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IL MATRIMONIO E LA TEOLOGIA DEL CORPO IN SAN PAOLO

dal sito:

http://www.famigliaviva.it/files/la_teologia_del_corpo.doc

IL MATRIMONIO E LA TEOLOGIA DEL CORPO IN SAN PAOLO

Nel secondo millennio dalla nascita di San Paolo ormai tutti sanno che lui è il grande «teologo», ossia il profeta e il pensatore, del mistero della Redenzione . Per lui l’evento centrale dell’uomo, del mondo e della storia, è la liberazione dal peccato operata da Cristo con la sua immolazione sulla Croce (cf Rm 3,21-31). La salvezza dell’uomo in Cristo è il nucleo della sua predicazione. La premessa necessaria è l’esistenza di un peccato sia personale sia collettivo (cf. Rm 5, 8-19;  1Cor 15,21-22). La creazione intera, afferma l’Apostolo nella Lettera ai Romani, soffre e geme con dolori di parto, perché sta aspettando la manifestazione dei figli di Dio (cf. Rm 8,19-23). In questo contesto, squisitamente soteriologico, si inserisce la riflessione sull’uomo e sulla famiglia. L’uomo, che si riconosce fin dall’inizio peccatore, sa che il suo progenitore è Adamo, dal quale sono venuti il peccato e la morte; ma sa anche che il nuovo capo dell’umanità è Cristo .
L’incarnazione ci rivela che il corpo umano, proprio in quanto assunto da Cristo nell’ambito di un’umanità perfetta per esse¬re strumento e «mediatore» della Redenzione, il corpo umano non è una semplice «appendice» della salvezza individuale, ma lo strumento mediante cui si compie la salvezza di ogni uomo. Dio ci salva incarnandosi o, come dicono le antiche professioni di fede, «ominizzandosi» , quindi l’uomo deve far propria questa salvezza scoprendo due cose:
1. la prima è l’integrità della persona umana, in quanto composta da anima e corpo;
2. la seconda è il valore del corpo nell’ordine soprannaturale.
E in questo senso che il platonismo e qualsiasi dualismo che consideri il corpo come un peso, un freno, un carcere dell’ani¬ma, si allontanano radicalmente dal cristianesimo . L’ascetica platonica o pitagorica, e più ancora quella stoica, non hanno niente a che vedere con il senso cristiano della vita. San Paolo lo mette in luce con assoluta chiarezza: non ci salviamo eliminando il nostro corpo, come se dovessimo recuperare una per¬duta condizione angelica; ci salviamo, invece, dando il nostro corpo, sacrificandolo, impiegandolo per servire Dio e gli altri.
Ecco perché il corpo umano ha in sé una dimensione «oblativa», ossia «sponsale». Il corpo umano è fatto per essere generosamente «donato», non per essere annullato. Tutto ciò è particolarmente vero rispetto alla sessualità, che al corpo è indissolubilmente legata, e quindi alle forme che la sessualità umana assume: il matrimonio e il celibato. Perché il celibato non è una repressione della sessualità, ma un modo di esercitarla, concedendo una funzione prevalente non alla generazione fisica, ma a quella spirituale.
Il celibe non è una persona che rinuncia all’amore umano, bensì colui che ne sceglie una strada specifica: l’affetto universale, il cuore disponibile, una carità autentica piena di particolari concreti; una vera paternità o maternità, sollecita e attenta alle circostanze; una dedizione generosa, anche fisica; la grandezza d’animo, infine, di chi sa capire, aiutare, perdonare e sorreggere. E chiaro che quando parliamo di celibato non stiamo parlando necessariamente di uno «stato di vita» o della «vita di perfezione»; ma stiamo parlando della condizione di chi vuol vivere il celibato nella sua situazione nel mondo o di chi, senza averla cercata, accetta la condizione che la Provvidenza gli riserva .
Ovviamente ciò implica un concetto ampio di sessualità, ma chi ha detto che la sessualità umana si limita alla funzione ge¬nerativa? Non è forse l’uomo un essere che, quando «genera», non trasmette solo la vita biologica ma una vita «umana», ossia dotata di fattori intellettuali e volitivi che culminano nell’accet¬tazione di un ordine etico? Se ciò è vero dal punto di vista naturale lo è ancora di più da quello soprannaturale. Ecco quindi perché san Paolo ci offre un’occasione stupenda per scoprire in che modo il corpo umano partecipa al disegno divino della Redenzione.
Inoltre, a ben guardare, la vera dottrina paolina si discosta nettamente dalle due interpretazioni che storicamente ne sono state date, quella luterana e quella pelagiana. Infatti l’interpretazione luterana rimane eccessivamente legata alla condizione dell’uomo come peccatore e ignora, quindi, tutto il valore che l’incarnazione possiede come santificazione delle realtà umane. E una soteriologia esaltata ma falsa, perché pretende di salvare l’uomo «nonostante» la sua condizione umana. Inoltre, per forza di cose, la prospettiva luterana porta a una svalutazione della condizione umana di Cristo, avvicinandosi così alle antiche eresie di tipo docetista e monofisita. Si potrebbe quasi dire, e non mancano elementi storici per sostenerlo, che il luteranesimo non è lontano dal manicheismo.
L’altra ermeneutica del pensiero paolino è del tutto opposta: l’interpretazione pelagiana si sofferma solo sull’aspetto etico della dottrina dell’Apostolo, quasi che la salvezza dipenda dall’acquisizione delle virtù e non dalla grazia gratuita di Dio. San Paolo ricevette da Dio la missione di liberare l’uomo dalla schiavitù della legge di Mose e pertanto ne dichiarò decaduti i precetti. L’Apostolo insegnò inoltre che Cristo aveva stabilito una nuova legge: quella della carità. Eppure i pelagiani ritennero che san Paolo parlasse non di una legge spirituale, fondata sulla libera accettazione dell’amore che Dio ci offre, ma di una vera e propria legge, con nuovi precetti e nuove norme. Perciò essi affermavano di difendere la bontà del matrimonio, dei precetti, dell’uomo e della società, ma in realtà il loro era solamente un moralismo attivista, facile preda della riduzione a semplice filantropia. Al pelagianesimo si avvicina un certo modo di predicare che sottolinea esclusivamente lo sforzo e l’attività umani. Molto più affine alle opinioni di Pelagio è comunque l’atteggiamento, molto diffuso ai nostri tempi, che ignora, almeno in pratica, la realtà del peccato originale e ritiene che tutto ciò che è umano sia per ciò stesso buono e santo.
Per quanto riguarda il matrimonio e la sessualità, la visione luterana ha condotto e conduce al puritanesimo e quindi a pro¬porre, come modello di santità, una condotta «angelica». Il che porta inevitabilmente alla sua perversione, ossia alla convinzione che il peccato sia inevitabile e irresistibile. Invece l’ottica pelagiana rivaluta ed esalta, con apparente ottimismo, l’amore umano e l’unione coniugale. Ma, trascinata dal suo stesso slancio umanitario, finisce per deformare quegli stessi valori che vuole difendere. L’enfasi posta sull’amore reciproco dei coniugi, per esempio, ha fatto dimenticare la realtà della concupiscenza, il valore del celibato e la necessaria relazione dell’amore coniugale con la procreazione e l’educazione dei figli. Si potrebbe addirittura sostenere, senza tema di esagerare, che l’accettazione indiscriminata di qualsiasi metodo contraccettivo, purché marito e moglie si amino, è frutto di una certa mentalità pelagiana, rafforzata dal materialismo e dal pansessualismo imperanti. Il pelagianesimo, come il luteranesimo, offre di Cristo un’immagine deformata: Cristo è fondamentalmente «uomo», in consonanza con una visione di tipo subordinazionista o adozionista . Al più si può riconoscere che Cristo è sommamente santo e rivela all’uomo l’elemento divino presente nell’uomo. La soteriologia pelagiana, di conseguenza, è una soteriologia già realizzata: la Creazione e la Salvezza si implicano necessariamente.
Occorre dunque ritornare all’autentico pensiero di san Paolo che, non dimentichiamolo, è un pensiero ispirato. Orbene, nel vero pensiero paolino il corpo umano fa blocco unico con l’anima; anzi ciò che san Paolo prende in considerazione è l’uomo tutto intero, l’uomo così com’è, nella sua unità sostanziale di anima e corpo; e, aggiungiamo, di «pneuma», cioè di spirito, di presenza di Dio, di azione della grazia. Perciò nulla è più lontano dalla dottrina dell’Apostolo della sua versione manichea, quasi che san Paolo disprezzasse il corpo; e nulla è più distante da san Paolo della sua versione pelagiana, che lo riduce a un predicatore moraleggiante. Invece san Paolo è ben cosciente del dramma dell’uomo, ossia del dramma scatenato dal peccato originale che provoca in lui una divisione radicale e lo spinge a fare il male che non vuole, allontanandolo dal bene che vuole (cf. Rm 7,15-20).
Eppure l’Apostolo sa bene che gli uomini possono salvarsi solo come uomini e non come angeli, perché Gesù è un uomo, come uomo era Adamo. Ecco quindi che il corpo prende parte alla Redenzione. Primo come termine d’arrivo o «ricettacolo» della salvezza e della gloria: il nostro corpo è destinato a essere santificato e, dopo la morte, a resuscitare con Cristo e a ricevere la gloria (cf. 1 Cor 15,20-28). La grazia che proviene dall’incarnazione penetra tutta la realtà umana e ci converte in figli di Dio (cf. Rm 8, 3-17) e tempio dello Spirito Santo (cf. 1Cor 3, 16; 6,19) fino alla nostra più profonda radice: «Glorificate dunque Dio nel vostro corpo» (1Cor 6,20; cf. Rm 12,1).
Non si tratta solo di una funzione ricettiva, il corpo ci serve come strumento per manifestare ciò che è il vin¬colo della perfezione (cf. Col 3,14): quella carità nella quale si riassumono la Legge e i Profeti (cf. Rm 13,8). Per l’Apostolo vivere la carità vuol dire assumere un atteggiamento attivo, dar¬si agli altri, aiutarli nelle loro necessità spirituali e materiali . Quindi è affetto, comprensione, aiuto, sostegno: «Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2). Il corpo è lo strumento naturale e indispensabile di questa sollecitudine amorosa.
Ma c’è di più. La condizione del cristiano è quella di chi si è «sposato» con Cristo (cf. 2Cor 11,2). Ciò implica che dobbiamo dare a Dio non solo i nostri pensieri ma tutto il nostro essere: affetti, parole, opere. Il modello, che non è solo modello ma anche causa, è Cristo. Dobbiamo imparare o meglio  dobbiamo lasciarci «cristificare». Si tratta di vivere con la vita di Cristo, di giungere alla perfetta identificazione con il Figlio di Dio. «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Se è Cristo colui che vive in me, allora il mio corpo ha lo stesso ruolo del Corpo di Cristo, è parte sostanzia¬le della sua umanità e, quindi, strumento della Redenzione. Ecco perché si può dire che il corpo umano è «sacramentalizzabile», ossia è soggetto idoneo a fondare tutta l’economia sacra¬mentale, che è appunto formata da un elemento invisibile, la grazia, e da un elemento sensibile, l’uomo. Ne risulta rivalutato il sacramento del matrimonio, che ha come materia il corpo dei coniugi, proprio perché è un sacramento nel quale l’amore umano, avvolto dall’amore di Cristo per la Chiesa, diventa strumento che realizza il Regno. Ecco, in rapida sintesi, gli aspetti concettuali di questa «teologia del corpo» presente negli scritti paolini.

CRISTO È LO SPAZIO NEL QUALE IO VENGO AMATO DA DIO (Rm 8; citazioni da altre lettere)

dal sito:

http://www.collevalenza.it/CeSAM/08_CeSAM_0170.htm

Anton Schlembach*

CRISTO È LO SPAZIO NEL QUALE IO VENGO AMATO DA DIO

(la lettera a cui si riferise è Rm, 8, riferimenti ad altre lettere)

Nei nostri giorni si diffonde nel mondo occidentale un’atmosfera piuttosto di pessimismo. Poiché le ideologie del progresso non sono più convincenti prevale uno spirito e un atteggiamento di rassegnazione.

L’angoscia del futuro scuote tanti uomini al punto che non pochi ormai disperano dell’avvenire del mondo e dell’umanità. Il rifiuto di trasmettere la vita umana è uno degli inizi di questa situazione.

Il messaggio paolino nella lettura odierna è in contrasto con questo spirito della nostra epoca postmoderna. Esso è percorso da un ardito ottimismo. E infonde l’ottimismo cristiano della fiducia pasquale.

« Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio » sono le prime parole della lettura.

Noi sappiamo – dice San Paolo. E’ la convinzione di fede che possiede una certezza assoluta, anche se non la si può dimostrare agli altri con evidenza. Questa conoscenza viene testimoniata con la parola e con la vita e si rivela come forza portante persino nella morte. Non è tanto una conoscenza di dati ma della prospettiva e dell’orizzonte che danno senso alla nostra esistenza e alla realtà cosmica.

« Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio ». Che uomini sono quelli che amano Dio?

Sono gli uomini che credono in Dio, perché la fede è la promessa dell’amore e l’amore è il compimento della fede.

Sono allora gli uomini che si sono aggrappati a Dio; che percorrono il cammino della loro vita insieme con Dio; che prestano ascolto a Dio; che ubbidiscono a Dio; che parlano con Dio; che si affidano a Dio senza riserve, senza condizioni e senza limiti nella vita e nella morte. Sono gli uomini che con il loro cuore affidano al cuore di Dio se stessi, i loro fratelli e tutta la creazione.

Per questi « tutto concorre al bene ». Tutto senza escludere nulla. Nella seconda lettera ai Corinzi l’apostolo enumera situazioni che sembrano contraddire questa certezza. Egli parla di fatiche, di prigione, di percosse. Egli scrive: « Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le chiese » (cf. 11, 23-28). San Paolo ha visto da vicino la morte di frequente. L’acqua gli è arrivata letteralmente sino alla gola. Sapeva cosa vuol dire quando una persona viene brutalizzata. Conosceva il carcere dall’interno non come visitatore, ma da prigioniero oppresso in mille modi. Paolo non dubita che anche tutto questo porta al bene, purché uno ami Dio come unica condizione.

A questo punto si impone una domanda: E’ possibile un simile amore di Dio? E’ possibile amare Dio così, sempre ed ovunque? Anche la psicologia afferma che la possibilità di amare dipende da una condizione previa, quella cioè di essere prima amato, quella di sentirsi amati. Può amare senza riserve e limiti solo chi viene amato senza riserve e senza limiti. Possiamo dunque amare Dio con tutto il cuore solo se Dio per primo ci ama con tutto il suo cuore. Questa è la condizione di possibilità del nostro amare Iddio.

Paolo afferma che questa condizione si è compiuta.

Egli annuncia che l’unico vero Dio che esiste rivolge il suo amore a tutti gli uomini. Non come gli dei pagani capaci di amare solo qualcuno, a condizione di ricevere sacrifici e solo durante la vita terrena perché anch’essi devono arrendersi impotenti di fronte alla morte. Dio annunciato da Paolo è Iddio dell’amore illimitato, incondizionato assoluto.

Noi domandiamo all’apostolo: Dove hai imparato questo? Dove e come hai trovato questo Dio? Paolo risponde: Ho trovato Dio non attraverso speculazioni filosofiche e nemmeno mediante l’osservazione meticolosa della legge secondo lo stile dei farisei alla cui setta io ho appartenuto. Lo ho trovato nell’incontro con Gesù Cristo. Sulla via di Damasco mi è venuto incontro e così ho trovato il Dio dell’amore assoluto che ha liberato in me l’amore per lui. In quel momento io sono morto alla legge e ho cominciato una vita nuova tutta per Dio, cioè offerta a Dio nell’amore. Da allora io vivo nella fede nel figlio di Dio che mi ha amato e si è sacrificato per me (cf. Gal. 2, 19-21).

Cristo è dunque lo spazio nel quale io vengo amato da Dio e nel quale io amo Dio. In questo spazio conduco la mia esistenza e sono certo che a coloro che amano Dio tutto porta al bene; che nessuna creatura potrà separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore (cf. Rom. 8, 28-29).

Tutto ciò applicato alla nostra vita significa che noi possiamo amare Dio e di fatto lo amiamo solo se troviamo Cristo e se rimaniamo in comunione con lui.

Dov’è possibile per noi incontrare questo Cristo?

La risposta ce la dà il Vangelo di questa messa. Noi troviamo Cristo lì dove lo hanno trovato i discepoli di Emmaus.

Prima di tutto nella sua parola. Anche oggi egli riesce ad infiammare i nostri cuori se egli ci parla mediante la sacra scrittura, quando ci lasciamo ispirare da essa nella lettura personale o quando l’accogliamo con fede della predicazione della Chiesa.

Noi troviamo Cristo infine come discepoli di Emmaus nel gesto dello spezzare il pane. La celebrazione dell’eucaristia ci dona la possibilità dell’incontro più profondo con Cristo morto e risorto e in Lui con il padre ricco di misericordia, eterno e puro amore.

Noi troviamo Cristo infine come i discepoli di Emmaus nella comunità degli apostoli e dei discepoli. A questa comunità ecclesiale, a questa fraternità sempre più intensa e partecipata mira l’unione con Cristo nella parola e nel sacramento. Appare così che lo spazio visibile, tangibile, storicamente e socialmente concreto dell’amore passivo ed attivo di Dio è la comunità cristiana, è la chiesa terrena concreta.

L’appartenenza vissuta alla chiesa, corpo di Cristo, nella quale comunichiamo con Dio eterno amore è per noi pegno e garanzia che anche nella nostra vita tutto concorrerà al bene, cioè alla risurrezione della carne e alla vita eterna nel mondo che verrà. Amen.
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*     Omelia di Schlembach S.E. Mons. Anton, vescovo di Speyer (Germania), nella concelebrazione da lui presieduta, commentando: Rom. 8,28-39; Sal. 136; Lc. 24, 13-35

La Teologia del Corpo (anche Paolo)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-22197?l=italian

La Teologia del Corpo

(anche Paolo)

ROMA, sabato, 24 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la Lectio magistralis pronunciata dal Vescovo Jean Laffitte, Segretario del Pontificio Consiglio per la Famiglia, nella Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma, il 22 aprile.

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Il corpo umano e i suoi significati

Vorrei incominciare questa mia relazione con una prima osservazione sul titolo scelto: teologia del corpo. In verità l’espressione è paradossale. Il discorso su Dio, teo-logia, si riferisce alla persona umana considerata nella sua totalità e non solo in una dimensione del suo essere, qui, il corpo. Quindi quando si parla di teologia del corpo, è necessario capire fin dall’inizio in quale accezione si intende la parola corpo. Si tratta di tutta la persona umana considerata nella sua dimensione corporea. Parliamo così di un corpo animato, i cui fenomeni possono essere studiati nel campo di varie scienze: fisiologia, anatomia, tutti i settori delle scienze biomediche. Non è in questo senso ristretto fisiologico che la parola corpo deve essere intesa nella nostra prospettiva. Infatti, il corpo umano ha altri significati. Nella misura in cui rende presente e visibile tutta la persona umana, è portatore di valori simbolici: il corpo é la modalità in cui la persona è resa presente. Ogni persona si dà da contemplare nel suo corpo; il corpo è unico, singolare, personale. È certamente una realtà carnale. Tuttavia, è animato non al modo con cui un robot sarebbe animato da movimenti meccanici e stereotipati, ma in un modo tale da essere subito identificato come corpo di questa persona precisa. In questo senso, tutti i corpi sono diversi, perché diverse sono le persone.
Se ci vogliamo limitare all’antropologia di San Paolo, come la troviamo espressa per esempio nella prima lettera ai Tessalonicesi dove l’Apostolo si riferisce all’uomo tutto intero spirito, anima e corpo (1 Ts 5,23), vediamo che una realtà invisibile, indicata dai due termini anima e spirito, sui quali diremo poi una parola, è completata da un dato materiale, visibile, espresso dalla parola corpo. Come l’ha fatto giustamente osservare Denis Biju-Duval [1] questa antropologia non si deve opporre alla classica distinzione anima e corpo, più familiare agli spiriti occidentali. Secondo questo autore, le due antropologie (anima-corpo e spirito-anima-corpo) sono state opposte artificialmente, sostantivando i termini semitici, espressi nella Bibbia sotto forma di aggettivi: lo spirito (pneumatikos), lo psichico (psychikos). Le realtà spirituale e psichica rimandano all’interiorità dell’uomo, al cuore, luogo simbolico sia della decisione (spirituale) sia dei sentimenti e dell’affettività (psichica). L’interiorità dell’uomo si comprende solo nella tensione con la sua esteriorità. La carne esprime ciò che in qualche modo capita nel cuore dell’uomo. È talmente vero che, per designare la realtà interiore dell’uomo, si usa spesso simboli ed immagini ispirate all’esteriorità (oltre al linguaggio spaziale come per il binomio interiore-esteriore, troviamo elementi organici, il cuore, l’aria pura, le viscere, o ancora elementi naturali, parlando del cuore come di una terra fertile o sterile come di un tempio, di una casa, ecc..).
Oltre a questa funzione di rivelare qualcosa di nascosto, il corpo possiede il ruolo di mediare tra l’uomo e il mondo. Esiste una certa ambiguità del corpo nella misura in cui si trova per così dire a metà strada tra un oggetto subito (Körper) e un fatto assunto (Leib), tra se vogliamo l’avere e l’essere: ho un corpo che mi causa sofferenza o piacere, ma al contempo sono un corpo in tal modo che chi attacca e ferisce il mio corpo attacca e ferisce tutta la mia persona. Sono il mio corpo. Il mio corpo esige naturalmente rispetto.
Mi sembra che le distinzioni fatte aiutano a capire come la parola corpo sia una realtà complessa. Rimane adesso da dire qualcosa su l’altro termine del nostro titolo teologia.

Il corpo ha una valenza teologica per tre motivi fondamentali:

- il primo è il fatto che è stato voluto da Dio e creato da lui. Questa osservazione implica necessariamente che è portatore di alcune finalità intrinseche.
- Il secondo motivo è che Dio ha scelto il corpo umano come mediazione per rivelarsi agli uomini: è il dato dell’Incarnazione. Il verbo si è fatto carne.

- A questi due elementi, Creazione e Incarnazione, si deve aggiungere un terzo, la Risurrezione, che riguarda il destino finale del corpo umano; è un dato che specifica la fede cristiana: la resurrezione dei corpi. Nonostante la sua crescita, le sue sofferenze, il suo invecchiamento fino alla morte naturale, e la sua decomposizione organica, il corpo umano è destinato a risorgere. In una visione di fede, questo dato è stato accreditato dall’evento storico fondamentale che è stato la risurrezione di Gesù dai morti. È sulla base di tale evento che il cristiano crede davvero che ci sarà una resurrezione dei morti; un evento fondamentale per lui e per tutti gli uomini che saranno integrati alla forza del Risorto. Potremmo in un altro luogo approfondire il fatto che la risurrezione del corpo, lungi da essere una credenza irrazionale, si fonda al contrario sull’eminente coerenza della fede, espressa in questo campo dalla comunanza di destino tra il corpo di ogni battezzato e il corpo del Signore risorto.
È impossibile fondare una teologia del corpo senza integrare la certezza delle resurrezione. Ci aiuta in questo senso il testo essenziale di San Paolo nella prima lettera ai Corinzi: Il corpo poi non è per l’impudicizia ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Dio poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza (1 Cor 6, 13-14). Nel contesto di un insegnamento su l’uso sbagliato e peccaminoso del corpo che è la fornicazione, l’Apostolo trae le conseguenze morali in questo modo: Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! O non sapete voi che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due saranno, è detto, un corpo solo. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito (1 Cor 6, 15-17). In verità, per essere completi, dovremmo prolungare la lettura di San Paolo, in particolare ricordare queste due idee seconde le quali il corpo è tempio dello Spirito Santo, e poi che l’uomo non si appartiene più, dal momento che è stato comprato a caro prezzo dal Signore. Il caro prezzo è stato quello del Calvario, della passione e della morte di Gesù sul legno della croce.
Per riassumere in poche parole questi fondamenti della Teologia del corpo, è necessario non trascurare nessuno degli elementi appena evocati: creazione dell’uomo da Dio e quindi creazione del suo proprio corpo, assunzione del corpo umano dal Figlio eterno del padre, risurrezione di Gesù e risurrezione degli uomini nella sua persona, presenza dello Spirito di Dio come in un tempio, dando al corpo umano una eccelsa dignità.

Elementi strutturali della Teologia del corpo in Giovanni Paolo II

È solo a questa luce della fede cristiana che si può entrare nella comprensione della teologia del corpo di Giovanni Paolo II. Come si sa, la teologia del corpo designa il contenuto delle 129 Catechesi sull’amore umano che il Papa ha pronunciato dal 1979 al 1984 in occasione delle udienze pubbliche del mercoledì. Conoscete tutti almeno parte di questi testi che personalmente ritengo un apporto fondamentale del Magistero ordinario del pontefice polacco, e di cui sono convinto che siamo ancora solo all’inizio della diffusione.
La fecondità delle Catechesi proviene dal fatto che, non solo integrano l’insieme dell’approccio biblico e magisteriale tradizionale della Chiesa, ciò che abbiamo già provato a mostrare brevemente all’inizio di questa conversazione, ma esplicitandolo in un modo straordinariamente originale. L’originalità sta nel modo di presentare il contenuto della fede sulla persona umana, nel dinamismo proprio del soggetto. In questo modo, l’uditore o il lettore si sente personalmente impegnato in questa visione che prende un carattere esistenziale forte. Questa mi sembra una chiave centrale per capire la novità dell’apporto di Giovanni Paolo II.

a) il carattere concreto dell’esperienza

Vorrei ora darvi un primo criterio essenziale della teologia del corpo secondo Giovanni Paolo II, perchè gli consente di evitare fin dall’inizio ogni rischio di ideologia: si tratta del suo concetto di esperienza. Lungi dall’essere ridotta all’osservazione di fenomeni scientificamente osservabili, l’esperienza dell’amore non trascura alcuna delle dimensioni del vissuto umano. Tutti gli elementi dell’umana percezione e dei dinamismi volitivi dell’uomo sono presenti, oltre alla sua capacità di entrare in relazione con Dio. La comunione di persone secondo le Catechesi non si accontenta di usare l’apporto del personalismo di Martin Buber o di Max Scheler, ma ne dà la vera portata trascendente, dopo averne identificato la fonte in Dio: essere in comunione significa essere uniti a Dio fonte e fine di ogni autentica comunione umana. L’esperienza è un vissuto (un Erlebnis), il che significa a questa luce che Dio non è estraneo all’esperienza: l’uomo e la donna sperimentano la presenza e l’azione di Dio e Dio dà a loro la capacità di vivere una comunione di persone che diventa mediazione dell’assoluto e cammino verso di lui. È in questo senso che la comunione di persone è una vocazione e consente a chi ama davvero di santificarsi. In altre parole, di crescere nella comunione con Dio.
Faccio volentieri osservare che l’approccio delle Catechesi non è moralistico o volontaristico, ma si tratta di un approccio autenticamente mistico, nel senso che è concentrato sul mistero inafferrabile dell’unione tra Dio e l’uomo nel quale si inserisce la relazione nuziale uomo donna.

b) la solitudine originaria

La prima parte delle Catechesi è dedicata in modo classico alla lettura dei due racconti della creazione dell’uomo e della donna nei primi capitoli del libro della Genesi:1, 26-27. E Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò (Gen 1,26-27) ». Il secondo racconto (Gen 2, 18-25) mostra la creazione della donna a partire dalla costola di Adamo e l’accettazione da quest’ultimo del dono del creatore: questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. Da queste fonti tradizionali, il Papa non teme di proporre una lettura di tipo filosofico: usa un concetto normalmente psicologico, la solitudine, e lo trasforma in una realtà ontologica di creazione. Nasce così la geniale espressione solitudine originaria che definisce lo stato oggettivo nel quale fu creato il primo uomo, Adamo, che è pienamente realizzato nella sua umanità quando a lui viene offerto un aiuto a lui simile. Il secondo racconto presenta a questa luce l’uomo sotto l’aspetto della sua soggettività.
Il primo rapporto che sperimenta l’uomo è la sua relazione a Dio che l’ha creato direttamente a partire dall’argilla. È da Dio che riceve l’ordine di non gustare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Quindi, questo legame di dipendenza fondamentale da Dio fa capire la condizione etica dell’uomo, che si trova per la prima volta davanti a una scelta morale: ubbidire o disubbidire.
La solitudine originaria suggerisce l’attesa dell’uomo di questo aiuto a lui simile, ciò che consente di integrare in modo coerente il fondamentale desiderio che l’uomo ha di essere unito ad una donna. Viene integrata così tutta la dimensione del desiderio e della sua espressione sessuale: ormai i due faranno una sola carne.
La solitudine ha due significati essenziali: l’uomo si scopre diverso da tutto il mondo che lo circonda e sperimenta la specificità del suo essere nei confronti di tutte le creature.
Il secondo elemento interessa di più il nostro proposito. È al rapporto maschio-femmina che si riferisce Giovanni Paolo II quando parla di solitudine originaria: l’uomo fa l’esperienza dei propri limiti simboleggiati dai confini naturali del proprio corpo. La contemplazione del corpo della donna lo introduce in un’esperienza singolare, quella della bellezza del corpo. Attraverso questa mediazione che coinvolge tutta la sua natura, egli fa in un modo ancora più fondamentale l’esperienza della comunione. Come vediamo, il corpo serve anche a scoprire, attraverso l’ambiguità del desiderio, la vocazione profonda dell’uomo e della donna alla comunione.

c) la communio personarum

Un altro esempio è quello della comunione di persone, (communio personarum). La comunione rappresenta anche un dato di esperienza personale: essere in comunione con Dio, essere in comunione con l’altro. La seconda originalità di Giovanni Paolo II è di avere visto nella comunione di persone un dato creaturale che è stato perfettamente illustrato da un testo magisteriale: Mulieris Dignitatem. Mi riferisco ai primi numeri della lettera apostolica. Cito: Il fatto che l’uomo, creato come uomo e donna, sia immagine di Dio non significa solo che ciascuno di loro individualmente è simile a Dio, come essere razionale e libero. Significa anche che l’uomo e la donna, creati come « unità dei due » nella comune umanità, sono chiamati a vivere una comunione d’amore e, in tal modo, a rispecchiare nel mondo la comunione d’amore che è in Dio, per la quale le tre Persone si amano, nell’intimo mistero dell’unica vita divina ». In questo testo, in realtà, troviamo un eco di ciò che Giovanni Paolo II aveva introdotto in una delle Catechesi, procedendo a un’estensione straordinaria del concetto tradizionale di immagine di Dio. Egli infatti aveva scritto con audacia che: l’uomo diventa immagine di Dio non tanto nel momento della solitudine quanto nel momento della comunione ». Fin dall’inizio, infatti, non era solo l’immagine nella quale rifletteva la solitudine di una Persona che governa il mondo, ma anche, ed essenzialmente, l’immagine di una divina ed imperscrutabile comunione di Persone » [2].
L’implicazione di questa visione consente a Giovanni Paolo II di mettere in rilievo la complementarietà sessuale, nella misura in cui essa esprime proprio la comunione di persone come dato originario. L’assoluta novità della Teologia del Corpo, qui, proviene dal fatto che, nell’atto creativo dell’uomo da parte di Dio, è iscritta in questo modo la corporeità dell’uomo e della donna come una chiamata alla comunione.
Mi sia permesso qui di invitarvi a meditare la tendenza che esiste oggi, ad abbandonare il criterio assoluto della comunione per cogliere il vero senso della sessualità; esiste, infatti, un nesso tra questa tendenza e l’odierna ideologia che consiste nel trascurare la diversità sessuale attraverso la negazione esplicita della mascolinità e della femminilità. Mi riferisco all’ideologia del gender, la quale non ha altra scelta che una riduzione miserabile del mistero della sessualità umana a un dato meramente culturale, il quale fonderebbe il carattere indifferenziato delle scelte di comportamento nel campo sessuale. È interessante notare che questa visione ideologica si accompagna ad una mancanza di speranza nella capacità dell’uomo e della donna di vivere per sempre una comunione di persone nella sua forma coniugale, ciò che suppone d’evidenza la decisione di rispettarne i due caratteri essenziali di unità e indissolubilità.

d) il desiderio e la scoperta della dimensione sponsale del corpo

Ho parlato prima di ambiguità del desiderio nel senso che, nella sua struttura, il desiderio sessuale, come lo mostreranno alcune Catechesi, contiene insieme una dimensione gratificante che mira alla dilatazione del proprio essere nell’unione dell’uomo con la donna, ma anche un certo pathos, una sofferenza di chi sperimenta che non può dare a se stesso una gioia che solo la comunione con l’altro (o l’altra) può suscitare.
La ricchezza di un tale approccio mi sembra evidente. Osserviamo che trova la sua origine in una lunga contemplazione da parte del filosofo Karol Wojtyla del fenomeno dell’amore, nonché di un suo approfondimento della sua espressione coniugale nel mistero della sessualità. Una lettura delle sue opere filosofiche e antropologiche, per esempio, Amore e Responsabilità, Persona e Atto, i numerosi articoli pubblicati in Polonia di cui abbiamo da alcuni anni la traduzione in lingua italiana, manifesta l’influsso di vari autori appartenenti alle correnti fenomenologiche e personalistiche. Non è possibile sviluppare qui ciò che il filosofo Karol Wojtyla deve a ciascuno di questi autori di cui possiamo soltanto citare i principali: Edmund Husserl, Max Scheler, Edith Stein, Dietrich von Hildebrand.
Il desiderio manifesta un valore inscritto nel corpo: la sua dimensione sponsale. Il corpo è orientato al dono della persona. Secondo le parole stesse del Papa [3]3: il corpo esprime la femminilità per la mascolinità e viceversa la mascolinità per la femminilità, manifesta la reciprocità e la comunione delle persone. Proprio nell’Amore la persona diventa dono. Giovanni Paolo II si ispira all’antropologia sviluppata nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes per la quale l’uomo come persona, creatura che Dio ha voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante il dono di sé [4]4.
L’uomo puro di cuore scopre il significato sponsale del proprio corpo orientato verso il dono di tutta la persona e il ricevimento di tutta la persona dell’altra. L’amore presuppone questo doppio movimento, in una reciprocità del dono che i due coniugi fanno di sé all’altro (altra). Questo implica che i due siano giunti alla coscienza del significato del corpo. Il rispetto del significato del corpo segna un ethos del dono che consente ai vari dinamismi della persona di essere integrati.

e) il linguaggio del corpo

Sappiamo che il giovane esperto, al Concilio Vaticano Secondo, Karol Wojtyla, aveva partecipato alla riflessione e ai dibattiti su ciò che sarebbe diventato il contenuto dell’enciclica Humanae Vitae nel 1968. L’enciclica di Paolo VI ha dato luogo ad una contestazione dell’insegnamento e dell’argomentazione della morale coniugale insegnata in quel testo. L’arcivescovo di Cracovia aveva capito che il cuore dell’argomentazione doveva essere fondato sull’affermazione del carattere inscindibile delle due dimensioni dell’atto coniugale: unitiva e procreativa. Già la Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano Secondo aveva sviluppato questa analisi della natura dell’atto sessuale, il quale doveva riflettere l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana. L’atto coniugale possiede una intima struttura che va rispettata: è insieme un atto di profonda unione tra i coniugi e un atto che, nella misura in cui rimane aperto alla vita, può avere come conseguenza la venuta all’esistenza di una nuova persona umana. Questo possibile effetto non dipende solo dalla volontà degli sposi, come lo mostra il fatto che non tutti gli atti sessuali sono seguiti da un concepimento. L’osservazione ci aiuta a ricordare che il vero datore della vita è Dio creatore. Tuttavia, gli sposi hanno il potere di rendersi disponibili all’eventuale accoglienza di questa nuova vita, agendo in questo modo come dei collaboratori del Creatore. Per questo motivo sono detti procreatori. La trasmissione della vita è quindi una forma di servizio. Le due dimensioni dell’atto che unisce profondamente gli sposi non possono essere separate da un atto deliberato dei coniugi. Nella sua Teologia del Corpo, Giovanni Paolo II ricorda che Humanae Vitae si riferiva alle leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna. L’intima struttura dell’atto sessuale è chiamata dal Papa la verità ontologica dell’atto. Ora, gli atti degli sposi devono esprimere una tale verità. I coniugi la assumono rimanendo aperti alla trasmissione della vita; è un atteggiamento interiore che è reso possibile dalla virtù di castità coniugale. Il corpo umano è il mezzo di espressione dell’uomo integrale, della persona che rivela se stessa attraverso il linguaggio del corpo. Questo linguaggio dice Giovanni Paolo II ha un importante significato interpersonale, specialmente quando si tratta dei rapporti reciproci tra l’uomo e la donna. Il Papa aggiunge però che a un determinato livello il linguaggio del corpo deve esprimere la verità del sacramento. È una partecipazione all’eterno piano d’amore di Dio, ciò che gli consente di diventare quasi un profetismo del corpo. Vediamo che Giovanni Paolo II cerca di unire così la dimensione sacramentale del dono degli sposi alla dimensione personalistica. Così abbiamo una vera rivelazione del corpo che, nell’atto coniugale, significa non soltanto l’amore ma anche la potenziale fecondità. Se non è lecito separare il significato unitivo dal significato procreativo, è perché l’uno e l’altro appartengono alla verità dell’atto: l’uno si attua insieme all’altro e, in certo senso, l’uno attraverso l’altro. Non posso sviluppare qui tutta la forza argomentativa dell’enciclica Humanae Vitae visitata e interpretata da Giovanni Paolo II, né le implicazioni etiche che riguardano la paternità e la maternità responsabili e l’uso di metodi naturali per limitare le nascite, quando ci sono dei seri motivi (iustae causae). Per Giovanni Paolo II la malizia essenziale dell’atto contraccettivo, cioè reso deliberatamente infertile, proviene dal fatto che viene violato l’ordine interiore della comunione coniugale.

f) il sacramento del corpo

È questa relazione nuziale tra i coniugi che è il luogo della presenza di Cristo. La riflessione di Giovanni Paolo II sulla sessualità ha sempre avuto una prospettiva cristologica. Cristo è fonte e modello dei rapporti tra i coniugi. Il mistero nuziale d’amore tra Cristo Sposo e la Chiesa Sposa fonda i mistero del matrimonio cristiano. In una visione di fede la comunione d’amore e di vita tra i coniugi ha come missione propria, di natura profetica, di significare e di rendere attuale l’unione tra Cristo e la sua Chiesa. Dovremo riflettere sul modo con cui la Chiesa è veramente una comunione di vita e di amore. Da una parte è all’interno della Chiesa che viene trasmessa la vita eterna, dal momento che essa è resa feconda dal dono dello Spirito Santo. Dall’altra parte la Chiesa è essenzialmente una comunione d’amore, nella misura in cui è l’amore infinito che l’ha fatto nascere dal costato trafitto del Redentore. È interessante osservare che negli autori sacri e nella grande tradizione dei Padri, l’unione tra Dio e la Chiesa è sempre stata descritta in termini ispirati all’amore nuziale. Per esempio, nel contesto di un insegnamento coniugale, Paolo si riferisce al modello di Cristo che si prende cura della sua Chiesa. La Chiesa si nutre dell’attesa escatologica di essere eternamente unita al suo Signore. In questo modo l’unione tra Cristo e la Chiesa appare come la celebrazione delle nozze eterne dell’Agnello. L’analogia tra l’amore del Signore per la Chiesa e dell’amore dello sposo per la sua sposa è una pietra miliare della teologia cristiana del matrimonio in san Paolo. Tuttavia, anche in questo campo della sacramentaria l’apporto della Teologia del corpo di Giovanni Paolo II è molto originale. Parte dal legame che unisce corpo e sacramento. Come si sa, appartiene ad ogni sacramento di supporre una realtà corporale: il sacramento è segno di qualcosa, è una realtà visibile che rimanda ad un’altra realtà nascosta. Il Papa medita sulla lettera ai Efesini. Osserva che la realtà invisibile che deve essere significata è la carità di Cristo, il suo amore infinito. Ora quale è il segno visibile dell’amore di Cristo se non il suo corpo morto e risorto? Il corpo morto sulla Croce può essere interpretato senza difficoltà come la conseguenza dell’amore di chi ha offerto la propria vita per la salvezza del mondo. Tuttavia, il fatto che lo stesso corpo sia risorto mostra che è anche sacramento dell’amore del Padre, dal momento che è al Padre che il Figlio si è offerto in sacrificio. La risurrezione di Gesù attesta che la sua preghiera al Padre è stata esaudita.
Il mistero ecclesiale dell’amore degli sposi può essere prolungato, come lo fa Giovanni Paolo II, in una direzione eucaristica. San Paolo ricorda il dovere dei mariti di amare le mogli come il proprio corpo. Facendo in questo modo lo sposo che ama la propria moglie ama se stesso, nutre la propria carne e come dice l’Apostolo la cura come fa Cristo per la Chiesa poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento in Cristo e alla Chiesa.
Nel senso proprio, la parola corpo indica il corpo sessuato dell’uomo e della donna che consente loro, unendosi, di fare una caro. È in senso metaforico che la Chiesa è detta Corpo di Cristo. Questo suggerisce il legame profondo che unisce tutti gli uomini al Figlio di Dio. Abbiamo già evocato come l’unione sessuale tra l’uomo e la donna debba essere intesa come il dono reciproco che ciascuno dei due fa all’altro. Tuttavia, la frase paolina secondo la quale nessuno ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, contiene un riferimento implicito all’eucaristia: è con il proprio corpo che Cristo nutre la Chiesa. Il Papa osserva che l’analogia tra il rapporto uomo dona e la relazione Cristo Chiesa contribuisce ad illuminare il mistero divino, nel senso che ci insegna qualcosa sull’amore reciproco che unisce Cristo alla Chiesa. Nel contempo, però, ci insegna anche la verità essenziale del matrimonio, la cui vocazione consiste nel riflettere il dono di Cristo alla Chiesa insieme all’amore della Chiesa per Cristo. Se il sacramento ha come finalità di esprimere questo mistero divino, dobbiamo ammettere che non potrà mai farlo completamente. Il mistero, infatti, eccede sempre il sacramento. Ma Giovanni Paolo II completa la sua analisi con l’osservazione secondo la quale il sacramento, in realtà, va oltre il significato. Non si accontenta di proclamare il mistero in modo significativo; è destinato a realizzarlo nell’uomo. È cosi in virtù del battesimo degli sposi la loro intima comunione di vita e d’amore fondata dal Creatore come ha mostrato Giovanni Paolo II, è elevata e assunta nella carità nuziale di Cristo che la sostiene con la sua forza di redenzione.
È certamente la luce della Redenzione che consente al Papa di dare alla Teologia del corpo la sua dimensione più profonda. Il centro dell’attenzione si volge qui verso l’Ultima Cena. Nel momento della più intensa comunione con i suoi discepoli, Gesù anticipa la libera offerta che egli farà di se. Non solo afferma che il pane e il vino che da loro da mangiare e da bere sono il suo corpo suo sangue, ma ne esprime il valore di sacrificio rendendolo sacramentalmente presente. Il corpo tradito e il sangue versato ormai non hanno solo il significato di un simbolo: sono offerti come cibo e bevanda ai discepoli che, uniti a Gesù è tra di loro, si uniscono corporalmente a lui. Essere unito corporalmente a Cristo vuole dire associato al suo sacrificio redentore. L’unità nella carità è richiesta per ricevere degnamente ed efficacemente il corpo e il sangue di Cristo. Questo dono è fatto a tutta la Chiesa Sposa di Cristo. Il Papa mostra così che l’essenza dell’eucaristia è nuziale, perché è il dono che lo sposo fa alla sua sposa e che la sposa accoglie nella fede.
Potete senza sforzo immaginare l’interesse di questo sviluppo per una autentica spiritualità coniugale. Indico solo alcune vie di esplorazione: l’eucaristia rinforza è rigenera la comunione fra gli sposi; essa rivela ai sposi cristiani la vera identità eucaristica del matrimonio; è in qualche modo memoria del dono che gli sposi si sono fatti l’uno all’altra; la luce eucaristica consente di pensare l’unione degli sposi nella sua giusta dimensione di donazione totale, aperta a una fecondità che la trascende.

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 [1] Biju-duval D.; La profondità del cuore. Tra psichico e spirituale (Prefazione J. Laffitte), Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2009, pp. 29-41
 [2] Giovanni Paolo I, Catechesi XIX, Ibid., pp.91.
[3] Giovanni Paolo II, Catechesi XIV, XV e XVI, in Uomo e Donna lo creò, Catechesi sull’amore umano, Città Nuova Editrice-Libreria Editrice Vaticana, Roma 1985, pp 74- 83
 [4] Ibid., p 80.

LA “PAOLINITÁ” DEL PASTORE di Michele Delle Foglie, parroco

dal sito:

http://www.preticattolici.it/Teologia%20spirituale.htm#LA_“PAOLINITÁ

LA “PAOLINITÁ” DEL PASTORE di Michele Delle Foglie, parroco

 Il primo linguaggio che ha sempre aperto il cuore dei fedeli e ha attirato il loro amore verso Chiesa è stato il modo con cui il parroco ha indossato i panni del Pastore. Il linguaggio dei gesti concreti, specialmente dell’attenzione ai periferici o anche lontani, ha sempre aperto un varco per il quale non doveva passare la persona del parroco, il suo saper dire o il suo saper fare: sarebbe questo un fallimento! Doveva invece passare, deve necessariamente passare il messaggio affidato alla nostra predicazione: «Ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre» (Fil 2,11). Nella predicazione non ho mai registrato la necessità dell’uso del linguaggio teologico, benché anche a me sia piaciuto studiare un po’ di teologia e tenermene aggiornato. Un conto è il bagaglio delle nozioni e della dottrina, un conto è la comunicazione del messaggio che richiede i segni immediati della percezione e dell’accoglienza. Quel dire di san Paolo – «Mi sono fatto tutto a tutti» (1Cor 9,22) – mi pare che sia misura e compimento dell’esigenza di offrire nel nostro ministero, specialmente nella nostra predicazione e nella presidenza della sacra liturgia, non qualcosa per la vita ma “Qualcuno” che dà la Vita. Se il messaggio della Chiesa è Cristo ieri, oggi e sempre, è Cristo il dono della fede, che si apre all’accoglienza perché i suoi testimoni non predicano una dottrina, bensì il “Vangelo” del Signore Gesù. Paolo getta il fondamento della sua riuscita sul punto essenziale della sua conversione, della sua vocazione e della sua missione: Cristo Gesù è il suo amore, la sua vita offerta in sacrificio. Il Pastore dei tempi moderni attinge a questa inesauribile sorgente dell’amore di Dio in Cristo Gesù che è motivo della sua fedeltà al ministero ricevuto, alla sua difficile missione tanto poco compresa dal mondo e molto più combattuta fino alla persecuzione. Il linguaggio dell’amore è il linguaggio del vangelo e del suo Maestro; è il linguaggio dell’apostolo e dei santi; è il linguaggio della Chiesa quando spoglia se stessa della veste preziosa per indossare, per dirla con il Servo di Dio Don Tonino Bello, il grembiule del servizio. Il linguaggio dell’amore investe la vita ministeriale e apre la strada alla comunicazione, al dialogo, all’intesa reciproca e alla conversione. Quante e quante volte nella nostra vita di parroci, pastori più avvertiti dalla sensibilità del popolo a motivo della qualifica del nostro ufficio pastorale, il nostro contatto con la gente, anche la più lontana dei nostri ambienti, rifulge per un semplice gesto di cortesia, per un saluto, per un qualche interesse al mondo del lavoro o della sofferenza, o del mondo giovanile e degli anziani. All’ascensore dell’ospedale, dove corri perché chiamato ad amministrare il sacramento dell’unzione degli infermi, ti senti dire: «Grazie, Padre, per essere venuto; noi non siamo della sua parrocchia, ma avevamo bisogno del sacerdote. Le saremo grati per sempre». Sali le scale per comunicare alla famiglia la tragica morte del figlio, il giovane Paolo, vittima dell’incidente stradale, e chiedi al Signore la parola giusta per l’ingrato compito. «È successo qualcosa», hanno intuito la ferale notizia che riguarda il figlio di appena 23 anni morto sul colpo per l’urto frontale. Prolungare la presenza nella famiglia e condividerne in silenzio le lacrime apre alla fiducia e alla confidenza nel pastore d’anime. Ti rechi con discrezione nelle case più umili e più povere. La carità non fa chiasso, perciò si fa in modo che il pasto quotidiano vi giunga con il massimo riserbo. Cosa poi senti dirti? «Non sapevo, Padre, di questa carità della Chiesa», e voi cosa sapete, mi domando. «Non l’avrei mai saputo né creduto se la persona beneficata non me lo avesse confidato». Molti parlano e tanti hanno scritto di un’ “arte pastorale”. Essa è anche tra le materie d’insegnamento nei seminari. Ma non basta che sia materia d’insegnamento, perché si rischia l’astrazione se mancasse la “vita del Pastore” offerta senza misura, che è il segno massimo della sua configurazione al buon Pastore, maestro e santificatore, «il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Non dunque la straordinarietà del ministero, ma la quotidianità di vita di ogni giorno vissuta per la causa di Cristo e del vangelo. In tal modo non è difficile percepire i sentimenti del popolo dei fedeli, dei vicini e dei lontani: quel modo di pregare e di celebrare, quella straordinaria sensibilità verso i poveri, quel grande rispetto per i dotti e per gli umili, finanche per i lontani o forse anche nemici della Chiesa; quel farsi piccoli con i piccoli, quella particolare tenerezza verso gli anziani, quel cuore paterno vicino a tutti nella sofferenza nel lutto e nella prova; quella profezia nella sua predicazione, quel piacere di ascoltarlo; quella severità a tempo opportuno, quei richiami forti e amabili al suo gregge, quell’appello rispettoso ma esigente alle istituzioni; quel consenso, spesso tacito e velato, ma sempre vero nella missione pastorale del proprio parroco… L’ardore e l’ansia apostolica di Paolo verso le anime sono propri di chi ha incontrato Cristo e sa di essere stato da Lui amato fino al sangue e a Lui ha offerto tutta la sua vita; di chi ha reso vincente la scommessa che Gesù aveva fatto su di lui riguardo al discepolo Anania, turbato da quella conversione che avrebbe fatto dello spietato persecutore dei seguaci di Cristo un vas electionis: «Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15-16). Lo stile dell’Apostolo va all’essenziale, in molte prove sempre sorretto dalla forza della verità che egli stesso predica: «Vivendo la verità nell’amore» (Ef 4,5). È lo stile semplice ma forte di chi ha creduto e si sente chiamato e consacrato a dare la vita perché il vangelo penetri il cuore di ogni uomo. Anche fino all’inferno, pur di salvarne uno solo! (1Cor 9,22). È la vita fatta dono e sacrificio, dono e servizio, dono e responsabilità. La predicazione di Paolo, ad ampio respiro missionario, è fatta non di dottrina astratta, ma di vita testimoniata fin dal martirio. Paolo non teme le potenze di questo mondo, è proteso al traguardo. In catene a Roma scriverà: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7). Sa egli di non predicare se stesso, ma il vangelo di Gesù Cristo Salvatore, e Cristo crocifisso: «Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso come io per il mondo» (Gal 6,14) . E predicare per Paolo non è facoltativo. È invece un obbligo: «Guai a me se non predicassi il vangelo!» (1Cor 9,16). La vita sacerdotale e il ministero pastorale del parroco hanno da attingere abbondantemente al vangelo di nostro Signore Gesù Cristo. Ma non è passato questo stesso vangelo attraverso l’esperienza dell’apostolato di chi adesso ha per vocazione consacrato la propria vita? Non si chiama, oggi più che mai, l’apostolo Paolo il grande catecheta e il catechista missionario del vangelo predicato a tutte le genti secondo il comando di Gesù? «Gesù disse loro: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15). È tutta qui la ragione e la forza della “paolinità” che investe la vita e la storia della Chiesa, e tutta la permea e la informa durante i secolari percorsi della sua missione. È qui anche la fonte del respiro paolino che a pieni polmoni è presente nel nostro ministero. È una strada tracciata e battuta ormai da duemila anni, perciò è una strada sicura perché il vangelo sia predicato, in parole e in opere, anche oggi a tutti i popoli e a tutte le nazioni. L’Areopago ateniese (At 17,22ss.) ai nostri giorni non è più o esclusivamente il pulpito delle nostre chiese e delle nostre cattedrali, dove forse molto si proclama e poco si ascolta. Ed ecco la necessità di “impiantare “ pulpiti dovunque è presente l’uomo, dove egli vive, dove egli lavora, dove egli si aggrega, gioisce o soffre, discute o riflette. Sono i moderni areopaghi da dove l’apostolo di Cristo annuncia la parola che salva e la sostiene con la buona testimonianza della vita, che le dà credito ed efficacia. Il comando di Gesù di portare il vangelo in ogni angolo della terra impegna gli evangelizzatori e i ministri, dispensatori dei misteri di Dio, a cominciare dalle nostre parrocchie, dai nostri paesi, dalle nostre città. Col linguaggio nuovo, “ma sempre antico” della carità, il più persuasivo e il più fecondo dei linguaggi, perché è il linguaggio comunicativo dell’amore. 

Il messaggio biblico sulla Carità – San Paolo (su tutti i testi di Paolo – Inno alla carità))

dal sito:

http://www.cistercensi.info/monari/1981/mc030181.htm

Il messaggio biblico sulla Carità – San Paolo

3 Gennaio 1981
Fonte, volume “Credo in Cristo mia vita” – “Le virtù teologali nella vita del laico” – A cura di Ernesto Cappellini – Editrice A.V.E. Roma 1981 – “Capitolo III” (pp 72-97).

A / San Giovanni
C / Vangeli sinottici

(se li volete leggere sul sito)

B / San Paolo

Non sarebbe difficile ripercorrere uno ad uno questi punti nelle lettere di San Paolo e vedere come – con differenti accenti e prospettive – è la stessa fede che si esprime. “Con differenti accenti” perché certo a ogni autore del Nuovo Testamento bisogna riconoscere una sua originalità. Per quanto riguarda Paolo la sua dottrina sull’amore è strettamente legata a quella della giustificazione mediante la fede e, insieme a questa, è legata alla comprensione del mistero pasquale come mistero di redenzione.

– I –
«[6]Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. [7]Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. [8]Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5, 6-8). Al centro dunque c’è la croce, la morte di Cristo come segno di amore, e di un amore gratuito. Perché negli “empi” per cui Cristo è morto non c’è nulla di gradevole, di attraente, nulla che possa spingere “naturalmente” a sacrificarsi per loro. La morte di Cristo è quindi un gesto gratuito, creativo, nel senso più pieno perché crea la bontà e la amabilità di ciò che ama. La preziosità dell’uomo peccatore è data esattamente dal fatto che Cristo muore per lui e non viceversa. Ma la riflessione di Paolo ha un altro punto importante; leggiamo nel v. 8: «Dio dà prova del suo amore verso di noi perché (…) Cristo è morto per noi». Noi avremmo detto più facilmente: «Cristo dà prova del suo amore…», ma Paolo opera uno spostamento molto significativo: «Dio dà prova…». Ciò significa che nella visione paolina Dio e Cristo sono una cosa sola per quanto riguarda l’opera della salvezza. In Cristo Dio stesso si fa vicino agli uomini, li ama, li salva: «[19]È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe» (2 Cor 5, 19). In questo modo-, la croce di Cristo diventa il “vanto” del cristiano (cfr. Gal 6, 14), diventa cioè il fondamento unico sul quale possiamo mettere la nostra fiducia; è da lì che viene la nostra salvezza. Non quindi nella nostra intelligenza o scienza o buona volontà, ma nell’amore di Dio che ci ha riconciliati in Cristo. Se San Paolo combatte strenuamente la sua battaglia per affermare che la giustificazione avviene mediante la fede, il motivo è che su questo si decide il valore della croce di Cristo. Ai Galati che “ammaliati” da dei Giudaizzanti sentono la tentazione forte di ritornare alle pratiche della legge come via verso la salvezza, Paolo ricorda con serietà: «Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla(…) Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia(…) Noi infatti per virtù dello spirito attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5, 2.4-6). “La fede che opera per mezzo della carità”; è una delle formulazioni più tipiche della teologia paolina. Non c’è giustificazione dell’uomo se non mediamente la fede, cioè mediante l’accoglimento umile e obbediente del dono di Dio. A sua volta la fede rende possibile e necessaria la carità; dove non c’è fede la carità non può nascere; ma d’altra parte una fede che non si esprima nella carità è inefficace, anzi contraddittoria, perché non produce quel frutto di libertà di cui solo l’amore è il segno.
– II –
Proprio l’essere amati gratuitamente da Dio è il fondamento della libertà cristiana di cui Paolo è un irriducibile difensore: «[35]Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (…) [37]Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. [38]Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, [39]né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 35-37-39). Il senso è che in mezzo alle numerose paure che accompagnano la nostra vita ci rimane come punto di appoggio saldo e incrollabile l’amore che Cristo ci ha dimostrato. La vita dell’uomo è infatti collocata su un dedicato equilibrio; è una vita fragile, bisognosa di mille cose, condizionata da mille fattori. Non c’è da meravigliarsi se a volte l’uomo si lascia sedurre dalle promesse del mondo e ne diviene schiavo; il denaro, il potere, il benessere si presentano come sicurezze consolanti in mezzo al mare di incertezze che ci paralizzano. «Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati». E cioè, l’amore di Cristo ci libera dalla paura. Nell’essere amati da Cristo la nostra vita acquista un senso e non siamo più costretti a cercare di darle un senso noi stessi col successo o con la bella figura o con qualunque altro surrogato; se «Cristo mi ha amato e ha dato la sua vita per me» (Gal 2, 20) non c’è bisogno di altro perché la mia vita abbia valore. Ecco allora che tribolazione o angoscia o persecuzione non si tramutano più in disperazione; al contrario può succedere che «sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4; cfr 2 Cor 4, 7ss).
Il cristiano è dunque libero da tutte queste cose, è signore della vita e della morte perché la vita non lo seduce e la morte non lo terrorizza; parimenti il presente non lo imprigiona e il futuro non lo sconvolge (cfr. 1 Cor 3, 21-23). È iniziato a tutto; alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Può tutto nella forza che gli viene da Cristo (cfr. Fil 4, 12s).
– III –
Ma che libertà è questa di cui il cristiano gode, anzi a cui il cristiano non può rinunciare se non vuole rinunciare nello stesso tempo alla sua condizione di “salvato”? Per Paolo la prospettiva è chiara; il cristiano ha una sola libertà, quella di amare e di servire gli altri: “13]Voi fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5, 13). Paradossale libertà! È libertà dalla carne, cioè dall’egoismo e da tutte le schiavitù che l’egoismo ci impone; ma e libertà che si esercita nel servizio premuroso e attento degli altri. Ma come si possono conciliare queste due cose: libertà e servizio? Non c’è una contraddizione evidente? Libero è “colui che esiste per se stesso e non per gli altri” (Aristotele); servo è esattamente il contrario: chi vive per un altro e non per se stesso. Eppure per Paolo il cristiano può esercitare la sua libertà solo mettendosi a servire, imparando a portare i pesi degli altri (cfr. Gal 6, 2). Il fatto è che per Paolo la carità, il servizio, non sono una legge esterna da osservare scrupolosa mente ma sono prima di tutto un dinamismo interiore da lasciar sviluppare e crescere. «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). L’amore con cui Dio ci ama (cfr. la nota della BJ) si diffonde nel nostro cuore per mezzo dello Spirito Santo. Siamo sommersi dall’amore di Dio che ci domina e questo amore diventa nei nostri cuori sorgente di amore e di servizio fraterno. È come un seme, lo Spirito, che genera una vita nuova, una vita che ha i suoi frutti caratteristici (anzi il suo frutto; San Paolo usa il singolare; i nove termini indicano quindi tutti la stessa realtà contemplata nella sua multiforme ricchezza): «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 22).
IV
Ma forse la descrizione più ricca del mondo in cui la carità diffusa nei nostri cuori opera e si manifesta si trova nell’“Inno alla carità” di 1 Cor 13. Per capirlo bisogna tenere presente anzitutto il contesto. Paolo sta parlando dei doni dello Spirito e della gerarchia di valore che esiste tra questi doni diversi. A Corinto gli è stata posta una domanda precisa a riguardo di due carismi diversi: la profezia e il parlare in lingue (una specie di parlare estatico, con suoni non articolati, incomprensibile quindi ma che faceva molta impressione perché sembrava un parlare angelico). A quale di questi due carismi bisogna riconoscere il primato? Quale dei due bisogna piuttosto ricercare? L’apostolo darà la sua risposta nel cap. 14 assegnando il primo posto alla profezia perché essa edifica tutta la comunità cristiana mentre il parlare in lingue non edifica gli altri che non lo capiscono. Ma prima, dice Paolo “vi insegnerò una via che sorpassa ogni altra”. Al di sopra del parlare in lingue, al di sopra della profezia, al disopra di ogni altro dono dello Spirito sta la carità.
É anch’essa, certamente, un dono dello Spirito (cfr. Gal 5, 22) e tuttavia non un dono accanto agli altri; piuttosto è quel dono che dà valore e consistenza a tutti gli altri. E Paolo, con un termine significativo, la chiama una “via”, un cammino sempre aperto, senza fine. La carità è esattamente questo: non una virtù che si può conquistare; non un pacifico possesso di cui godere, ma solo una via per la quale si deve camminare senza mai superarla del tutto, un “compito immenso” che non si potrà mai esaurire. L’Inno si articola chiaramente in tre parti: anzitutto Paolo fa il confronto tra la carità e tutti gli altri carismi; poi – con una serie di 15 verbi – descrive la carità in atto; infine insiste sulla permanenza eterna della carità in confronto con tutti gli altri carismi che sono destinati a scomparire. Vediamo. I vv. 1-3 prendono successivamente in esame i diversi carismi con un “crescendo” significativo: il parlare in lingue, la profezia, la scienza, la fede (cioè in questo caso il dono di fare miracoli), l’elemosina, il sacrificio della vita. Evidentemente bisogna intendere la lista come fosse completa: questi o qualunque altro carisma possa esistere, dal più umile al più elevato. E ripetutamente Paolo afferma che il valore dei singoli carismi e loro dato dalla carità. Senza la carità «sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna… non sono nulla… nulla mi giova» (1 Cor 13, 1). È impressionante questa serie di affermazioni che elimina ogni illusione di grandezza fondata sul possesso dell’uno o dell’altro dono. Paolo non dice solo che la carità è il massimo dei carismi, il primo, il più importante; dice chiaramente che qualsiasi carisma se non e vivificato dalla carità non ha nessun valore. Può anche essere, in sé, importante; può ottenere riconoscimenti elevati; può addirittura servire alla edificazione degli altri; ma non ha nessun valore per chi lo pratica. Possiamo forse accostare a questa riflessione il testo di Rm 13, 8: «Non abbiate con nessuno altro debito se non quello di un amore vicendevole», che vuol forse dire: se devi qualcosa a qualcuno, guarda di darglielo per amore; è l’unica motivazione valida. Se fai l’elemosina, falla per amore e non per farti vedere; se elogi una persona, che sia per amore e non per adulazione. Solo in questo modo ciò che doni a un altro diventerà anche motivo di edificazione per te. Ma perché alla carità è riconosciuto questo statuto speciale all’interno dei doni dello Spirito? Ci può aiutare a capirlo l’ultima parte del capitolo dove ritorna il confronto tra la carità e gli altri carismi per dire che «le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà», mentre al contrario «la carità non avrà mai fine». Paolo evidentemente contrappone “questo mondo” con il “mondo che viene”, per dire che la carità appartiene al mondo futuro mentre gli altri carismi appartengono a questo mondo. E allora, quando la scena di questo mondo sarà passata, passerà con lei anche tutto quello che è imperfetto e cioè tutti i carismi. Ma la carità no; perché la carità non è determinata dalle esigenze di questo mondo ma è la sostanza del mondo futuro. In altre parole la carità è “la forma escatologica di vita”, la forma della vita perfetta verso la quale siamo incamminati e che solo nel mondo futuro si realizzerà pienamente. Ma se la carità appartiene al mondo futuro, al mondo di Dio e non a questo mondo, come essa è entrata nell’esperienza del cristiano? Come la possiamo vivere e sperimentare? Bisogna tornare a quanto abbiamo ascoltato più sopra: «La speranza non delude perché l’amore di Dio è stato, diffuso nei nostri, cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato» (Rm 5, 5). C’è dunque la carità nei nostri cuori; ma non c’è per un impulso naturale, nativo. C’è perché ve l’ha riversata lo Spirito Santo; c’è perché Dio ci ha amato. Ma è tempo che, guidati da Paolo, ci lasciamo istruire sull’opera della carità. «La carità è paziente», longanime. Un gesto di rifiuto non la chiude in se stessa; la mancanza dì riconoscenza non la intristisce. È generosa, munifica, signorile. È la caratteristica di chi è ricco e non tanto di beni quanto di cuore; non meschino, non avaro, non meticoloso nel misurare ciò che dona. Così è Dio «misericordioso e pietoso… ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34, 6). Proprio perché è infinitamente ricco, Dio può permettersi di essere splendido, magnanimo; può donare gratuitamente e con sovrabbondanza. E la carità è “divina”; è ricca della ricchezza stessa di Dio e da lui impara a comportarsi. Si legga, come esempio, quello che Paolo scrive ai Corinzi: «Il nostro cuore si è spalancato per voi…!» (2 Cor 6, 11-13). «É benigna la carità». È detto di Dio che è benevolo verso gli ingrati e i malvagi (cfr. Lc 6, 35) e cioè non restituisce male per male ma ama e benefica anche i cattivi; e proprio in questo modo Dio cerca di spingere il peccatore alla conversione (cfr. Rm 2, 4). Certamente anche Dio reagisce al peccato dell’uomo con l’ira e si mostra a volte severo; ma «l’ira di Dio dura in istante, la sua bontà per tutta la vita» (Sal 30, 6); e quando egli corregge lo fa sempre come un padre fa verso il suo figlio (cfr. Eb 12, 7), «Non è invidiosa la carità», non considera cioè gli altri come degli. avversari e non è ossessionata dal bisogno di fare valere se stessa; non trova perciò nessuna compiacenza nell’abbassare gli altri. Per questo sa «piangere con quelli che sono nel pianto» e, cosa ancor più difficile, «rallegrarsi con quelli che sono nella gioia» (Rm 12, 15). L’invidia, al contrario, gode per gli insuccessi degli altri, e si rode per le loro gioie. In questo a carità si mostra semplice: prova la gioia e il dolore per quello che sono, non li trasforma con l’ottica deformata dell’egoismo e dell’interesse. «Non si vanta»; non ha sempre sulla bocca il proprio io; sa apprezzare e stimare con gioia i doni degli altri. Non pretende che sulla scena tutti i riflettori siano puntati su di lei; lascia spazio agli altri. E anche quando ama non guarda troppo se stessa, non soffoca con spiegazioni e richiami e parole il suo comportamento. È umile, discreta, modesta. «Non si gonfia» come gli gnostici di Corinto che, consapevoli di “avere la scienza”, disprezzano i deboli o, semplicemente, non li vedono neppure (cfr. 1 Cor 8, 1-2.11). La carità si prende così come è; non ha bisogno di ingrandirsi artificialmente con parole (cfr. l Cor 4, 18s.) per nascondere la sua povertà interiore. «Non manca di rispetto»; ama la chiarezza, interiore ed esteriore; non cerca di fare colpo o di scandalizzare. È pudica, non sfacciata; educata ma non formalista. «Non cerca ciò che è» suo (Bibbia CEI: “non cerca il suo interesse” ma il senso è anche “non è attaccata ai suoi diritti”). È una esortazione che ritorna spesso nelle lettere di Paolo: «Nessuno cerchi l’utile proprio, ma quello altrui» (1 Cor 10, 24 cfr 10, 33). «Senza cercare ìl proprio interesse ma anche quello degli altri» (Fil 2, 4). Quest’ultimo testo è illuminante perché è collegato con l’inno cristologico di Fil 2, 6-11, dove Paolo mette davanti agli occhi dei Filippesi l’esempio di Cristo che non si è aggrappato gelosamente ai diritti che gli spettavano in quanto Figlio di Dio, ma si è fatto servo, umiliato, obbediente fino alla morte. La carità non è ossessivamente legata ai suoi diritti; sa anche «subire l’ingiustizia… lasciarsi privare di ciò che le appartiene» (1 Cor 6, 7). La gratuità, il disinteresse sono regola delle sue azioni (cfr. Lc 6, 27-35). Essa sa, infatti, che alla sua difesa ci pensa Dio, può affidare a lui la rivendicazione dei propri diritti (Rm 12, 19; cfr. 1 Pt 2, 23; Lc 6, 38) ed è quindi libera di amare, di donare, di essere disinteressata. «Non si adira»; è la conseguenza necessaria. L’ira esplode quando ci sembra che un nostro diritto sia stato calpestato (cfr. Lc 15, 28) e non è altro che il primo passo verso il far del male (cfr. Mt 5, 22). San Giacomo descrive il dinamismo così: «[1]Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? [2]Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra!» (Gc 4, 1-2). É vero che Paolo, citando il Sal 4, 4 (LXX) scrive: «Nell’ira non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4, 26) ma proprio l’ultima parte del versetto dimostra che qui si tratta di qualcosa altro. È l’“ira medicinale”, quella che reagisce salutarmente davanti al male (non al peccatore!) e lo respinge. Ma anche questa, che è pure ira salutare, deve sapersi contenere per non «dare occasione al diavolo» (Ef 4, 27) che potrebbe servirsi di questo per insinuare odio o malvagità. «Non tiene conto del male ricevuto», non lo computa meschinamente scrivendolo con inchiostro indelebile sul suo libro. Non rinfaccia il male che riceve come, parallelamente, non rinfaccia il bene che ha donato. Non aspetta l’occasione propizia per rivelarsi, «è la tomba dell’ingiustizia» (H. Schlier). Sa cancellare i debiti degli altri così come i propri crediti. Questo la rende, nello stesso tempo, riconoscente per ogni briciola di bene che riceve. «Non gode dell’ingiustizia». Degli empi dice San Paolo che «non solo continuano a fare il male, ma approvano chi lo fa» (Rm 1, 32). >È un modo anche questo di giustificare se stessi e il proprio comportamento. La carità, al contrario, non sopporta l’ingiustizia, non la approva mai, non la accarezza. Ma è un modo di godere dell’ingiustizia anche quel mormorare degli altri che nasconde solo il desiderio di sentirsi migliori; dietro a parole dure di censura c’è talvolta la gioia nascosta e ipocrita di trovare l’ingiustizia negli altri. La carità non ha mai bisogno di giustificare se stessa e non è costretta a ricorrere a sotterfugi di nessun genere (cfr. Gal 6, 3-4). Al contrario essa: «gode della verità», la ama, se ne compiace; e non perché è sua o perché è dalla sua parte ma semplicemente perché è verità, perché è un riflesso dello bellezza luminosa di Dio. È anche questo un segno di distacco e di disinteresse. Non è vero che a volte la verità ci piace solo se è detta da noi o dai nostri? E che ci fa invece dispetto sulle labbra degli “altri”? Anche qui là carità ignora ogni doppiezza; è semplice.
A questo punto Paolo conclude la descrizione della carità con quattro affermazioni che definiscono la sua “intrepidezza”, il fatto che la carità non indietreggia di fronte a nulla. Nessuna cattiveria, nessuna ingratitudine, nessun rifiuto, nessun fallimento sono capaci di farla ripiegare su se stessa, di costringerla a un rifiuto sdegnoso degli altri, del mondo, della vita. «Tutto copre», non mette il sale sulle ferite per renderle più brucianti; non amplifica le parole cattive fino a renderle assordanti; non offre al male quel rifiuto duro che lo fa riecheggiare all’infinito. Al contrario lenisce le sofferenze, attutisce i contrasti, accoglie dentro di sé il male e senza lasciarlo rimbalzare all’esterno; quando incontra una parola, un gesto dove ci sono cattiveria e odio, assorbe il veleno e in questo modo lo scioglie e libera la bontà delle cose e delle persone. «Tutto crede», non perde mai la fiducia. Può sperimentare fallimenti e insuccessi; può incontrare opposizione e ingratitudine; può giungere a conoscere le miserie di cui è capace il cuoreumano ma non perde la fiducia. È fondata in Dio, nel suo amore solido come roccia; non vacilla e non viene meno. «Spera tutto». Vede sempre davanti a sé un futuro aperto. Il presente, coi suoi limiti, non è capace di rinserrarla e imprigionarla. Crede nel futuro di Dio che si apre una strada anche in mezzo al peccato. Nelle persone sa vedere i progetti di Dio, sa apprezzare quello che ancora non si vede e in questo modo lo fa emergere attraverso la cappa di abitudini e di errori che lo nascondono. «Sopporta tutto». Conosce il peso della vita ma non tenta di sottrarvisi; non carica gli altri dei suoi pesi ma piuttosto si fa carico dei pesi degli altri così come Cristo si è fatto carico dei pesi di tutti. Alla fine di questo cammino di amore e di sopportazione c’è ancora la croce. Sopportare tutto vuol dire in una parola sopportare anche la morte come segno supremo dell’amore che si dona.

Conclusione
Cercando ora di riassumere brevemente i punti della nostra riflessione su Giovanni e Paolo potremmo enumerarli così: Cristo ci ha amato dando la sua vita per noi; in lui era Dio stesso che dimostrava il suo amore per noi. A noi viene chiesto di accogliere questo amore nella fede. Solo in questo modo la nostra vita viene “giustificata” e ci diventa possibile essere in comunione con Dio.
L’amore di Dio accolto nella fede ci fa figli di Dio e quindi ci libera dalla debolezza e impotenza della “carne” per renderci capaci di una vita nuova. La novità di questa esistenza è la forza dello Spirito e la capacità di amare. Questo “comandamento” è “nuovo” perché è la forma di esistenza che corrisponde alla “nuova creazione”. Amare i fratelli significa “dare la vita per loro”, mettere gioiosamente l’altro al centro delle proprie scelte.

Lavorò con uomini e donne « in sinergia »

dal sito:

http://www.scuolamissionaria.it/Scout/Documenti%20vari/San%20Paolo_Lavor%C3%B2%20con%20uomini%20e%20donne_A.Colacrai.doc

Lavorò con uomini e donne « in sinergia »

Articolo di Angelo Colacrai in « Vita pastorale », n. 1/2006, pp. 97-99.

Per far nascere e crescere la Chiesa l’individuo, per quanto dotato, non basta. Sinergia è la parola chiave, inventata da Paolo, per la costruzione delle Chiese. Per la sua missione « a tutto tondo » egli non poteva fare a meno di uomini e donne fidati che trattò – e raccomandò di trattare – come apostoli e non come esecutori di ordini. Una lezione attualissima.

I1 vocabolario specifico sulla collaborazione nella Bibbia (synergeo-synergos), e quindi sulla sinergia, è quasi esclusivo di Paolo. Infatti, di un totale di 22 versetti con queste due parole – un verbo e un aggettivo sostantivato – solo 7 non gli appartengono. La prima volta che synergeo (« lavorare insieme a », « collaborare ») compare, in 2Esdra (o 4Esdra) 7,2, indica che nella ricostruzione del tempio di Gerusalemme ci furono persone ben disposte che « assistevano » i giudei rientrati dall’esilio. Lo stesso verbo è in 1Mac 12,1, che narra come « Gionata, vedendo che il tempo (kairos) opera (synergei) con lui », ne approfitta e sceglie uomini adatti da inviare a Roma per rinnovare l’amicizia con quel popolo. La « collaborazione » è una « occasione sinergetica ».
Similmente, in 2Mac 8,7, synergos (« collaboratore ») è riferito a « notte », ancora quindi a un tempo alleato, questa volta alle incursioni di Giuda contro i suoi nemici greci. Anche in 2Mac 14,5, synergos consiste in una « occasione complice » ma « della follia » di Alcimo, un tale che era stato prima sommo sacerdote e poi si era volontariamente contaminato con l’ellenismo.

Vecchio e Nuovo testamento

Finisce qui la serie di occorrenze di synergeo e di synergos nell’AT. Trattandosi di testi quasi sicuramente prodotti in greco, ci chiediamo se non sia di derivazione greca, e quindi pagana, la stessa idea o metodo della « collaborazione » o « sinergia ». Nel NT però, Mc 16,20 utilizza synergeo nella frase: « Operando insieme con loro il Signore », nel contesto della risurrezione di Gesù e della sua assunzione al cielo con contemporanea missione per gli undici: « Essi partirono e predicarono dappertutto », mentre il Signore confermava « la parola con i prodigi che 1′accompagnavano ». Apostoli e Cristo risorto costituiscono un’associazione in una sinergia continua e non condizionata da spazio e tempo.
Ancora fuori del corpus paulinum, nel NT synergeo compare anche in Gc 2,22: « La fede cooperava con le opere di lui » e « per le opere quella fede divenne perfetta ». San Giacomo porta ai suoi lettori l’esempio di Abramo per mettere in evidenza la tesi più volte ripetuta (2,18.20.26) per la quale senza opere la fede è morta, uccisa da un pietismo individualista quanto insufficiente. In questa nostra interpretazione di Giacomo può aiutarci Paolo che unisce spesso fede e agape, come in Gal 5,6 (cf 1Cor 13,2.13): in Cristo non è la circoncisione ebraica che conta né la libertà derivante dalla sapienza o coscienza greca, ma è « la fede che opera (energoumene) per mezzo della carità ».
L’agape (1 Cor 12,31-13,1-13) poi è il compimento di quel comandamento che, solo, riassume la legge di Dio: « L’amore non fa (ergazetai) nessun male al prossimo: compimento della legge è l’amore » (Rm 13,10). Amore e fede collaborano intimamente. Se non lo fanno, sono destinate a scomparire.
Un’ultima occorrenza di synergos fuori dei testi di Paolo è in 3Gv 1,8, in un invito di chi scrive ad « accogliere tali persone per cooperare alla diffusione della verità ». Ospitare itineranti è partecipare alla diffusione del Vangelo.

Nelle lettere paoline

Seguendo l’ordine tradizionale delle 6 lettere in cui l’apostolo Paolo parla di sinergia, il primo testo che incontriamo è Rm 8,28: « Sappiamo che tutto concorre (synergei) al bene di coloro che amano Dio ». Chi conosce e pratica Dt 6,5 (« Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore ») ha dalla sua parte tutti e tutto, la « collaborazione » di ogni creatura.
Paolo scrive la lettera ai Romani quasi sicuramente da Corinto, dove conobbe Aquila e Priscilla che, profughi da Roma, lo accolsero in casa per farlo lavorare con loro (At 18,2.26). Ora, in Rm 16,3, li chiama « collaboratori (synergous) in Cristo Gesù » ed esprime loro riconoscenza assieme a « tutte le Chiese dei gentili ». Ancora scrivendo ai Corinzi, forse da Efeso, Paolo aggiunge i saluti di Aquila e Priscilla e della Chiesa che si riunisce in casa loro (1Cor 16,19). Anche secondo 2Tm 4,19 Timoteo dovrà trasmettere i saluti di Paolo a questi due coniugi.
Nella lettera ai Romani i nomi propri con cui Paolo si rapporta sono almeno 38. Tra questi ci sono: Giudea, Gerusalemme, Roma, Asia, Acaia, Cencre, Macedonia, Illirico, Spagna, che segnalano i diversi spostamenti dell’apostolo dei gentili (cf Rm 11,13), ma i restanti sono di persone che egli conosce e saluta con gratitudine. L’intera comunità di Roma è invitata a partecipare a un vasto progetto missionario: « Quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi, e di essere da voi aiutato per recarmi in quella regione, dopo aver goduto un poco della vostra presenza » (Rm 15,24; cf 15,28).
Una domanda che la stessa lettera suscita è allora se Paolo, senza collaboratori, avrebbe potuto compiere la missione affidatagli dal Risorto (cf At 9; At 22 e At 26). In Rm 16,9, ancora chiede di salutargli « Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio caro Stachi ». In 16,21, trasmette invece ai Romani i saluti di « Timòteo mio collaboratore, e con lui Lucio, Giasone, Sosìpatro, miei parenti ». Pensiamo, con E. Randolph Richards, che a Paolo per scrivere, editare, copiare e inviare lettere fossero indispensabili i collaboratori, tanti e ovunque.
Numerose anche le donne
Ancora in Rm Paolo cita anche diverse donne: « Giulia e la sorella di Nereo » (16,15); « Maria, che ha faticato molto per voi » (16,6); « la carissima Pèrside che ha lavorato per il Signore » (16,12); « Trifèna e Trifòsa che hanno lavorato per il Signore » (16,12), vale a dire, per la Chiesa ovunque, come è chiaro nel caso di « Febe, nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cencre » (16,1).
In 1 Cor 3,9, affrontando divisioni dovute a schieramenti per Paolo, o per Apollo o per Cefa, Paolo definisce gli apostoli « collaboratori di Dio ». Descrive quindi la propria missione come collaborazione con Dio, esaltandosi ad esempio del Figlio di Dio, consapevole del valore alto del proprio lavoro, aggiogato com’è a Cristo come in un unico paio di buoi (cf 1 Cor 9,9). Un’ulteriore raccomandazione ai « fratelli » riguarda la famiglia di Stefana, « primizia dell’Acaia », i cui componenti hanno dedicato loro stessi al servizio della Chiesa. Paolo esorta i lettori a essere « deferenti verso di loro e verso quanti collaborano e si affaticano con loro » (1 Cor 16,15-16). La definizione dei collaboratori sembra ora quella di « fratelli » insieme nell’edificazione dell’unità della Chiesa (cf 1Cor 12,2-27).
In 2Cor 1,24, utilizzando il « noi » e non 1- »io », dichiara che « non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia ». Poco dopo, in 2Cor 6,1, ripresenta sé stesso e gli apostoli suoi collaboratori, come « collaboratori » di Dio, per riconciliare, assieme a Cristo, i Corinzi tra loro. Cerca anche, grazie « a Tito, mio compagno e collaboratore presso di voi » (2Cor 8,23), di migliorare i cattivi rapporti con alcuni Corinzi che non lo considerano apostolo. Nello stesso testo Paolo menziona altri « nostri fratelli », « delegati delle Chiese e gloria di Cristo ».
La collaborazione apostolica con Dio e con Tito dovrebbe sfociare in una riconciliazione, superando i conflitti che probabilmente vengono dalla tensione tra giudei e greci, come fa supporre la forte affermazione di 1 Cor 12,13: « In realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito ».
Con i Filippesi, invece, le relazioni sono buone. « Per il momento ho creduto necessario mandarvi Epafrodìto, questo nostro fratello che è anche mio compagno di lavoro e di lotta, vostro inviato per sovvenire alle mie necessità » (Fil 2,25). Epafrodito è un aiutante prezioso, letteralmente un « liturgo » e un « commilitone », forse nel combattimento per la propagazione della fede anche nella casa di Cesare (Fil 4,22), dove Paolo è probabilmente tenuto prigioniero. Anche Fil 4,3 presenta un’ambiguità interessante. Scrive Paolo: « prego te [chi?] pure, mio fedele « collaboratore » [oppure dobbiamo tradurre "Sizigo", un nome di persona che significa "socio; aggiogato allo stesso giogo"?], di aiutarle [Evòdia e Sìntiche], poiché hanno combattuto per il Vangelo insieme con me, con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita ». I nomi di chi collabora sono scritti nella memoria eterna di Dio.
Anche ai Colossesi recettori della lettera sono indicate varie persone con meriti speciali: « Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, il cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni – se verrà da voi, fategli buona accoglienza – e Gesù, chiamato Giusto. Di quelli venuti dalla circoncisione questi soli hanno collaborato con me per il regno di Dio e mi sono stati di consolazione » (4,10-11). Marco, a causa del quale era finita, tempo prima, una grande collaborazione con Barnaba (At 15,37-39) è ora « collaboratore » di Paolo.
Nella 1Ts, forse il primo scritto del NT, Paolo annuncia con una certa solennità, usando il plurale: « Abbiamo inviato Timòteo, nostro fratello e collaboratore di Dio nel Vangelo di Cristo, per confermarvi ed esortarvi nella vostra fede » (3,2). Le decisioni importanti sono evidentemente discusse e adottate assieme.
Un esempio di « collaborazione » sono un testo all’inizio del biglietto inviato a Filemone e l’altro alla fine. All’inizio è scritto: « Paolo, prigioniero di Cristo Gesù, e il fratello Timòteo al nostro caro collaboratore Filemone ». Poi, nel saluto a più voci diretto al solo Filemone: « Ti saluta Epafra, mio compagno di prigionia per Cristo Gesù con Marco [cf Co14,10], Aristarco [idem], Dema e Luca, miei collaboratori ». Strategia di Paolo è qui quella di mettere in buoni rapporti gli uni con gli altri, incrementando l’unità tra comunità e famiglie e individui diversi, chiamati tutti a collaborare con Dio per la crescita della Chiesa.
Negli scritti di Paolo, anche quindi senza prendere in considerazione gli Atti degli Apostoli, sono usati altri termini del vocabolario della collaborazione, spesso con sfumature atte ad approfondire la comunione ecclesiale e con Dio, oltre che con Paolo il quale, in fin dei conti, supera ogni barriera tra i credenti , nel Vangelo, come efficacemente ripete più volte (cf Rm 10,12 e, sopra, 1Cor 12,13): « Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù » (Gal 3,28).
Tra i termini che non abbiamo esaminato, c’è per esempio meris, « parte » (cf 2Cor 6,15; Col 1,12), il verbo koinoneo, « condividere, partecipare; mettere in comune » (cf Rm 12,13; 15,27; Gal 6,6; Fil 4,15; ITm 5,22); il verbo « edificare » ed « edificazione-costruzione » (Rm 14,19; 15,2; 1Cor 3,9; 14,3, 5, 12,26; 2Cor 5,1; 10,8; 12,19; 13,10; Ef 2,21; 4,12, 16, 29). Abbiamo trascurato i composti di « con+ » (syn- o meta) e l’elenco completo dei nomi associati in qualche modo a Paolo o presenti nelle 13 lettere.

Lezione valida per l’oggi

I testi esaminati bastano a convincerci di alcune cose importanti per Paolo e che potrebbero giustificare la scelta della collaborazione nell’edificazione della Chiesa di oggi. Sinergia è la parola chiave per la costruzione delle Chiese. Per la sua missione, orale o scritta, Paolo, collaboratore di Dio, ha collaborato con uomini e donne di culture diverse.
Dobbiamo presumere che per far nascere e crescere la Chiesa l’individuo non basta, per quanto dotato. La collaborazione è indispensabile come lo è stata per Cristo, che si è circondato di apostoli come Pietro e come Paolo, e per Dio che ha chiamato a collaborare con sé in una forma speciale Paolo. Allora la regola d’oro per l’edificazione ecclesiale non può essere che teologica: a partire cioè dall’Unità di tre Persone uguali e distinte.
Non si tratta pertanto di esaltare più un modello gerarchico, competitivo ed esclusivo, che crea rancori, e tra l’altro rallenta l’ecumenismo, quanto di valorizzare i carismi di tutti, in una comunione tra pari. Paolo insegna che anche i laici, uomini e donne, ebrei e greci, diversi da lui e privi della sua personale esperienza sulla via di Damasco, sono reali « collaboratori », « compagni d’armi », « apostoli » e non suoi discepoli a vita.
E del resto impensabile che, ragionando come collaboratore di Dio, Paolo pensi dall’alto in basso per sfruttare subordinati o esecutori dei suoi ordini, come meccanici trasmettitori della sua dottrina o delle sue personali convinzioni, anziché del Vangelo. Al di sopra di Pietro, di Apollo e di sé stesso – solo ministri di Dio – Paolo ha posto « voi », la Chiesa che è di Cristo, che è di Dio (1Cor 3,22-23). Ha anche elevato tutti i « fratelli » a collaboratori suoi e di Dio.

Angelo Colacrai

LUNEDÌ 8 MARZO 2010 – III SETTIMANA DI QUARESIMA (citazioni 1 -2Cor; Fil)

LUNEDÌ 8 MARZO 2010 – III SETTIMANA DI QUARESIMA

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro dell’Esodo 24, 1-18

Il patto di alleanza sul monte Sinai
Un giorno il Signore disse a Mosè: «Sali verso il Signore tu e Aronne, Nadab e Abiu e insieme settanta anziani d’Israele; voi vi prostrerete da lontano, poi Mosè avanzerà solo verso il Signore, ma gli altri non si avvicineranno e il popolo non salirà con lui».
Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose insieme e disse: «Tutti i comandi che ha dati il Signore, noi li eseguiremo!».
Mosè scrisse tutte le parole del Signore, poi si alzò di buon mattino e costruì un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore.
Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare.
Quindi prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!».
Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!».
Mosè salì con Aronne, Nadab, Abiu e i settanta anziani di Israele. Essi videro il Dio d’Israele: sotto i suoi piedi vi era come un pavimento in lastre di zaffiro, simile in purezza al cielo stesso. Contro i privilegiati degli Israeliti non stese la mano: essi videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero.
Il Signore disse a Mosè: «Sali verso di me sul monte e rimani lassù: io ti darò le tavole di pietra, la legge e i comandamenti che io ho scritto per istruirli».
Mosè si alzò con Giosuè, suo aiutante, e Mosè salì sul monte di Dio. Agli anziani aveva detto: «Restate qui ad aspettarci, fin quando torneremo da voi; ecco avete con voi Aronne e Cur: chiunque avrà una questione si rivolgerà a loro».
Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte.
La Gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube.
La Gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti.

Responsorio   Cfr. Sir 45, 5. 6; At 7, 38
R. Dio fece udire a Mosè la sua voce; lo introdusse nella nube oscura e gli diede, faccia a faccia, i comandamenti, legge di vita e di intelligenza, * perché spiegasse a Giacobbe la sua alleanza, a Israele i suoi decreti.
V. Mentre il popolo era radunato nel deserto, egli fu mediatore tra l’angelo che gli parlava sul monte Sinai e i nostri padri,
R. perché spiegasse a Giacobbe la sua alleanza, a Israele i suoi decreti.

Seconda Lettura
Dalle «Omelie» di san Basilio magno, vescovo
(Om. 20 sull’umiltà, c. 3; PG 31, 530-531)

(citazioni 1 -2Cor; Fil)

Chi si gloria si glori nel Signore
Il sapiente non si glori della sua sapienza, né il forte della sua forza, né il ricco delle sue ricchezze (cfr. Ger 9, 22-23). Ma allora qual è la vera gloria, e in che cosa è grande l’uomo? Dice la Scrittura: In questo si glori colui che si gloria: se conosce e capisce che io sono il Signore.
La grandezza dell’uomo, la sua gloria e la sua maestà consistono nel conoscere ciò che è veramente grande, nell’attaccarsi ad esso e nel chiedere la gloria dal Signore della gloria. Dice infatti l’Apostolo: «Chi si vanta si vanti nel Signore» e lo dice nel seguente contesto: Cristo è stato costituito da Dio «per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché come sta scritto: Chi si vanta si vanti nel Signore» (1 Cor 1, 31). Il perfetto e pieno gloriarsi in Dio, si verifica quando uno non si esalta per la sua giustizia, ma sa di essere destituito della vera giustizia e comprende di essere stato giustificato nella sola fede in Cristo. E proprio in questo si gloria Paolo, il quale disprezza la propria giustizia, e cerca quella che viene da Dio per mezzo di Gesù Cristo cioè la giustizia nella fede. Conosce lui e la potenza della sua risurrezione, partecipa alle sue sofferenze, è reso conforme alla morte di lui per arrivare in quanto possibile alla risurrezione dai morti.
Cade ogni alterigia e ogni superbia. Niente ti è rimasto su cui poterti gloriare, o uomo, poiché la tua gloria e la tua speranza sono situate in lui, perché sia mortificato tutto quello che è tuo e tu possa ricercare la vita futura in Cristo. Abbiamo già le primizie di quella vita, ci troviamo già in essa e viviamo ormai del tutto nella grazia e nel dono di Dio. Dio è lui che suscita in noi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni (cfr. Fil 2, 13).
E’ ancora Dio che, per mezzo del suo Spirito, rivela la sua sapienza destinata alla nostra gloria.
Dio ci dà la forza e il vigore nelle fatiche. «Ho faticato più di tutti loro» dice Paolo: «non io però, ma la grazia di Dio che è con me» (1 Cor 15, 10).
Dio scampa dai pericoli al di là di ogni speranza umana. Soggiunge infatti l’Apostolo: «Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. Da quella morte però egli ci ha liberato e ci libererà per la speranza che abbiamo riposto in lui, che ci libererà ancora» (2 Cor 1, 10).

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