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IL MISTERO DI DIO SECONDO SAN PAOLO (Mons. Giuseppe Greco) (Link perché la grafica utilizzata non consente la copia, bello!)

IL  MISTERO  DI  DIO
secondo San Paolo

di

Monsignor Giuseppe Greco

http://www.rotarysiracusaortigia.it/Relazioni/il%20Mistero%20secondo%20San%20Paolo.doc

di Mons. Gianfranco Ravasi : I. La Parabola anticotestamentaria dell’insegnare

dal sito:

http://www.stpauls.it/studi/maestro/italiano/ravasi/itarav02.htm

IL MAESTRO NELLA BIBBIA

Atti del Seminario internazionale
su « Gesù, il Maestro »
(Ariccia, 14-24 ottobre 1996)

di Mons. Gianfranco Ravasi

I. La Parabola anticotestamentaria dell’insegnare

Parliamo di « parabola » perché si tratta di descrivere una specie di percorso, che comprende due tappe:

1ª Primato della teofania, cioè il Signore che è Maestro;
2ª L’uomo che a sua volta diventa maestro, dopo avere ascoltato Dio Maestro. (torna al sommario)
1. Primato della teofania

In assoluto, il punto di partenza è sempre la grazia. In principio c’è l’epifania di Dio. In principio c’è la Parola divina che infrange il silenzio del nulla e dell’ignoranza dell’uomo. «Dio disse: « Sia la luce ». E la luce fu». All’inizio c’è questa Parola, radicale e fondamentale, senza la quale ci sarebbe il vuoto, il nulla. Nessuna altra parola risuonerebbe. All’inizio c’è questa presenza assoluta dell’unico Signore e Maestro che è Dio.

San Paolo (in Rm 10,20) si sorprende per una bellissima frase di Isaia: «Il profeta osa dire: Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano». L’uomo se ne va per le sue strade, se ne andrebbe all’infinito lontano, se a un crocevia non si presentasse l’epifania di Dio, la sua Parola. In principio quindi c’è la Sapienza di Dio. Nella Genesi (1,3) c’è proprio questa frase: «Dio disse». O nel Nuovo Testamento: «En archè èn ho logos, in principio c’era la Parola (per eccellenza)», la grande teofania iniziale, senza la quale non c’è nessun insegnamento. Senza la grazia non esiste la parola nostra; senza la Parola di Dio non esistono le nostre parole. (torna al sommario)

I (tre) luoghi della teofania.

Dove e come si manifesta Dio? Ricordiamo tre luoghi nei quali si offre la « lezione » di Dio, la prima « lezione » assoluta.

1º. La Parola o lezione di Dio si manifesta innanzitutto nella Torah (nome derivato da una radice ebraica, jrh, che significa « insegnare »). È l’insegnamento per eccellenza, la « dottrina » per eccellenza di Dio. Perciò noi dobbiamo ascoltare la prima lezione divina attraverso l’ascolto della Legge. Tutto il Salmo 119 (118 della Volgata) è un inno grandioso, monumentale alla Parola di Dio più che alla Legge (Torah). Pascal lo recitava tutte le mattine; una volta, almeno nel breviario del rito ambrosiano, lo si recitava tutti i giorni, tutto intero, durante le ore della giornata. È una lode continua, una specie di moto perpetuo: non soltanto la costruzione è in 22 strofe, con un gioco alfabetico, ma ogni versetto deve avere almeno una delle otto parole con cui si definisce la Parola di Dio. Ebbene, questo canto continuo della Parola di Dio è la celebrazione della prima, fondamentale lezione che dobbiamo ascoltare, una lezione di vita, (è anche legge), non solo una lezione di conoscenza del mistero di Dio.

Nel Salmo 25 (versetti 4, 5, 8, 9, 10 e 12) continuamente si chiede a Dio che, rivelandoci la sua Parola, ci indichi la via. «Io sono la via, la verità e la vita», dirà Cristo. Con un piccolo particolare: in ebraico, il termine via, derek, ha alla base probabilmente una radice di origine cananea che significa la vigoria sessuale, l’energia vitale. Allora, dire: «Io sono la via e la vita» si può quasi esprimere con una parola sola: «Io sono la via». Indicare la via vuol dire anche indicare la via della vita. D’altronde, la via in tutte le culture è un grande simbolo della esistenza stessa. In questo senso la celebrazione della via che la Torah ci offre è la celebrazione, come dice il Salmo 119, della lampada che illumina i passi della nostra esistenza (v. 105).

Ancora, nel Salmo 143,10 chiediamo: «Insegnami (è il verbo del maestro, rivolto a Dio!), insegnami a compiere il tuo volere, perché tu sei il mio Dio. Il tuo spirito buono mi guidi in terra piana». Troviamo qui le due immagini, le due componenti: «Insegnami il tuo volere», la tua volontà, non solo il tuo mistero, ma un mistero efficace, che agisce in me. E poi mi guiderai «sulla terra piana», nel sentiero dell’esistenza.

2º. L’epifania del Signore-Maestro si presenta nelle sue opere salvifiche, nelle sue azioni di salvezza, come leggiamo nel Salmo 103 (versetto 7): «Ha rivelato a Mosè le sue vie, ai figli d’Israele le sue opere». Per la legge del parallelismo, qui vengono descritte non più « la mia via », ma « le vie di Dio ». E qual è la via di Dio? Sono le sue opere, le sue opere di salvezza, inserite nell’interno della storia. La Bibbia è la storia di Dio ed è la celebrazione del Dio della storia, la Bibbia è una storia della salvezza.

Di qui alcune conseguenze di questa tesi fondamentale. Gli Ebrei hanno chiamato lungamente Mosè con un appellativo: morenu, che vuol dire « il nostro maestro ». E come viene rappresentato questo « nostro maestro »? «Io sarò con la tua bocca», dice il Signore a Mosè, «ti istruirò in quello che dovrai dire» (Es 4,12; cf 24,12). E che cosa farà poi Mosè? Parlerà e salverà. Dio usa perciò anche dei maestri concreti. Per la sua storia della salvezza passa attraverso di noi, che pur siamo fragili. Mosè sarebbe stato l’ultimo da scegliere, come maestro: era balbuziente, era incapace di parlare, aveva in sé una debolezza costituzionale: «Manda un altro» (si scusa in Es 4,13; come succede in altri racconti di « vocazione con obiezione »).

Una seconda considerazione. Che cosa dobbiamo dunque trasmettere, che cosa narrare nella nostra catechesi? Che cosa insegnare? La risposta si trova nel Salmo 78 (il secondo più lungo della Bibbia, dopo il 119), che possiamo intitolare come fa la Bible de Jérusalem: «Le lezioni della storia della salvezza». Ciò che noi dobbiamo trasmettere ed annunciare è non il Dio remoto e astratto, non «il Dio dei filosofi» (per usare ancora la famosa espressione del Memoriale di Pascal), non il Dio dei sapienti, ma il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio salvatore.

3º. Dopo l’epifania di Dio nella Torah e nella storia, l’epifania di Dio si manifesta anche nell’oscurità della prova, nella tenebra, nel suo silenzio. A questo riguardo, due libri dell’Antico Testamento sono particolarmente interessanti e significativi: Qoèlet e Giobbe. In essi si riesce a vedere la rivelazione di Dio nell’interno del silenzio.

Essi, però, non ci danno la manifestazione del Dio-Maestro, che invece troviamo esplicitamente in un versetto del Deuteronomio (8,5): «Come un padre corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, ti corregge». È bellissima questa immagine del maestro-padre (questi due aspetti anche nei Proverbi coincidono: il maestro è pure il padre, il discepolo è anche il figlio). Questo maestro conosce, tra l’altro, la strada della durezza, una via che il discepolo non riesce a comprendere. «Le mie vie non sono le vostre vie» (Is 55,8).

C’è, quindi, una paidèia, se vogliamo usare l’espressione greca, una pedagogia divina purificatrice. C’è una parola divina che sconcerta, nel bene e nel male. In Geremia (23,29) la Parola di Dio viene rappresentata come un martello che spacca la roccia, come una fiamma ardente che brucia, e consuma. Spessissimo, nell’Antico Testamento, la Parola di Dio si autorappresenta con immagini « offensive ». Questo avviene anche nel Nuovo: la lettera agli Ebrei (4,12) evoca la Parola di Dio come spada che taglia la superficie, la pelle, e penetra fino alle giunture, fino alle ossa, al midollo. C’è dunque una paidèia che si sviluppa nell’oscurità (un tema molto bello e suggestivo). C’è da ringraziare Dio, invece di sentirsi imbarazzati, che nell’Antico Testamento esista un libro come Qoèlet, un libro della crisi, della crisi della Sapienza: un maestro che non crede più in quello che insegna, e che non attende forse più nulla, ma che comunque riflette – e anch’esso è parola di Dio! – su questo misterioso parlare-insegnare di Dio attraverso il suo silenzio, attraverso il vuoto. Oppure, è significativo che nell’Antico Testamento ci siano delle pagine come quelle del libro di Giobbe, dove il protagonista bestemmia. In quel momento, Dio passa attraverso quasi la negazione di se stesso. Come diceva Bonhoeffer: Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza – come Signore e Maestro, come Padrone –; Dio ci salva in virtù della sua debolezza, diventando fratello dell’uomo in Cristo, attraverso la sua impotenza, la sua sofferenza. Parlando tuttavia dell’insegnamento del Maestro divino attraverso il suo silenzio e la prova, occorre ricordare che, pure in quel momento, Dio non cessa di essere il Maestro che serve, anzi forse in quel momento è vicino all’uomo molto di più di prima.

Osea (11,3-4) esprime la tenerezza paterna anche nella severità: «Io ho insegnato i primi passi a Efraim. Me li prendevo sulle braccia, con legami pieni di umanità, li attiravo a me, con vincoli d’amore». Efraim rimane ribelle; però questo padre, pure se il figlio non capisce, ha sempre vincoli d’amore, perfino quando punisce, come un padre corregge il figlio. A questo riguardo c’è una bellissima immagine del grande pensatore danese Soeren Kierkegaard, nel suo libro Timore e tremore, dedicato nella sua maggior parte a Gen 22 (il sacrificio di Isacco). Soeren Kierkegaard usa questa immagine, che tra l’altro è vera in Oriente: la madre, quando deve svezzare suo figlio, si tinge di nero il seno, perché il figlio non abbia più a desiderarlo, e cominci a nutrirsi da solo. In quel momento il bambino odia sua madre, perché gli toglie la fonte del suo sostentamento e anche del suo piacere (pensiamo a quel che ha detto la psicanalisi a questo riguardo); eppure egli non sa che in quel momento la madre, mentre lo distacca da sé e sembra crudele, mai l’ha amato così tanto, perché lo fa diventare uomo capace di vivere da solo nel mondo, lo fa creatura libera (e quante madri non hanno staccato il figlio dal seno, anche se non materialmente, e lo fanno ancora succube!). Ecco: anche nel momento della prova, non dobbiamo mai dimenticare il mistero del Dio Padre e Madre. (torna al sommario)

2. L’uomo maestro

L’uomo istruito da Dio diventa a sua volta maestro, viene inviato come maestro. Tre brevi considerazioni al riguardo. (torna al sommario)

a) Il padre al figlio

Il magistero fondamentale è quello che passa attraverso la comunicazione interpersonale, la catechesi familiare, una relazione d’amore. Abbiamo esempi molto illuminanti a questo riguardo. Nei Proverbi, il padre continuamente dice: «Figlio mio…», e al figlio dona la sua sapienza. In questo caso il maestro, che è padre, non può che desiderare che il discepolo cresca; cosa che invece il maestro-padrone non vuole, perché è geloso della sua supremazia intellettuale. Il padre pensa: « Bisogna che lui cresca e che io diminuisca », come il Battista (cf Gv 3,30). E il capitolo 31 (sempre dei Proverbi), con quella strana finale, la celebrazione della donna sapiente, è probabilmente anche la conclusione di un itinerario didattico. Dopo aver svolto la sua lezione, il maestro-padre saluta il figlio che ha trovato la sua sposa. Questa sposa è una donna ideale, perfetta, ma è anche la Sapienza: il giovane è diventato a sua volta maestro, sapiente. Tale dovrebbe essere il nostro scopo. Dobbiamo sparire, insegnando agli altri. Dobbiamo far sì che l’altro sia capace di crescere nella fede e nella conoscenza, e poi ritirarci.

In Esodo 12, con la descrizione del rito pasquale, troviamo ciò che viene fatto dagli Ebrei attraverso l’haggadah. Quest’ultima è una narrazione che comprende un dialogo tra il padre e il figlio sul significato dei riti, per giungere alla scoperta dell’azione di liberazione di Dio. Qui vediamo quale sia la funzione del maestro nella famiglia, nella relazione d’amore: è quella d’insegnare la libertà, di far conoscere un Dio che è liberatore, non colui che t’impone la cappa di piombo delle sue norme, ma che ti indica la strada gioiosa della sua volontà, che è libertà e salvezza.

Da ultimo, il Salmo 78 nella sua prima diecina di versetti ci offre una suggestiva rappresentazione della catechesi. Che cos’è la vera catechesi ecclesiale? È un continuo comunicare, di padre in figlio, di generazione in generazione, le grandi opere di Dio, la grande linea dinamica di salvezza entro cui noi siamo immersi. (torna al sommario)

b) I sacerdoti-profeti-sapienti

Tra i maestri ci sono anche i sacerdoti, i sapienti, i profeti. Potremmo offrire molti dati su questo tipo di insegnamento. Basti citare come esempio 1Sm 3. Il sacerdote di nome Eli, il maestro di Samuele, è il direttore spirituale per eccellenza, che non si sostituisce al discepolo, ma gli insegna come deve scoprire la sua vocazione, di chi sia quella voce che nella notte lo chiama.

Un altro modello, molto interessante per il problema dell’inculturazione, sarebbe quel maestro che ha scritto attorno all’anno 30 a.C. il libro della Sapienza. Egli si presenta come Salomone, il supremo sapiente. Il libro della Sapienza è il tentativo di riscrivere la grande lezione di Israele con le categorie filosofiche del mondo greco, in un altro orizzonte culturale. Paolo è l’esempio più alto di questa operazione di mediazione culturale, di inculturazione, di ritrascrizione del messaggio semitico di Cristo in nuove coordinate, in modalità nuove.

In Neemia 8, il personaggio che domina è Esdra, il sacerdote, che fa la sua lezione sulla Parola di Dio. È un maestro significativo perché ci rivela come possiamo diventare noi stessi maestri della Parola di Dio. Nell’episodio potremmo individuare sette « stelle », cioè una costellazione di sette componenti che sono la rappresentazione di questo magistero della parola:

Leggere la Parola di Dio, «per brani distinti», si dice. Sul leggere ci sarebbe già tutta una lezione da fare, ai nostri giorni, quando la lettura diventa sempre più difficile, sempre meno praticata. I nostri ragazzi vedono, ma non leggono, ascoltano caso mai. Gli Ebrei non chiamano la Bibbia « scrittura » come noi; la chiamano migra’, che vuol dire « la lettura »; è la stessa radice della parola quran, il Corano è la « lettura » generosa.
Spiegare. Comporta l’esegesi. «Senza la penetrazione nelle parole, nel senso delle parole, come posso capire la Parola?». Questa è una frase di Massimo il Confessore, un mistico palestinese, nato sulle alture del Golàn, da un padre samaritano e da una madre che era una schiava persiana; nato nella terra di Gesù, poi farà una fine che è emblematica anche per il maestro: gli taglieranno la lingua e la mano destra, i due elementi della parola e dell’azione, per punire lui annunciatore della verità del vangelo. Massimo il Confessore, che è forse l’ultimo dei Padri greci, diceva dunque: «Se tu non conosci le parole, come puoi conoscere la Parola?». Spiegare! Spezziamo una lancia a favore dello studio serio della Parola, contro le tentazioni pentecostal-misticheggianti, contro certe forme carismatiche (quel dire: « Prendi la Parola e come risuona leggi e pratica », può portare al fondamentalismo).
Comprendere. Il « comprendere » biblico, come diceva giustamente Maritain, è una «connaissance savoureuse», una conoscenza saporosa. Il conoscere biblico, come anche l’ »amare », è appunto una conoscenza circolare, simbolica. Dunque, tre parole-stelle nella prima linea: leggere, spiegare, comprendere; le altre quattro sono invece nella linea esistenziale.
Ascoltare. «Essi ascoltavano, porgevano l’orecchio». Nella Bibbia lo stesso verbo shama’ indica sia « ascoltare » che « obbedire ». Quindi shema’ Israel non è soltanto « ascolta, Israele! », ma anche « aderisci! ». «Adonài elohénu adonài ehàd» (il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo) è non soltanto una conoscenza di tipo intellettivo, ma è la scoperta di una relazione (cf Dt 6,4ss). È per questo che «lo amerai con tutto il cuore…». Amerai viene subito dopo ascoltare. Per questo nel Salmo 40 si dice letteralmente (versetto 7): «Tu mi hai forato l’orecchio», come si fa allo schiavo; io sono il tuo schiavo, ho l’orecchio forato, nel senso che aderisco completamente a te.
Gli occhi si colmano di lacrime: gli ascoltatori si mettono a piangere, cioè si convertono. La parola di Dio ti fa piangere i tuoi peccati. Ecco un altro elemento prodotto da una vera lezione: essa inquieta le coscienze; la Parola di Dio artiglia l’anima, altrimenti è una semplice informazione. Lo scrittore ultra-novantenne Julien Green affermava: «Se io dovessi riassumere tutto quello che ho scritto, lo esprimerei con questa frase: « Finché si è inquieti, si può stare tranquilli »». Finché c’è questa inquietudine, che è quella agostiniana (« inquietum est cor nostrum »), allora si può stare in pace.
Le mani portano delle porzioni di cibo ai poveri. La lezione che ricevo dalla Parola di Dio mi costringe ad andare verso i miseri, ad offrire il pane della Parola e anche il pane reale.
La festa, la liturgia delle Capanne, la terza festa ebraica. Cioè il grande, ultimo insegnamento lo si ha nella liturgia.
Dunque, sette parole: leggere, spiegare, comprendere; ascoltare, piangere, donare, celebrare. Tale è la traiettoria all’insegnamento compiuto nell’interno della comunità ecclesiale attraverso i vari ministeri dell’annunzio. (torna al sommario)

c) Pedagogia globale

La pedagogia biblica è una pedagogia globale. Non è un processo solo intellettuale. Facciamo una breve annotazione filologica. Lamàd, insegnare, è il verbo fondamentale del maestro. O meglio, lamàd non vuol dire insegnare, ma « imparare ». Però, curiosamente, nella forma intensiva, limmed, diventa « insegnare ». La stessa radice non distingue tra imparare e insegnare. E questo stabilisce un circuito. Il vero maestro è uno che impara anche, e il vero discepolo alla fine è capace di insegnare. Se il circuito non si chiude, non si ha un vero magistero. Il maestro, che non è attento al discepolo, è di sua natura condannato alla solitudine, alla torre d’avorio della sua elaborazione, ma non lascerà traccia. Per chi è abituato a parlare spesso in pubblico, una delle componenti fondamentali, anche tecniche, è di vedere e capire se l’ambiente è colmo di risonanza, se è in ascolto. Altrimenti si va avanti nel parlare, ma l’altro non dialoga. Insegnare è dialogare. Anche se l’altro tace. Ci si deve accorgere di entrare nell’interno della comunicazione, grazie anche alle domande presentate dall’altro. Oscar Wilde diceva: «A dare le risposte sono capaci tutti; per fare le vere domande ci vuole un genio». Ed è verissimo. Le grandi domande, che fanno andare avanti nella conoscenza, le pongono soltanto i geni. E di fatto la domanda, anche graficamente, noi la esprimiamo non con l’esclamazione, che è una linea retta, ma con qualcosa che si aggroviglia in sé, che quindi lacera, che artiglia, che fa sanguinare.

Un altro verbo ricorrente nella pedagogia biblica è jaràh; jaràh-torah, il quale indica un insegnamento che è « via e vita », come abbiamo già visto.

Ancora: jasàr, donde deriva il sostantivo musàr, significa la « disciplina », cioè l’impegno severo, ascetico del conoscere. Per essere veramente maestri bisogna avere la pazienza di stare ore e ore nello studio, nella fatica.

E da ultimo il verbo jada’ che vuol dire « conoscere » e implica tutte le dimensioni, la globalità simbolica dell’insegnamento biblico. Comprende l’aspetto intellettivo, l’aspetto affettivo (sentimento), l’aspetto volitivo (volere), l’aspetto effettivo. « Conoscere » indica persino l’atto sessuale. Perché si conosce anche con la passione e l’azione, con la comunione dei corpi, si conosce con la convivenza, si conosce con l’azione, costruendo insieme un progetto.

Concludendo la parabola anticotestamentaria dell’insegnare, occorre dire una cosa un po’ paradossale: scopo del maestro è rendersi inutile. L’abbiamo già visto, ma ora va detto in maniera più forte, ricorrendo alla dimensione escatologica. Negli ultimi tempi il maestro non ci sarà più, perché ci sarà un Maestro interiore. Vi è una intensa frase nel vangelo di Giovanni (6,45), che cita Isaia 54,13: «Sta scritto nei profeti: « E tutti saranno theodidàktoi, ammaestrati da Dio ». Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me». Non ci sono più i mediatori. « È il Padre che ti parla e tu vieni a me », dice il Signore. Il testo di Isaia in ebraico (Giovanni cita il greco nella traduzione dei LXX) dice esattamente: «Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore». Bella definizione della comunità escatologica: tutti saranno « discepoli » del Signore.

Più rilevante ancora è l’oracolo di Geremia (31,31-34) sulla « nuova alleanza », il più celebre di tutti gli oracoli profetici, che costituisce anche la citazione più lunga dell’Antico Testamento nel Nuovo, in Ebrei 8,8-12. Come sarà la grande, perfetta alleanza del nuovo Sinai? Come sarà il momento in cui noi avremo una comunità che sarà completamente in comunione con Dio? Ecco la risposta di Geremia: «Porrò io la mia torah nel loro animo; la scriverò sul loro cuore. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri»: non ci sarà più il maestro, il sacerdote, il profeta, il sapiente che dovrà dire all’altro: « Riconoscete il Signore ». «Perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande».

Santità pneumatico-paolina del sacerdote

dal sito:

http://www.cantalamessa.org/it/articoloView.php?id=37

Santità pneumatico-paolina del sacerdote 
 
2004-10-20- Convegno internazionale dei sacerdoti-Malta 

“Per la pedagogia della santità –ha scritto Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte- c’è bisogno di un cristianesimo che si distingua innanzitutto nell’arte della preghiera… Le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche scuole di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti…Alla preghiera sono in particolare chiamati quei fedeli che hanno avuto il dono della vocazione ad una vita di speciale consacrazione: questa li rende, per sua natura, più disponibili all’esperienza contemplativa, ed è importante che essi la coltivino con generoso impegno…Occorre allora che l’educazione alla preghiera diventi in qualche modo un punto qualificante di ogni programmazione pastorale”[1] .

La preghiera è il mezzo universale e indispensabile per avanzare su tutti i fronti nel cammino di santità. “Se vuoi cominciare a possedere la luce di Dio, dice la B. Angela da Foligno, prega; se sei già impegnato nella salita della perfezione e vuoi che questa luce in te aumenti, prega; se vuoi la fede, prega; se vuoi la speranza, prega; se vuoi la carità, prega; se vuoi la povertà, prega; se vuoi l’obbedienza, la castità, l’umiltà, la mansuetudine, la fortezza, prega. Qualunque virtù tu desideri, prega…Quanto più sei tentato, tanto più persevera nella preghiera… La preghiera infatti ti dà luce, ti libera dalle tentazioni, ti fa puro, ti unisce a Dio” [2] . Agostino dice: “Ama e fa ciò che vuoi” [3] ; con altrettanta verità possiamo dire: “Prega e fa ciò che vuoi”.

Attenendomi al tema assegnatomi “Santità pneumatico-paolina del sacerdote”, in questa meditazione vorrei esporre l’insegnamento dell’Apostolo sulla preghiera, facendo, al termine, qualche applicazione più specifica alla vita del sacerdote. Noi infatti, ci ricorda lo stesso S. Agostino, “per”gli altri siamo sacerdoti e vescovi, ma “con” gli altri siamo dei cristiani [4] .

1. Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza

Nel capitolo ottavo della Lettera ai Romani l’Apostolo mette in luce le operazioni più importanti dello Spirito Santo nella vita del cristiano e tra esse, in primissimo piano, figura la preghiera. Lo Spirito Santo, principio di vita nuova, è anche, di conseguenza, principio di preghiera nuova. Partiamo dai due versetti più attinenti al nostro tema:

“Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” (Rm 8, 26-27).

San Paolo afferma che lo Spirito intercede per “con gemiti inesprimibili”. Se potessimo scoprire per che cosa e come prega lo Spirito nel cuore del credente, avremmo scoperto il segreto stesso della preghiera. Ora, a me sembra che questo sia possibile. Lo Spirito infatti che prega in noi segretamente e senza strepito di parole è lo stesso identico Spirito che ha pregato a chiare lettere nella Scrittura. Egli che ha “ispirato” le pagine della Scrittura, ha anche ispirato le preghiere che leggiamo nella Scrittura.

Se è vero che lo Spirito Santo continua a parlare oggi nella Chiesa e nelle anime, dicendo, in modo sempre nuovo, le stesse cose che ha detto “per mezzo dei profeti” nelle sacre Scritture, è vero anche che egli prega oggi, nella Chiesa e nelle anime, come ha insegnato a pregare nella Scrittura. Lo Spirito Santo non ha due preghiere diverse. Noi dobbiamo, dunque, andare a scuola di preghiera dalla Bibbia, per imparare ad “accordarci” con lo Spirito e pregare come prega lui.

Quali sono i sentimenti dell’orante biblico? Cerchiamo di scoprirlo attraverso la preghiera dei grandi amici di Dio: Abramo, Mosè, Geremia, i salmisti. La prima cosa che colpisce in questi oranti “ispirati” è la grande libertà e l’incredibile ardimento con cui dialogano con Dio. Niente di quel servilismo che gli uomini sono soliti associare alla parola “preghiera”.

Conosciamo bene la preghiera di Abramo a favore di Sodoma e Gomorra (cf Gn 18, 22 ss). Abramo comincia dicendo: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio?”, come per dire: non posso credere che tu vorrai fare una cosa del genere! A ogni successiva richiesta di perdono, Abramo ripete: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore!”. La sua supplica è “ardita” e lui stesso se ne rende conto. Ma è che Abramo è l’“amico di Dio” (Is 41, 8) e tra amici si sa fin dove ci si può spingere.

Mosè va ancora più lontano nel suo ardimento. Dopo che il popolo si è costruito il vitello d’oro, Dio dice a Mosè che è sul monte a pregare: “Scendi in fretta di qui perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dall’Egitto, si è traviato”. Mosè risponde dicendo: “Al contrario, essi sono il tuo popolo, la tua eredità, che tu hai fatto uscire dall’Egitto” (Dt 9, 12.29; cf Es 32, 7.11). La tradizione rabbinica ha colto bene il sottinteso che c’è nelle parole di Mosè: “Quando questo popolo ti è fedele, allora esso è il “tuo” popolo che “tu” hai fatto uscire dal paese d’Egitto; quando ti è infedele, allora esso diventa il “mio” popolo che “io” ho fatto uscire dall’Egitto?”. A questo punto Dio ricorre all’arma della seduzione; fa balenare davanti al suo servo l’idea che, una volta distrutto il popolo ribelle, farà di lui “una grande nazione” (Es 32, 10). Mosè risponde facendo ricorso a un piccolo ricatto; dice a Dio: Attento, perché, se distruggi questo popolo, si dirà in giro che l’hai fatto perché non eri in grado di introdurlo nella terra che avevi loro promesso! “E Dio abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo” (cf Es 32, 12; Dt 9, 28).

Geremia arriva alla protesta esplicita e grida a Dio: “Mi hai sedotto”, e: “Non penserò più a lui non parlerò più in suo nome!” (Ger 20, 7.9). Se poi guardiamo ai salmi, si direbbe che Dio non fa che mettere sulle labbra dell’uomo le parole più efficaci per lamentarsi con lui. Il Salterio è di fatto un intreccio unico tra la lode più sublime e il lamento più accorato. Dio è chiamato spesso apertamente in causa: “Dèstati, perché dormi Signore?”, “Dove sono le tue promesse di un tempo?”, “Perché te ne stai lontano e ti nascondi nel tempo della sventura?”, “Tu ci tratti come pecore da macello!”, “Non essere sordo, Signore!”, “Fino a quando starai a guardare?”.

Come si spiega tutto questo? Dio spinge forse l’uomo all’irriverenza verso di lui, dal momento che, in ultima analisi, è lui che ispira e approva questo tipo di preghiera? La risposta è: tutto questo è possibile perché nell’uomo biblico è al sicuro il rapporto creaturale con Dio. L’orante biblico è così intimamente pervaso dal senso della maestà e santità di Dio, così totalmente sottomesso a lui, Dio è così “Dio” per lui, che, sulla base di questo dato pacifico, tutto riposa al sicuro. La sua preghiera preferita, nel tempo della prova, è sempre la stessa: “Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto, tutte le tue opere sono vere, rette le tue vie e giusti i tuoi giudizi [...] poiché noi abbiamo peccato” (Dn 3, 28 ss; cf Dt 32, 4 ss). “Tu sei giusto, Signore!”: dopo queste tre o quattro parole – dice Dio – l’uomo può dirmi ciò che vuole: io sono disarmato!

La spiegazione, insomma, è nel cuore con cui questi uomini pregano. Nel bel mezzo delle sue preghiere tempestose, Geremia rivela il segreto che rimette tutto a posto: “Ma tu, Signore mi conosci, mi vedi; tu provi che il mio cuore è con te!” (Ger 12, 3). Anche i salmisti intercalano, ai loro lamenti, espressioni analoghe di fedeltà assoluta: “Ma la roccia del mio cuore è Dio!” (Sal 73, 26).

La qualità della preghiera biblica emerge anche dal contrasto con quella degli ipocriti. Questi, dicono i profeti (cf. Ger 12,2; Is 29,13), hanno la bocca tutta per Dio, ma il cuore lontano da lui; i veri amici hanno, al contrario, il cuore tutto per Dio e la bocca, a tratti, contro Dio nel senso che non nascondono lo sconcerto di fronte al mistero del suo agire e, come Giobbe, si lasciano sfuggire parole di duro lamento.

2. La preghiera di Gesù

Ma se è importante conoscere come lo Spirito ha pregato in Abramo, in Mosè, in Geremia e nei salmi, è immensamente più importante conoscere come ha pregato in Gesù, perché è lo Spirito di Gesù che ora prega in noi con gemiti inesprimibili. In Cristo è portata alla perfezione quell’interiore adesione del cuore e di tutto l’essere a Dio che costituisce, come si è visto, il segreto biblico della preghiera. Il Padre lo esaudiva sempre, perché egli faceva sempre le cose che gli erano gradite (cf Gv 4, 34; 11, 42); lo esaudiva “per la sua pietà”, cioè per la sua obbedienza e filiale sottomissione (cf Eb 5,7).

La parola di Dio, culminante nella vita di Gesù, ci insegna, dunque, che la cosa più importante della preghiera non è ciò che si dice, ma ciò che si è; non ciò che si ha sulle labbra, ma ciò che si ha nel cuore. Non è tanto nell’oggetto quanto nel soggetto. Anche per Agostino, il problema fondamentale non è sapere “cosa dici nella preghiera”, quid ores, ma “come sei nel pregare”, qualis ores [5] . La preghiera, come l’agire, “segue l’essere”. La novità recata dallo Spirito Santo, nella vita di preghiera, consiste nel fatto che egli riforma, appunto, l’“essere” dell’orante; suscita l’uomo nuovo, l’uomo amico di Dio; toglie da lui il cuore pieno di paure e interessato dello schiavo e gli da un cuore di figlio.

Venendo in noi, lo Spirito non si limita a insegnarci come bisogna pregare, ma prega in noi, come – a proposito della legge – egli non si limita a dirci cosa dobbiamo fare, ma lo fa con noi. Lo Spirito non dà una legge di preghiera, ma una grazia di preghiera. La preghiera biblica non viene dunque a noi, primariamente, per apprendimento esteriore e analitico, cioè in quanto cerchiamo di imitare gli atteggiamenti che abbiamo riscontrati in Abramo, in Mosè, in Giobbe e nello stesso Gesù (anche se tutto ciò sarà, esso pure, necessario e richiesto in un secondo momento), ma viene a noi per infusione, come dono.

Questa è l’incredibile “buona notizia” a proposito della preghiera cristiana! Viene a noi il principio stesso di tale preghiera nuova e tale principio consiste nel fatto che “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6). Questo vuol dire pregare “nello Spirito”, o “mediante lo Spirito” (cf Ef 6, 18; Gd 20).

Anche nella preghiera, come in tutto il resto, lo Spirito “non parla da sé”, non dice cose nuove e diverse; semplicemente, egli risuscita e attualizza, nel cuore dei credenti, la preghiera di Gesù. “Egli prenderà del mio e ve lo annunzierà”, dice Gesù del Paraclito (Gv 16, 14): prenderà la mia preghiera e la darà a voi. In forza di ciò, noi possiamo esclamare con tutta verità: “Non sono più io che prego, ma Cristo prega in me!”. “Il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, scrive Agostino, è colui che prega per noi, che prega in noi e che è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui la nostra voce, e in noi la sua voce” [6] .
Il grido stesso Abbà! dimostra che chi prega in noi, attraverso lo Spirito, è Gesù, il Figlio unico di Dio. Per se stesso, infatti, lo Spirito Santo non potrebbe rivolgersi a Dio, chiamandolo Padre, perché egli non è “generato”, ma soltanto “procede” dal Padre. Quando ci insegna a gridare Abbà! lo Spirito Santo – diceva un autore antico – “si comporta come una madre che insegna al proprio bambino a dire “papà” e ripete tale nome con lui, finché lo porta all’abitudine di chiamare il padre anche nel sonno” [7] . La madre non potrebbe rivolgersi al suo sposo chiamandolo “papà” perché è sua moglie non sua figlia; se lo fa è perché parla a nome del suo bambino e si identifica con lui.

Qualcuno si è chiesto come mai nel “Padre nostro” non viene nominato lo Spirito Santo; nell’antichità ci fu perfino chi cercò di colmare questa lacuna, aggiungendo in alcuni codici, dopo l’invocazione per il pane quotidiano, le parole: “lo Spirito Santo venga su di noi e ci purifichi”. Ma è più semplice pensare che lo Spirito Santo non è tra le cose chieste perché è colui che le chiede. “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6). È lo Spirito Santo che intona ogni volta in noi il “Padre nostro”; senza di lui grida a vuoto “Abbà!” chiunque lo grida.

3. Il respiro trinitario della preghiera cristiana

È lo Spirito Santo che infonde, dunque, nel cuore il sentimento della figliolanza divina, che ci fa sentire (non soltanto sapere!) figli di Dio: “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8, 16). A volte questa operazione fondamentale dello Spirito si realizza nella vita di una persona in modo repentino e intenso e allora se ne può contemplare tutto lo splendore. L’anima è inondata di una luce nuova, nella quale Dio le si rivela, in un modo nuovo, come Padre. Si fa esperienza di cosa vuol dire veramente la paternità di Dio; il cuore si intenerisce e la persona ha la sensazione di rinascere da questa esperienza. Dentro di lei appare una grande confidenza e un senso mai provato della condiscendenza di Dio che, a tratti, si alterna con il sentimento altrettanto vivo della sua infinita grandezza, trascendenza e santità. Dio appare davvero “il mistero tremendo e affascinante” che ispira, nello stesso tempo, somma fiducia e riverente timore. La preghiera del cristiano si risolve tutta, in questi momenti, in “commossa gratitudine”.

Quando san Paolo parla del momento in cui lo Spirito irrompe nel cuore del credente e gli fa gridare: “Abbà Padre!”, allude a questo modo di gridarlo, a questa ripercussione di tutto l’essere, nel grado più alto. Così avveniva in Gesù quando, “in un impeto di esultanza nello Spirito Santo”, esclamava : “Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra” (Lc 10, 21).

Non bisogna però illudersi. Questo modo vivido di conoscere il Padre di solito non dura a lungo; ritorna presto il tempo in cui il credente dice “Abbà!”, senza “sentire” nulla, e continua a ripeterlo solo sulla parola di Gesù. È il momento, allora, di ricordare che quanto meno quel grido rende felice chi lo pronuncia, tanto più rende felice il Padre che lo ascolta, perché fatto di pura fede e di abbandono.

Noi siamo, allora, come Beethoven. Divenuto sordo, egli continuava a comporre splendide sinfonie, senza poter gustare il suono di alcuna nota. Quando fu eseguita per la prima volta la sua Nona sinfonia, terminato l’inno finale alla gioia, il pubblico esplose in un uragano di applausi e qualcuno dell’orchestra dovette tirare il maestro per il lembo della giacca perché si voltasse a ringraziare. Lui non aveva gustato nulla della sua musica, ma il pubblico era in delirio. La sordità, anziché spegnere la sua musica, la rese più pura e così fa anche l’aridità con la nostra preghiera.

E proprio in questo tempo di “assenza” di Dio e di aridità spirituale che si scopre tutta l’importanza dello Spirito Santo per la nostra vita di preghiera. Egli, da noi non visto e non sentito, riempie le nostre parole e i nostri gemiti, di desiderio di Dio, di umiltà, di amore, “e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito”. Noi non lo sappiamo, ma lui sì! Lo Spirito diviene, allora, la forza della nostra preghiera “debole”, la luce della nostra preghiera spenta; in una parola, l’anima della nostra preghiera. Davvero, egli “irriga ciò che è arido” (rigat quod est aridum), come diciamo nella sequenza in suo onore.

Tutto questo avviene per fede. Basta che io dica o pensi: “Padre, tu mi hai donato lo Spirito di Gesù; formando, perciò, un solo Spirito con Gesù, io recito questo salmo, celebro questa santa Messa, o sto semplicemente in silenzio alla tua presenza. Voglio darti quella gloria e quella gioia che ti darebbe Gesù, se fosse lui a pregarti ancora di persona dalla terra”.

Da tutto ciò emerge la caratteristica unica della preghiera cristiana che la distingue da ogni altra forma di preghiera. Ispirandoci a un’espressione della B. Angela da Foligno, potremmo dire che pregare significa “raccogliersi in unità e inabissare la propria anima nell’infinito che è Dio” [8] . Nella preghiera si attuano così i due movimenti più propri dello spirito umano che sono rientrare in se stesso e uscire da se stesso.

Al centro di ogni essere umano c’è un punto di unità e di verità che chiamiamo cuore, coscienza, io profondo, centro della personalità o con altri nomi ancora. È più facile conoscere ed entrare in contatto con il mondo intero fuori di noi che non giungere a questo centro di noi stessi, come è più facile, per gli scienziati, inviare sonde su Marte ed esplorare gli spazi interplanetari che esplorare cosa c’è, a poche migliaia di chilometri da noi, al centro della terra, dove nessuno infatti è mai arrivato. La preghiera, quando è autentica, permette anche ai più semplici, di attingere questo traguardo: ci raccoglie in unità, ci mette in contatto con il nostro io più profondo. La persona non è mai se stessa come quando prega.

Appena però l’essere umano si raccoglie in sé, si accorge che non basta a se stesso, sperimenta il limite e il bisogno di superarlo, di evadere verso spazi meno angusti. A volte prendere coscienza di quello che siamo in verità, ci può incutere perfino spavento…La preghiera è l’unica a offrire alla creatura umana la possibilità di superare il suo limite. Essa le permette di “inabissare la propria anima nell’infinito che è Dio”. La persona che ha anche un attimo solo di vera preghiera sente di poter far sue le parole di Leopardi nell’Infinito: “Il naufragar m’è dolce in questo mare”.

In ciò si rivela la differenza della preghiera cristiana rispetto a forme di preghiera e di meditazione di altra provenienza: yoga, meditazione trascendentale, enneagramma… Queste tecniche di concentrazione possono essere di aiuto per realizzare il primo dei due movimenti della preghiera – quello verso il centro di sé -, ma sono impotenti a realizzare il secondo movimento, quello dall’io a Dio. Per questo contatto con un Dio personale, “totalmente Altro” dal mondo, noi cristiani crediamo che non c’è altra via che lo Spirito di colui che ha detto: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.

4. “Dammi ciò che mi comandi!”

C’è in noi, a causa di tutto ciò, come una vena segreta di preghiera. Parlando di essa, il martire sant’Ignazio d’Antiochia, scriveva: “Sento in me un’acqua viva che mormora e dice: Vieni al Padre!” [9] . Cosa non si fa, in alcuni paesi afflitti da siccità, quando, da certi indizi, si scopre che c’è, nel terreno sottostante, una vena d’acqua: non si smette di scavare, finché quella vena non è stata raggiunta e portata alla superficie.

Io stesso mi trovavo una volta in Africa, in un villaggio dove l’acqua da sempre era qualcosa di prezioso che le donne andavano a cercare lontano e portavano a casa con poveri recipienti appoggiati sulla testa. Un missionario che aveva il dono di “sentire” la presenza dell’acqua aveva detto che ci doveva essere una vena d’acqua che passava sotto il villaggio e si stava scavando un pozzo. La sera del mio arrivo si stava rimuovendo l’ultimo strato di terra, dopo di che si sarebbe visto se c’era o no acqua. C’era! Agli abitanti del villaggio sembrò un miracolo e fecero festa danzando tutta la notte al suono di tamburi. L’acqua scorreva sotto le loro case e non lo si sapeva! Per me era un’immagine di ciò che capita a noi a proposito della preghiera. Vi sono cristiani che si recano fino all’estremo oriente per imparare a pregare; non hanno ancora scoperto di avere in se, per il battesimo, la sorgente stessa della preghiera.

Questa vena interiore di preghiera, costituita dalla presenza dello Spirito di Cristo in noi, non vivifica soltanto la preghiera di petizione, ma rende viva e vera ogni altra forma di preghiera: quella di lode, quella spontanea, quella liturgica. Soprattutto, direi, quella liturgica. Infatti, quando noi preghiamo spontaneamente, con parole nostre, è lo Spirito che fa sua la nostra preghiera, ma quando preghiamo con le parole della Bibbia o della liturgia, siamo noi che facciamo nostra la preghiera dello Spirito, ed è cosa più sicura. Anche la preghiera silenziosa di contemplazione e di adorazione trova un incalcolabile giovamento a essere fatta “nello Spirito”. Questo è ciò che Gesù chiamava “adorare il Padre in Spirito e verità” (Gv 4, 23).

La capacità di pregare “nello Spirito” è la nostra grande risorsa. Molti cristiani, anche veramente impegnati, sperimentano la loro impotenza di fronte alle tentazioni e l’impossibilità di adeguarsi alle esigenze altissime della morale evangelica e concludono, talvolta, che è impossibile vivere integralmente la vita cristiana. In un certo senso, hanno ragione. È impossibile, infatti, da soli, evitare il peccato; ci occorre la grazia; ma anche la grazia – ci viene insegnato – è gratuita e non la si può meritare. Che fare allora: disperarsi, arrendersi? Risponde il concilio di Trento: “Dio, dandoti la grazia, ti comanda di fare ciò che puoi e di chiedere ciò che non puoi” [10] . Quando uno ha fatto tutto quanto sta in lui e non è riuscito, gli resta pur sempre una possibilità: pregare e, se ha già pregato, pregare ancora!

La differenza tra l’antica e la nuova alleanza consiste proprio in questo: nella legge, Dio comanda, dicendo all’uomo: “Fa’ quello che ti comando!”; nella grazia, l’uomo domanda, dicendo a Dio: “Dammi quello che mi comandi!”. Una volta scoperto questo segreto, sant’Agostino, che fino allora aveva combattuto inutilmente per riuscire a essere casto, cambiò metodo e anziché lottare con il suo corpo, cominciò a lottare con Dio; disse: “O Dio, tu mi comandi di essere casto; ebbene, dammi ciò che mi comandi e poi comandami ciò che vuoi!” [11] .E ottenne la castità!

5. Il sacerdote maestro di preghiera

Nella Novo millennio ineunte il papa dice che la santità è un “dono” che si traduce in “compito” [12] . Lo stesso si deve dire della preghiera: essa è un dono di grazia che crea però in chi lo riceve il dovere di corrispondervi, di coltivarlo. Di questo vorrei occuparmi nella seconda parte di questa meditazione: la preghiera come compito primario del sacerdote.

Se le comunità cristiane devono essere ”scuole di preghiera”, i sacerdoti che le guidano devono, di conseguenza, essere “maestri di preghiera”. Non posso, a questo proposito, trattenere un lamento. Un giorno gli apostoli dissero a Gesù: “Insegnaci a pregare”. Oggi tanti cristiani fanno silenziosamente al sacerdote e alla Chiesa la stessa richiesta: “Insegnaci a pregare!” Purtroppo in tante parrocchie si fa di tutto; ci sono iniziative di ogni genere, per i giovani, gli anziani, gruppi per lo sport, le gite, il tempo libero…, ma niente che invogli e aiuti la gente a pregare.

Spesso chi avverte questo bisogno di spiritualità è indotto a cercare al di fuori di Cristo, in forme di spiritualità esoteriche e orientaleggianti, di cui ho messo in rilievo sopra il limite intrinseco per un cristiano. “Non è forse un ‘segno dei tempi’ –prosegue il papa nella sua lettera apostolica – che si registri oggi, nel mondo, nonostante gli ampi processi di secolarizzazione, una diffusa esigenza di spiritualità, che in gran parte si esprime proprio in un rinnovato bisogno di preghiera? Anche le altre religioni, ormai ampiamente presenti nei Paesi di antica cristianizzazione, offrono le proprie risposte a questo bisogno, e lo fanno talvolta con modalità accattivanti. Noi che abbiamo la grazia di credere in Cristo, rivelatore del Padre e Salvatore del mondo, abbiamo il dovere di mostrare a quali profondità possa portare il rapporto con lui” [13] .

Nessuno può insegnare ad altri a pregare se non è lui stesso un uomo di preghiera e qui tocchiamo il punto nevralgico. Ricordiamo ciò che dice Pietro in occasione della prima ripartizione dei ministeri fatta in seno alla comunità cristiana: “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense…Noi ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola” (At 6, 2-4). Se ne deduce che il pastore può delegare ad altri tutto, o quasi tutto, nella conduzione della comunità, eccetto la preghiera.

Può essere di grande sostegno a un pastore, in questo campo, avere intorno a sé quello che santa Caterina da Siena chiamava “un muro di preghiera”, formato da anime desiderose del bene della Chiesa [14] . Ne abbiamo un esempio negli Atti degli apostoli. Pietro e Giovanni sono rilasciati dal Sinedrio con l’ingiunzione di non parlare più nel nome di Cristo. Se ignorano il comando espongono tutta la comunità a rappresaglie, se obbediscono tradiscono il mandato di Cristo. Non sanno che fare. È la preghiera della comunità che permette di superare la grave crisi. La cpmunità si mette in preghiera; uno legge un salmo, un altro ha il dono di applicarlo alla situazione presente; si determina un clima di intensa fede; avviene come una replica della Pentecoste e gli apostoli, pieni di Spirito Santo, riprendono ad annunciare “con parresia” il messaggio di salvezza (cf Atti 4, 23-31).
Noi conosciamo di solito due forme fondamentali di preghiera: la preghiera liturgica e la preghiera privata o personale. La preghiera liturgica è comunitaria, ma non spontanea, nel senso che in essa ci si deve attenere a parole e formule stabilite e uguali per tutti. La preghiera personale è spontanea, ma non comunitaria. Esiste un terzo tipo di preghiera che è spontanea e comunitaria insieme: è la preghiera di gruppo, o il gruppo di preghiera. I “gruppi di preghiera”, di varia ispirazione, sono un segno dei tempi da accogliere con gratitudine, pur vigilando a che operino in modo sano e in umiltà all’interno della comunità

Questo è il tipo di preghiera a cui si riferisce Paolo quando scrive ai Corinzi: “Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle. Ma tutto si faccia per l’edificazione” (1 Cor 14,26); è quello che suppone anche il passo della Lettera agli Efesini: “Siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo “ (Ef 5,19-20).

6. Preghiera e azione pastorale

Una cosa soprattutto è necessario rinnovare nella vita del sacerdote ed è il rapporto tra preghiera e azione. Si deve passare da un rapporto di giustapposizione a un rapporto di subordinazione. Giustapposizione è quando prima si prega e poi si passa all’attività pastorale; subordinazione è quando prima si prega e poi si fa quello che il Signore ha mostrato in preghiera! Gli apostoli e i santi non pregavano semplicemente prima di fare qualcosa; pregavamo per conoscere cosa fare!

Per Gesú pregare e agire non erano due cose separate, o giustapposte; di notte egli pregava e poi di giorno eseguiva quello che aveva capito essere la volontà del Padre: “In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli” (Lc 6,12-13).

Se crediamo veramente che Dio governa la Chiesa con il suo Spirito e risponde alle preghiere, dovremmo prendere molto sul serio la preghiera che precede un incontro pastorale, una decisione importante; non accontentarci di recitare, in tutta fretta, una Ave Maria e fare un segno di croce per poi passare all’ordine del giorno, come se questo fosse la vera cosa seria.

A volte può sembrare che tutto continui come prima e che nessuna risposta sia emersa dalla preghiera, ma non è così. Pregando si è “presentata la questione a Dio” cf Es 18, 19); ci si è spogliati di ogni interesse personale e della pretesa di decidere da soli, si è dato a Dio la possibilità di intervenire, di far capire qual è la sua volontà. Qualunque sia la decisione che si prenderà in seguito sarà quella giusta davanti a Dio. Spesso facciamo l’esperienza che più è il tempo che dedichiamo alla preghiera su un problema, tanto meno è il tempo che occorre poi per risolverlo.

Molti sacerdoti possono testimoniare che la loro vita e il loro ministero sono cambiati a partire dal momento in cui hanno preso la decisione di mettere un’ora di preghiera personale al giorno nel loro orario, recintando, come con filo spinato, questo tempo sulla loro agenda per difenderlo da tutti e da tutto.

Un posto particolare deve occupare, nella vita del sacerdote, la preghiera di intercessione. Gesù ce ne da l’esempio con la sua “preghiera sacerdotale”. “Prego per loro, per coloro che mi hai dato. [...] Custodiscili nel tuo nome. Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Consacrali nella verità. [...] Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me…” (cf Gv 17, 9 ss). Gesù dedica relativamente poco spazio a pregare per sé (“Padre, glorifica il figlio tuo!”) e molto di più a pregare per gli altri, cioè a intercedere.

Dio è come un padre pietoso che ha il dovere di punire, ma che cerca tutte le possibili attenuanti per non doverlo fare ed è felice, in cuor suo, quando i fratelli del colpevole lo trattengono dal farlo. Se mancano queste braccia fraterne levate verso di lui, egli se ne lamenta nella Scrittura: “Egli ha visto che non c’era alcuno, si è meravigliato perché nessuno intercedeva” (Is 59, 16). Ezechiele ci trasmette questo lamento di Dio: “Io ho cercato fra loro un uomo che costruisse un muro e si ergesse sulla breccia di fronte a me, per difendere il paese perché io non lo devastassi, ma non l’ho trovato” (Ez 22, 30).

Quando, nella preghiera, noi sacerdoti sentiamo che Dio è in lite con il popolo che ci è stato affidato, non dobbiamo schierarci con Dio, ma con il popolo! Così fece Mosè, fino a protestare di voler essere radiato lui stesso, con loro, dal libro della vita (cf Es 32, 32), e la Bibbia fa capire che questo era proprio ciò che Dio desiderava, perché egli “abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo”.

Quando saremo davanti al popolo, allora dovremo, con tutta la forza, difendere i diritti di Dio. Solo chi ha difeso il popolo davanti a Dio e ha portato il peso del suo peccato, ha il diritto – e avrà il coraggio –, dopo, di gridare contro di esso, in difesa di Dio. Quando, scendendo dal monte, Mosè si trovò di fronte al popolo che aveva difeso sul monte, allora si accese la sua ira: frantumò il vitello d’oro, ne disperse la polvere nell’acqua e fece trangugiare l’acqua alla gente, gridando: “Così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente?” (cf. Es 32, 19 ss.; Dt 32, 6).

Ho ricordato alcuni “doveri” del sacerdote riguardo alla preghiera, ma non vorrei che l’idea di dovere rimanesse, al termine di questa riflessione, la nota dominante, facendoci dimenticare che essa è prima di tutto dono. Se ci sentiamo tanto al di sotto di questo modello del sacerdote “uomo di preghiera”, non dimentichiamo mai quello che ci ha assicurato S. Paolo all’inizio: “Lo Spirito Santo viene in aiuto della nostra debolezza”. Forti di tale parola, noi possiamo iniziare ogni mattina la nostra giornata di preghiera dicendo: “Spirito Santo vieni in aiuto della mia debolezza. Fammi pregare. Prega tu in me, con gemiti inesprimibili. Io dico Amen, sì a tutto ciò che tu chiedi per me al Padre nel nome di Gesú”.

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[1] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, 32-34.
[2] Il libro della B. Angela da Foligno, Quaracchi, Grottaferrata, 1985, p. 454 s.
[3] S. Agostino, Commento alla prima lettera di Giovanni, 7,8 (PL 35. 2023).
[4] S. Agostino, Sermoni, 340,1 (PL 38, 1483): “Vobis sum episcopus, vobiscum sum christianus”.
[5] Cf. S. Agostino, Lettere, 130, 4, 9 (CSEL 44, p.50).
[6] Agostino, Enarrationes in Psalmos 85, 1: CCL 39, p. 1176.
[7] Diadoco di Fotica, Capitoli sulla perfezione 61 (SCh 5 bis, p. 121).
[8] Il libro della B. Angela da Foligno, ed. Quaracchi, Grottaferrata 1985, p. 474 (“recolligere nos in Deo, scilicet totam animam in ista infinitate divina”).
[9] S. Ignazio d’Antiochia, Ai Romani 7, 2.
[10] Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, n. 1536.
[11] Agostino, Confessioni, X, 29.
[12] NMI, 30.
[13] NMI, 33.
[14] S. Caterina da Siena, Preghiere, 7. 

Salvati dalla croce di Cristo?

in questo studio/meditazione Paolo è presente nelle citazioni, lo propongo perché mi sembra comunque vicino al pensiero dell’Apostolo e … perché lo trovo bello:

http://www.taize.fr/IMG/pdf/Cahiers2_IT.pdf

I QUADERNI DI TAIZÉ 2

Frère Pierre-Yves

Salvati dalla croce di Cristo?

Come spiegare oggi il rapporto tra la morte del Cristo e il perdono dei peccati, il ricupero dei peccatori – insomma la “salvezza” come la chiama il Nuovo Testamento? Ci ripromettiamo una trattazione breve, una specie di concentrato essenziale. Faremo ricorso ad ogni tipo di fonti. L’originalità di questo quaderno consisterà nell’approccio, più precisamente nel modo di svolgere il tema, tappa per tappa. Diciamolo subito: la croce del Cristo non è separabile dalla sua risurrezione. Sono le due facce di un unico evento. Se la croce conduce alla liberazione, è a causa della Pasqua. Ma la Pasqua sarebbe un mito se il Risorto non fosse anche il Crocifisso. D’altronde è proprio dalla risurrezione che deve partire la fede, per scoprire in seguito che il cammino passa attraverso la croce; e, in un secondo momento, riconoscere che soltanto accettando nella propria vita la Passione del Crocifisso, si può accedere alla risurrezione. È l’insegnamento di San Paolo nella sua lettera agli Efesini (3,10-11). Ma non possiamo dire tutto in una sola volta, perciò concentreremo la nostra attenzione sulla morte del Cristo in croce. È, infatti, proprio tale morte e le sue conseguenze per noi che pongono tanti problemi a molte persone oggi. Perché ovunque nel Nuovo Testamento viene detto e ridetto che il Cristo muore “per noi”, “per i nostri peccati” e per liberarci da essi? E ancor prima, che cos’è mai il “peccato” per poter essere la causa del dramma della Passione? Ma prima di giungere al centro dell’argomento, occorre affrontare e superare quattro ostacoli.

Primo ostacolo:
Il termine “salvezza”

In effetti, l’annuncio della salvezza, questo termine così frequente nel Nuovo Testamento, sembra strano se non addirittura estraneo alla mentalità odierna. A meno che non ci si trovi dispersi in mare, chi invoca salvezza? Però non solo i Giudei dei tempi di Gesù, né soltanto i pagani divenuti cristiani, ma l’insieme dei popoli circostanti attendevano una salvezza. Il fatto suppone in effetti una certa concezione drammatica dell’esistenza. Che cosa pesava sul cuore della gente? La sensazione di essere in debito vero l’una o l’altra divinità? O l’impressione di essere alla ricerca di una giustizia personale con il timore di non raggiungerla? Oppure ancora il desiderio ardente di una vita che realizzi libertà e felicità, ma con la continua constatazione che esse sono fuori dalla portata umana? Insomma, un senso più o meno diffuso di cattiva coscienza, di infelicità, di fallimento, l’impressione di dover assolvere un compito difficile sotto  il quale si ha paura di soccombere. Sì, una concezione drammatica della vita.
Non è vero comunque che nella vita ci auguriamo per forza delle situazioni drammatiche; anzi tentiamo di evitarle. E tuttavia non viviamo forse inevitabilmente una certa dimensione drammatica quando cerchiamo di vivere con verità e di collocarci con un senso profondo di responsabilità nei confronti degli altri? Quanti rapporti umani difficili, quanti conflitti che non riusciamo a sanare e le cui conseguenze ci sfuggono. Senza tenere conto che non esiste alcuna comunione interpersonale, per profonda che sia, che riesca a superare la barriera di una certa opacità. Esiste dunque sempre una qualche dimensione drammatica dell’esistenza che occorre riconoscere e, se possibile, superare.
E oltre alle tribolazioni sempre presenti, o per lo meno incombenti in ogni esistenza, quanti fallimenti personali o collettivi, quanti tentativi abortiti, quante false speranze, dalle quali occorre riprendersi in qualche modo. E ancora, in ogni vita per poco cosciente di sé e poco esigente spiritualmente che sia, quante delusioni nel tentativo di perseguire una perfezione che sempre ci scappa di mano…
Di fronte a tutto questo la fede cristiana non è sprovveduta. La salvezza, per essa, non inizia sopprimendo il dramma interiore, ma con il collocarlo bene sia psicologicamente che spiritualmente. L’evoluzione del bambino può offrircene una parabola: partendo da un egocentrismo originario che afferra tutto per sé, egli è chiamato, tappa per tappa, ad entrare in rapporto con gli altri in maniera sempre meno simbiotica e sempre più gratuita ed a crescere in se stesso, a personalizzarsi, non gli altri malgrado, ma assieme a loro. Programma arduo, infinito…!
C’è pure nell’essere umano un desiderio di autosufficienza che falsa in partenza il suo desiderio di autonomia. Quest’ultima egli la sogna assoluta, come se egli fosse il centro unico dell’universo e come se Dio e gli altri fossero a servizio del suo assoluto, senza dipendenza né obblighi. Essere “come gli dei”, essere Dio in qualche modo (il Dio come ce lo immaginiamo noi, naturalmente). Con nel cuore un senso di rivolta contro ogni idea, essa pure immaginaria, di un Dio che pare voglia sottometterci alla sua onnipotenza. L’“onnipotenza”, ecco ancora un sogno fuori dalla realtà.
La realtà è invece che l’essere umano non diviene se stesso che ricevendosi dagli altri ed essenzialmente da Dio. La sua verità è l’essere in comunione, l’imparare ad amare in un modo che tenda a divenire oblativo. E ancor prima, la sua verità, la sua vocazione essenziale è entrare con Dio in una relazione di alleanza, in quel grande progetto per realizzare il quale ha creato il mondo e suscitato l’umanità e, in essa, ciascuno di noi. Di quell’alleanza siamo ardentemente invitati ad essere i partner felici e a scoprire quel Dio che nella parabola afferma: “Tutto ciò che è mio è tuo” (Luca 15,31).
Dio mi dona a me stesso, precisamente in quel movimento in cui mi offro a lui in risposta. Questa è la reciprocità dell’alleanza, destinata ad approfondirsi all’infinito. Così se la salvezza evoca innanzitutto una liberazione che Dio mi offre dalle forze negative che sono dentro di me, consiste però in ultima istanza in una comunione nuova o rinnovata.

Secondo ostacolo:
Che cos’è il “peccato” e qual è la sua relazione con la morte?

Qui mi esprimerò in prima persona, perché riflettendo sul peccato, posso solo pensare a me stesso. La salvezza degli altri, il loro peccato, il loro livello di responsabilità mi sfuggono e in ogni caso non sono affar mio: sono nascosti nel segreto di Dio. Ed io non vi posso speculare sopra, posso solo pregare per loro.
A proposito di peccato, non pensiamo in primo luogo a tale o tal’altra colpa morale. Il peccato si spiega, su di un piano spirituale, partendo da quella ricerca forsennata ed egoista di se stessi, da quella tendenza fondamentale dell’essere umano alla quale sono spesso incline a consentire: cose di cui abbiamo già parlato prima.
Il mio egocentrismo, dunque. Non quello del neonato, irresponsabile, ma quello che, coscientemente e volontariamente mi riconduce a me stesso e sul quale mi rinchiudo con soddisfazione, a dispetto di tutto quello che posso sapere di Dio, della sua alleanza e di quello che Egli s’aspetta da me per il mio massimo bene. Si tratta del modo con cui concepisco e realizzo il mio piacere a danno degli altri, dei loro diritti e delle loro legittime attese. Ancora: è la maniera con cui surrettiziamente occupo nella mia vita in ogni istante il primo posto, che invece dovrebbe essere il posto di Dio e dell’amore.
In altri termini, il peccato consiste, benché si manifesti in mille forme, in un rifiuto di solidarietà e di comunione, perché ad un certo momento rifiuto deliberatamente di pagarne il prezzo. In questo senso, occorre che mi rammenti che, per la Bibbia, il peccato consiste in primo luogo nel mancare il bersaglio, come fa un cattivo tiratore, dato che l’obiettivo è proprio quello di realizzarsi nella comunione. In rapporto con l’alleanza offertami da Dio, il mio peccato consiste nel tradire tale alleanza rifiutandone le esigenze. E simultaneamente nel tradire me stesso, la mia verità umana, la mia vera libertà et finire per perdermi lontano da Dio. Quale maledizione…
E ora s’impone il problema della morte. Che cos’è per me al di fuori della prospettiva dell’alleanza? Scegliere Dio non è forse per me, in definitiva, scegliere la vita?
Amare, dimenticando un po’ me stesso, non vuol forse dire scoprire la mia vocazione umana e crescere nella mia verità più personale? Fare mie le esigenze dell’amore non è forse trovare la sorgente della vera libertà? Di conseguenza, allontanarmi da Dio, evitare l’amore e le sue conseguenze, non significa proprio decidermi necessariamente e drammaticamente in favore della morte? Essa è, dice san Paolo, “il salario del peccato” (Romani 6,23). Constatiamone la conseguenza logica e necessaria: essa sigilla il fallimento dell’egocentrismo, il sogno dell’uomo di dipendere solo da sé e di avere in sé il suo fine. Essa è percepita come una sanzione, una punizione e, naturalmente, come un’ingiustizia, mentre vi dovremmo riconoscere la logica conseguenza finale della scelta che abbiamo fatto. In definitiva è la maledizione di chi, sapendolo, se ne va lontano da Dio, come Giuda che esce di notte e con un simile progetto nel cuore…E questo nonostante la mano che Gesù gli aveva teso. Il fatto è che Dio non ci rinchiude nella perdizione e non ha nessuna intenzione di trarne un qualche vantaggio. Egli moltiplica piuttosto i suoi appelli e le occasioni per rimetterci in carreggiata.
Al contrario, nella prospettiva dell’alleanza, la morte è da considerarsi come l’ultima tappa sulla terra verso la vittoria del Cristo, la realizzazione definitiva della Pasqua di colui che già s’era incamminato alla sequela del Cristo risorto. Egli lo vede diritto dinanzi a sé mentre gli viene incontro e, morendo grida (o mormora) con Stefano: “Signore Gesù, accogli il mio spirito” (Atti 7,59). Tutto ciò che la morte ha di drammatico, a causa di tutto quello che bisogna lasciare spogliandosi di quello che sostiene la nostra vita quaggiù, è come assorbito dalla vittoria di Cristo. Gesù non s’è rifiutato di affrontare il dramma della morte. Egli, l’uomo libero per
eccellenza sia verso Dio che verso gli uomini, si è reso solidale liberamente con tutti noi
fino ad accettare la maledizione della morte come un peccatore, condannatovi dai suoi
nemici. È stato forse Dio ad infliggergli un simile destino? Il Nuovo Testamento, in qualche frase sintetica, sembra talvolta affermarlo. No, quell’Altro che è il Padre affida all’amatissimo suo Figlio, con fiducia, la missione che soltanto lui avrebbe potuto portare a termine: raggiungere fino in fondo le sue creature sbandate. Ma durante la sua Passione e il suo cammino verso la croce, ben lungi dal subire la morte, Gesù ne fa il modo supremo per lui di riceversi e di donarsi al Padre e agli uomini. In questo consiste il senso della vita umana – riceversi, donarsi – e in questo consiste l’essere stesso del Figlio fin dall’eternità. Così la morte umana, in Gesù, rivela quello che da sempre sarebbe dovuta essere: la piena e definitiva consegna di sé al Creatore per poter accedere alla nuova creazione.

Terzo ostacolo:
Il termine “giustizia”

Siamo in molti ad aver sentito nelle lezioni di catechismo la spiegazione della croce come
giudizio di condanna da parte di Dio sull’umanità peccatrice. La misericordia di Dio sarebbe allora consistita nel far ricadere quel giudizio, ineluttabile e necessario, sul Cristo innocente, per risparmiare i peccatori. Questo sarebbe il prezzo da pagare per la giustizia.
Un teologo ortodosso, di fronte a una simile giustificazione della croce, si chiedeva come l’Occidente avesse potuto trasformare Dio in un padre così sadico. Si tratta proprio di una deriva occidentale. Si è sviluppata a partire dall’XI secolo, forse a causa dell’influenza esercitata dal diritto germanico sulla teologia. È stata ampiamente ripresa e trasmessa sia dalla tradizione cattolica che da quella protestante.
È difficile sapere se si possa trovare qualche indizio di una simile teoria nel Nuovo Testamento. Si sarebbe allora di fronte a un paradosso, e non c’è mai da guadagnarci a trasformare un paradosso in una realtà. Di fatto, la Passione è proprio un processo – un po’ contorto, per la verità – nel quale, per mezzo del suo Inviato, Dio s’impegna e prende posizione. Ma ci si è ampiamente sbagliati comprendendo il termine di “giustizia”, tanto frequente nel Nuovo Testamento, nel senso di una giustizia punitiva e distributiva, che rende colpo su colpo.
Assai vicina ai termini di misericordia, grazia e amore, la giustizia consiste innanzitutto, in tutta la Bibbia, in una correttezza di rapporti, un’armonia. La parola può, secondo i casi, tradursi con “salvezza” o “vittoria”. Nella sua giustizia, Dio, facendo grazia, “giustificando” l’autore del male, intende ristabilire con lui un rapporto felice e armonioso. E si aspetta dall’uomo perdonato un comportamento di giustizia e di santificazione che consisterà nell’armonizzare la sua vita con il progetto di vita che Dio ha per lui, il progetto chiamato alleanza. Dio spera nell’uomo “contro ogni speranza”.
Se la legge e i principi morali che si trovano numerosi nel Nuovo Testamento diventano un modo di giustificare noi stessi dinanzi a Dio, li storniamo dal loro scopo e prendiamo il posto di Dio, il quale è il solo a poter giustificare. L’obiettivo della legge e dei principi morali è quello di indicarci la strada in vista di ricevere la giustizia di Dio, di piacergli e di piacere a noi stessi in lui. Così, il Cristo in croce realizza in pieno la giustizia di Dio e la nostra giustizia. Manifesta quella di Dio giustificando il peccatore che si converte. E quella dell’uomo trascinandolo nella sua risposta perfetta di amore e nella sua entrata nella vita.

Quarto ostacolo:
la rappresentatività di Gesù

Qui ancora una volta, quello che sembrava comunemente accettato nella tradizione ebraica e in quella del Nuovo Testamento, crea problemi in questo tempo di forte individualismo. Al contrario dell’“ognuno per sé”, ogni essere umano era considerato come rappresentativo dell’umanità e l’umanità era intesa come un’unità, non astrattamente, ma secondo una realtà d’ordine spirituale. Oggi ci è difficile immaginarlo. Eppure noi facciamo alcune esperienze di grande solidarietà umana e di profonda comunione, durante le quali abbiamo la sensazione che l’umanità sia una e che ogni essere umano possa esserne un’immagine. Pensiamo a quanto rimaniamo colpiti quando una persona si offre per morire al posto di un’altra (come per esempio il padre Kolbe). Pensiamo a tanti uomini e donne che non esitano a rischiare la vita per gli altri; o più semplicemente che la offrono in servizio, come se appartenesse agli altri. Pensiamo
ancora alla sofferenza di alcune persone che ci tocca nel profondo come se fosse la nostra. Sono tutti casi in cui vediamo come l’umanità non si considera come una giustapposizione d’individui, ma tende verso un’unità di cui ogni essere umano è come il rappresentante. È in questo senso che frère Roger amava parlare della “famiglia umana”.
In questa prospettiva, Gesù, in una maniera unica e assoluta, è da confessarsi come l’Uomo per eccellenza. “Ecco l’uomo” è l’affermazione realissima che fece Pilato senza rendersene conto. Queste parole, in san Giovanni, hanno certamente due significati: Ecco il vostro uomo, l’individuo che mi avete condotto. E: ecco l’immagine dell’Uomo quale il Creatore dall’eternità l’aveva progettato, ecco il vero rappresentante di ogni essere umano agli occhi di Dio.
In effetti, considerando quanto Dio s’è preso a cuore le sorti dell’umanità facendosi vicino ad essa, non si capisce il perché dell’incarnazione e della Passione del Cristo se non si riconosce in lui il Figlio di Dio che si fa fratello di ciascuno di noi. Nostro fratello e, molto di più, nostro rappresentante davanti a Dio; si potrebbe anche dire meglio: la mia presenza quasi personale dinanzi a Dio. Si potrebbe dire che prende il nostro posto per vivere dinanzi a Dio un’esistenza umana che corrisponda in modo perfetto all’amore del Padre e che affronta al posto nostro la maledizione della morte. Ma, paradossalmente, Gesù prende il nostro posto senza togliercelo, anzi creando più spazio per noi.
Con la sua nascita umana, Gesù prende la mia vita su di sé per offrirmi la possibilità di partecipare alla sua: alla sua esistenza terrena fatta di libertà e obbedienza, alla sua croce dolorosa e vittoriosa, alla sua vita nell’eternità. Il dono di sé è in lui così grande di fronte alla maledizione della morte che la trasforma in benedizione per lui e per noi. Ecco che cosa egli è per me, per te, per noi. Ecco perché l’Apostolo parla del battesimo come del modo con cui il Padre, per mezzo dello Spirito Santo, ci aggancia all’esistenza umana di Gesù morto e risorto.
Si può dire che Dio realizzi una doppia identificazione, non psicologica, ma dell’ordine dell’essere. Da un lato il Cristo s’identifica veramente con ciascuno di noi; fa corpo unico col nostro destino al punto che san Paolo osa scrivere: “Il Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge (di una legge impossibile da realizzare) divenendo lui stesso maledizione, come è scritto: Maledetto colui che pende dal legno” (Gal 3,13; Deut 21,23). E ancora: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo ha fatto peccato per noi” (2 Cor 5,21) Un’espressione concisa per dire che si tratta del grande progetto di Dio al quale Gesù aderisce con tutto il suo essere: liberarci dal peccato. Sì, egli è me, è noi fino a quel punto!
Dall’altro lato, la nostra identificazione con lui si riassume forse nell’affermazione dell’Apostolo: “La nostra vita è ormai nascosta col Cristo in Dio” (Col 3,3). Un’anticipazione reale, anche se velata, di cui il cristiano aspetta la rivelazione piena. È come dire che, per la fede e nella speranza, Gesù risorto è il luogo, o meglio, l’essere in cui porre la nostra esistenza, in cui cercare il nostro vero inserimento.
Guardare il Cristo in croce è dunque per me, in verità e realtà, l’occasione di vedermi dinanzi a Dio come peccatore maledetto che merita la condanna, ma anche come figlio (o figlia) liberato e benedetto nel Figlio a causa dell’offerta di sé che egli ha fatto, in cui si esprime già tutto il dinamismo della Pasqua. Essa è l’offerta del Cristo nella quale anch’io sono trascinato ed è espressa in modo così forte nell’Eucaristia.

I quattro evangelisti

Che la Passione e la croce siano “per noi”, tutti i quattro evangelisti lo sanno e lo affermano: è questo ciò che Gesù intende far conoscere quando istituisce l’Eucaristia, profezia degli eventi che seguiranno poco dopo. Ma quel “per noi” ha un significato talmente pregnante che non si riesce a cogliere fino in fondo quando si cerca di chiarirlo.
Per Marco, il più antico dei quattro, sembra che l’essenziale si giochi attorno a due parole. Quella di Gesù: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Grido terribile di chi affronta la maledizione del peccatore. E quella dell’ufficiale incaricato di assistere all’esecuzione: « Veramente costui era Figlio di Dio”. Veramente la sua maniera di affrontare la morte rivela in lui il mistero del Figlio e la vicinanza del Padre.
In Matteo, si ritrovano le stesse due parole ma meno in rilievo. L’idea dell’evangelista è che nella morte del Crocifisso si compie il giudizio del mondo e si strappa il velo del luogo santissimo. Detto in altro modo, il giudizio finale è in lui anticipato; Gesù realizza nella sua Passione l’apocalisse. La storia è come compiuta e il Regno ha fatto irruzione. Certo, la storia continua, ma agli occhi di Dio essa è giunta al suo atto finale: “Tutto è compiuto”. Questo affinché, da quel momento, la nostra prospettiva (se lo vogliamo veramente) non è più il giudizio, ma la luce del Regno.
In Luca, sono riportate varie parole di Gesù: la sua preghiera per il perdono di coloro che lo crocifiggono (e chi, poco o tanto, non fa parte di quel gruppo?), la sua promessa al buon ladrone di accoglierlo subito in paradiso, la preghiera di affidamento al Padre. Tutto ciò va nella stessa direzione: Gesù fa della sua morte non solo una preghiera per il perdono, ma l’esaudimento stesso di tale preghiera, il perdono stesso di Dio.
In Giovanni, l’accento è posto principalmente sulla vittoria gloriosa e quasi regale dell’amore in Gesù e tale vittoria, benché paradossale, affiora lungo l’intero racconto della Passione. Inoltre Giovanni concepisce la Passione sullo sfondo della Pasqua giudaica e dell’agnello pasquale. Egli pone la crocifissione del Signore, l’Agnello al quale non saranno spezzate le ossa, all’ora stessa in cui i Giudei sacrificano l’agnello (Gv 19,33; Es 12,46). La morte del Cristo significa dunque il sacrifico pasquale definitivo e la nuova alleanza: il compimento di tutto quello che significava per il Giudei l’evento fondatore della loro storia: l’uscita dall’Egitto. Nello stesso senso, san Paolo scrive: “Il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1 Co 5,7). E tira la conseguenza che la vita cristiana, nella santità, è da considerarsi come una celebrazione di tale Pasqua.
Quanto alla Lettera agli Ebrei, è totalmente dominata dal tema dell’Antico Testamento: il “sacrificio per il peccato”. Questo non ha mai avuto il senso di una punizione che dovrebbe cadere sull’animale sacrificato, ma il senso positivo del perdono ritrovato, di un’alleanza stabilita di nuovo con Dio per mezzo dell’offerta del sangue, cioè della vita, che appartiene a Dio. Il gran sacerdote, per offrirla, entrava una volta all’anno nel Santo dei santi del tempio. Questa figura del sommo sacerdote permette all’epistola di celebrare la croce come il sacrificio definitivo per il peccato, in cui il Gran Sacerdote, il Cristo, una volta per tutte, si presenta a Dio oltre il velo del tempio (cioè al di là delle apparenze del mondo) con l’offerta della sua stessa vita. Il Sacerdote e l’Agnello offerto, in lui, coincidono perfettamente per l’eternità. Il sacrificio è perfetto.
Riusciamo ad immaginare lo scandalo spirituale, la crisi terribile, che la fine drammatica di Gesù ha provocato negli amici di Gesù, i suoi adepti, i credenti? E riusciamo ad immaginare anche lo sforzo di fede e d’intelligenza che è costata loro la necessità di renderne conto, partendo dalla fede nella risurrezione? E tutto questo appoggiandosi alle Scritture che, in quel periodo, altro non erano che l’Antico Testamento. In un certo senso dovevano addirittura giustificare Dio, come dovevano giustificare la loro fede in Cristo, innanzitutto per se stessi e poi in vista della
predicazione.

Il senso della croce

Superati i tre ostacoli e richiamati i punti di vista dei quattro evangelisti, possiamo ora accostarci alla croce con un metodo che vuol essere sistematico e progressivo, dagli aspetti più evidenti a quelli più misteriosi, dai più semplici ai più complessi.
1. Gesù muore, condannato in tutta fretta come malfattore e bestemmiatore ad una morte vergognosa riservata agli schiavi, alla gente che non conta nulla, lui l’inviato di Dio, lui il messia riconosciuto dai suoi discepoli. Così, in nome di Dio, egli raggiunge tanti uomini, donne e bambini, vittime di ingiustizie e schiacciati dalla violenza, senza possibilità di difendersi.
2. La sua morte è la conseguenza diretta del suo messaggio e dunque dell’obbedienza alla missione che il Padre gli affidava. Ciò che scandalizza i notabili giudei è il suo modo nuovo di concepire la legge, di presentare un Dio vicino ai poveri e ai peccatori, un messia senza potere politico, la destinazione universale della salvezza. Si scandalizzano pure dell’autorità della sua parola, specialmente quando perdona in nome di Dio. I Romani lo percepiscono come una minaccia per l’ordine pubblico e per l’autorità dell’imperatore. In lui si concretizza la figura del giusto perseguitato, come era accaduto a Elia e Geremia. La Passione e la croce confermano la sua fedeltà alla missione umana e divina.
3. Egli aveva profetizzato la sua morte nella lavanda dei piedi ai discepoli, lui che era il Signore. Realizza così la figura del servo, dell’uomo per gli altri (come si usa dire oggi), giunge fino all’estremo della solidarietà con ogni essere umano. La sua morte allora viene intesa non solo come causata dagli uomini, ma anche come vissuta per loro. “Crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, soffrì la Passione e fu sepolto”, recita il Simbolo Niceno-Costantinopolitano, mentre la prima formulazione della fede apostolica, trasmessa da san Paolo, si esprime così: “Il Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture” (1 Cor 15,3)
4. Da questa giustizia negata, da questo odio, da quest’infamia che è la croce, solo l’amore, che tutto può andando fino all’estremo, poteva far sgorgare dal cuore di Gesù la preghiera per i suoi crocifissori, una preghiera in cui si realizza il perdono di Dio. Ci troviamo qui nella prospettiva tipica di Luca che, forse oggi è la più accessibile, la più convincente per molti. Poiché è necessario ricordare, andando oltre le semplificazioni del passato, che ciò che salva, ciò che offre il perdono, non è il sangue di Gesù, né la sua sofferenza, né la sua morte, ma l’amore in nome del quale egli assume il suo destino tragico, con lo scopo di trasformarlo in misericordia.
5. Una domanda allora s’impone, difficile e angosciante: Perché tutto questo dramma, se si tratta di perdonare? Perché il perdono di Dio costa un prezzo così alto: il Padre consegna il suo amatissimo Figlio e questi si consegna nelle mani dei suoi crocifissori? E nasce la domanda: Che cosa rivela questo dramma del perdono di Dio in Gesù Cristo? Innanzitutto rivela fin dove giunge l’amore di Dio per poter raggiungerci. Poi e allo stesso tempo, fin dove giunge il peccato con tutto il suo corteo di conseguenze. Il perdono potrebbe consistere nel comportarsi come se il male non fosse mai esistito, così come si pulisce con un colpo di spugna una lavagna? Se il peccato, ricordiamolo, è percorrere deliberatamente la strada del proprio attaccamento egoista a se stessi, senza tener conto né di Dio né del prossimo, qual è il male che questo atteggiamento non abbia provocato? Quali diritti non ha calpestato? Quali torti di ogni genere non ha moltiplicato? Una tale responsabilità può semplicemente essere elusa, annullata?
Ecco la ragione per la quale Gesù, affrontando il peccato degli uomini, né affronta pure il suo corteo di conseguenze: infamia, angoscia, sofferenza intensa, che conducono alla morte. Qui il perdono non potrebbe dire: oh, non è nulla! Certamente è offerto senza riserve. Eppure è necessario che io lo accolga, la qual cosa suppone un cambiamento di tutto l’essere, il contrario dell’egocentrismo, una riparazione, per quanto possibile, verso i terzi, un abbandono delle abitudini, una condanna di tutto il negativo. E questo in modo da poter orientare la vergogna e la sofferenza verso il contrario del peccato e cioè verso una vita offerta. In breve, l’accoglienza del perdono suppone da parte mia una conversione e un impegno verso Dio, come pure un’attenzione rinnovata verso il prossimo.
Non è esattamente questo che s’è compiuto con la Passione di Gesù? Prendendo su di sé tutte le conseguenze del peccato, le trasforma: sì, con una sofferenza terribile e con l’infamia di morire su di un patibolo pubblicamente, le trasforma in una marcia vittoriosa verso la vita nuova, la risurrezione.
Parleremo allora a questo proposito di punizione? È possibile. Il Nuovo Testamento lo fa appena, ma Isaia afferma del servo del Signore: “Il Signore ha fatto ricadere su di lui gli errori di noi tutti” (53,6). Qui abbiamo a che fare ancora una volta con una sintesi sbrigativa, se si tratta di Gesù. Non è Dio a punire, sono io che, facendo il male e rifiutandomi di fare il bene che ci si aspetta da me, faccio del male a me stesso e m’incammino vero la perdizione. In tal senso il peccato è autopunizione. E Gesù si prende carico anche di tutto questo. Qui sopra è apparso un altro tema: la sofferenza legata al peccato così come Gesù l’affronta. Il perdono non la sopprime. Da una parte la sofferenza è presente in ogni vita umana: che farne? D’altra parte essa si aggrava, in ogni essere umano toccato dalla visione del Crocifisso, con una viva sofferenza spirituale. Non soltanto il cuore è messo davanti a questo spettacolo e al prezzo del perdono, ma inoltre si pone questa domanda: come essere all’altezza di un tale avvenimento? Come vivere degnamente il perdono? Che ruolo gioca la sofferenza, ogni sofferenza, in ciò che abbiamo chiamato poco sopra un “cambiamento”? Il perdono esige un cambiamento anche per quanto riguarda la sofferenza. Che si tratti di pena, vergogna, disgusto, senso di fallimento conseguente al peccato, essa è chiamata a divenire partecipazione alle sofferenze del Cristo e di conformarci alla sua morte, come lo dice con audacia san Paolo. Senza mai essere un bene in se stessa, il “bene” della sofferenza fisica, morale o spirituale, consisterà, per quanto possibile, nell’essere vissuta come un modo particolarmente stretto di comunione con il risto, una maniera preziosa di offrirsi a lui nell’amore. Così la riconciliazione con Dio non ha nulla di facile, di anodino, di automatico. È attraverso i sacramenti vissuti nella fede e una vita di santificazione che si accoglie il perdono. È offerto a noi con una generosità totale e attende da noi una generosità in contraccambio. Il perdono, in definitiva, è Dio che viene a me; la mia accoglienza del perdono implica che io vada verso Dio. Questa è l’alleanza sigillata in Gesù Cristo.
6. E giungiamo al tema del sacrificio. Una parola che molti oggi detestano per il fatto che nelle nostre lingue e nella nostra mentalità ha completamente cambiato il suo significato. Nel linguaggio corrente è diventata sinonimo di disgrazia, d’incidente, con un certo sapore di punizione. Oppure di un’azione per la quale si è costretti, vissuta senza amore, con l’idea che più è pesante, più è preziosa. O ancora come qualcosa che si mette ai margini, senza valore. E inoltre questa parola evoca per la mentalità attuale un’idea insopportabile di violenza, a causa del sangue versato che comporta la morte dell’animale, che sembra essere il nocciolo del sacrificio dell’Antico Testamento. Occorre rinunciare al termine e sostituirlo con un altro che conserva la sua bellezza: offerta? Oppure cambiare mentalità, risalire all’origine ricostruendo il significato vero del sacrificio? Ciascuno, per quanto riguarda se stesso, è libero di fare quello che vuole. Ma il Nuovo Testamento sta lì di fronte a noi, citato spessissimo nelle liturgie eucaristiche; ed esso parla tranquillamente di sacrificio sullo sfondo del Vecchio Testamento.
Ora, per quest’ultimo, il sacrificio, in stretto rapporto con l’alleanza, ha il significato fondamentale di unirmi a Dio, di raggiungere la sua grazia. Il sangue è molto prezioso perché rappresenta la vita che proviene da Dio e che gli si offre in un rito di riconoscenza. Nell’esperienza umana il sacrificio è una legge di vita secondo la quale si deve rinunciare a qualche cosa per “guadagnare” qualcos’altro o, detto altrimenti, per poter crescere su di un altro piano. E dinanzi a Dio, sacrificare vuol dire prelevare una parte di quello che s’è ricevuto per presentargliela in azione di grazie. Ma, in fin dei conti, si offre se stessi e, per mezzo del sacrificio, ci si riceve in contraccambio. Non è forse questo che si realizza nell’eucaristia?
Nell’Antico Testamento, il racconto che evidenzia nel miglior modo il senso del sacrificio, in quanto rito di alleanza, è quello in cui si vede raccolto in una bacinella il sangue (la vita!) dei tori immolati. Mosè sigilla l’alleanza tra Dio e il popolo aspergendo con quel sangue successivamente l’altare, simbolo della presenza di Dio, e il popolo. Una parola sacramentale accompagna il rito e ne spiega il senso: “Questo è il sangue dell’alleanza” (Es 24,8). Ora, le stesse parole sono riprese da Gesù per l’istituzione della Cena. Gesù dunque considera la sua persona e il dono della sua vita, alla vigilia della Passione, come l’alleanza stabilita definitivamente tra il Padre al quale si offre e gli uomini per i quali si offre. Inoltre, in quella profezia di Pasqua che è la Cena del Giovedì santo, si profila l’intero evento pasquale della liberazione dall’Egitto, del pasto rituale ebraico e della traversata del Mar Rosso. Gesù ne è il compimento nuovo ed eterno. Egli è, come abbiamo visto, la “nostra Pasqua”, la nostra liberazione, il nostro passaggio alla luce. Di tutti i sacrifici dell’antica legge, i primi cristiani non hanno conservato nulla, come simbolo della Passione, se non il “sacrificio di espiazione”. Qui ancora, senza alcuna idea di punizione, si tratta dell’alleanza stabilita di nuovo per mezzo dell’offerta del sangue, della vita in cui si esprime la riconciliazione con Dio. Ma non vi torniamo sopra: ne abbiamo già parlato a proposito della Lettera agli Ebrei.
7. In un antichissimo inno della Chiesa, san Paolo ha trovato l’espressione più forte per esprimere l’umiltà dell’incarnazione e della croce: “Egli si è annientato (non quanto alla sua persona, ma quanto alla sua condizione di Figlio di Dio) assumendo la condizione di servo… E si è umiliato ancora di più, obbedendo fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,7-8).
Così la croce è il momento culminante di quel movimento di amore in cui l’abbassamento e l’esaltazione del Cristo sono una cosa solo. Poiché la risurrezione non può considerarsi come la rivincita, in un certo senso, della vita sulla morte, della gloria sull’abbassamento. Non la rivincita, non il contrario, ma la rivelazione di quello che è stata veramente la Passione. Questa è l’audacia di Dio, la sua potenza, realissima, la sua sovranità: la morte di Gesù in croce si rivela come la vittoria della vita, la riuscita del disegno eterno di Dio, il modo estremo che l’amore trova per offrirsi. Così la potenza di Dio, attraverso la Passione, si rivela come la capacità che egli ha di ricavare il meglio dal peggio, la più grande vittoria dalla più grande sconfitta, la
risurrezione dalla morte. Sì: sulla croce. Spetta a noi allora cercare il modo di far rivivere
tutto ciò nella nostra esistenza, se abbiamo intenzione di “conoscere il Cristo nella potenza della sua risurrezione e la comunione alle sue sofferenze” (Fil 3,10).

Traduzione: Paolo Bagattini

« Per me il vivere è Cristo » (Fil,1,21 e altre lettere) come per il tralcio lo è la vite.

ho trovato questa omelia che medita su Gv 15,1-8, la citazione per l’interpretazione del testo giovanneo è da Paolo e la lettura propone diversi pensieri dell’Apostolo, dal sito:

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.pax?mostra_id=15212

« Per me il vivere è Cristo » (Fil,1,21 e altre lettere) come per il tralcio lo è la vite.

padre Gian Franco Scarpitta 

V Domenica di Pasqua (Anno B) (10/05/2009)

Vangelo: Gv 15,1-8  

Come si legge in isolati riferimenti del libro degli Atti degli Apostoli, Saulo (chiamato poi Paolo), soprattutto perché animato dallo zelo per la legge giudaica che gli aveva infuso l’eccellente maestro Gamaliele, era stato fra i più gradi persecutori della Chiesa nascente, avendo approvato l’uccisione di Stefano e avendo organizzato la cattura e la prigionia di moltissimi discepoli del Cristo (At 7,58; 8,1-3; 22,4). Anche nelle sue lettere egli definirà il suo passato da “persecutore e violento” (1Tm 1, 12 – 14), “neanche degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la chiesa di Dio”( 1 Cor 15, 9), raccontando la sua storia da assurdo nemico della fede cristiana.
L’apostolo però non omette di considerare come la grazia di Dio abbia agito fruttuosamente in lui, e anche i particolari della descrizione dell’incontro con Cristo sulla via di Damasco sottendono a un rapporto che egli ha avuto di profonda familiarità con Dio che ha avuto origine dallo stesso Signore che egli stava perseguitando nei fratelli: mentre lui si prodigava per le cattiverie nei suoi confronti, Cristo stava tentando in tutti i modi di cercare la sua comunione e la sua adesione e gli si rivelava come primo agente di grazia e di misericordia e il suo intervento conciliante nei suoi confronti era stato del tutto libero, spontaneo e amichevole.
Paolo insomma diventa zelantissimo missionario del Vangelo, necessitato alla sua divulgazione e motivato nell’affrontare anche le catene della prigionia perché avvinto dalla sovrabbondanza della di Cristo che, come lui affermerà con forza, non lo abbandonerà mai e gli incuterà sempre fiducia, coraggio e solerzia; e la motivazione più importante è il fatto di essere stato“catturato” in prima persona dall’amore di Gesù Cristo che lo ha reso oggetto della sua fiducia sfruttando al meglio le prerogative di determinazione e di costanza del suo carattere, che prima aveva impiegato per colpire i cristiani.
La prima lettura odierna ce lo presenta appena risvegliato dal torpore della tracotanza anticristiana, in preda ai primi entusiasmi per il vangelo ma, come si conviene per qualsiasi soggetto famoso per un orrendo passato, anche in preda ai sospetti e alle reticenze dei discepoli ai quali viene presentato da Barnaba, che mostrano subito sdegno e riluttanza al suo presenziare davanti a loro; ma sempre queste righe ci rivelano un Paolo per niente impaurito dalle reazioni malsane dei discepoli, appunto perché forte dell’entusiasmo e della carica spirituale e missionaria di cui Cristo lo ha appena rivestito. Più tardi Paolo, confrontando il suo presente con il suo passato, affermerà che “Non sono più io che vivo, ma vive in me Cristo” (Gal 2, 20), oppure: “Per me il vivere è Cristo e il morire è un guadagno” (Fil 1, 21) e con queste espressioni affermerà il consolidamento effettivo della sua appartenenza a Cristo e della sua incorporazione a Lui nel mistico Corpo che è la Chiesa.
Paolo si ente di essere oltre che “inviato e missionario” anche membro del Signore che lo ha catturato, nella relazione di appartenenza totalizzante a Lui che diventa perfino identità.
Sempre Paolo, in forza di quanto da egli stesso sperimentato, invita però anche noi a considerare che “l’amore di Dio ci spinge alla conversione” (Rm 2, 4) e ad optare per una totale appartenenza a Cristo, scelto come pietra angolare e riferimento assoluto di vita; quindi richiama l’attenzione a che anche la nostra vita sia tutta impregnata della reciproca appartenenza nostra a Gesù Cristo e di questi a noi perché assieme a lui formiamo un solo corpo.
Scrive Messori: “Chi si accontenta gode, assicura il proverbio. Quanto a noi, siamo più esigenti e non ci accontentiamo affatto”. Non possiamo infatti limitarci a “seguire” Gesù in modo blando e superficiale, quasi alla stregua di un qualsivoglia leader politico che seduce con le sue promesse; né possiamo accontentarci di imitare Cristo alla perfezione ai fini di ottenere il suo plauso o l’approvazione degli altri, né tantomeno di ostentare la nostra presunta capacità di amore e di donazione attraverso opere che sarebbero nient’altro che espressione di mero esibizionismo al massimo filantropico. Da parte nostra occorre che ci configuriamo a Gesù, che ci immedesimiamo in lui e che stabiliamo la stessa relazione paolina che ci porta ad identificarci con lui e essere con lui un tutt’uno.
Ed è quello che Lui stesso ci indica in questa meravigliosa immagine: “Io sono la vite e voi i tralci”, con la quale ci invita a che noi riceviamo sussistenza da Lui e che lasciamo spazio affinché egli stesso in noi presenzi nella forma sostanziale e di vitalità. Occorre infatti che anche da parte nostra vi sia una corrispondenza di adesione al Signore per la quale, alla pari di Paolo, ci lasciamo raggiungere da Cristo fin nelle profondità e viviamo già nell’intimo il fervore e l’entusiasmo della nostra appartenenza a Lui, sentendoci orgogliosi di aver realizzato una dimensione di comunione intima con il Signore. Per quanto possiamo incontrare resistenze e le opposizioni di coloro che per questo ci dileggiano e ci scherniscono, non dovremmo mai lasciarci sorprendere dalla paura o dalla vergogna di manifestare la consistenza della nostra vita spirituale, quando questa esprima davvero l’innamoramento di Cristo e la volontà esclusiva di appartenere a lui; dovrebbe anzi essere nostro motivo di vanto e di orgoglio, fatti salvi concretezza e realismo, l’esternare la dimensione di intima immedesimazione con il Signore non importa quali siano le reazioni da parte di terzi e in ogni caso occorrerebbe che noi stessi non omettiamo di considerare la necessità della nostra relazione con Lui.
Senza la vite un tralcio infatti non ha possibilità di sussistenza perché gli verrebbe a mancare la linfa vitale necessaria; senza i suoi tralci la vite esisterebbe e sarebbe ugualmente rigogliosa e potenzialmente fruttuosa; il che sottende al fatto che mentre Cristo è già grande e Perfetto di per sé, noi non saremo mai in grado di vita piena se non ci innesteremo volentieri a lui, perché fuori dal suo riferimento sostanziale la nostra vita non sussiste e non siamo bastevoli a noi stessi.
E se lui stesso affermava, “senza di me non potete far niente”, possiamo anche aggiungere tranquillamente che senza di lui noi non possiamo neppure “essere” nulla.
Chi si innesta a Cristo come tralcio alla vite è il credente che ha avuto accesso alla fede nel sacramento del Battesimo, che di fatto incorpora a Cristo e rende membri di Lui e per ciò stesso della sua Chiesa; per il battezzato si dispiega pertanto il “per me vivere è Cristo” nonché “Cristo vive in me” che ci ricorda la pedagogia paolina e che deve caratterizzare tutta la nostra vita.
Quali i vantaggi scaturiscono da questa relazione di co appartenenza e immedesimazione mutua e spontanea fra noi e Cristo?
La risposta ci viene dallo stesso Gesù, ma anche Giovanni (II Lettura) è abbastanza esaustivo su questo argomento: “ se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.”
Essere innestati in Cristo comporta vivere di lui, ma anche usufruire delle garanzie della sua stessa gloria e delle promesse di cui da sempre siamo destinatari perché in Lui si riscopre un rapporto di familiarità e di donazione reciproca immediata che conduce alla scoperta della bellezza nel fare ogni cosa che “a lui piaccia”, ponendoci concretamente nelle sue vie e adoperandoci al meglio per la sua testimonianza attiva attraverso opere concrete di amore e di solidarietà. I comandamenti di Dio, che poi dovremmo tutti leggere sotto l’aspetto delle Beatitudini, non sono gravosi ma hanno la finalità della realizzazione stessa dell’uomo e contengono motivo di gioia nella loro stessa esecuzione, sicché avere fiducia in Dio, seguire Gesù Cristo con amore, realizzare nella nostra vita quanto egli ci propone consente anche che riceviamo da lui ogni garanzia e ogni promessa e siamo anche corrisposti nelle nostre stesse attese.
“Il vivere è Cristo” è dunque una bellissima prospettiva che viene data a chiunque voglia rendersi tralcio di questa Vite immensa.”

San Paolo, il cristianesimo e l’Europa moderna

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/105q04d1.html

San Paolo, il cristianesimo e l’Europa moderna

L’insospettabile vantaggio di essere in pochi

Il Centro Culturale di Milano ha ospitato il 6 maggio una conferenza intitolata:  « Dalla terra alle Genti:  san Paolo fondatore del cristianesimo o apostolo di Gesù? ». Ne pubblichiamo un estratto.

di Rainer Riesner
Università di Dortmund (Germania)

Il Nuovo Testamento è caratterizzato dalla presenza di due grandi teologi, Giovanni e Paolo. Il pensiero teologico di Giovanni è meditativo, e ha influenzato profondamente fino a oggi le Chiese orientali. Paolo ha posto al servizio della fede anche un acuto conflitto di natura logica, ispirando lo stesso Agostino, in qualità di uno dei maggiori pensatori dell’antichità cristiana.
Paolo ricevette la propria formazione teologica presso la scuola del famoso rabbino Gamaliele il Vecchio (Atti, 22, 3). Nel i secolo i letterati ebrei prendevano parte apertamente ai dibattiti intellettuali del loro tempo. All’epoca del figlio di Gamaliele si dissertava non solo dell’Antico Testamento ma anche della « saggezza greca » (Talmud babilonese, Sota 49b; Baba Kama 83a).
Paolo, nella sua veste di cristiano, non dimenticò quanto aveva appreso da Gamaliele. Nelle sue lettere, l’apostolo si serviva delle tecniche logiche e retoriche all’epoca riconosciute e comunemente utilizzate.
I grandi teologi corrono sempre il rischio di soccombere al fascino del proprio pensiero o di un sistema di pensiero altrui. Il più grande studioso della Bibbia nell’ambito della chiesa antica, al contempo eminente filosofo, era Origene. Anche egli era soggetto al rischio, e in alcuni punti è effettivamente caduto in questa trappola, di privilegiare il proprio pensiero teologico rispetto alla tradizione della fede generalmente riconosciuta. Anche Paolo è stato spesso dipinto come un pensatore solitario, isolato dal cristianesimo originario, anche se il giudizio a tal proposito non è stato affatto unanime. Per alcuni, egli è il precursore dell’indipendenza del pensiero teologico nei confronti della tradizione ecclesiastica. Secondo l’opinione di altri, con la sua complicata teologia Paolo avrebbe invece deturpato il semplice insegnamento di Gesù, trasformandolo in un cristianesimo dogmatico. Anche oggi Gesù e Paolo vengono spesso contrapposti. Ma Paolo non credette solo a Gesù crocifisso e risorto. L’apostolo sapeva anche molte cose sulla predicazione di Gesù, e le espone in vari punti delle proprie lettere. E ciò lo si nota solo sapendo come gli scribi ebrei solitamente citano i testi sacri. Li conoscono perfettamente a memoria, e spesso è loro sufficiente una sola parola chiave per ricordarli. Quando Paolo parlava di « fede » che « muove le montagne » (1 Corinzi, 13, 2), si riferiva naturalmente alle parole pronunciate da Gesù (Matteo, 17, 20).
Ma per Paolo era anche estremamente importante essere in accordo con la tradizione di fede tramandata dalla comunità originaria di Gerusalemme. Quando alcuni nella comunità di Corinto palesarono pensieri errati in merito alla risurrezione dei morti, l’apostolo ricordò la formula di professione della fede che aveva insegnato loro. Questa formula non era frutto del suo pensiero, bensì della tradizione (1 Corinzi, 15, 1-5).
Risale con molta probabilità alla comunità originaria che si era raccolta intorno all’apostolo Pietro a Gerusalemme (cfr. 1 Corinzi, 15, 5-11). Da quando, sulla via per Damasco, Gesù risorto era apparso a Paolo nella sua magnificenza divina, all’apostolo parve chiaro che non si poteva più parlare di Gesù come di un semplice essere umano (2 Corinzi, 4, 1-6). Ma anche in questo caso, per Paolo era essenziale non propugnare da solo questa sostanziale convinzione cristologica. Nella lettera ai Filippesi citò un brano (Filippesi, 2, 6-11) la cui forma linguistica indica che originariamente era formulato in una lingua semitica. In questo punto si parla chiaramente della divinità di Gesù (Filippesi, 2, 6). Secondo fonti affidabili del patriarca Girolamo, i genitori di Paolo erano originari di Giscala (De viris illustribus, 5), una roccaforte degli zeloti nell’Alta Galilea (Giuseppe Flavio, Bellum Judaicum, ii, 585 e seguenti). Se un fariseo come Paolo e altri devoti ebrei palestinesi riconobbero in Gesù il vero Dio, questo fatto non può essere spiegato con l’antico sincretismo, ma solo con la realtà della risurrezione di Gesù.
Ai cristiani di Corinto, fin troppo affascinati dai doni carismatici, Paolo dovette ricordare il fondamento della tradizione di fede e l’importanza della ragione (1 Corinzi, 14, 19). Ma Paolo non riduce la fede cristiana alla ragione e alla tradizione. Proprio nei confronti dei Corinzi, Paolo lascia intravedere la propria esperienza spirituale, nella quale non mancavano né la preghiera in lingue straniere infusa dallo Spirito Santo (1 Corinzi, 14, 18), né le visioni celestiali (2 Corinzi, 12, 1-4). Paolo ha anche parlato apertamente del suo miracoloso dono apostolico (2 Corinzi, 12, 12). La storia intellettuale europea degli ultimi due secoli è caratterizzata da grandi mutazioni. In alcuni momenti le tradizioni erano prive di valore, mentre in altri rappresentavano tutto. A epoche caratterizzate dal razionalismo hanno fatto seguito epoche dominate da una grande irrazionalità. Il nostro tempo è segnato dal fatto che viviamo tutto contemporaneamente, e anche i cristiani e le Chiese non ne sono immuni. Paolo può insegnarci il giusto equilibrio fra tradizione di fede, pensiero razionale ed esperienza spirituale personale.
Quando Paolo giunse ad Atene si arrabbiò per l’antico sincretismo, dominato da un mondo di idoli imperscrutabili (Atti, 17, 16). Ma non inneggiò all’assalto dei templi pagani e nemmeno invitò a boicottarli. Piuttosto, propugnò la fede nell’unico Dio, rivelatosi in Gesù Cristo, servendosi esclusivamente della forza di convincimento delle parole, nella sinagoga, nelle discussioni con i filosofi e durante l’interrogatorio del consigliere ateniese Areopago (Atti, 17, 17). Si auspicherebbe che i cristiani seguissero sempre questo esempio dell’apostolo, invece di cedere alla tentazione di sostituire il convincimento con la coercizione. È anche evidente l’elevato valore attribuito da Paolo alla coscienza umana, pur se debole e ingannevole (Romani, 14; 1 Corinzi, 8-10).
Del resto, anche prima dell’illuminismo, singoli cristiani avevano fatto proprio l’impulso alla libertà di fede e di coscienza proclamata da Paolo. Nel 1610 il cristiano evangelico Thomas Helwys pubblicò uno scritto che non solo si faceva paladino della tolleranza nei confronti dei protestanti, ma che sostanzialmente richiedeva quanto segue:  « Il re non deve ergersi a giudice fra Dio e l’uomo. Che si tratti di eretici, turchi, ebrei o altro, non spetta al potere temporale comminare seppur minime pene per tale ragione » (A Short Declaration of the Mystery of Iniquity, ristampa 1998). Pensieri di questo genere vennero portati in America dai profughi religiosi, contribuendo a far sì che la Costituzione degli Stati Uniti del 1787, quindi ancora prima della rivoluzione francese, proclamasse la libertà di fede e di coscienza. Uno dei nostri scopi precipui nell’Europa moderna consiste proprio nel difendere entrambi questi ideali, e nel far ciò dovremo tenere presente sempre più che la libertà di fede e di coscienza vale anche per i cristiani.
La nostra epoca presenta delle similitudini con quella dell’apostolo Paolo, nel senso che non è più considerato ovvio essere un cristiano. La fede cristiana viene percepita come una delle tante offerte proposte nel mercato delle religioni. Inoltre, notiamo una sempre maggiore ostilità nei confronti del cristianesimo. La rivendicazione della verità religiosa viene considerata arrogante e molti precetti etici sono ritenuti oppressivi. Tuttavia, il fatto che essere cristiani non sia più scontato, presenta anche dei vantaggi. I cristiani devono nuovamente concentrarsi sulla particolarità e unicità della loro fede. Pertanto, fra i cristiani appartenenti a Chiese molto diverse, che non vogliono semplicemente adeguarsi allo spirito del tempo, cresce la consapevolezza di condividere elementi in comune. Una tale comunanza di intenti, che fortunatamente viene continuamente sottolineata anche da Papa Benedetto, si fonda sulla consapevolezza che l’Europa necessita di una nuova evangelizzazione! L’apostolo Paolo può fungere da esempio in tal senso? Paolo è riuscito a ispirarci con la sua fede e il suo coraggio. La sfida che ha affrontato era estremamente più grande di quella che sta di fronte a noi. Cos’era una manciata di cristiani in confronto al potente impero romano e all’affascinante cultura pagana dell’ellenismo? Dal punto di vista umano, niente! Ma Paolo ha contrapposto a tale punto di vista la propria convinzione:  « Tutto posso in colui che mi dà la forza » (Filippesi, 4, 13). Questa frase non è stata scritta da Paolo in un momento qualsiasi, ma durante la sua prigionia. L’apostolo sperimentò allora la stessa situazione condivisa oggi dai cristiani in molti Paesi del mondo:  si può imprigionare chi annuncia il Vangelo, ma non il Vangelo (Filippesi, 1, 12-14).
Paolo si è affidato alla potenza di Dio e dello Spirito Santo, ma questo non gli ha impedito di operare nella sua missione in modo strategico e metodico. Solo due indicazioni a tale proposito. Paolo si è concentrato sulle città di provincia come Salonicco, Corinto ed Efeso. Credeva, a ragione, che in seguito alla costituzione di comunità in questi punti nevralgici per le comunicazioni il Vangelo potesse diffondersi nelle regioni limitrofe. Tuttavia, queste regioni erano molto distanti dal punto di vista geografico, cosicché sussisteva il rischio di uno sviluppo non omogeneo. L’apostolo lo scongiurò recandosi in visita in questi luoghi, inviando lettere e collaboratori. L’organizzazione di un collegamento fra così tanti collaboratori e gruppi era per l’epoca un enorme impegno dal punto di vista logistico. Uno studioso inglese definisce questo fenomeno come The Holy Internet (M. A. Thompson, in:  R. Bauckham, The Gospels for All Christians, 1998, 49-70). Questo ci fornisce un’importante indicazione. Non si tratta solo di emulare i metodi missionari di Paolo. Grazie alla radio, alla televisione e in particolare a internet, abbiamo a disposizione delle opportunità di comunicazione con le quali possiamo raggiungere anche le persone che vivono nei paesi più remoti. Paolo si complimenterebbe di cuore con noi per questa modernità, se concordiamo con lui su di un punto:  esiste solo « un Vangelo di Gesù Cristo » (Galati, 1, 8) ed « è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo e poi del Greco » (Romani, 1, 16). Anche oggi non sussiste alcun motivo per vergognarsi di questo Vangelo.

Padre Cantalamessa: “Tutti coloro che sono guidati dallo Spirito sono figli di Dio” (Rom 8, 14)

dal sito:

http://www.cantalamessa.org/it/predicheView.php?id=287

“Tutti coloro che sono guidati dallo Spirito sono figli di Dio” (Rom 8, 14) 
 
2009-03-27- Quaresima 2009 alla Casa Pontificia

1. Un’era dello Spirito Santo?

“Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte…. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”.
Sono quattro versetti del capitolo ottavo della Lettera ai Romani sullo Spirito Santo e in essi risuona per ben sei volte il nome di Cristo. La stessa frequenza si mantiene nel resto del capitolo, se consideriamo anche le volte che ci si riferisce a lui con il pronome o con il termine Figlio. Questo fatto è di fondamentale importanza; ci dice che per Paolo l’opera dello Spirito Santo non si sostituisce a quella di Cristo, ma la prosegue, la compie e la attualizza.

Il fatto che il neo eletto presidente degli Stati Uniti, durante la sua campagna elettorale, si sia riferito per tre volte a Gioacchino da Fiore, ha riacceso l’interesse per la dottrina di questo monaco del medio evo. Pochi di quelli che disquisiscono su di lui, specialmente su internet, sanno, o si preoccupano di sapere, cosa ha detto esattamente questo autore. Ogni idea di rinnovamento ecclesiale o mondiale viene disinvoltamente messa sotto il suo nome, perfino l’idea di una novella Pentecoste per la Chiesa, invocata da Giovanni XXIII.

Una cosa è certa. Sia o no da attribuirsi a Gioacchino da Fiore, quella di una terza era dello Spirito che succederebbe a quella del Padre nell’Antico Testamento e di Cristo nel Nuovo è falsa ed eretica perché intacca il cuore stesso del dogma trinitario. Ben diversa da essa è l’affermazione di san Gregorio Nazianzeno. Egli distingue tre fasi nella rivelazione della Trinità: nell’Antico Testamento, si è rivelato pienamente il Padre ed è stato promesso ed annunciato il Figlio; nel Nuovo Testamento, si è rivelato pienamente il Figlio ed è stato annunciato e promesso lo Spirito Santo; nel tempo della Chiesa, si conosce finalmente appieno lo Spirito Santo e si gode della sua presenza [1].

Solo per avere citato in un mio libro questo testo di san Gregorio sono finito anch’io nella lista dei seguaci di Gioacchino da Fiore, ma san Gregorio parla dell’ordine della manifestazione dello Spirito, non del suo essere o del suo agire, e in tal senso la sua affermazione esprime una verità incontestabile, accolta pacificamente da tutta la tradizione.

La tesi cosiddetta gioachimita è esclusa alla radice da Paolo e da tutto il Nuovo Testamento. Per essi lo Spirito Santo altro non è che lo Spirito di Cristo: oggettivamente perché è il frutto della sua Pasqua, soggettivamente perché è lui che lo effonde sulla Chiesa, come dirà Pietro alle folle il giorno stesso di Pentecoste: “Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire” (Atti 2, 33). Il tempo dello Spirito è perciò co-estensivo al tempo di Cristo.

Lo Spirito Santo è lo Spirito che procede primariamente dal Padre, che è sceso e si è “riposato” in pienezza su Gesú, storicizzandosi e abituandosi in lui, dice sant’Ireneo, a vivere tra gli uomini, e che nella Pasqua-Pentecoste viene da lui effuso sull’umanità. La riprova di tutto ciò è proprio il grido “Abbà” che lo Spirito ripete nel credente (Gal 4,6) o insegna a ripetere al credente (Rom 8, 15). Come può lo Spirito gridare Abbà al Padre? Egli non è generato dal Padre, non è suo Figlio… Può farlo, nota Agostino, perché è lo Spirito del Figlio e prolunga il grido di Gesú.

2. Lo Spirito come guida nella Scrittura

Dopo questa premessa, vengo al versetto del capitolo ottavo della Lettera ai Romani sul quale vorrei oggi soffermarmi. “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rom 8,14).

Il tema dello Spirito Santo-guida non è nuovo nella Scrittura. In Isaia tutto il cammino del popolo nel deserto viene attribuito alla guida dello Spirito. “Lo Spirito del Signore li guidava al riposo” (Is 63, 14). Gesù stesso fu “condotto (ductus) dallo Spirito nel deserto” (Mt 4,1). Gli Atti degli apostoli ci mostrano una Chiesa che è, passo passo, “condotta dallo Spirito”. Lo stesso disegno di san Luca di far seguire al vangelo gli Atti degli apostoli ha lo scopo di mostrare come lo stesso Spirito che aveva guidato Gesù nella sua vita terrena, ora guida la Chiesa, come Spirito “di Cristo”. Pietro va verso Cornelio e i pagani? E lo Spirito che glielo ordina (cf. At 10,19;11,12); a Gerusalemme, gli apostoli prendono delle decisioni importanti? È lo Spirito che le ha suggerite (15, 28).

La guida dello Spirito si esercita non solo nelle grandi decisioni, ma anche nelle cose piccole. Paolo e Timoteo vogliono predicare il vangelo nella provincia dell’Asia, ma “lo Spirito Santo lo vieta loro”; fanno per dirigersi verso la Bitinia, ma “lo Spirito di Gesù non lo permette loro” (At 16, 6 s.). Si capisce in seguito il perché di questa guida così incalzante: lo Spirito Santo spingeva in questo modo la Chiesa nascente ad uscire dall’Asia ed affacciarsi su un nuovo continente, l’Europa (cf. At 16,9).

Per Giovanni, la guida del Paraclito si esercita soprattutto nell’ambito della conoscenza. Egli è colui che “guiderà” i discepoli alla verità tutta intera (Gv 16,3); la sua unzione “insegna ogni cosa”, al punto che chi la possiede non ha bisogno di altri maestri (cf. 1 Gv 2, 27). Paolo introduce un’importante novità. Per lui lo Spirito Santo non è solo “il maestro interiore”; è un principio di vita nuova (“quelli che sono guidati da lui diventano figli di Dio”!); non si limita a indicare il da farsi, ma dà anche la capacità di fare ciò che comanda.

In ciò, la guida dello Spirito si differenzia essenzialmente da quella della Legge che permette di vedere il bene da compiere, ma lascia la persona alle prese con il male che non vuole (cf. Rom 7, 15 ss.). “Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge”, aveva detto l’Apostolo in precedenza, nella Lettera ai Galati (Gal 5,18).

Questa visione paolina della guida dello Spirito, più profonda e ontologica (in quanto tocca l’essere stesso del credente) non esclude quella più comune di maestro interiore, di guida alla conoscenza della verità e della volontà di Dio, e in questa occasione è proprio di ciò che vorrei parlare.

Si tratta di un tema che ha avuto un ampio sviluppo nella tradizione della Chiesa. Se Gesù Cristo è “la via” (odòs) che conduce al Padre (Gv 14, 6), lo Spirito Santo, dicevano i Padri, è “la guida lungo la via” (odegòs) [2]. “Questi è lo Spirito, scrive sant’Ambrogio, nostro capo e guida (ductor et princeps), che dirige la mente, conferma l’affetto, ci attira dove vuole e volge verso l’alto i nostri passi” [3]. L’inno Veni creator raccoglie questa tradizione nei versetti: “Ductore sic te praevio vitemus omne noxium”: con te che ci fai da guida eviteremo ogni male. Il concilio Vaticano II si inserisce in questa linea quando parla di se stessa come “del popolo di Dio che crede di essere condotto dallo Spirito del Signore” [4].

3. Lo Spirito guida attraverso la coscienza

Dove si esplica questa guida del Paraclito? Il primo ambito, o organo, è la coscienza. C’è una relazione strettissima tra coscienza e Spirito Santo. Cos’è la famosa “voce della coscienza”, se non una specie di “ripetitore a distanza”, attraverso cui lo Spirito Santo parla a ogni uomo? “Me ne dà testimonianza la mia coscienza, nello Spirito Santo”, esclama san Paolo, parlando del suo amore per i connazionali ebrei (cf. Rom 9, 1).

Attraverso questo “organo”, la guida dello Spirito Santo si estende anche fuori della Chiesa, a tutti gli uomini. I pagani “mostrano che, quanto la legge esige, è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza” (Rom 2, 14 s.). Proprio perché lo Spirito Santo parla in ogni essere ragionevole attraverso la coscienza, diceva san Massimo Confessore, “vediamo molti uomini, anche tra i barbari e nomadi, volgersi a una vita decorosa e buona, e disprezzare le leggi selvagge che fin dalle origini avevano dominato tra di loro”[5].
La coscienza è anch’essa una specie di legge interiore, non scritta, diversa e inferiore rispetto a quella che esiste nel credente per la grazia, ma non in disaccordo con essa, dal momento che proviene dallo stesso Spirito. Chi non possiede che questa legge “inferiore”, ma le obbedisce, è più vicino allo Spirito di chi possiede quella superiore che viene dal battesimo, ma non vive in accordo con essa.

Nei credenti questa guida interiore della coscienza è come potenziata ed elevata dall’unzione che “insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce” (1 Gv 2, 27), guida cioè infallibilmente, se ascoltata. Proprio commentando questo testo, sant’Agostino ha formulato la dottrina dello Spirito Santo come “maestro interiore”. Cosa vuol dire, si domanda, “non avete bisogno che alcuno vi istruisca”? Forse che il singolo cristiano sa già tutto per conto suo e che non ha bisogno di leggere, di istruirsi, di ascoltare nessuno? Ma se fosse così, a che scopo l’apostolo avrebbe scritto questa sua lettera? La verità è che c’è bisogno di ascoltare maestri esterni e predicatori esterni, ma che solo capirà e approfitterà di quello che essi dicono colui al quale parla nell’intimo lo Spirito Santo. Questo spiega perché molti ascoltano la stessa predica e lo stesso insegnamento, ma non tutti capiscono allo stesso modo [6].

Quale consolante sicurezza da tutto ciò! La parola che un giorno risuonò nel vangelo: “Il maestro è qui e ti chiama!” (Gv 11, 28), è vera per ogni cristiano. Lo stesso maestro di allora, Cristo, che parla ora attraverso il suo Spirito, è dentro di noi e ci chiama. Aveva ragione san Cirillo di Gerusalemme di definire lo Spirito Santo “il grande Didascalo, cioè maestro, della Chiesa” [7].

In questo ambito intimo e personale della coscienza, lo Spirito Santo ci istruisce con le “buone ispirazioni”, o le “illuminazioni interiori” di cui tutti hanno fatto qualche esperienza nella vita. Sono spinte a seguire il bene e a fuggire il male, attrazioni e propensioni del cuore che non si spiegano naturalmente, perché spesso vanno in direzione opposta a quella che vorrebbe la natura.

È proprio basandosi su questa componente etica della persona che taluni eminenti scienziati e biologi odierni sono giunti a superare la teoria che vede l’essere umano come risultato casuale della selezione delle specie. Se la legge che governa l’evoluzione è solo la lotta per la sopravvivenza del più forte, come si spiegano certi atti di puro altruismo e perfino di sacrificio di sé per la causa della verità e della giustizia?[8]

4. Lo Spirito guida attraverso il magistero della Chiesa

Fin qui, il primo ambito in cui si esercita la guida dello Spirito Santo, quello della coscienza. Ne esiste un secondo che è la Chiesa. La testimonianza interna dello Spirito Santo si deve coniugare con quella esterna, visibile e oggettiva, che è il magistero apostolico. Nell’apocalisse, al termine di ognuna delle sette lettere, ascoltiamo l’ammonimento: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2, 7 ss.).

Lo Spirito parla anche alle chiese e alle comunità, non solo agli individui. San Pietro negli Atti riunisce le due testimonianze -interiore ed esteriore, personale e pubblica- dello Spirito Santo. Ha appena finito di parlare alle folle di Cristo messo a morte e risuscitato, e quelle si sono sentite “compunte” (cf. At 2, 37); ha fatto lo stesso discorso davanti ai capi del sinedrio, e quelli si sono infuriati (cf. At 4, 8 ss). Stesso discorso, stesso predicatore, ma effetto del tutto diverso. Come mai? La spiegazione è in queste parole che l’apostolo pronuncia in quella circostanza: “Di queste cose siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui” (At 5,32).

Due testimonianze devono unirsi perché possa sbocciare la fede: quella degli apostoli che proclamano la parola e quella dello Spirito che permette di accoglierla. La stessa idea è espressa nel vangelo di Giovanni, quando, parlando del Paraclito, Gesù dice: “Egli mi renderà testimonianza e anche voi mi renderete testimonianza” (Gv 15, 26).

È ugualmente fatale pretendere di fare a meno dell’una o dell’altra delle due guide dello Spirito. Quando si trascura la testimonianza interiore, si cade facilmente nel giuridismo e nell’autoritarismo; quando si trascura quella esteriore, apostolica, si cade nel soggettivismo e nel fanatismo. Nell’antichità, rifiutavano la testimonianza apostolica, ufficiale, gli gnostici. Contro di essi, sant’Ireneo scriveva le note parole:
“Alla Chiesa è stato affidato il Dono di Dio, come il soffio alla creatura plasmata…Di lui non sono partecipi quelli che non corrono alla Chiesa… Separatisi dalla verità, essi si agitano in ogni errore lasciandosi sballottare da esso; secondo i momenti, pensano sempre diversamente sugli stessi argomenti, senza mai avere un pensiero stabile” [9].

Quando si riduce tutto al solo ascolto personale, privato, dello Spirito, si apre la strada a un processo inarrestabile di divisioni e suddivisioni, perché ognuno crede di essere nel giusto e la stessa divisione e moltiplicazione delle denominazioni e delle sette, spesso in contrasto tra loro su punti essenziali, dimostra che non può essere in tutti lo stesso Spirito di verità a parlare, perché altrimenti egli sarebbe in contraddizione con se stesso.

Questo, si sa, è il pericolo a cui è maggiormente esposto il mondo protestante, avendo eretto la “testimonianza interna” dello Spirito Santo a unico criterio di verità, contro ogni testimonianza esterna, ecclesiale, che non sia quella della sola Parola scritta [10]. Alcune frange estreme andranno tanto oltre da staccare la guida interiore dello Spirito anche dalla parola della Scrittura; si avranno allora i vari movimenti di “entusiasti” e di “illuminati” che hanno punteggiato la storia della Chiesa, sia cattolica che ortodossa e protestante. L’approdo più frequente di questa tendenza, che concentra tutta l’attenzione sulla testimonianza interna dello Spirito, è che insensibilmente lo Spirito… perde la lettera maiuscola e viene a coincidere con il semplice spirito umano. È quello che è successo con il razionalismo.

Dobbiamo però riconoscere che esiste anche il rischio opposto: quello di assolutizzare la testimonianza esterna e pubblica dello Spirito, ignorando quella individuale che si esercita attraverso la coscienza illuminata dalla grazia. In altre parole, di ridurre la guida del Paraclito al solo magistero ufficiale della Chiesa, impoverendo così l’azione variegata dello Spirito Santo. Facilmente prevale, in questo caso, l’elemento umano, organizzativo e istituzionale; si favorisce la passività del corpo e si apre la porta alla emarginazione del laicato e alla eccessiva clericalizzazione della Chiesa.

Anche in questo caso, come sempre, dobbiamo ritrovare l’intero, la sintesi, che è il criterio veramente “cattolico”. L’ideale è una sana armonia tra l’ascolto di ciò che lo Spirito dice a me, singolarmente, con ciò che dice alla Chiesa nel suo insieme e attraverso la Chiesa ai singoli. Con il suo decreto sulla libertà di coscienza il concilio Vaticano II ha voluto operare appunto questa sintesi.

5. Il discernimento nella vita personale

Veniamo ora alla guida dello Spirito nel cammino spirituale di ogni credente. Essa va sotto il nome di discernimento degli spiriti. Il primo e fondamentale discernimento degli spiriti è quello che permette di distinguere “lo Spirito di Dio” dallo “spirito del mondo” (cf. 1 Cor 2, 12). San Paolo dà un criterio oggettivo di discernimento, lo stesso che aveva dato Gesù: quello dei frutti. Le “opere della carne” rivelano che un certo desiderio viene dall’uomo vecchio peccaminoso, “i frutti dello Spirito” rivelano che viene dallo Spirito (cf. Gal 5, 19-22). “La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne” (Gal 5, 17).
A volte però questo criterio oggettivo non basta perché la scelta non è tra bene e male, ma è tra un bene e un altro bene e si tratta di vedere qual è la cosa che Dio vuole, in una precisa circostanza. Fu soprattutto per rispondere a questa esigenza che sant’Ignazio di Loyola sviluppò la sua dottrina sul discernimento. Egli invita a guardare soprattutto una cosa: le proprie disposizioni interiori, le intenzioni (gli “spiriti”) che stanno dietro a una scelta.

Sant’Ignazio ha suggerito dei mezzi pratici per applicare questi criteri [11]. Uno è questo. Quando si è davanti a due possibili scelte, giova soffermarsi prima su una, come se si dovesse senz’altro seguire quella, rimanere in tale stato per un giorno o più; quindi valutare le reazioni del cuore di fronte a tale scelta: se dà pace, se si armonizza con il resto delle proprie scelte; se qualcosa dentro di te ti incoraggia in quella direzione, o al contrario se la cosa lascia un velo di inquietudine…Ripetere il processo con la seconda ipotesi. Il tutto in un clima di preghiera, di abbandono alla volontà di Dio, di apertura allo Spirito Santo.

Una abituale disposizione di fondo a fare, in ogni caso, la volontà di Dio, è la condizione più favorevole per un buon discernimento. Gesù diceva: “Il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 5, 30).

Il pericolo, in alcuni modi moderni di intendere e praticare il discernimento, è di accentuare a tal punto gli aspetti psicologici, da dimenticare l’agente primario di ogni discernimento che è lo Spirito Santo. C’è una profonda ragione teologica di ciò. Lo Spirito Santo è lui stesso la volontà sostanziale di Dio e quando entra in un’anima “si manifesta come la volontà stessa di Dio per colui nel quale si trova” [12].

Il frutto concreto di questa meditazione potrebbe essere una rinnovata decisione di affidarci in tutto e per tutto alla guida interiore dello Spirito Santo, come per una sorta di “direzione spirituale”. E’ scritto che “quando la nube s’innalzava e lasciava la Dimora, gli israeliti levavano l’accampamento, e se la nube non si innalzava, essi non partivano” (Es 40, 36-37). Anche noi, non dobbiamo intraprendere nulla se non è lo Spirito Santo, di cui la nuvola, secondo la tradizione, era figura, a muoverci e senza averlo consultato prima di ogni azione.
Ne abbiamo il più luminoso esempio nella vita stessa di Gesù. Egli non intraprese mai nulla senza lo Spirito Santo. Con lo Spirito Santo andò nel deserto; con la potenza dello Spirito Santo ritornò e iniziò la sua predicazione; “nello Spirito Santo” si scelse i suoi apostoli (cf At 1,2); nello Spirito pregò e offrì se stesso al Padre (cf. Eb 9, 14).

San Tommaso parla di questa conduzione interiore dello Spirito come di una specie di “istinto proprio dei giusti”: “Come nella vita corporale il corpo non è mosso se non dall’anima che lo vivifica, così nella vita spirituale ogni nostro movimento dovrebbe provenire dallo Spirito Santo” [13]. È così che agisce la “legge dello Spirito”; questo è ciò che l’Apostolo chiama un “lasciarsi guidare dallo Spirito” (Gal 5,18).

Dobbiamo abbandonarci allo Spirito Santo come le corde dell’arpa alle dita di chi le muove. Come bravi attori, tenere l’orecchio proteso alla voce del suggeritore nascosto, per recitare fedelmente la nostra parte nella scena della vita. È più facile di quanto si pensi, perché il nostro suggeritore ci parla dentro, ci insegna ogni cosa, ci istruisce su tutto. Basta a volte una semplice occhiata interiore, un movimento del cuore, una preghiera. Di un santo vescovo del II secolo, Melitone di Sardi, si legge questo bell’elogio che vorrei si potesse ripetere di ognuno di noi dopo morte: “Nella sua vita fece ogni cosa mosso dallo Spirito Santo” [14].

[1] Cf. S. Gregorio Nazianzeno, Discorsi, XXXI, 26 (PG 36, 161 s.).
[2] S. Gregorio Nisseno, Sulla fede (PG 45, 1241C): cf. Ps.-Atanasio, Dialogo contro i Macedoniani, 1, 12 (PG 28, 1308C).
[3] S. Ambrogio, Apologia di David, 15, 73 (CSEL 32,2, p. 348).
[4] Gaudium et spes, 11.
[5] S. Massimo Confessore, Capitoli vari, I, 72 (PG 90, 1208D).
[6] Cf. S. Agostino, Sulla prima lettera di Giovanni, 3,13; 4,1 (PL 35, 2004 s.).
[7] S. Cirillo di Gerusalemme, Catechesi, XVI, 19.
[8] Cf. F. Collins, The Language of God
[9] S. Ireneo, Contro le eresie, III, 24, 1-2.
[10] Cf. J.-L. Witte, Esprit-Saint et Eglises séparées, in Dict.Spir. 4, 1318-1325.
[11] Cf. S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, quarta settimana (ed. BAC, Madrid 1963, pp. 262 ss).
[12] Cf. Guglielmo di St. Thierry, Lo specchio della fede, 61 (SCh 301, p. 128).
[13] S. Tommaso, Sulla lettera ai Galati, c.V, lez.5, n.318; lez. 7, n. 340.
[14] Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, V, 24, 5. 

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