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MERCOLEDÌ 9 SETTEMBRE 2009 – XXIII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

MERCOLEDÌ 9 SETTEMBRE 2009 – XXIII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

MESSA DEL GIORNO

Prima Lettura   Col 3, 1-11
Siete morti con Cristo: fate morire dunque ciò che appartiene alla terra.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossési
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria;
a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando vivevate in questi vizi. Ora invece gettate via anche voi tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni, che escono dalla vostra bocca.
Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato. Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.

Qual è la sorgente della speranza cristiana?

dal sito:

http://www.taize.fr/it_article1198.html

COMUNITÀ DI TAIZÉ

La speranza

Qual è la sorgente della speranza cristiana?

In un tempo in cui spesso si fatica a trovare delle ragioni per sperare, coloro che mettono la propria fiducia nel Dio della Bibbia hanno più che mai il dovere di «rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in loro» (1 Pietro 3,15). Spetta a loro cogliere ciò che la speranza della fede contiene di specifico, per poter viverlo.

Ora, anche se per definizione la speranza guarda al futuro, per la Bibbia essa si radica nell’oggi di Dio. Nella Lettera 2003, frère Roger lo ricorda: «[La sorgente della speranza] è in Dio, che non può che amare e che instancabilmente ci cerca».

Nelle Scritture ebraiche, questa Sorgente misteriosa della vita che noi chiamiamo Dio si fa conoscere perché chiama gli esseri umani a entrare in una relazione con lui: stabilisce un’alleanza con loro. La Bibbia definisce le caratteristiche del Dio dell’alleanza con due parole ebraiche: hesed e emet (per es. Esodo 34,6; Salmi 25,10; 40,11-12; 85,11). Generalmente, si traducono con «amore» e «fedeltà». Dapprima ci dicono che Dio è bontà e benevolenza senza limiti e si prende cura dei suoi, e in secondo luogo, che Dio non abbandonerà mai quelli che ha chiamati ad entrare nella sua comunione.

Ecco la sorgente della speranza biblica. Se Dio è buono e non cambia mai il suo atteggiamento né ci abbandona mai, allora, qualunque siano le difficoltà – se il mondo così come lo vediamo è talmente lontano dalla giustizia, dalla pace, dalla solidarietà e dalla compassione – per i credenti non è una situazione definitiva. Nella loro fede in Dio, i credenti attingono l’attesa di un mondo secondo la volontà di Dio o, in altre parole, secondo il suo amore.

Nella Bibbia, questa speranza è spesso espressa con la nozione di promessa. Quando Dio entra in relazione con gli esseri umani, in generale questo va di pari passo con la promessa di una vita più grande. Ciò inizia già con la storia di Abramo: «Ti benedirò, disse Dio ad Abramo. E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12,2-3).

Una promessa è una realtà dinamica che opera delle possibilità nuove nella vita umana. Questa promessa guarda verso l’avvenire, ma si radica in una relazione con Dio che mi parla qui e ora, che mi chiama a fare delle scelte concrete nella mia vita. I semi del futuro si trovano in una relazione presente con Dio.

Questo radicamento nel presente diventa ancora più forte con la venuta di Gesù Cristo. In lui, dice san Paolo, tutte le promesse di Dio sono già una realtà (2 Corinzi 1,20). Certo, ciò non si riferisce unicamente a un uomo che è vissuto in Palestina 2000 anni fa. Per i cristiani, Gesù è il Risorto che è con noi nel nostro oggi. «Sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del tempo» (Matteo 28,20).

Un altro testo di san Paolo è ancora più chiaro. «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Romani 5,5). Lungi dall’essere un semplice augurio per l’avvenire senza garanzia di realizzazione, la speranza cristiana è la presenza dell’amore divino in persona, lo Spirito Santo, fiume di vita che ci porta verso il mare di una piena comunione.

Come vivere della speranza cristiana?
La speranza biblica e cristiana non significa una vita nelle nuvole, il sogno di un mondo migliore. Non è una semplice proiezione di quello che vorremmo essere o fare. Essa ci porta a vedere i semi di questo mondo nuovo già presente oggi, grazie all’identità del nostro Dio che si manifesta nella vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo. Questa speranza è inoltre una sorgente di forza per vivere in un altro modo, per non seguire i valori di una società fondata sul desiderio di possesso e sulla competizione.

Nella Bibbia, la promessa divina non ci chiede di sederci e attendere passivamente che si realizzi, come per magia. Prima di parlare ad Abramo di una vita in pienezza che gli è offerta, Dio gli disse: «Vattene dal tuo paese e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Genesi 12,1). Per entrare nella promessa di Dio, Abramo è chiamato a fare della sua vita un pellegrinaggio, a vivere un nuovo inizio.

Così pure, la buona novella della risurrezione non è un modo per distoglierci dai compiti di quaggiù, ma una chiamata a metterci in cammino. «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? … Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura… Voi mi sarete testimoni… fino agli estremi confini della terra» (Atti 1,11; Marco 16,15; Atti 1,8).

Sotto l’impulso dello Spirito del Cristo, i credenti vivono una solidarietà profonda con l’umanità priva dalle sue radici in Dio. Scrivendo ai Romani, san Paolo evoca le sofferenze della creazione in attesa, paragonandole alle doglie del parto. Poi continua: «Anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente» (Romani 8,18-23). La nostra fede non ci fa dei privilegiati fuori dal mondo, noi «gemiamo» con il mondo, condividendo il suo dolore, ma viviamo questa situazione nella speranza, sapendo che, nel Cristo, «le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende» (1 Giovanni 2,8).

Sperare, è dunque scoprire dapprima nelle profondità del nostro oggi una Vita che va oltre e che niente può fermare. Ancora, è accogliere questa Vita con un sì di tutto il nostro essere. Gettandoci in questa Vita, siamo portati a porre, qui e ora, in mezzo ai rischi del nostro stare in società, dei segni di un altro avvenire, dei semi di un mondo rinnovato che, al momento opportuno, porteranno il loro frutto.

Per i primi cristiani, il segno più chiaro di questo mondo rinnovato era l’esistenza di comunità composte da persone di provenienze e lingue diverse. A causa di Cristo, quelle piccole comunità sorgevano ovunque nel mondo mediterraneo. Superando divisioni di ogni tipo che li tenevano lontani gli uni dagli altri, quegli uomini e quelle donne vivevano come fratelli e sorelle, come famiglia di Dio, pregando insieme e condividendo i loro beni secondo il bisogno di ciascuno (cfr. Atti 2,42-47). Si sforzavano ad avere «un solo spirito, uno stesso amore, i medesimi sentimenti» (Filippesi 2,2). Così brillavano nel mondo come dei punti di luce (cfr. Filippesi 2,15). Sin dagli inizi, la speranza cristiana ha acceso un fuoco sulla terra.

Lettera da Taizé: 2003/3

Padre Cantalamessa: “Tutti coloro che sono guidati dallo Spirito sono figli di Dio” (Rom 8, 14 e altre)

dal sito:

http://www.cantalamessa.org/it/predicheView.php?id=287

“Tutti coloro che sono guidati dallo Spirito sono figli di Dio” (Rom 8, 14) 
 
2009-03-27- Quaresima 2009 alla Casa Pontificia

1. Un’era dello Spirito Santo?

“Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte…. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”.
Sono quattro versetti del capitolo ottavo della Lettera ai Romani sullo Spirito Santo e in essi risuona per ben sei volte il nome di Cristo. La stessa frequenza si mantiene nel resto del capitolo, se consideriamo anche le volte che ci si riferisce a lui con il pronome o con il termine Figlio. Questo fatto è di fondamentale importanza; ci dice che per Paolo l’opera dello Spirito Santo non si sostituisce a quella di Cristo, ma la prosegue, la compie e la attualizza.

Il fatto che il neo eletto presidente degli Stati Uniti, durante la sua campagna elettorale, si sia riferito per tre volte a Gioacchino da Fiore, ha riacceso l’interesse per la dottrina di questo monaco del medio evo. Pochi di quelli che disquisiscono su di lui, specialmente su internet, sanno, o si preoccupano di sapere, cosa ha detto esattamente questo autore. Ogni idea di rinnovamento ecclesiale o mondiale viene disinvoltamente messa sotto il suo nome, perfino l’idea di una novella Pentecoste per la Chiesa, invocata da Giovanni XXIII.

Una cosa è certa. Sia o no da attribuirsi a Gioacchino da Fiore, quella di una terza era dello Spirito che succederebbe a quella del Padre nell’Antico Testamento e di Cristo nel Nuovo è falsa ed eretica perché intacca il cuore stesso del dogma trinitario. Ben diversa da essa è l’affermazione di san Gregorio Nazianzeno. Egli distingue tre fasi nella rivelazione della Trinità: nell’Antico Testamento, si è rivelato pienamente il Padre ed è stato promesso ed annunciato il Figlio; nel Nuovo Testamento, si è rivelato pienamente il Figlio ed è stato annunciato e promesso lo Spirito Santo; nel tempo della Chiesa, si conosce finalmente appieno lo Spirito Santo e si gode della sua presenza [1].

Solo per avere citato in un mio libro questo testo di san Gregorio sono finito anch’io nella lista dei seguaci di Gioacchino da Fiore, ma san Gregorio parla dell’ordine della manifestazione dello Spirito, non del suo essere o del suo agire, e in tal senso la sua affermazione esprime una verità incontestabile, accolta pacificamente da tutta la tradizione.

La tesi cosiddetta gioachimita è esclusa alla radice da Paolo e da tutto il Nuovo Testamento. Per essi lo Spirito Santo altro non è che lo Spirito di Cristo: oggettivamente perché è il frutto della sua Pasqua, soggettivamente perché è lui che lo effonde sulla Chiesa, come dirà Pietro alle folle il giorno stesso di Pentecoste: “Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire” (Atti 2, 33). Il tempo dello Spirito è perciò co-estensivo al tempo di Cristo.

Lo Spirito Santo è lo Spirito che procede primariamente dal Padre, che è sceso e si è “riposato” in pienezza su Gesú, storicizzandosi e abituandosi in lui, dice sant’Ireneo, a vivere tra gli uomini, e che nella Pasqua-Pentecoste viene da lui effuso sull’umanità. La riprova di tutto ciò è proprio il grido “Abbà” che lo Spirito ripete nel credente (Gal 4,6) o insegna a ripetere al credente (Rom 8, 15). Come può lo Spirito gridare Abbà al Padre? Egli non è generato dal Padre, non è suo Figlio… Può farlo, nota Agostino, perché è lo Spirito del Figlio e prolunga il grido di Gesú.

2. Lo Spirito come guida nella Scrittura

Dopo questa premessa, vengo al versetto del capitolo ottavo della Lettera ai Romani sul quale vorrei oggi soffermarmi. “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rom 8,14).

Il tema dello Spirito Santo-guida non è nuovo nella Scrittura. In Isaia tutto il cammino del popolo nel deserto viene attribuito alla guida dello Spirito. “Lo Spirito del Signore li guidava al riposo” (Is 63, 14). Gesù stesso fu “condotto (ductus) dallo Spirito nel deserto” (Mt 4,1). Gli Atti degli apostoli ci mostrano una Chiesa che è, passo passo, “condotta dallo Spirito”. Lo stesso disegno di san Luca di far seguire al vangelo gli Atti degli apostoli ha lo scopo di mostrare come lo stesso Spirito che aveva guidato Gesù nella sua vita terrena, ora guida la Chiesa, come Spirito “di Cristo”. Pietro va verso Cornelio e i pagani? E lo Spirito che glielo ordina (cf. At 10,19;11,12); a Gerusalemme, gli apostoli prendono delle decisioni importanti? È lo Spirito che le ha suggerite (15, 28).

La guida dello Spirito si esercita non solo nelle grandi decisioni, ma anche nelle cose piccole. Paolo e Timoteo vogliono predicare il vangelo nella provincia dell’Asia, ma “lo Spirito Santo lo vieta loro”; fanno per dirigersi verso la Bitinia, ma “lo Spirito di Gesù non lo permette loro” (At 16, 6 s.). Si capisce in seguito il perché di questa guida così incalzante: lo Spirito Santo spingeva in questo modo la Chiesa nascente ad uscire dall’Asia ed affacciarsi su un nuovo continente, l’Europa (cf. At 16,9).

Per Giovanni, la guida del Paraclito si esercita soprattutto nell’ambito della conoscenza. Egli è colui che “guiderà” i discepoli alla verità tutta intera (Gv 16,3); la sua unzione “insegna ogni cosa”, al punto che chi la possiede non ha bisogno di altri maestri (cf. 1 Gv 2, 27). Paolo introduce un’importante novità. Per lui lo Spirito Santo non è solo “il maestro interiore”; è un principio di vita nuova (“quelli che sono guidati da lui diventano figli di Dio”!); non si limita a indicare il da farsi, ma dà anche la capacità di fare ciò che comanda.

In ciò, la guida dello Spirito si differenzia essenzialmente da quella della Legge che permette di vedere il bene da compiere, ma lascia la persona alle prese con il male che non vuole (cf. Rom 7, 15 ss.). “Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge”, aveva detto l’Apostolo in precedenza, nella Lettera ai Galati (Gal 5,18).

Questa visione paolina della guida dello Spirito, più profonda e ontologica (in quanto tocca l’essere stesso del credente) non esclude quella più comune di maestro interiore, di guida alla conoscenza della verità e della volontà di Dio, e in questa occasione è proprio di ciò che vorrei parlare.

Si tratta di un tema che ha avuto un ampio sviluppo nella tradizione della Chiesa. Se Gesù Cristo è “la via” (odòs) che conduce al Padre (Gv 14, 6), lo Spirito Santo, dicevano i Padri, è “la guida lungo la via” (odegòs) [2]. “Questi è lo Spirito, scrive sant’Ambrogio, nostro capo e guida (ductor et princeps), che dirige la mente, conferma l’affetto, ci attira dove vuole e volge verso l’alto i nostri passi” [3]. L’inno Veni creator raccoglie questa tradizione nei versetti: “Ductore sic te praevio vitemus omne noxium”: con te che ci fai da guida eviteremo ogni male. Il concilio Vaticano II si inserisce in questa linea quando parla di se stessa come “del popolo di Dio che crede di essere condotto dallo Spirito del Signore” [4].

3. Lo Spirito guida attraverso la coscienza

Dove si esplica questa guida del Paraclito? Il primo ambito, o organo, è la coscienza. C’è una relazione strettissima tra coscienza e Spirito Santo. Cos’è la famosa “voce della coscienza”, se non una specie di “ripetitore a distanza”, attraverso cui lo Spirito Santo parla a ogni uomo? “Me ne dà testimonianza la mia coscienza, nello Spirito Santo”, esclama san Paolo, parlando del suo amore per i connazionali ebrei (cf. Rom 9, 1).

Attraverso questo “organo”, la guida dello Spirito Santo si estende anche fuori della Chiesa, a tutti gli uomini. I pagani “mostrano che, quanto la legge esige, è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza” (Rom 2, 14 s.). Proprio perché lo Spirito Santo parla in ogni essere ragionevole attraverso la coscienza, diceva san Massimo Confessore, “vediamo molti uomini, anche tra i barbari e nomadi, volgersi a una vita decorosa e buona, e disprezzare le leggi selvagge che fin dalle origini avevano dominato tra di loro”[5].
La coscienza è anch’essa una specie di legge interiore, non scritta, diversa e inferiore rispetto a quella che esiste nel credente per la grazia, ma non in disaccordo con essa, dal momento che proviene dallo stesso Spirito. Chi non possiede che questa legge “inferiore”, ma le obbedisce, è più vicino allo Spirito di chi possiede quella superiore che viene dal battesimo, ma non vive in accordo con essa.

Nei credenti questa guida interiore della coscienza è come potenziata ed elevata dall’unzione che “insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce” (1 Gv 2, 27), guida cioè infallibilmente, se ascoltata. Proprio commentando questo testo, sant’Agostino ha formulato la dottrina dello Spirito Santo come “maestro interiore”. Cosa vuol dire, si domanda, “non avete bisogno che alcuno vi istruisca”? Forse che il singolo cristiano sa già tutto per conto suo e che non ha bisogno di leggere, di istruirsi, di ascoltare nessuno? Ma se fosse così, a che scopo l’apostolo avrebbe scritto questa sua lettera? La verità è che c’è bisogno di ascoltare maestri esterni e predicatori esterni, ma che solo capirà e approfitterà di quello che essi dicono colui al quale parla nell’intimo lo Spirito Santo. Questo spiega perché molti ascoltano la stessa predica e lo stesso insegnamento, ma non tutti capiscono allo stesso modo [6].

Quale consolante sicurezza da tutto ciò! La parola che un giorno risuonò nel vangelo: “Il maestro è qui e ti chiama!” (Gv 11, 28), è vera per ogni cristiano. Lo stesso maestro di allora, Cristo, che parla ora attraverso il suo Spirito, è dentro di noi e ci chiama. Aveva ragione san Cirillo di Gerusalemme di definire lo Spirito Santo “il grande Didascalo, cioè maestro, della Chiesa” [7].

In questo ambito intimo e personale della coscienza, lo Spirito Santo ci istruisce con le “buone ispirazioni”, o le “illuminazioni interiori” di cui tutti hanno fatto qualche esperienza nella vita. Sono spinte a seguire il bene e a fuggire il male, attrazioni e propensioni del cuore che non si spiegano naturalmente, perché spesso vanno in direzione opposta a quella che vorrebbe la natura.

È proprio basandosi su questa componente etica della persona che taluni eminenti scienziati e biologi odierni sono giunti a superare la teoria che vede l’essere umano come risultato casuale della selezione delle specie. Se la legge che governa l’evoluzione è solo la lotta per la sopravvivenza del più forte, come si spiegano certi atti di puro altruismo e perfino di sacrificio di sé per la causa della verità e della giustizia?[8]

4. Lo Spirito guida attraverso il magistero della Chiesa

Fin qui, il primo ambito in cui si esercita la guida dello Spirito Santo, quello della coscienza. Ne esiste un secondo che è la Chiesa. La testimonianza interna dello Spirito Santo si deve coniugare con quella esterna, visibile e oggettiva, che è il magistero apostolico. Nell’apocalisse, al termine di ognuna delle sette lettere, ascoltiamo l’ammonimento: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2, 7 ss.).

Lo Spirito parla anche alle chiese e alle comunità, non solo agli individui. San Pietro negli Atti riunisce le due testimonianze -interiore ed esteriore, personale e pubblica- dello Spirito Santo. Ha appena finito di parlare alle folle di Cristo messo a morte e risuscitato, e quelle si sono sentite “compunte” (cf. At 2, 37); ha fatto lo stesso discorso davanti ai capi del sinedrio, e quelli si sono infuriati (cf. At 4, 8 ss). Stesso discorso, stesso predicatore, ma effetto del tutto diverso. Come mai? La spiegazione è in queste parole che l’apostolo pronuncia in quella circostanza: “Di queste cose siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui” (At 5,32).

Due testimonianze devono unirsi perché possa sbocciare la fede: quella degli apostoli che proclamano la parola e quella dello Spirito che permette di accoglierla. La stessa idea è espressa nel vangelo di Giovanni, quando, parlando del Paraclito, Gesù dice: “Egli mi renderà testimonianza e anche voi mi renderete testimonianza” (Gv 15, 26).

È ugualmente fatale pretendere di fare a meno dell’una o dell’altra delle due guide dello Spirito. Quando si trascura la testimonianza interiore, si cade facilmente nel giuridismo e nell’autoritarismo; quando si trascura quella esteriore, apostolica, si cade nel soggettivismo e nel fanatismo. Nell’antichità, rifiutavano la testimonianza apostolica, ufficiale, gli gnostici. Contro di essi, sant’Ireneo scriveva le note parole:
“Alla Chiesa è stato affidato il Dono di Dio, come il soffio alla creatura plasmata…Di lui non sono partecipi quelli che non corrono alla Chiesa… Separatisi dalla verità, essi si agitano in ogni errore lasciandosi sballottare da esso; secondo i momenti, pensano sempre diversamente sugli stessi argomenti, senza mai avere un pensiero stabile” [9].

Quando si riduce tutto al solo ascolto personale, privato, dello Spirito, si apre la strada a un processo inarrestabile di divisioni e suddivisioni, perché ognuno crede di essere nel giusto e la stessa divisione e moltiplicazione delle denominazioni e delle sette, spesso in contrasto tra loro su punti essenziali, dimostra che non può essere in tutti lo stesso Spirito di verità a parlare, perché altrimenti egli sarebbe in contraddizione con se stesso.

Questo, si sa, è il pericolo a cui è maggiormente esposto il mondo protestante, avendo eretto la “testimonianza interna” dello Spirito Santo a unico criterio di verità, contro ogni testimonianza esterna, ecclesiale, che non sia quella della sola Parola scritta [10]. Alcune frange estreme andranno tanto oltre da staccare la guida interiore dello Spirito anche dalla parola della Scrittura; si avranno allora i vari movimenti di “entusiasti” e di “illuminati” che hanno punteggiato la storia della Chiesa, sia cattolica che ortodossa e protestante. L’approdo più frequente di questa tendenza, che concentra tutta l’attenzione sulla testimonianza interna dello Spirito, è che insensibilmente lo Spirito… perde la lettera maiuscola e viene a coincidere con il semplice spirito umano. È quello che è successo con il razionalismo.

Dobbiamo però riconoscere che esiste anche il rischio opposto: quello di assolutizzare la testimonianza esterna e pubblica dello Spirito, ignorando quella individuale che si esercita attraverso la coscienza illuminata dalla grazia. In altre parole, di ridurre la guida del Paraclito al solo magistero ufficiale della Chiesa, impoverendo così l’azione variegata dello Spirito Santo. Facilmente prevale, in questo caso, l’elemento umano, organizzativo e istituzionale; si favorisce la passività del corpo e si apre la porta alla emarginazione del laicato e alla eccessiva clericalizzazione della Chiesa.

Anche in questo caso, come sempre, dobbiamo ritrovare l’intero, la sintesi, che è il criterio veramente “cattolico”. L’ideale è una sana armonia tra l’ascolto di ciò che lo Spirito dice a me, singolarmente, con ciò che dice alla Chiesa nel suo insieme e attraverso la Chiesa ai singoli. Con il suo decreto sulla libertà di coscienza il concilio Vaticano II ha voluto operare appunto questa sintesi.

5. Il discernimento nella vita personale

Veniamo ora alla guida dello Spirito nel cammino spirituale di ogni credente. Essa va sotto il nome di discernimento degli spiriti. Il primo e fondamentale discernimento degli spiriti è quello che permette di distinguere “lo Spirito di Dio” dallo “spirito del mondo” (cf. 1 Cor 2, 12). San Paolo dà un criterio oggettivo di discernimento, lo stesso che aveva dato Gesù: quello dei frutti. Le “opere della carne” rivelano che un certo desiderio viene dall’uomo vecchio peccaminoso, “i frutti dello Spirito” rivelano che viene dallo Spirito (cf. Gal 5, 19-22). “La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne” (Gal 5, 17).
A volte però questo criterio oggettivo non basta perché la scelta non è tra bene e male, ma è tra un bene e un altro bene e si tratta di vedere qual è la cosa che Dio vuole, in una precisa circostanza. Fu soprattutto per rispondere a questa esigenza che sant’Ignazio di Loyola sviluppò la sua dottrina sul discernimento. Egli invita a guardare soprattutto una cosa: le proprie disposizioni interiori, le intenzioni (gli “spiriti”) che stanno dietro a una scelta.

Sant’Ignazio ha suggerito dei mezzi pratici per applicare questi criteri [11]. Uno è questo. Quando si è davanti a due possibili scelte, giova soffermarsi prima su una, come se si dovesse senz’altro seguire quella, rimanere in tale stato per un giorno o più; quindi valutare le reazioni del cuore di fronte a tale scelta: se dà pace, se si armonizza con il resto delle proprie scelte; se qualcosa dentro di te ti incoraggia in quella direzione, o al contrario se la cosa lascia un velo di inquietudine…Ripetere il processo con la seconda ipotesi. Il tutto in un clima di preghiera, di abbandono alla volontà di Dio, di apertura allo Spirito Santo.

Una abituale disposizione di fondo a fare, in ogni caso, la volontà di Dio, è la condizione più favorevole per un buon discernimento. Gesù diceva: “Il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 5, 30).

Il pericolo, in alcuni modi moderni di intendere e praticare il discernimento, è di accentuare a tal punto gli aspetti psicologici, da dimenticare l’agente primario di ogni discernimento che è lo Spirito Santo. C’è una profonda ragione teologica di ciò. Lo Spirito Santo è lui stesso la volontà sostanziale di Dio e quando entra in un’anima “si manifesta come la volontà stessa di Dio per colui nel quale si trova” [12].

Il frutto concreto di questa meditazione potrebbe essere una rinnovata decisione di affidarci in tutto e per tutto alla guida interiore dello Spirito Santo, come per una sorta di “direzione spirituale”. E’ scritto che “quando la nube s’innalzava e lasciava la Dimora, gli israeliti levavano l’accampamento, e se la nube non si innalzava, essi non partivano” (Es 40, 36-37). Anche noi, non dobbiamo intraprendere nulla se non è lo Spirito Santo, di cui la nuvola, secondo la tradizione, era figura, a muoverci e senza averlo consultato prima di ogni azione.
Ne abbiamo il più luminoso esempio nella vita stessa di Gesù. Egli non intraprese mai nulla senza lo Spirito Santo. Con lo Spirito Santo andò nel deserto; con la potenza dello Spirito Santo ritornò e iniziò la sua predicazione; “nello Spirito Santo” si scelse i suoi apostoli (cf At 1,2); nello Spirito pregò e offrì se stesso al Padre (cf. Eb 9, 14).

San Tommaso parla di questa conduzione interiore dello Spirito come di una specie di “istinto proprio dei giusti”: “Come nella vita corporale il corpo non è mosso se non dall’anima che lo vivifica, così nella vita spirituale ogni nostro movimento dovrebbe provenire dallo Spirito Santo” [13]. È così che agisce la “legge dello Spirito”; questo è ciò che l’Apostolo chiama un “lasciarsi guidare dallo Spirito” (Gal 5,18).

Dobbiamo abbandonarci allo Spirito Santo come le corde dell’arpa alle dita di chi le muove. Come bravi attori, tenere l’orecchio proteso alla voce del suggeritore nascosto, per recitare fedelmente la nostra parte nella scena della vita. È più facile di quanto si pensi, perché il nostro suggeritore ci parla dentro, ci insegna ogni cosa, ci istruisce su tutto. Basta a volte una semplice occhiata interiore, un movimento del cuore, una preghiera. Di un santo vescovo del II secolo, Melitone di Sardi, si legge questo bell’elogio che vorrei si potesse ripetere di ognuno di noi dopo morte: “Nella sua vita fece ogni cosa mosso dallo Spirito Santo” [14].

[1] Cf. S. Gregorio Nazianzeno, Discorsi, XXXI, 26 (PG 36, 161 s.).
[2] S. Gregorio Nisseno, Sulla fede (PG 45, 1241C): cf. Ps.-Atanasio, Dialogo contro i Macedoniani, 1, 12 (PG 28, 1308C).
[3] S. Ambrogio, Apologia di David, 15, 73 (CSEL 32,2, p. 348).
[4] Gaudium et spes, 11.
[5] S. Massimo Confessore, Capitoli vari, I, 72 (PG 90, 1208D).
[6] Cf. S. Agostino, Sulla prima lettera di Giovanni, 3,13; 4,1 (PL 35, 2004 s.).
[7] S. Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, XVI, 19.
[8] Cf. F. Collins, The Language of God
[9] S. Ireneo, Contro le eresie, III, 24, 1-2.
[10] Cf. J.-L. Witte, Esprit-Saint et Eglises séparées, in Dict.Spir. 4, 1318-1325.
[11] Cf. S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, quarta settimana (ed. BAC, Madrid 1963, pp. 262 ss).
[12] Cf. Guglielmo di St. Thierry, Lo specchio della fede, 61 (SCh 301, p. 128).
[13] S. Tommaso, Sulla lettera ai Galati, c.V, lez.5, n.318; lez. 7, n. 340.
[14] Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, V, 24, 5. 

Fr. Raniero Cantalamessa: “Fino alla morte, e alla morte di croce” (Lettere)

dal sito:

http://www.cantalamessa.org/it/predicheView.php?id=301

Fr. Raniero Cantalamessa, ofmcap

“Fino alla morte, e alla morte di croce” 
 
2009-04-10- Predica del Venerdì Santo 2009 nella Basilica di S. Pietro

“Christus factus est pro nobis oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis”: “Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte. E alla morte di croce”. Nel bi-millenario della nascita dell’apostolo Paolo, riascoltiamo alcune sue fiammeggiati parole sul mistero della morte di Cristo che stiamo celebrando. Nessuno meglio di lui può aiutarci a comprenderne il significato e la portata.

Ai Corinzi scrive a modo di manifesto: “I Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1 Cor 1, 22-24). La morte di Cristo ha una portata universale: ”Uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti” (2 Cor 5, 14). La sua morte ha dato un senso nuovo alla morte di ogni uomo e di ogni donna.

Agli occhi di Paolo la croce assume una dimensione cosmica. Su di essa Cristo ha abbattuto il muro di separazione, ha riconciliato gli uomini con Dio e tra di loro, distruggendo l’inimicizia (cf. Ef. 2,14-16). Da qui la primitiva tradizione svilupperà il tema della croce albero cosmico che con il braccio verticale unisce cielo e terra e con il braccio orizzontale riconcilia tra loro i diversi popoli del mondo. Evento cosmico e nello stesso tempo personalissimo: “Mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2, 20). Ogni uomo, scrive l’Apostolo, è “uno per cui Cristo è morto” (Rom 14,15).

Da tutto ciò nasce il sentimento della croce, non più come castigo, rimprovero o argomento di afflizione, ma gloria e vanto del cristiano, cioè come una giubilante sicurezza, accompagnata da commossa gratitudine, alla quale l’uomo si innalza nella fede: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo” (Gal 6, 14).

Paolo ha piantato la croce al centro della Chiesa come l’albero maestro al centro della nave; ne ha fatto il fondamento e il baricentro di tutto. Ha fissato per sempre il quadro dell’annuncio cristiano. I vangeli, scritti dopo di lui, ne seguiranno lo schema, facendo del racconto della passione e morte di Cristo il fulcro verso cui tutto è orientato.

Si resta stupiti di fronte all’impresa portata a termine dall’Apostolo. Per noi oggi è relativamente facile vedere le cose in questa luce, dopo che la croce di Cristo, come diceva Agostino, ha riempito la terra e brilla ora sulla corona dei re [1]. Quando Paolo scriveva, essa era ancora sinonimo della più grande ignominia, qualcosa che non si doveva neppure nominare tra persone educate.

Lo scopo dell’anno paolino non è tanto quello di conoscere meglio il pensiero dell’Apostolo (questo gli studiosi lo fanno da sempre, senza contare che la ricerca scientifica richiede tempi più lunghi di un anno); è piuttosto, come ha ricordato in più occasioni il Santo Padre, quello di imparare da Paolo come rispondere alle sfide attuali della fede.

Una di queste sfide, forse la più aperta mai conosciuta fino ad oggi, si è tradotta in uno slogan pubblicitario scritto sui mezzi di trasporto pubblico di Londra e di altre città europee: “Dio probabilmente non esiste. Dunque smetti di tormentarti e goditi la vita”: There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life.”

L’elemento di maggior presa di questo slogan non è la premessa “Dio non esiste”, ma la conclusione: “Goditi la vita!” Il messaggio sottinteso è che la fede in Dio impedisce di godere la vita, è nemica della gioia. Senza di essa ci sarebbe più felicità nel mondo! Paolo ci aiuta a dare una risposta a questa sfida, spiegando l’origine e il senso di ogni sofferenza, a partire da quella di Cristo.

Perché “era necessario che il Cristo patisse per entrare nella sua gloria”? (Lc 24, 26). A questa domanda si dà talvolta una risposta “debole” e, in un certo senso, rassicurante. Cristo, rivelando la verità di Dio, provoca necessariamente l’opposizione delle forze del male e delle tenebre e queste, come era avvenuto nei profeti, porteranno al suo rifiuto e alla sua eliminazione. “Era necessario che il Cristo patisse” andrebbe dunque inteso nel senso di “era inevitabile che il Cristo patisse”.

Paolo da una risposta “forte” a quella domanda. La necessità non è di ordine naturale, ma soprannaturale. Nei paesi di antica fede cristiana si associa quasi sempre l’idea di sofferenza e di croce a quella di sacrificio e di espiazione: la sofferenza, si pensa, è necessaria per espiare il peccato e placare la giustizia di Dio. È questo che ha provocato, in epoca moderna, il rigetto di ogni idea di sacrificio offerto a Dio e, per finire, l’idea stessa di Dio.

Non si può negare che talvolta noi cristiani abbiamo prestato il fianco a questa accusa. Ma si tratta di un equivoco che una migliore conoscenza del pensiero di san Paolo ha ormai definitivamente chiarito. Egli scrive che Dio ha prestabilito Cristo “a servire come strumento di espiazione” (Rom 3,25), ma tale espiazione non opera su Dio per placarlo, ma sul peccato per eliminarlo. “Si può dire che sia Dio stesso, non l’uomo, che espia il peccato… L’immagine è più quella della rimozione di una macchia corrosiva o la neutralizzazione di un virus letale che quella di un’ira placata dalla punizione”[2].

Cristo ha dato un contenuto radicalmente nuovo all’idea di sacrificio. In esso “non è più l’uomo ad esercitare un’influenza su Dio perché questi si plachi. Piuttosto è Dio ad agire affinché l’uomo desista dalla propria inimicizia contro di lui e verso il prossimo. La salvezza non inizia con la richiesta di riconciliazione da parte dell’uomo, bensì con la richiesta di Dio: ‘Lasciatevi riconciliare con Lui” (1 Cor 2,6 ss)”[3].

Il fatto è che Paolo prende sul serio il peccato, non lo banalizza. Il peccato è, per lui, la causa principale dell’infelicità degli uomini, cioè il rifiuto di Dio, non Dio! Esso rinchiude la creatura umana nella “menzogna” e nella “ingiustizia” (Rom 1, 18 ss.; 3, 23), condanna lo stesso cosmo materiale alla “vanità” e alla “corruzione” (Rom 8, 19 ss.) ed è la causa ultima anche dei mali sociali che affliggono l’umanità.

Si fanno analisi a non finire della crisi economica in atto nel mondo e delle sue cause, ma chi osa mettere la scure alla radice e parlare di peccato? L’elite finanziaria ed economica mondiale era diventata una locomotiva impazzita che avanzava a corsa sfrenata, senza darsi pensiero del resto del treno rimasto fermo a distanza sui binari. Stavamo andando tutti “contromano”.

L’Apostolo definisce l’avarizia insaziabile una “idolatria” (Col 3,5) e addita nella sfrenata cupidigia di denaro “la radice di tutti i mali” (1 Tim 6,10). Possiamo dargli torto? Perché tante famiglie ridotte al lastrico, masse di operai che rimangono senza lavoro, se non per la sete insaziabile di profitto da parte di alcuni? E perché, nel terremoto degli Abruzzi di questi giorni, sono crollati tanti palazzi costruiti di recente? Cosa aveva indotto a mettere sabbia di mare al posto del cemento?

Con la sua morte, Cristo però non ha soltanto denunciato e vinto il peccato; ha anche dato un senso nuovo alla sofferenza, anche a quella che non dipende dal peccato di nessuno, come, appunto, il dolore di tante vittime del terremoto che ha sconvolto la vicina regione dell’Abruzzo. Ne ha fatto una via alla risurrezione e alla vita. Il senso nuovo dato da Cristo alla sofferenza non si manifesta tanto nella sua morte, quanto nel superamento della morte, cioè nella risurrezione. “È morto per i nostri peccati, è risorto per la nostra giustificazione” (Rom 4, 25): i due eventi sono inseparabili nel pensiero di Paolo e della Chiesa.

E’ un’esperienza umana universale: in questa vita piacere e dolore si susseguono con la stessa regolarità con cui, al sollevarsi di un’onda nel mare, segue un avvallamento e un vuoto che risucchia indietro il naufrago. “Un so che di amaro – ha scritto il poeta pagano Lucrezio – sorge dall’intimo stesso di ogni piacere e ci angoscia in mezzo alle delizie”[4]. L’uso della droga, l’abuso del sesso, la violenza omicida, sul momento danno l’ebbrezza del piacere, ma conducono alla dissoluzione morale, e spesso anche fisica, della persona.

Cristo, con la sua passione e morte, ha ribaltato il rapporto tra piacere e dolore. Egli “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottomise alla croce” (Eb 12,2). Non più un piacere che termina in sofferenza, ma una sofferenza che porta alla vita e alla gioia. Non si tratta solo di un diverso susseguirsi delle due cose; è la gioia, in questo modo, ad avere l’ultima parola, non la sofferenza, e una gioia che durerà in eterno. “Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rom 6,9). E non lo avrà neppure su di noi.
Questo nuovo rapporto tra sofferenza e piacere si riflette nel modo di scandire il tempo della Bibbia. Nel calcolo umano, il giorno inizia con la mattina e termina con la notte; per la Bibbia comincia con la notte e termina con il giorno: “E fu sera e fu mattina: primo giorno”, recita il racconto della creazione (Gen 1,5). Non è senza significato che Gesù morì di sera e risorse di mattino. Senza Dio, la vita è un giorno che termina nella notte; con Dio è una notte che termina nel giorno, e un giorno senza tramonto.

Cristo non è venuto dunque ad aumentare la sofferenza umana o a predicare la rassegnazione ad essa; è venuto a darle un senso e ad annunciarne la fine e il superamento. Quello slogan sui bus di Londra e di altre città viene letto anche da genitori che hanno un figlio malato, da persone sole, o rimaste senza lavoro, da esuli fuggiti dagli orrori della guerra, da persone che hanno subito gravi ingiustizie nella vita… Io cerco di immaginare la loro reazione nel leggere le parole: “Probabilmente Dio non c’è: goditi dunque la vita!” E con che?

La sofferenza resta certo un mistero per tutti, specialmente la sofferenza degli innocenti, ma senza la fede in Dio essa diventa immensamente più assurda. Le si toglie anche l’ultima speranza di riscatto. L’ateismo è un lusso che si possono concedere solo i privilegiati della vita, quelli che hanno avuto tutto, compresa la possibilità di darsi agli studi e alla ricerca.

Non è la sola incongruenza di quella trovata pubblicitaria. “Dio probabilmente non esiste”: dunque, potrebbe anche esistere, non si può escludere del tutto che esista. Ma, caro fratello non credente, se Dio non esiste, io non ho perso niente; se invece esiste, tu hai perso tutto! Dovremmo quasi ringraziare chi ha promosso quella campagna pubblicitaria; essa ha servito alla causa di Dio più che tanti nostri argomenti apologetici. Ha mostrato la povertà delle sue ragioni ed ha contribuito a scuotere tante coscienze addormentate.

Dio però ha un metro di giudizio diverso dal nostro e se vede la buona fede, o una ignoranza incolpevole, salva anche chi in vita si è affannato a combatterlo. Ci dobbiamo preparare a delle sorprese, a questo riguardo, noi credenti. “Quante pecore ci sono fuori dell’ovile, esclama Agostino, e quanti lupi dentro!”: “Quam multae oves foris, quam multi lupi intus! ”[5].

Dio è capace di fare dei suoi negatori più accaniti, i suoi apostoli più appassionati. Paolo ne è la dimostrazione. Che cosa aveva fatto Saulo di Tarso per meritare quell’incontro straordinario con Cristo? Che cosa aveva creduto, sperato, sofferto? A lui si applica ciò che Agostino diceva di ogni elezione divina: “Cerca il merito, cerca la giustizia, rifletti e vedi se trovi altro che grazia” [6]. È così che egli spiega la propria chiamata: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono” (1 Cor 15, 9-10).

La croce di Cristo è motivo di speranza per tutti e l’anno paolino un’occasione di grazia anche per chi non crede ed è in ricerca. Una cosa parla a loro favore davanti a Dio: la sofferenza! Come il resto dell’umanità, anche gli atei soffrono nella vita, e la sofferenza, da quando il Figlio di Dio l’ha presa su di sé, ha un potere redentivo quasi sacramentale. È un canale, scriveva Giovanni Paolo II nella “Salvifici doloris”, attraverso cui le energie salvifiche della croce di Cristo sono offerte all’umanità[7].

All’invito a pregare “per coloro che non credono in Dio”, seguirà, tra poco, una toccante preghiera in latino del Santo Padre. Tradotta in italiano, essa dice così: “Dio onnipotente ed eterno, tu hai messo nel cuore degli uomini una così profonda nostalgia di te, che solo quando ti trovano hanno pace: fa’ che, al di là di ogni ostacolo, tutti riconoscano i segni della tua bontà e, stimolati dalla testimonianza della nostra vita, abbiano la gioia di credere in te, unico vero Dio e Padre di tutti gli uomini. Per Cristo nostro Signore.

[1] S. Agostino, Enarr. in Psalmos, 54, 12 (PL 36, 637).
[2] J. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo, Paideia, Brescia 1999, p. 227.
[3] G. Theissen – A. Merz, Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 20032, p. 573.
[4] Lucrezio, De rerum natura, IV, 1129 s.
[5] S. Agostino, In Ioh. Evang. 45,12.
[6] S. Agostino, La predestinazione dei santi 15, 30 (PL 44, 981).
[7] Cf. Enc. “Salvifici doloris”, 23. 

LA DISCESA DI GESÙ AGLI INFERI

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_f.htm#

LA DISCESA DI GESÙ AGLI INFERI

Anonimo del IV Sec. *

Le «Homélies diverses» da cui è tratto il brano seguente, figurano a torto nella Patrologia greca sotto il nome di Sant’Epifania. In numero consistente sono entrate a far parte delle letterature orientali.

Oggi un grande silenzio avvolge la terra. Un grande silenzio ed una grande calma. Un grande silenzio. perché il Re dorme. La terra ha rabbrividito e si è ammutolita, perché Dio si è addormentato nella carne, e l’inferno ha tremato. Dio si è addormentato per un istante, e ha svegliato coloro che erano negl’inferi… Va alla ricerca dell’uomo come della pecorella smarrita. Vuole assolutamente visitare quei che giacciono nelle tenebre e nell’ombra di morte (Le. 1, 79). Va a liberare dalla loro prigione e dalle loro pene Adama ed Eva, Lui che è al tempo stesso Dio e figlio di Eva… Prende per mano l’uomo e gli dice:
«Svegliati, o tu che dormi, sorgi fra i morti e Cristo t’illuminerà. (Ef. 5, 14). lo sono il tuo Dio, per te sono divenuto figlio tuo, e ho il potere di dire a te ed ai tuoi discendenti incatenati: uscite. A coloro che si trovano nelle tenebre, io dico: ecco la luce; ed a coloro che sono coricati: alzatevi. A te dico: «Svegliati, o tu che dormi», dal momento che non ti ho creato per farti restare incatenato. «Sorgi tra i morti », perché io sono la vita dei morti. Sorgi, opera delle mie mani; alzati o mia immagine, tu che sei stato creato a mia somiglianza. Sorgi, partiamocene da qui, perché tu sei in me ed io in te; noi formiamo un unico volto indivisibile.
«Per te, io che sono Dio, sono divenuto tuo figlio. Per te, io, tuo Signore, ho preso la tua forma di servo. Per te, io che sto al di sopra dei cieli, sono disceso sulla terra, e perfino al di sotto della terra. Per te, o uomo, sono diventato come Un uomo sfinito, che troverà scampo soltanto fra i morti (Sal. 87, 5-6; LXX). Per te che sei uscito da un giardino, sono stato consegnato ai Giudei in un giardino e crocifisso in un giardino. Guarda sul mio viso gli sputi che ho ricevuto per restituire a te il tuo primo alito. Osserva sulle mie guance gli schiaffi che ho ricevuto per creare di nuovo le tue sembianze a mia immagine. Guarda sul mio dorso i colpi di frusta con cui sono stato colpito per liberare il tuo corpo dal peso dei tuoi peccati. Osserva le mie mani inchiodate alla croce per te che tendesti la mano verso l’albero.
«Alzati. andiamocene da qui. Il nemico ti ha fatto uscire dal paradiso terrestre; io sto per introdurti non più in quel paradiso. ma in cielo. Un tempo ti vietai l’accesso all’albero della vita; ma io stesso sono la vita, ed ora a te mi unisco»,

 * Omelie per il Sabato Santo, PG 43, 349, 451, 462-463.

Pasqua: la Vita dal grembo della morte

dal sito:

http://www.zenit.org/article-17894?l=italian

Pasqua: la Vita dal grembo della morte

di padre Angelo del Favero* 

ROMA, venerdì, 10 aprile 2009 (ZENIT.org).- “Passato il sabato, Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a ungere il corpo di Gesù. Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levar del sole. Dicevano tra loro: ‘Chi farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?’” (Mc 16,1-3).

Queste tre donne sono sconvolgenti: nemmeno due giorni dopo la fine ignominiosa del Signore, impietrite nel dolore di quella pietra inesorabilmente rotolata sulla bocca del sepolcro e caduta come un macigno sopra il loro cuore ammutolito, eccole rialzarsi nella notte sospinte da una incontenibile energia, del tutto sconosciuta ai pur non lontani discepoli addormentati…

Lo dobbiamo ammettere: nella Passione del Signore, l’indole femminile si è dimostrata più forte, più forte degli uomini, più forte della morte (Ct 8,6). Lo dimostra esemplarmente la Mamma di Gesù, la quale, uccisa interiormente dal dolore, rimane in piedi presso la croce, più ferma del palo a cui è appeso il figlio “maledetto” (Dt 21,23):  “Come ‘si abbandona a Dio’ senza riserve, ‘prestando il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà’ a colui le cui ‘vie sono inaccessibili’ (Rm 11,33). Ed insieme quanto potente è l’azione della grazia nella sua anima, come penetrante è l’influsso dello Spirito Santo, della sua luce e della sua virtù!” (cfr. n. 18, Giovanni Paolo II, Enciclica Redemptoris Mater).

E’ durante questo travaglio di parto, immensamente più lacerante e doloroso di quello fisico, che Maria ha generato, così, all’aperto, la Chiesa dei redenti dal suo Figlio, divenendo la nuova Eva, “madre dei viventi” (Lumen Gentium, 56).

Ecco la ragione congenita della fortezza della donna: l’indole materna del suo essere. Lo Spirito di Dio, che è essenzialmente materno, con il suo influsso la amplifica per intima risonanza, rendendola invincibile.

E’ Lui che, dopo aver sostenuto la Madre sotto la croce, il mattino di Pasqua le risuscita il Figlio, facendo vincere alla vita il duello apparentemente perduto con la morte e trasformando un cadavere (Gesù Crocifisso, e in Lui l’uomo vecchio) in un neonato (Gesù Risorto, e in Lui l’uomo nuovo).

 Torniamo alle tre donne in corsa verso il sepolcro.

Irresistibilmente attratte e sospinte dall’Amore, esse intendono “ungere il corpo di Gesù” (Mc 16,1).  Il loro gesto si prospetta doppiamente inutile, non tanto perché un’altra donna aveva già provveduto a tale unzione quattro giorni prima in casa di Simone il lebbroso (Mc 14,8), anticipando così la Sua sepoltura, ma soprattutto perché “egli è vivo” (Lc 24,23), come dimostra la tomba vuota.

Eppure tale gesto “inconsistente” per l’assenza del cadavere ci conduce proprio al Corpo di Gesù, dal momento che orienta verso quell’ “unzione” spirituale e divina (1Gv 2,27) che l’Umanità gloriosa del Signore dal mattino di Pasqua non cessa di effondere sul mondo intero: il dono del suo Spirito Santo.

La Risurrezione di Gesù ha nel grembo di Maria il proprio cordone ombelicale. 

Lo fa intendere Benedetto XVI con queste parole: “La Risurrezione svela ciò che è l’articolo decisivo della nostra fede: “Si è fatto uomo”. Da qui sappiamo che è per sempre vero: egli è uomo. Lo resta per sempre. L’umanità è fatta entrare attraverso di lui nella natura stessa di Dio: questo è il frutto della sua morte. Noi siamo in Dio. Dio è l’interamente altro e nello stesso tempo il non-altro,- (il come-noi) -. Se insieme con Gesù diciamo “Abbà, Padre”, lo diciamo in Dio stesso. Questa è la speranza dell’uomo, la gioia cristiana, il Vangelo: ancor oggi egli è uomo. In lui Dio è veramente divenuto il non-altro. L’uomo, l’essere assurdo, non è più assurdo. L’uomo, l’essere sconsolato, non è più sconsolato: dobbiamo gioire. Egli ci ama, e Dio ci ama a tal punto che il suo amore si è fatto carne e rimane carne. Questa gioia dovrebbe essere il più forte di tutti gli impulsi, la più prorompente forza che ci spinge a comunicare la notizia agli altri uomini, affinchè essi pure gioiscano della luce che a noi si è dischiusa e che in mezzo alla notte del mondo annuncia il giorno.” (J. Ratzinger, Il cammino pasquale, 1985, p. 109-110).

Un giorno, dunque, che è iniziato con l’incarnazione del Figlio di Dio, quando il Cielo fu associato alla terra, e Dio si “abbreviò” nel grembo di un’umilissima vergine. Allora fu “concepita” per ogni credente quella Vita Nuova pasquale nella quale possiamo e dobbiamo camminare in forza del battesimo, come annuncia oggi Paolo: “per mezzo del battesimo dunque…affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti…anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4).

  Come possiamo intendere questa vita nuova?  Come viverla effettivamente? Esiste una parola “chiave” che ci aiuti a capire e approfondire tale mistero?

Sono domande essenziali per capire non solo la Pasqua, ma anche il significato e il valore della vita umana. Consideriamo la terza domanda.

Sì, questa parola-chiave esiste, ed è la parola “figlio”.

E’ questa una parola immensa, inscritta nel DNA di ogni essere umano, che significa: tramite i miei genitori ho ricevuto la vita da un Altro, un altro che si chiama “Abba’, Padre” (Rm 8,15-17); Gli somiglio profondamente e rimango in una relazione inscindibile e vitale di amore con Lui, appartenendogli per sempre: ecco l’origine e la ragione della mia dignità di persona; ecco, sin dal concepimento, il valore infinito della mia esistenza (Lc 1,31); ecco il dono e il compito per cui mi ha chiamato a vivere, mi ha giustificato e mi ha glorificato, al fine di farmi partecipare in eterno alla Sua paradisiaca beatitudine.

Tutto ciò grazie al suo figlio Gesù, crocifisso e risorto: “vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv 3,1).

 La parola “figlio” non dice solo l’identità di Gesù e nostra, “figli di Dio”, ma  dischiude anche il mistero stesso della Famiglia trinitaria, ove le relazioni di reciproca appartenenza nell’amore sono talmente “consistenti” da costituire le stesse Tre Persone divine, meravigliosamente legate tra loro per “figliolanza”. Infatti, il Padre è tale in quanto persona che genera maternamente il suo Figlio unigenito; il Figlio è tale in quanto persona “partorita” eternamente dal Padre; e lo Spirito Santo è la persona che li unisce, il loro legame “ombelicale”, che Gesù risorto innesta nel credente, realizzando così lo scopo dell’Incarnazione: “sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

E perché comprendessimo come ciò possa realizzarsi fin da questa vita, ha plasmato nella donna il grembo materno, l’utero, come luogo di feconda “umiltà”. Comprendiamo subito tale singolare attributo se ricordiamo l’essenza di questa virtù, molto più divina che umana: l’umiltà consiste nell’atteggiamento che fa spazio all’altro, e lo fa sempre di più fino a non avere più spazio per sé dentro di sé, come l’utero al nono mese di gravidanza. E’ questo atteggiamento che manifesta il modo di essere e di agire dell’amore vero, poiché è questo il modo di essere e di operare di Dio.

Perciò, per vivere effettivamente e sperimentare concretamente la “VITA NUOVA” donata dal Signore risorto, è necessario acquisire tale atteggiamento interiore, questo materno fare spazio all’altro, anzitutto con il semplice ascolto di quello che l’altro dice. Chi ascolta veramente accoglie il fratello nel suo cuore, ed ognuno deve cercare di essere una “casa di accoglienza” alla vita del suo prossimo. E avendogli fatto spazio, sperimenterà “ex vacuo” la presenza in sé dello Spirito di Gesù risorto che ha detto “ogni volta lo avete fatto a me” (Mt 25,45), Spirito che è in Se stesso il Dono della Vita Nuova, veramente divinizzante, in grado di risuscitare moralmente, spiritualmente e corporalmente un uomo.

Così, “sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più, perché la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,9), noi sperimentiamo fin d’ora che la vita terrena non è un sepolcro in cui si entra alla nascita e non si esce più dopo la morte, e possiamo comunicare la certezza di fede che  accadrà ad ognuno quello che è accaduto a Gesù dopo tre giorni, somiglianza per somiglianza, come precisa Paolo: “Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua rissurezione” (Rm 6,5).

Perciò ogni essere umano, creato fin dal concepimento “a immagine e somiglianza di Dio” (Gen 1,27), redento fin dal concepimento dal sangue di Cristo, segnato sin dal battesimo dal sigillo del Suo Spirito, se invoca con fede la salvezza già ottenuta, dopo aver partecipato alle sofferenze di Gesù in questa terra parteciperà in eterno alla Sua gloria in Paradiso. 

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

di Bruno Forte: Il « Vangelo » di San Paolo

dal sito:

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124802

Il « Vangelo » di San Paolo

di Bruno Forte

Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo…

 1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo – è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!

2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco…

3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio – narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 – consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.

4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri.

5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli – che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” – hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo – Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) – che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due – entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi – decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità – come si vede – non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?

6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della  fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete…”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia – ci confida nella seconda lettera ai Corinzi – è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?

7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?

8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore  e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen.

(Teologo Borèl) Marzo 2009 – autore: Bruno Forte

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