura avvenne invece in un’area cimiteriale lungo la via Ostiense, in un podere, secondo la tradizione, di proprietà di una certa Lucina (praedium Lucinae); ci è testimoniata per la prima volta dal passo di Gaio, già citato a proposito di Pietro, che alla fine del II secolo, al tempo del pontificato di papa Zefirino (198-217), dice: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli. Se vorrai recarti sul Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa» (in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, II, 25, 6-7). Giova ancora qui ripetere che, utilizzando la parola greca trópaion, Gaio non vuole alludere primariamente alla struttura architettonica, che dovette senz’altro esserci, ma, in senso proprio, al suo contenuto, cioè al corpo del martire, nel quale si è mostrata la vittoria di Cristo: è questo il “trofeo della vittoria”. Tracce di parte della necropoli dove fu sepolto Paolo, sviluppatasi dal I secolo a.C. fino a tutto il IV secolo, riportate alla luce e recintate, sono tuttora visibili lungo la via Ostiense, presso l’attuale basilica di San Paolo. Il Liber pontificalis, in cui sono raccolte le biografie dei vescovi di Roma fino al tardo Medioevo, ci informa che Costantino edificò sul sepolcro di Paolo una Basilica, che dunque deve datarsi agli anni precedenti al 337, anno della morte di Costantino. Di questa prima costruzione non sono state ritrovate tracce sicure, nonostante alcune ipotesi anche recentemente riproposte a proposito di una piccola abside (che a rigor di logica potrebbe essere pertinente a un qualsiasi mausoleo della necropoli in cui avvenne la sepoltura di Paolo) emersa di fronte all’altare della Basilica durante scavi nel 1850, che testimonierebbe un edificio molto più piccolo dell’attuale e con orientamento opposto. Verso il 384-386 i tre imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio in un rescritto al praefectus Urbi Sallustio prescrissero di decorare (ornare), ampliare (amplificare) e innalzare, o meglio far più grande e magnifica (attollere) la chiesa costruita sulla tomba dell’apostolo, in funzione anche della notevole quantità dei pellegrini. Ne risultò una Basilica a cinque navate, di notevole grandezza, con un transetto larghissimo. Questa Basilica rimase grosso modo intatta fino al XIX secolo, quando il rovinoso incendio sviluppatosi il 26 luglio del 1823 la fece in gran parte rovinare, senza peraltro intaccare il luogo del sepolcro di Paolo. Quella che a noi resta, ricostruita nei tre decenni seguenti, è dunque solamente una copia della Basilica del IV secolo. Il già citato Liber pontificalis (la cui redazione risale al VI secolo, ma su fonti che sicuramente si rifanno a tempi ben più antichi) ci informa anche che Costantino aveva fatto chiudere il corpo di Paolo in una cassa di bronzo, contenuta e protetta da un ambiente murato, a similitudine del sepolcro di Pietro. La cassa, sulla quale era posta una grande croce d’oro del peso di 150 libbre, dovrebbe trovarsi (la mancanza di verifiche impone di usare il condizionale) al di sotto del livello del pavimento della Basilica costantiniana, più basso rispetto al livello di quella, successiva, dei tre imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio. Al luogo della sepoltura corrisponde ora, più in alto, l’altare centrale. La sistemazione della confessione paolina, così come sopra descritta, non fu mai sostanzialmente modificata nel corso dei secoli, se non nel suo intorno, una prima volta all’epoca di papa Leone Magno (440-461), che rialzò il transetto, e una seconda volta quando papa Gregorio Magno (590-604), dopo un ulteriore rialzamento del livello pavimentale, fece scavare una cripta che si sviluppava con un percorso anulare attorno alla tomba dell’apostolo, permettendo l’accesso e la visita dei fedeli. Di questa cripta rimane tuttora una parte, quella di fronte all’altare, mentre la restante parte andò distrutta nel corso di lavori di restauro eseguiti nel XVI secolo, che resero non più direttamente accessibile il luogo dove sono custodite le spoglie mortali di Paolo. All’attuale livello del presbiterio, al di sotto dell’altare, si trova una lastra marmorea, formata da due pezzi diversi uniti fra loro, che reca incise le parole “PAULO APOSTOLO MART(YRI)” (“a Paolo apostolo e martire”), risalente presumibilmente al V secolo. Sulla lastra tre fori, uno circolare e due rettangolari, introducono a tre pozzetti (cataractae) comunicanti tra di loro, usati per tutto il Medioevo per ottenere reliquie per contatto mediante l’inserimento di brandea (strisce di stoffa). Il sepolcro paolino è rimasto pressoché intatto fino ai giorni nostri senza che nessuno lo abbia mai toccato. Mentre la Basilica veniva ricostruita, furono eseguiti anche, nel gennaio 1838, scavi nell’area della confessione; non si poté però esaminare a fondo la tomba dell’apostolo, per l’esplicito divieto del papa Gregorio XVI. Ma l’architetto Virginio Vespignani (colui che curò la riedificazione della basilica nella forma che oggi vediamo) poté osservare da vicino ciò che era rimasto precluso agli occhi di tutti per secoli, ed eseguì degli schizzi a documentazione di quella occasionale ricognizione che però non giunse fino all’apertura della cassa sepolcrale. Lo studio di questa documentazione, unitamente ad alcuni saggi avvenuti ultimamente nella zona dell’altare, ha permesso di evidenziare la quota dei livelli pavimentali più recenti fino a quello della Basilica dei Tre Imperatori. Tra questo e l’altare si è liberata parte del lato lungo di quella che è stata interpretata come una cassa marmorea, sul cui coperchio un foro circolare (ora occluso) è in corrispondenza col foro circolare presente sulla soprastante lastra con l’epigrafe “PAULO APOSTOLO MART(YRI)”. Non sono state al momento compiute indagini all’interno della supposta cassa. Dato il livello, non si tratta però comunque dell’originaria sepoltura di Paolo, che si trova a un livello sicuramente inferiore (al di sotto dovrebbe trovarsi il livello costantiniano e ancora al di sotto di questo quello corrispondente al trópaion citato da Gaio), ma non si può escludere una traslazione “verticale” del corpo di Paolo in un luogo più elevato alla fine del IV secolo, come avvenne (in epoca diversa) per quello di Pietro. Dal 2006 nella confessione della Basilica ostiense è stato rimosso l’altare moderno dedicato a un san Timoteo martire del IV secolo ed è così visibile parte dell’area sottostante all’altare e alla lastra con l’epigrafe.
È opportuno anche segnalare qui, come fatto a proposito di Pietro, l’epigrafe di papa Damaso (366-384) presso la Memoria Apostolorum ad catacumbas lungo la via Appia (oggi Basilica di San Sebastiano), che dice: «Chiunque sei che cerchi i nomi congiunti di Pietro e di Paolo, sappi che questi santi hanno qui riposato (habitasse) un tempo. L’Oriente inviò i discepoli – lo affermano volentieri – ed essi, grazie al sangue del martirio e alla eccelsa sequela di Cristo, hanno raggiunto le regioni celesti e il regno dei giusti. Roma ha piuttosto meritato di rivendicarli come suoi cittadini. Questo in vostra lode canta Damaso, o nuovi luminari». Sulla base di questo testo, e della presenza nelle catacombe di numerose iscrizioni di invocazione congiunta a Pietro e Paolo, si è ipotizzata una temporanea traslazione delle reliquie dei due fondatori della Chiesa di Roma in questo luogo nel periodo della persecuzione avviata dall’imperatore Valeriano (258): ma siamo nel campo delle ipotesi di studio.
Infine, una tradizione medievale vuole che la testa di Paolo e quella di Pietro siano state conservate dall’VIII secolo nel Sancta Sanctorum e poi trasferite da papa Urbano V, il 16 aprile 1369, nei due busti argentei all’interno del ciborio della Basilica lateranense. Una ricognizione venne compiuta il 23 luglio 1823 dal cardinale Antonelli; mentre indagini scientifiche dagli esiti incerti sono state compiute qualche decennio fa, nell’ambito delle ricerche su Pietro. 

LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

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LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

Autore: Marie-Emilie Boismard,

Intervento del 30/04/1992
Marie-Emile Boismard [1]

Nel considerare il tema della resurrezione, come è trattato nelle lettere di san Paolo, in questa sede ci si limiterà a due testi: il capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi e i capitoli 3 e 5 della Seconda Lettera ai Corinzi; vedremo che nel passaggio da uno scritto all’altro Paolo cambia radicalmente il suo modo di esprimersi a proposito di quella che, piuttosto che resurrezione, forse è meglio chiamare la nostra vittoria sulla morte. Per comprendere meglio questi testi paolini, è innanzitutto necessario considerare il problema da un punto di vista antropologico: vedere, in altri termini, come si presentavano le teorie sulla natura dell’essere umano nel mondo semitico e quindi in quello greco ed ellenistico.
L’idea di resurrezione nasce in un contesto di pensiero semitico e in tempi relativamente recenti. Ne abbiamo tracce nel capitolo dodici del Libro di Daniele e nel capitolo settimo del Secondo Libro dei Maccabei, libri composti verso la fine del secondo secolo avanti Cristo, in un tempo di persecuzione. I semiti, come anche i greci ai tempi di Omero, non facevano distinzione tra anima e corpo e, pertanto, consideravano l’uomo nella sua unità psico–somatica; per conseguenza tutta la vita psichica dell’uomo, i suoi sentimenti, il suo volere, il suo sentire, erano un’emanazione del suo essere fisico. In termini più concreti si pensava che sentimenti, volontà e pensiero derivassero o dal cuore o dai reni, secondo la concezione biblica. Pertanto alla morte, quando il corpo umano si dissolve nella terra, questo perde la sua corporeità, il suo cuore, i suoi reni, resta solo uno scheletro e si perde quindi anche la sua attività psichica. Questa idea si esprimeva in termini concreti, dicendo che l’uomo scendeva allo Sheol dove non esisteva vita, gli uomini erano là come ombre inconsistenti, senza sentimenti, senza volontà; erano spogliati di ogni personalità. L’immagine della resurrezione è una ri–creazione dell’elemento fisico dell’uomo, in particolare del suo cuore e dei reni, e questo processo è ben descritto nel capitolo trentasettesimo del Libro di Ezechiele, nel quale si trova la celebre visione delle ossa aride. La resurrezione è immaginata come rifarsi sopra queste ossa aride del corpo, della carne e della pelle, ma soprattutto del cuore e dei reni e, all’ultimo momento, lo spirito di vita viene insufflato negli esseri in modo che possano tornare ad essere viventi. Anche in questa prospettiva non bisogna immaginarsi una ri–vivificazione del cadavere che è stato sepolto nella terra, ma come del resto anche nel Libro di Daniele, una nuova creazione di tutti gli elementi che noi diciamo comporre l’essere fisico.
Il pensiero greco, in particolare quello di Platone, si pone in maniera molto differente: per il filosofo l’uomo è composto di un’anima e di un corpo e questi elementi sono a tal punto distinti che Platone immagina che le anime preesistessero prima di venire in un corpo. Per conseguenza, la nascita terrena dell’uomo è concepita come un decadimento dell’anima, la quale si trova ad essere nel corpo quasi come in una prigione; pertanto il fine dell’uomo è liberarsi dai vincoli della corporeità. Nel pensiero platonico l’uomo in realtà non muore, ma la sua anima continua a vivere anche dopo essersi staccata dal corpo; in questa prospettiva non è assolutamente il caso di parlare di resurrezione, perché ritrovare un corpo sarebbe per l’anima ritrovarsi bloccata in qualcosa che impedisce l’espressione delle sue facoltà.
Per quanto estremamente schematico, quanto detto può essere sufficiente per comprendere il pensiero di Paolo. Prendiamo ora in esame la Prima Lettera ai Corinzi al capitolo 15. In questo capitolo, e particolarmente a partire dal versetto 35, Paolo risponde all’obiezione di quanti pensano che non sia possibile la resurrezione e sviluppa la concezione semitica dell’uomo, come del resto ha fatto nella prima Lettera ai Tessalonicesi al capitolo 4. Cominciamo con il leggere il testo tenendo presente che c’è una difficoltà di interpretazione, in quanto Paolo utilizza il termine greco soma: «Qualcuno dirà come resuscitano i morti, quale soma essi avranno?». La difficoltà sta nella traduzione della parola greca soma, normalmente tradotta con il termine «corpo», ma si può dare un equivoco, perché quando sentiamo parlare di corpo in questo contesto pensiamo immediatamente con mentalità greca alla resurrezione del corpo inteso come opposto all’anima. In realtà in greco la parola soma ha un senso più vasto, un valore più ampio; in particolare poteva designare un qualunque essere, sia vivente che morto. È stato scritto molto a questo proposito: per esempio il termine soma può definire gli schiavi. Per rimanere nell’ambito biblico, leggiamo nel Secondo Libro dei Maccabei che Antioco manda un messaggio lungo la costa perché gli siano inviati dei somata, dei corpi giudei, ed evidentemente non si tratta di cadaveri. Nello stesso libro leggiamo che Gionata fece sgozzare 25 mila corpi ed evidentemente non si trattava di sgozzare corpi inanimati, ma uomini viventi. In tutti i testi che leggeremo ora non va bene tradurre il termine soma unicamente con corpo; pertanto, tra i diversi termini, preferisco utilizzare quello di «essere», senza insistere sul senso dell’esistenza, come quando si parla di esseri umani.
Per spiegare cosa intende per resurrezione, Paolo comincia con due esempi che poi spiegherà. Il primo brano si estende nei versetti 36–38 e inizia così: «Stolto! Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore; e quello che semini non è un soma che poi verrà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere. È Dio che dà a ciascun chicco un suo proprio soma secondo la sua volontà e a ciascun seme il proprio soma». Nel testo risulta evidente che non può trattarsi di un corpo come opposto all’anima perché si sta parlando di piante, di esseri vegetali. L’idea fondamentale, che poi Paolo svilupperà, è che esiste una differenza essenziale fra il chicco che viene seminato e la pianta che ne sorgerà; sono due realtà differenti. Nel versetto 36 dice chiaramente che quello che si semina non è quel corpo che poi diventerà pianta, bensì qualcosa che deve morire, marcire e poi sarà Dio a far nascere la pianta. Paolo sottolinea che sarà Dio a dare un corpo a ciò che ormai è completamente scomparso nella terra in maniera differente secondo i vari generi di piante. In questo primo esempio viene costituita una netta differenza tra ciò che si semina e ciò che sorgerà.
Nel secondo esempio, dal versetto 40, Paolo insiste sulla differenza fra gli esseri: «Vi sono degli esseri celesti e degli esseri terrestri, altro è lo splendore dei celesti, altro lo splendore dei terrestri; altro è lo splendore del sole, altro è quello della luna e altro quello delle stelle poiché una stella differisce nello splendore da un’altra». Paolo sottolinea che tra gli esseri che ci circondano vi sono delle differenze sostanziali, in particolare quella che distingue gli esseri terrestri da quelli celesti. Dati questi due esempi, Paolo svilupperà ora quello che lui pensa circa la resurrezione dei morti. Inizia il versetto 42: «Così è la resurrezione dei morti». A conferma di quanto detto fino ad ora si noti che Paolo non parla della resurrezione dei corpi, ma di quella dei morti; in questo primo stadio usa soprattutto l’immagine della seminagione e solo in sottofondo, ma la svilupperà in seguito, l’immagine della differenza fra gli esseri. Il testo continua: «Si semina il corpo nella corruzione e risorge incorruttibile» e qui abbiamo un verbo ambiguo, che potrebbe significare tanto «si leva», «si alza» ed è l’immagine della pianta che sorge dal terreno o potrebbe significare specificatamente «risorge». «Si semina nell’ignominia e sorge nella gloria, si semina nella debolezza e sorge nella pienezza di forza, si semina un essere animale e sorge un essere pneumatico o spirituale».
Paolo spiega ora in che modo comprenda l’opposizione fra l’essere psichico e quello spirituale e si appoggia al testo di Genesi 2,7 in cui si narra della creazione dell’uomo da parte di Dio: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un soffio vitale e l’uomo divenne così un essere vivente.» Anche qui c’è una difficoltà di traduzione perché Paolo gioca sul testo greco e utilizza la parola psyche zosa, letteralmente un’anima vivente. Il testo greco riporta la parola psyche e ci fa capire che Paolo oppone all’uomo spirituale, l’uomo psichico. Guardiamo ora come il testo di Genesi venga utilizzato da Paolo, che continua dicendo: «Poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo divenne uno spirito vivificante». Si noti nelle integrazioni fatte da Paolo come venga riecheggiato il testo di Genesi, che è citato alla lettera: «Il primo uomo divenne una psyche vivente»; ma nel seguito del versetto – dove si parla di Adamo che divenne spirito datore di vita – evidentemente si fa allusione a quella parte di versetto di Genesi in cui si dice che Dio soffiò un alito di vita nell’uomo. Utilizzando questo vocabolario, Paolo continua nel versetto 46: «Non vi fu prima lo spirituale, ma l’animale e poi lo spirituale». A questo punto Paolo instaura un doppio paragone fra ciò che è fatto di terra e ciò che è del cielo e poi descrive la nostra condizione prima e dopo la parusia del Cristo. Per continuare l’immagine di Genesi, Paolo riprende il tema dell’uomo fatto dal fango e dalla polvere; parlando invece dell’ultimo uomo, dell’ultimo Adamo, egli parla di un individuo che viene dal cielo. I termini della comparazione continuano e Paolo dice: «Qual è l’uomo fatto di terriccio così sono fatti quelli terrosi, ma qual è l’uomo celeste, così anche i celesti e come abbiamo portato l’immagine di quello fatto di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste». La prospettiva è evidentemente escatologica: Paolo parla del ritorno di Cristo, della sua parusia e dopo questa ci sarà un cambiamento di natura negli uomini. Fino al ritorno di Cristo gli uomini saranno fatti solo di terra, mentre dopo saranno fatti ad immagine dell’uomo celeste, di cielo. Si riprende l’immagine del seme che scompare completamente nella terra per dire che l’uomo di terra scompare nella terra e dopo il ritorno di Cristo ci sarà un uomo completamente celeste. A questo punto Paolo si interessa del problema non solo di quanti sono già morti, ma di tutti gli uomini, poiché dobbiamo ricordarci che Paolo è convinto che vi sarà il ritorno di Cristo in un momento prossimo, probabilmente la notte di Pasqua, secondo la tradizione. Continua: «Ecco, vi annunzio un mistero, non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultimo squillo di tromba, i morti sorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati». Così dicendo Paolo parla dei cristiani ed è convinto che saranno trasformati tutti coloro che saranno in vita al momento del ritorno di Cristo. Non si interessa qui della sorte dei pagani, sta parlando con un «noi» a dei cristiani. Gli scrittori dei secoli seguenti, quando ovviamente non si aspettava più un ritorno imminente di Gesù Cristo ed era già passato molto tempo dalla stesura della Prima Lettera ai Corinzi, trovandosi di fronte a questo versetto si sentivano in imbarazzo e pertanto hanno spostato la negazione e abbiamo in alcuni codici la frase: «Tutti, certo, moriremo, ma non tutti saremo trasformati». Lo spostamento della negazione era dovuta la fatto che la morte era considerata un evento comune a tutti gli uomini, ma l’essere trasformati a immagine dell’uomo celeste è comune solo ai credenti. Paolo conclude in maniera trionfale dal versetto 53 in poi: «È necessario infatti che questo qualche cosa di corruttibile si rivesta di incorruttibilità e questo qualcosa di mortale si rivesta di immortalità. Quando poi questo qualche cosa che è corruttibile si sarà vestito di incorruttibilità e questo qualcosa che è mortale di immortalità, si compierà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria, dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Per riassumere, Paolo si tiene ancora all’interno della mentalità semitica e pertanto afferma che, quando il corpo sarà morto, sarà posto nella terra e si dissolverà come il seme che viene seminato e che, in un tempo relativamente prossimo, Dio darà ai credenti un nuovo essere, non più come il precedente fatto di terra, bensì celeste, come è del resto il corpo di Cristo il quale è già celeste.

 

Passiamo ora alla Seconda Lettera ai Corinzi, in cui noteremo che la prospettiva di Paolo, pur rimanendo in parte simile a quella che abbiamo esaminato nella Prima Lettera, subisce una notevole trasformazione. Leggiamo innanzitutto nel terzo capitolo i versetti 17 e 18; il testo è abbastanza difficile, ma senza scendere in dettagli che peraltro non hanno grande importanza, darò la traduzione ammessa da molti commentatori. Il contesto ci propone l’episodio narrato nel capitolo 34 dell’Esodo laddove si dice che quando Mosé saliva sul monte a parlare con Dio, il suo volto diventava talmente splendente che alla sua discesa dal monte doveva velarlo con un panno perché lo splendore della gloria di Dio riflesso sul volto del patriarca non risultasse dannoso e accecante per quanti lo vedevano. Togliamo la seconda parte del versetto 17 che, a detta di molti, è una glossa: «Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà». Prestiamo ora attenzione invece alla prima parte del versetto 17 e al versetto 18: «Ora il Signore è lo Spirito e noi tutti a viso scoperto, riflettendo come degli specchi la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella stessa immagine di gloria in gloria come dal Signore che è lo Spirito.» In questo testo troviamo alcuni dei termini utilizzati nella Prima Corinzi ma, come vedremo, ci sono cambiamenti altamente significativi. Innanzitutto l’affermazione che il Signore Cristo è lo Spirito va letta alla luce del versetto 6 che la precede di poco, in cui si parla dello Spirito che vivifica. Sotto l’azione dello Spirito che dà vita, noi tutti siamo trasformati di gloria in gloria, come a dire che noi riflettiamo come degli specchi la gloria del Signore. Si ritrova lo stesso tema della Prima Corinzi in cui si affermava che: «Quando il Signore verrà noi saremo trasformati ad immagine della gloria» che si può intendere sia come gloria che come splendore del Cristo. La differenza essenziale è che nella Prima Corinzi questa trasformazione ad opera del Signore che è Spirito vivificante si compirà in un futuro, mentre nella Seconda Corinzi questa trasformazione è nel presente ad opera soprattutto del battesimo, per mezzo di cui, come Paolo afferma altrove, noi ci rivestiamo del Signore che è Spirito; pertanto già ora siamo rivestiti di questa gloria in attesa di una trasformazione definitiva. Si introduce qui un tema come conseguenza necessaria: se noi adesso siamo trasformati in gloria per opera dello Spirito che dà vita, noi non possiamo morire, perché già il battesimo ci ha dato lo Spirito vivificante. Quindi una parte di noi, al di là della morte, deve rimanere viva e si sente che Paolo sta abbandonando l’immagine semitica dell’unità dell’essere umano per adottare i termini greci che portano nella direzione dell’immortalità di un qualche cosa dell’uomo che non può morire. Questo si rende estremamente chiaro nel capitolo 5. Vediamo innanzitutto i versetti da 6 a 8; notiamo che in questo testo Paolo adotta volontariamente la terminologia filosofica greca, non semplicemente il linguaggio greco, ma specificamente i termini filosofici. I versetti così recitano: «Dunque siamo pieni di fiducia ben sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo come in esilio lontani dal Signore, infatti camminiamo nella fede e non ancora nella visione, siamo pieni di fiducia e riteniamo meglio andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore».
Abbiamo qui un linguaggio che si trova in Platone e nei suoi discepoli, in particolare in Filone d’Alessandria. Il fondamento della nostra sicurezza davanti alla morte, seguendo il Fedone, è la convinzione che l’anima è immateriale e quindi incorruttibile. Dice Platone nel Fedone: «Colui che ha tutto ciò dalla filosofia, avrà piena fiducia di fronte alla morte». Il tema è ripreso da Filone nel De agricoltura: «In verità ogni anima di saggio ha ricevuto il cielo come patria e la terra come esilio. Essa stima sua la dimora della saggezza e straniera quella del corpo nella quale ella crede di vivere come una straniera». Nel testo di Paolo è ora necessario prendere la parola corpo non nel senso di essere, ma nel senso filosofico di corpo opposto all’anima. È evidente è che qui non si trova più traccia della mentalità semitica secondo la quale l’essere, quando muore, scompare totalmente nello Sheol e non ha una sua vita personale. La resurrezione è ora il passaggio mediante la morte ad una vita presso Dio, evidentemente con tutta la personalità e con tutta la propria ricchezza umana. Pertanto nella Seconda Corinzi, Paolo ha abbandonato la prospettiva semitica e ha accolto una mentalità di tipo platonico.

A questo punto si innesta un problema: il corpo cosa diventa? Paolo opera una specie di sintesi fra le nuove idee di tipo platonico e il pensiero semitico, nel senso che quest’anima che ha abbandonato il corpo mortale non rimane un’anima nuda ma ben presto avrà modo di rivestire un altro corpo. Paolo dice questo all’inizio del quinto capitolo, versetto 1: «Sappiamo infatti che quando questa nostra dimora fatta di terra, la tenda del nostro corpo, si sarà disfatta, riceveremo un’abitazione da Dio eterna, nei cieli, non costruita da mani d’uomo». Troviamo anche qui l’opposizione tra quello che è fatto di terra, come abbiamo nella Prima Lettera ai Corinzi, e ciò che è celeste. Per quanto Paolo non parli esplicitamente di un corpo celeste, tuttavia dobbiamo ammettere un’opposizione fra il corpo terreno o terroso, che è la nostra abitazione sulla terra, e la nuova dimora celeste che noi riceveremo. È evidente che non è certo quel corpo, fatto di terra e destinato a sparire, che viene ri–vivificato nella resurrezione, ma è una nuova realtà celeste quella che noi riceveremo dopo la morte. Per affermare l’idea che subito dopo la morte l’uomo ottiene una nuova dimora, Paolo non crea assolutamente i suoi concetti, ma li prende da alcuni scritti del giudaismo tardivo. In realtà nella prospettiva della Seconda Corinzi non si può più utilizzare il termine resurrezione; Paolo lo utilizza ancora in senso spiritualizzante, come abbiamo letto nel capitolo 3, dove si dice che siamo rivestiti di Cristo che è Spirito datore di vita. In questo senso si può parlare di resurrezione, ma in una prospettiva maggiormente spiritualizzata e lo si vede chiaramente, anche se in maniera non ancora precisissima, nella Lettera ai Colossesi, dove Paolo dice: «Noi siamo risorti in Cristo». L’espressione semitica di «resurrezione» in questo contesto non tiene più nel senso materiale che le dava la tradizione, perché evidentemente il corpo si dissolve e non è certo quello che riprende vita. Questo si evidenzia anche col fatto che Paolo nella Seconda Corinzi, mentre continua a parlare di resurrezione a proposito di Cristo, non ne parla più a proposito dei credenti. Vorrei che venga fatta estrema attenzione alle parole: non si tratta di negare la vittoria sulla morte, ma di ribadire che, da un certo punto della sua produzione in poi, Paolo non pensa più alla resurrezione nel senso stretto del cadavere che riprende vita, ossia nel concetto materiale semitico.
Leggiamo un altro brano ancora dalla Seconda Lettera ai Corinzi in cui Paolo esprime benissimo e con grande vivacità anche il suo spessore umano, i versetti 2 – 4 del capitolo quinto: «Perciò noi sospiriamo per questo fatto, che desideriamo rivestirci di quel nostro corpo fatto di cielo, se pur saremo trovati già vestiti del nostro corpo e non già spogliati alla venuta di Cristo. In realtà in questa tenda noi sospiriamo sotto un peso non volendo essere spogliati, ma sopra–vestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita». Non dimentichiamo che anche quando scrive la Seconda Corinzi, Paolo attende come prossima la venuta di Cristo, ma come tutti gli uomini egli, per quanto speri di essere trasformato ad immagine di Cristo, teme di essere morto a quel momento perché la morte è comunque uno strappo, un qualcosa che dilania l’uomo e pertanto egli ne ha paura. Nel versetto 3 Paolo si augura di essere trovato al momento dell’avvenimento escatologico, al ritorno di Cristo, ancora vestito e non nudo perché nei termini filosofici che ha finora impiegato, significa precisamente ancora vivente e non spogliato del corpo. Questo per poter evitare il passaggio doloroso della sua morte personale e per potersi vestire del Cristo al di sopra di quel vestito che è già il suo corpo. In altri termini spera, molto umanamente, di non dover passare attraverso quello strappo che è la morte, ma di accogliere il Cristo ancora durante la sua vita. Pertanto quando qualcuno rimprovera i cristiani perché, pur avendo fede nella vittoria di Cristo sulla morte, si trovano ad averne paura, siamo autorizzati a dire che anche Paolo, che pure aveva una decente certezza di incontrare il Cristo al di là della morte, la temeva e sperava di non doverla sperimentare.

[1] Marie Emile Boismard, domenicano, professore di esegesi del Nuovo Testamento all’Ecole Biblique di Gerusalemme (1948–1950), poi all’Università di Friburgo (1950–1953) e di nuovo all’Ecole Biblique di Gerusalemme. Il testo della conversazione non è rivisto dall’Autore.

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