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IL MARTIRIO DI STEFANO

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IL MARTIRIO DI STEFANO

IL MARTIRIO DI STEFANO dans immagini e testi, 01_Martirio_di_Stefano

Tempera su tavola, 50×40

di Donatella Capograssi
Allieva della Glikophilousa

Il nostro itinerario contemplativo sulle orme luminose dell’apostolo Paolo ha inizio con la raffigurazione del martirio di Stefano, che compie efficacemente la parola di Gesù: «In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Stefano, il seme. Paolo, il frutto. «Uomo pieno di fede e di Spirito Santo» (At 6,5), il giovane diacono cade, marcisce e muore mentre, tra i persecutori, l’irreprensibile fariseo di Tarso presto sarà il germoglio nuovo della sua indefettibile testimonianza.
L’icona annuncia questa fecondità maturata nel sangue del martirio senza trascurare la rappresentazione dell’intolleranza sprezzante che deraglia nel linciaggio di un innocente, come ammetterà lo stesso Paolo riferendo di sua una sua visione al tempio di Gerusalemme: «Signore, …facevo imprigionare e percuotere nelle sinagoghe quelli che credevano in te; e quando si versava il sangue di Stefano, tuo testimone, anche io ero presente e approvavo, e custodivo i vestiti di quelli che lo uccidevano» (At 22,19-20).
Nell’icona, lo sfondo architettonico rimanda alla città di Gerusalemme. Gli edifici si stagliano nel grigiore di un’ostentata freddezza. Le forme scarne e i colori ferrigni sottolineano il bieco livore degli oppositori che si scagliano contro Stefano, ma soprattutto il raggelante rifiuto di riconoscere in Gesù il Messia.
È insomma il disseccarsi del cuore che, nel torbido offuscarsi della ragione, si abbandona ad un’inaudita violenza, come notifica il testo biblico: «erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano» (At 7,54).
In primo piano, Stefano e, sulla sinistra, Saulo: il martire e il persecutore. Il primo, ardente seguace della Via (cfr. At 9,2), raffigurato nell’elevatezza spirituale dell’ardimento, fissa lo sguardo sulla gloria di Dio. È ritto in piedi  e celebra solennemente la vittoria di Cristo sul male e sulla morte: il suo martirio è infatti «la manifestazione della forza della risurrezione, perché nei martiri Cristo soffre e vince la morte» (W. Rordorf).  Già davanti alla divina maestà, è vestito di bianco, essendo tra «quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14).
 Tra le mani regge il turibolo e il rotolo della Parola. Con la sinistra, il turibolo, quasi oscillandolo nell’atto di spargere la fragranza dell’incenso per indicare il soave profumo della sua offerta.
«Vi esorto, per la misericordia di Dio, – scriverà più tardi l’apostolo Paolo – a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1), in ciò forse esaltando anche il giovane martire. Di certo, ben consapevole che «l’offerta del giusto arricchisce l’altare, il suo profumo sale davanti all’Altissimo. Il sacrificio dell’uomo giusto è gradito, il suo ricordo non sarà dimenticato» (Sir 35,8-9).
Con la destra, Stefano stringe il rotolo della Scrittura: egli ha servito il Cristo nella diakonía istituita per il servizio quotidiano delle mense, ma ha anche predicato efficacemente spezzando con sapienza il pane della Parola. Ed ora con fierezza, nell’acme del martirio, rinnova la sua fede sostenuta dalla promessa di Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).
 Sulla candida tunica dell’integrità provata, egli indossa un manto rosso riccamente adornato, che rinvia alla magnificenza dei paramenti sacerdotali e ci sottrae alla vicenda cruenta della lapidazione per trasferirci sul piano di una liturgia in atto: con la sua passione e morte, egli partecipa al sacrificio di Cristo nell’alleanza nuova della Chiesa nascente ed eleva in pienezza il suo battesimo.
 Fagocitato nel suo zelo arrogante, Saulo invece, a sinistra, regge il mantello dei complici ed assiste, approvandolo, all’annientamento del giusto. Il suo sguardo fissa il martire, ma i suoi occhi sono accecati dall’odio: non scorge il chiarore luminoso del santo sedotto da Cristo, imbavagliato com’è nella sua presunta verità, miseramente scaduta in violenza ideologica e integralista. Il rigore morale del suo afflato religioso si è ormai inabissato nel magma della più fredda e spietata intransigenza. A nulla è valso il principio del suo maestro, il saggio Gamaliele: «Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questo piano o quest’opera fosse di origine umana, verrebbe distrutta; ma, se viene da Dio, non riuscirete a distruggerli. Non vi accada di trovarvi addirittura a combattere contro Dio!» (At 5,38-39).
 Scrive san Fulgenzio di Ruspe: «Sostenuto dalla forza della carità, Stefano vinse Saulo che infieriva crudelmente, e meritò di avere compagno in cielo colui che ebbe in terra persecutore. Ed ecco che ora Paolo è felice con Stefano, con Stefano gode della gloria di Cristo, con Stefano esulta, con Stefano regna. Dove Stefano, ucciso dalle pietre di Paolo, lo ha preceduto, là Paolo lo ha seguito per le preghiera di Stefano».

suor Renata Bozzetto
suor Rossana Leone

Publié dans:immagini e testi,, SANTI |on 15 avril, 2013 |Pas de commentaires »

Icona della Presentazione di Gesù al Tempio

http://www.reginamundi.info/icone/presentazione-tempio.asp

Icona della Presentazione di Gesù al Tempio

Icona della Presentazione di Gesù al Tempio dans FESTE DEL SIGNORE presentazione-tempio

“Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la legge di Mosé, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore: « ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore »; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.”
Luca 2,22-24

La « Presentazione di Gesù al Tempio » è una delle dodici Grandi feste bizantine. Le notizie storiche più antiche risalgono, come vediamo dal Diario di Viaggio di Egeria, al IV secolo. A Gerusalemme presso la chiesa della Resurrezione (Anastasis), 40 giorni dopo l’Epifania, veniva celebrata la memoria della festa semplicemente con un sermone che verteva sulla presentazione al Tempio di Gesù. Nella tradizione Orientale, questa rilevante festa prese il nome di « festa dell’Incontro » (Hypapànte). Soltanto tra la fine del V e gli inizi del VI secolo le Chiese orientali dell’impero bizantino fecero propria tale festività. La festa venne introdotta nella Chiesa occidentale intorno alla fine del settimo secolo, durante il pontificato di papa Sergio I, un siciliano proveniente dalla tradizione bizantina, con il titolo di « Purificatio Sanctae Marie », cioè purificazione di Maria. Solo dopo la riforma liturgica (Concilio Vaticano II), divenne una festa del Signore e prese il nome di « Presentazione di Gesù al Tempio ».
La legge ebraica, contemplata nel Levitico, prevedeva che se non fossero stati compiuti i giorni della purificazione previsti per le puerpere, queste non potevano toccare alcunchè di sacro, né tantomeno potevano partecipare a funzioni sacre. « Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatre giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. » (Levitico 12,1-4). Compiuti che furono i giorni della purificazione, Giuseppe condusse la sua sposa e il Bambino al tempio del Signore, così come prescriveva la legge. Molto frequentemente il modulo iconografico prevedeva la rappresentazione di Giuseppe nella posizione più esterna alla scena, volendo così mettere in evidenza il suo ruolo di protettore della Sacra Famiglia, colui che è pur sempre presente e con affetto e discrezione provvede ai bisogni della sua famiglia. Ma la famiglia di Gesù non è ricca, il povero falegname non ha i mezzi per acquistare un agnello, egli può permettersi di offrire soltanto due colombi. « Se non ha mezzi da offrire un agnello, prenderà due tortore o due colombi: uno per l’olocausto e l’altro per il sacrificio espiatorio. Il sacerdote farà il rito espiatorio per lei ed essa sarà monda ». (Levitico 12,8).
I valori teologici che caratterizzano questa festa sono molto forti, pertanto lo schema iconografico si è fin dall’inizio mantenuto abbastanza stabile. Da un lato la Beata Vergine che porge il bambino a Simeone, dall’altro il Santo vegliardo che lo riceve. Fanno contorno le figure di San Giuseppe e della profetessa Anna. L’unico elemento importante che può differenziare le icone sta nella rappresentazione di Simeone con il bambino in braccio, in altre la tensione del gesto di Simeone per prendere in braccio Gesù. In secondo piano, ma sempre al centro della scena, si intravedono gli elementi che schematizzano il concetto del Tempio: un baldacchino (ciborium), una rappresentazione del presbiterio (vima), o frequentemente una chiesa bizantina. Non è raro vedere sullo sfondo anche degli elementi architettonici esterni; si tratta di un richiamo visivo al pinnacolo su cui il diavolo portò Gesù per tentarlo. « Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio. »(Matteo 4,5)
Il centro della scena è comunque sempre dominato dalla Vergine, ella simboleggia il Tempio vivente.

Inneggiando al tuo parto
l’universo ti canta
qual tempio vivente, o Regina!
Ponendo in tuo grembo dimora
Chi tutto in sua mano contiene, il Signore,
tutta santa ti fece e gloriosa
e ci insegna a lodarti:
(Akathistos, XXIII Stanza)

È meraviglioso contemplare l’espressione della Madonna mentre porge Gesù a Simeone, Maria era pienamente consapevole di ciò che accadeva e fra sé meditava: « Quale nome troverò per designare Te, figlio mio? Se Ti chiamo uomo, quale appari ai miei occhi, sei al di sopra dell’uomo, Tu che hai conservato intatta la mia verginità. Ti chiamerò l’uomo perfetto? Ma so bene che la tua concezione è stata divina: nessun uomo è stato mai concepito senza l’unione nè seme come fosti tu, o senza peccato. E se ti chiamo Dio, mi meraviglio vedendoti del tutto simile a me, perché non hai nulla che ti differenzi dagli attributi degli uomini, salvo che sei stato esente dal peccato nella tua concezione e nella tua nascita. Che cosa ti darò: il mio latte o la mia lode? » (Romano il Melode, XVI, 3-4). Simeone vede la beata Vergine e le viene incontro, le chiede di poter prendere fra le braccia il Salvatore del mondo. Si china sul Bambino e dopo averlo a lungo contemplato, pieno di spirito Santo si rivolge a Maria e le profetizza: « Egli è qui per la rovina e la resurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. » (Luca 2,34-35). La tradizione iconografica attribuisce alla Madonna un mantello (maphorion) di colore rosso, per simboleggiare la grande sofferenza che unirà Maria a Cristo nei momenti della passione. « E anche a te una spada trafiggerà l’anima. » (Luca 2,34-35). Il ruolo di Maria sul piano teologico è tuttavia ben presente, lo prova il colore azzurro della veste, richiamo alla luce increata di Dio.
Vale ancora la pena osservare la centralità della figura di Maria in questa icona, Ella incarna veramente la « Lampada splendente » che porta una vera luce, apparsa a coloro che sono nelle tenebre.

Come fiaccola ardente
per chi giace nell’ombre
contempliamo la Vergine santa,
che accese la luce divina
e guida alla scienza di Dio tutti,
splendendo alle menti
e da ognuno è lodata col canto:
(Akathistos XXI stanza)

Il ruolo di Gesù è però solo apparentemente secondario, l’atteggiamento del Bambino è quello del « Legislatore ». Cristo ha tra le mani un documento, il chirografo su cui è scritto il debito della intera umanità, in esso sono scritti i nostri peccati, e le nostre « condizioni sfavorevoli ». Sarà questo il foglio che con il suo sacrificio Gesù straccerà rendendoci definitivamente liberi.

Condonare volendo
ogni debito antico,
fra noi, il Redentore dell’uomo
discese e abitò di persona:
fra noi che avevamo perduto la grazia.
Distrusse lo scritto del debito,
e tutti l’acclamano: Alleluia.
(Akathistos XXII stanza)

Il Cristo Bambino è vestito di bianco, come al momento della sua Trasfigurazione sul monte Tabor, Simeone è invece vestito di verde, colore simbolo della terra. Egli conferisce la potenza dello Spirito a ciò che è terrestre, facendo evolvere, come vedremo, la Legge in Amore. Il momento culmine della rappresentazione è l’istante in cui il Signore giunge fra le braccia di Simeone che simboleggia la figura veterotestamentaria. « Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d’Israele. » (Luca, 2, 25). In questo momento la storia di Israele trova completamento.
« Uno dei grandi problemi dei primi secoli fu quello della validità per i cristiani dell’Antico Testamento. Se la Legge antica è sostituita dalla nuova, certamente non se ne esige l’osservanza. E se la storia del popolo ebraico arriva al suo compimento in Cristo, perché dovrebbe ancora essere letta nelle assemblee dei fedeli? La risposta dei Padri fu decisiva per salvaguardare l’intera Scrittura. L’antico testamento rimane valido, non più però secondo la lettera, secondo la carne, ma secondo lo Spirito, nel suo senso spirituale. Questo senso nuovo è dato ai testi ebraici dalla realtà della persona di Cristo. In molte e diverse maniere, ma sempre, tutte le scritture parlano di lui: Egli è il vero pane che si offre per nutrire le anime di coloro che si cibano spiritualmente di ciò che fu scritto. Beati gli occhi, dice Origene, che scoprono la gloria del Lògos di Dio sotto l’umile apparenza della lettera. » (La fede secondo le icone, T. Spidlik, M. I. Rupnik). « La sua misericordia è eterna, e proprio questa misericordia ha suscitato nelle menti degli uomini, ottenebrate dal legalismo, una contraddizione che non ha permesso di riconoscerlo come il proprio Dio. » (Icone delle dodici grandi feste bizantine, Gaetano Passarelli).
Lo stesso Paolo nella lettera ai Galati ci dice: « Prima però che venisse la fede, noi eravamo rinchiusi sotto la custodia della legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Ma appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto un pedagogo. Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa. » (Galati, 3, 23-29).
La tradizione stessa sottolinea ulteriormente questo concetto; in molte icone, sull’altare raffigurato in secondo piano sono deposti un libro, o dei rotoli, simbolo delle scritture che avevano bisogno di ricevere uno spirito nuovo.
Colpisce la rappresentazione dinamica di Simeone di alcune Icone, che lo ritraggono in tensione verso Gesù. Simeone sembra correre, o precipitarsi verso il Bambino, contrariamente allo schema classico di composizione che privilegia la staticità dei soggetti come simbolo della perfezione divina. Analizzando con attenzione altri dipinti si può trovare in altri due casi una rappresentazione dinamica di « fretta »: nella resurrezione di Lazzaro, sembra che Gesù si affretti per far uscire l’amico dal regno delle tenebre, simboleggiato dalla morte del corpo; nell’Icona dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme, Gesù sembra aver fretta di restaurare il regno di Davide. Per analogia in questo caso è l’Antico Testamento che si affretta a ricevere il suo vero e autentico senso ultimo, che trova nella persona di Cristo l’autentico completamento del piano di Dio per gli uomini. Simeone ne è pienamente consapevole e sotto l’azione dello Spirito Santo, riconosce in Gesù il figlio di Dio, la Luce, la Salvezza promessa da Dio agli uomini e dice:

Ora lascia, o Signore, che il tuo servo
vada in pace secondo la tua parola;
perché i miei occhi han visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli,
luce per illuminare le genti
e gloria del tuo popolo Israele.
(Luca 2,29-32)

Fra Gesù e Simeone si stabilisce uno sguardo di incredibile tenerezza, meravigliose sono le parole che Romano il Melode mette in bocca a Gesù: « Amico mio, ora permetto che tu lasci questo mondo per il soggiorno eterno. Ti invio là dove si trovano Mosè e gli altri profeti: annuncia loro che sono venuto, io di cui hanno parlato nelle loro profezie: sono nato da una vergine, come hanno predetto; sono apparso a coloro che abitano il mondo ed ho vissuto tra gli uomini come hanno annunziato. Presto verrò a trovarti riscattando l’umanità. » I Vangeli apocrifi, in particolar modo quello di Nicodemo, riferiscono che Simeone, in effetti, assolse al compito di precursore che Gesù gli aveva affidato fra i giusti che attendevano negli inferi: « E mentre tutti esultavano nella luce che splendette per noi, sopraggiunse il nostro padre Simeone e disse esultante: « Glorificate il Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, giacché, quando nacque il Bambino, io nel Tempio lo ricevetti tra le mie mani e, spinto dallo Spirito Santo, confessai e dissi: ora i miei occhi hanno visto la tua salvezza che hai il preparato al cospetto di tutti popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele ». Tutta la moltitudine dei santi, udendo questo, esultava ancora di più. »
Gesù si è incarnato ed è apparso all’uomo per attirarlo a sé. Il Signore onnipotente è venuto in noi come umile servitore perché l’uomo rimanesse meravigliato di fronte alla Sua infinita grandezza accorgendosi della sua fragilità e della sua impurità, e come Simeone « correndo » dal Redentore e stringendolo a sé potesse rinascere nello Spirito sperimentandone così pienamente tutta la Sua confidenza.

Si stupirono gli Angeli
per l’evento sublime
della tua Incarnazione divina:
ché il Dio inaccessibile a tutti
vedevano fatto accessibile, uomo,
dimorare fra noi.
(Akathistos, XVI Stanza)

Maria, ora come allora, è ancora al centro della scena: Ella ci porge Gesù invitandoci ad avvicinarci senza paura, esattamente come fece Simeone, sembra quasi di sentire le sue parole: « Vi invito a venire con me con totale fiducia perché io desidero farvi conoscere mio Figlio. Non abbiate paura, figli miei. Io sono con voi, sono accanto a voi. Vi mostro la strada come perdonare voi stessi, perdonare gli altri, con un pentimento sincero nel cuore, inginocchiarvi davanti al Padre. Fate sì che muoia di voi tutto ciò che vi impedisce di amare e salvare, di essere con Lui e in Lui. Decidetevi per un nuovo inizio, l’inizio dell’amore sincero di Dio stesso. »

Publié dans:FESTE DEL SIGNORE, immagini e testi, |on 1 février, 2012 |2 Commentaires »

PRESENTAZIONE AL TEMPIO DELLA VERGINE (1550 – 1553) [Jacopo Tintoretto (1518-1594)]

PRESENTAZIONE AL TEMPIO DELLA VERGINE (1550 - 1553) [Jacopo Tintoretto (1518-1594)] dans immagini e testi, tintoretto_presentazione_tempio

dal sito:

http://www.madonnadellorto.org/desc_quadri/mdo_4.php

Parrocchia della Madonna dell’Orto
 
opere d’arte nella chiesa della Madonna dell’Orto:

PRESENTAZIONE AL TEMPIO DELLA VERGINE (1550 – 1553)

Jacopo Tintoretto (1518-1594)

Il dipinto, ispirato ai Vangeli apocrifi della Natività di Maria, era diviso in due comparti e costituiva la parte esterna delle portelle dell’antico organo qui ubicato; la parte interna delle portelle era costituita dalle tele poste nell’abside: IL MARTIRIO DI SAN PAOLO e LA VISIONE DELLA CROCE DI SAN PIETRO. Pietro e Paolo furono raffigurati uno accanto all’altro in quanto ritenuti i principali apostoli della Fede martirizzati nello stesso giorno dell’anno 64 in Roma.
E’ uno dei capolavori del Tintoretto e raffigura la Vergine bambina dinanzi al sommo sacerdote Zaccaria che solennemente l’attende alla sommità dei quindici gradini che salgono al Tempio. Il numero dei gradini, decorati con delicati arabeschi dorati (sembra che il Tintoretto si sia ispirato alla Scala dei Giganti in Palazzo Ducale), allude ai 15 salmi graduali (dal salmo 120 al salmo 134) che venivano recitati dai pellegrini che salivano a Gerusalemme.
Lo sguardo severo del sacerdote, che veste gli abiti pontificali, si contrappone alla dolcezza della bimba la cui figura è esaltata da un contorno di luce accentuato dalle oscure figure di mendicanti e storpi posti sul lato sinistro della scala, sopra i quali alcuni farisei stanno scrutando con aria attonita la giovane fanciulla. Alcune donne rivolgono lo sguardo alla fanciulla, quasi sollevata nello slancio prospettico della scala, indicata da una madre alla propria bimba all’inizio dei gradini.
Tutta la tensione dinamica del dipinto si concentra sulla bimba, leggermente decentrata rispetto all’insieme del quadro equilibrato dalla figura del vecchio in movimento posto sul lato sinistro e della donna in primo piano. Sul fondo si intravede un obelisco, simbolo della potenza, collocato in prossimità della Vergine quasi per anticipare la futura grandezza dell’umile Ancella del Signore.
La luce che irradia metà della composizione, in diagonale da sinistra a destra, dà una grande forza espressiva alla scena.
Per la bambina passavano intanto i mesi. Giunta che fu l’età di due anni, Gioacchino disse a Anna: « Per mantenere la promessa fatta, conduciamola al tempio del Signore, affinché il Padrone non mandi contro di noi e la nostra offerta riesca sgradita ». Anna rispose: « Aspettiamo il terzo anno, affinché la bambina non cerchi poi il padre e la madre ».
Gioacchino rispose: « Aspettiamo ». Quando la bambina compì i tre anni, Gioacchino disse: « Chiamate le figlie senza macchia degli Ebrei: ognuna prenda una fiaccola accesa e la tenga accesa affinché la bambina non si volti indietro e il suo cuore non sia attratto fuori del tempio del Signore ».
Quelle fecero così fino a che furono salite nel tempio del Signore. Il sacerdote l’accolse e, baciatala, la benedisse esclamando: « Il Signore ha magnificato il tuo nome in tutte le generazioni. Nell’ultimo giorno, il Signore manifesterà in te ai figli di Israele la sua redenzione ». La fece poi sedere sul terzo gradino dell’altare, e il Signore Iddio la rivestì di grazia; ed ella danzò con i suoi piedi e tutta la casa di Israele prese a volerle bene
Dal Vangelo di Giacomo (apocrifo – sec. II)
 

Publié dans:immagini e testi,, MARIA VERGINE |on 21 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

L’addio di Paolo, servo dello Spirito

 L'addio di Paolo, servo dello Spirito dans immagini e testi, m_sanpaoloconspada 

dal sito:

http://www.terrasanta.net/tsx/articolo-rivista.jsp?wi_number=1803&wi_codseq=EC0907

L’addio di Paolo, servo dello Spirito

di suor Chiara Miriam – agosto-settembre 2009

Maestro de Soriguerola, Pala d’altare con i santi Pietro e Paolo (dettaglio: san Paolo), museo diocesano di Vich (Catalogna, Spagna).
Siamo giunti all’ultima tappa del nostro itinerario. La spiaggia di Mileto è anche uno degli ultimi approdi di Paolo in Medio Oriente, la sosta cercata di un viaggio che lo porterà prima a Gerusalemme e poi, dopo due anni circa, definitivamente lontano dalla terra di Gesù.
Una doppia cornice di lacrime racchiude quello che è considerato il testamento pastorale di Paolo, quasi un contenitore fatto di umanità, affetti, passione, che custodisce freschi e vivi la vicenda, il servizio, la missione dell’apostolo che ci ha accompagnato lungo questo anno a lui dedicato. Mentre prendiamo congedo da San Paolo, è lui a rivolgerci parole di commiato. Ci sentiamo un po’ come gli anziani di Efeso convocati per un discorso di addio, pur sapendo che rimaniamo affidati alla parola della grazia di Dio, della quale possiamo ogni giorno fare tesoro.
Una cornice di lacrime, dicevamo… quelle di Paolo, versate per le insidie, lacrime che hanno irrigato il suo umile e instancabile servizio, lacrime sparse notte e giorno per ammonire gli anziani di Efeso. Anch’essi piangono per la partenza di Paolo, perché sanno che non rivedranno più il suo volto. Lontano dal rivelare una caratteristica imbarazzante per l’uomo, le lacrime sono per Paolo la prova di una partecipazione effettiva ed affettiva, di un coinvolgimento serio con i destinatari del suo appassionato servizio apostolico, segno di relazioni profonde e vere generate dalla Parola. «Paolo lascia una comunità amata e vive il profondo senso dell’addio» (F. Brovelli). Quanto tempo è passato da quando Saulo, dopo l’incontro decisivo con il Signore Gesù, andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome di Lui! Ora Gerusalemme, città simbolo dove Gesù è stato crocifisso, attende Paolo con una missione decisiva: avviarlo al compimento, affinché possa portare a «termine la corsa e il servizio che gli fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al Vangelo della grazia di Dio» (Atti 20, 24). Questa Buona Notizia di Gesù si è scritta ormai profondamente nella carne di Paolo, nella sua vicenda di discepolo e apostolo e ora è la sua stessa vita che la proclama. Nulla ferma Paolo: non la certezza di catene e tribolazioni, non le lacrime e i volti di coloro che egli ha condotto alla fede, non la preoccupazione per quello che sarà delle sue Chiese dopo di lui.
Paolo ha da portare a termine la sua corsa straordinaria, anzi la corsa della parola di Gesù proprio nella sua vita e nella sua morte. Questo è il compito di ogni discepolo: portare a compimento nella grazia dello Spirito ciò per cui è stato salvato, chiamato e inviato. Lo scriveva già Paolo dando un senso luminoso alle sue prove.
Passato, presente e futuro si dispiegano nelle parole di addio di Paolo, con una consapevolezza franca e lucida di ciò che è stato, di quello che anche ora lo costringe, docile allo Spirito Santo, di ciò che lo attende, per la fedeltà alla testimonianza di Gesù.
Da questo saluto coinvolgente e commovente che Paolo rivolge ai pastori della Chiesa di Efeso raccogliamo anche per noi alcune consegne: coltivare la consapevolezza umile e profonda di sé, del proprio servizio e delle esigenze e orizzonti che comporta testimoniare il Vangelo della grazia di Dio; vigilare su se stessi e custodire i fratelli per non smarrirsi o disgregarsi, per continuare nella fiducia ad essere quel piccolo gregge amato dal Padre; vivere la beatitudine della gratuità, come la chiama il card. Carlo Maria Martini, come creature fatte a immagine di quel Dio che è dedizione: «Si è più beati nel dare che nel ricevere!».

(L’autrice è claustrale tra le clarisse del monastero di Santa Chiara, a Milano)

L’ICONA « ANANIA INCONTRA PAOLO »

L'ICONA

http://www.caritas.it/47/Icona.asp

L’ICONA « ANANIA INCONTRA PAOLO »

 10 Ora c’era a Damasco un discepolo di nome Anania e il Signore in una visione gli disse: «Anania!». Rispose: «Eccomi, Signore!». 11 E il Signore a lui: «Su, va’ sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco sta pregando, 12 e ha visto in visione un uomo, di nome Anania, venire e imporgli le mani perché ricuperi la vista». 13 Rispose Anania: «Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. 14 Inoltre ha l’autorizzazione dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome». 15 Ma il Signore disse: «Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; 16 e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». 17 Allora Anania andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: «Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo». 18 E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista; fu subito battezzato, 19 poi prese cibo e le forze gli ritornarono.
(Atti 9,10-19)

Spiegazione dell’icona
In alto a sinistra vediamo la mano benedicente del Padre che fuoriesce dal semicerchio stellato, è la dimora dell’eterno, l’universo, da cui partono tre raggi che indicano la Trinità; è blu per indicare la divinità, l’immaterialità.
Il colore blu indica il cielo, esprime la trascendenza in rapporto a tutto ciò che è terrestre e sensibile, significa il mistero della vita divina. Nel rigonfiamento la figura della colomba. sottolinea la presenza dello Spirito Santo che avvolge e riempie di grazia i due personaggi.
Anania accoglie Paolo: va verso di lui.
Allora Anania “andò, entrò nella casa, gli impose le mani…”.
Paolo accoglie Anania: ha le mani tese.
La mano sinistra di Anania indica Paolo, lo contempliamo mentre fa presente al Signore le sue riserve riguardo al fratello, la mano destra invece è posta sulla testa di Paolo
Fissiamo lo sguardo su Paolo è raffigurato nel momento in cui recupera la vista: “E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista”, egli non alza ancora gli occhi mentre lo sguardo di Anania è posato amorevolmente su di lui.
Anania indossa un abito verde, colore che richiama il datore di vita, lo Spirito Santo; anche gli edifici sono verdi sottolineando che tutta la scena è intrisa dello Spirito.
“… e sia colmo di Spirito Santo” il mondo ha bisogno di questa pienezza. Il manto svolazzante di Anania indica il movimento, è giallo colore che nell’iconografia assume il significato dell’annuncio della parola, è il mandato dell’evangelizzazione, Anania porta la Buona novella.
Il manto di Paolo è di colore porpora, indica la sua consacrazione a Dio; ma la base di questo colore è il rosso che ci parla di umanità, sangue versato, amore che dona la vita fino al martirio.
L’abito invece è azzurro come in Maria e negli altri apostoli suggerisce la tensione al cielo, una vita tesa verso le “cose” del Signore.
L’icona è immersa nell’oro, nella luce divina che risplende sui nimbi, è dalla luce di Dio che prende luce la nostra vita, dalla sua santità la nostra.
L’oro la luce increata investe Anania e Paolo e li trasfigura rendendoli partecipi del Paradiso, è il mondo nuovo, il nuovo regno a cui siamo chiamati già da qui sulla terra.
Possiamo già gustare questa realtà di luce quando ci chiniamo sul fratello quando tentiamo di vivere le Beatitudini, è la luce della divinità che ci inonda della sua pienezza e sgorga in noi con parole di vita eterna.
La tenda rossa che unisce i due edifici indica che la scena rappresentata si svolge all’interno della casa.
Tra le figure di Paolo e Anania si nota un bacile dorato che presenta la forma di una vasca contenente acqua, allusione al fonte battesimale.
Appoggiati su un panno bianco alla sinistra di Paolo sono rappresentati un calice e un pane ci richiamano “Poi prese cibo e le forze gli tornarono”, sono segno dell’Eucaristia.
Sullo scanno su cui siede Paolo è presente il rotolo della scrittura che spesso nelle icone vediamo raffigurato in mano a Gesù. È la Parola di Dio sempre viva e creatrice, proclamata nella comunità perché ognuno l’ascolti con le proprie orecchie, la contempli nell’immagine sacra e l’accolga nella vita con fede sincera. La Parola di Dio è efficace, parla al cuore di ogni uomo ed in esso fruttifica.
In alto a destra sopra l’edificio, scorgiamo un albero verdeggiante: è l’albero della vita, di cui si parla nel salmo.

Iconografo Silvano Radaelli

CONTEMPLIAMO L’ICONA DI ANANIA INCONTRA PAOLO
Lasciando risuonare dentro di noi le parole della Scrittura, posiamo gli occhi sull’icona che rende presente il mistero rappresentato
Come per Anania anche per noi la Parola di Dio è viva, è efficace, ci interpella qui ed ora, ci parla di un Dio che vuole affidarci una sua creatura perché riacquisti la vista, vuole servirsi del nostro amore per riconsegnarla alla vita.

La mano del Padre
In alto a sinistra vediamo la mano benedicente del Padre che fuoriesce dal semicerchio stellato, è l’universo da cui partono tre raggi che indicano la Trinità; nel rigonfiamento la figura della colomba. sottolinea la presenza dello Spirito Santo
La mano del Signore invia i due personaggi rappresentati.
Ambedue hanno avuto due visioni parallele, e la loro storia ha già preso avvio.
Essi sono interpellati, mandati scelti.
Anche noi siamo interpellati, mandati scelti; è il desiderio che Dio ci ha messo nel cuore: da quando siamo stati accolti, troviamo pienezza nell’accogliere l’altro.

“Mi ha mandato a te il Signore Gesù”.
Paolo accoglie Anania: ha le mani tese.
Anania accoglie Paolo: va verso di lui.
“Io accolgo te…” dicono gli sposi, paradigma di un dono prima che promessa, desiderio profondo insito nella logica dell’amore: mentre accogliamo siamo accolti, in un movimento continuo.
Il Signore dice ad Anania:”Alzati e va’”.
Il manto svolazzante di Anania indica il movimento
Allora Anania “andò, entrò nella casa, gli impose le mani…”.
Ad un certo punto non si tergiversa più, smettiamo di cercare scuse o di voler capire fino in fondo e sentiamo che il “va’” è rivolto anche a noi.
Di fronte alla necessità di essere amato, di essere accolto per quello che si è da parte di un ragazzo, del mio vicino, di mio marito, di mia moglie o di mio figlio, io mi alzo per andare, per uscire da me, per avvicinarmi all’altro e imporre su di lui le mani.
Ci alziamo, ci lasciamo scomodare per camminare “ incontro e con” il fratello: l’amore ci fa muovere, partire e fare passi di condivisione.
“Va’, non temere” il cammino è da fare…

“Entrò nella casa”
La tenda rossa che unisce le due colonne indica che la scena rappresentata si svolge all’interno della casa.
Dopo momenti di attesa, se il fratello lo permette possiamo entrare con rispetto nella parte più segreta, più intima della sua persona, della sua vita e in punta di piedi intravedere il suo mistero.
La mano di Anania indica Paolo, lo contempliamo mentre fa presente al Signore le sue riserve riguardo a Paolo.
«Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. Inoltre ha l’autorizzazione dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome».
Ma il Signore disse: «Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele…”
Quando accogliamo l’altro possiamo essere colti dalla paura, dallo sconcerto, la novità, la diversità della persona ci spaventa ma il Signore ci rassicura: l’altro è prezioso ai suoi occhi, è cosa molto buona, su di lui ha un progetto di bene.
E mentre accogliamo l’altro che è lì davanti a noi siamo accolti, mentre facciamo nostro il progetto di bene siamo beneficati.

Allora Anania gli impose le mani”
Ora vediamo Anania nel momento in cui pone la mano sulla testa di Paolo.
Toccare, posare le mani sull’altro racconta la ferialità dell’esperienza: è nella tenerezza concreta, nella delicatezza dei sentimenti, nell’ascolto accogliente, nel perdono vicendevole che diventiamo famigliari l’uno all’altro.
È il tocco amante che dà vita, infonde coraggio, irrobustisce la speranza, illumina la storia mostrando una visione nuova della realtà.
Paolo recupera la vista: “E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista”.

Lo sguardo
Paolo non alza ancora gli occhi ma lo sguardo di Anania è posato amorevolmente su di lui.
Quando ci lasciamo abitare dallo sguardo buono e misericordioso di Dio, aiutiamo l’altro ad avere una visione diversa sulla sua vita, sulla sua storia, sul mondo intero, se percepisce di essere accolto e si vede riflesso nel nostro sguardo benevolo, allora anche i suoi occhi si aprono e scorge la sua realtà come storia buona.
Dio è presente con la sua grazia.
Insieme impariamo a gustare la vita in tutta la sua pienezza, giorno per giorno, passo per passo, nella fatica e nella gioia, come è proprio dell’indole umana.
Attraverso il prendersi cura dell’altro e il nostro reciproco accoglierci passa la grazia di Dio.
Il colore giallo del manto, nell’iconografia assume il significato dell’annuncio della Parola, è il mandato dell’evangelizzazione, Anania viene mandato per portare la buona novella.
Così anche per noi è la chiamata, specialmente oggi in cui siamo tentati di chiuderci in noi stessi, nelle nostre case, tra i nostri affetti, aprirci all’altro è nuova evangelizzazione
Anania indossa un abito verde, colore che richiama il datore di vita, lo Spirito Santo; anche gli edifici sono verdi sottolineando che tutta la scena è intrisa dello Spirito.
“… e sia colmo di Spirito Santo” il mondo ha bisogno di questa pienezza.
L’ invito che ripetutamente ci rivolge la Parola e l’icona è di lasciarci animare dallo Spirito, così che l’Amore prenda carne in noi come è avvenuto per Maria.

Paolo è seduto in preghiera
A volte siamo seduti, nella vita non abbiamo voglia di andare avanti, siamo così stanchi o sfiduciati che non ci rimane altro che sederci.
Paolo tende le mani, chiede, ma soprattutto accoglie.
“Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire”.
L’abito di Paolo è di colore porpora, indica la sua consacrazione a Dio; ma la base di questo colore è il rosso che ci parla di umanità, sangue versato, amore che dona la vita fino al martirio.
Dalla storia del primo uomo, è presente nella vita la sofferenza, spesso le nostre giare sono vuote è allora che succede il miracolo, proprio perché c’è fatica, sofferenze dolore può succedere il prodigio, la grazia può agire, possiamo nascere a vita nuova.
La mano benedicente del Padre è stesa contemporaneamente su Paolo e Anania.
Paolo vede, si alza, riprende le forze.
Abitare l’accoglienza richiede di coniugare con semplicità verbi molto concreti che investono l’umanità della persona, nella concretezza della vita di tutti i giorni.
Ed è qui il luogo della benedizione, della santità. L’icona e la Parola ci invitano a diventare santi, “somigliantissimi”, i nimbi cioè le aureole d’oro dei due personaggi lo evidenziano.
Una comunità, una famiglia, un uomo che accoglie, percorre una strada privilegiata nel cammino evangelico per conformarsi a Gesù.
La santità di tutti i giorni ama, chiede perdono, offre, prega, spera e ricomincia ogni giorno con nuova fiducia perché sa che è già salvata.

L’albero rigoglioso

“Riusciranno tutte le sue opere.
Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua,
che darà frutto a suo tempo
e le sue foglie non cadranno mai. ( Salmo 1,3 )

Questa è la promessa e insieme la nostra speranza, come recita il salmo.
Nel cammino feriale, a volte faticoso dell’accoglienza abbandonarsi alla sua fedeltà rende la vita come albero rigoglioso, verdeggiante, perché bagnato dalle acque dello Spirito, il datore di vita.

Allora dal nostro cuore sale una preghiera:
“Io invece come olivo verdeggiante
nella casa di Dio.
Mi abbandono alla fedeltà di Dio
ora e per sempre. (Salmo 51,10)

L’immagine di Cristo non opera di mano d’uomo

L’immagine di Cristo non opera di mano d’uomo  dans CHIESA ORTODOSSA Cristo_Mandylion

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/arte/immagouspensky.htm

Léonide Ouspensky

L’immagine di Cristo non opera di mano d’uomo

Nella controversia con gli iconoclasti, l’immagine di Cristo non fatta da mano d’uomo era uno degli argomenti principali degli ortodossi, quelli di Oriente e quelli di Occidente. Le raffigurazioni del Signore storicamente note, opere dei suoi veneratori che gli erano più o meno contemporanei[1], erano lungi dall’avere, per gli ortodossi, lo stesso significato che aveva l’immagine non fatta da mano d’uomo alla quale la Chiesa doveva dedicare una festa (il 16 agosto). “Questa immagine, precisamente, esprime per eccellenza il fondamento dogmatico dell’iconografia”[2] ed è il punto di avvio di tutta l’iconografia cristiana.
La leggenda dell’immagine non fatta da mano d’uomo è legata al dogma della Tradizione apostolica: “Ciò che abbiamo sentito, ciò che abbiamo visto coi nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato (…) e noi abbiamo visto e testimoniamo, e vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci è stata manifestata – ciò che abbiamo visto e sentito, ve lo annunciamo…. (1 Gv 1, 3)”, insiste nel ripetere l’Apostolo.
La Chiesa conserva le tradizioni che, per il loro contenuto, anche se espresso in forma leggendaria, servono a manifestare ed affermare le verità dogmatiche dell’economia divina. Così la venerazione della Madre di Dio e quasi tutte le feste che le corrispondono sono fondate su tradizioni. In altre parole, la Chiesa conserva le tradizioni che contribuiscono ad assimilare i fondamenti dogmatici della fede, che aiutano lo spirito umano a percepirle. Per questo motivo quelle tradizioni, così come quella dell’immagine non fatta da mano d’uomo e del re Abgar sono fissate negli Atti dei Concili e negli scritti patristici, ed entrano perciò nella vita liturgica ortodossa.
La dottrina della Chiesa ortodossa sull’immagine non è stata elaborata dai padri del periodo iconoclastico soltanto, “l’insegnamento relativo all’immagine è sintetizzato nel primo capitolo dell’epistola ai Colossesi, ed è caratteristico che questo insegnamento sia espresso non come pensiero personale di Paolo, ma come inno liturgico della prima comunità cristiana: «immagine di Dio invisibile, primogenito di tutto il creato» (Col 1, 15-18)[3]. Seguendo il contesto, per il contenuto, questo passo dell’apostolo Paolo è analogo alla preghiera eucaristica[4].
E se qui l’Apostolo non indica il legame diretto tra il Figlio in quanto Immagine del Padre e la sua rappresentazione, questo legame è reso manifesto dalla Chiesa: è questo il brano dell’Epistola di san Paolo di cui la Chiesa prescrive la lettura durante la liturgia della festa consacrata all’immagine non fatta da mano d’uomo. Questa liturgia unisce la leggenda del re Abgar “alla traslazione dell’immagine di nostro Signore Gesù Cristo non fatta da mano d’uomo alla città imperiale”, che è il fondamento storico della festa. Le due commemorazioni sono collocate insieme nella liturgia di quel giorno per via del significato che quella immagine ha per la Chiesa.
 Nella leggenda dell’immagine inviata al re Abgar, ciò che colpisce innanzi tutto è la sproporzione tra l’episodio in sé e l’importanza che gli attribuisce la Chiesa. Gli Evangeli neppure lo menzionano[5]. D’altronde il fatto che Cristo abbia poggiato un telo sul suo volto imprimendovi i suoi lineamenti non è per nulla paragonabile agli altri suoi miracoli, guarigioni e risurrezioni. I miracoli, inoltre, non sono prova della Divinità di Cristo poiché anche uomini, i profeti, gli apostoli…, compiono miracoli. In qualunque ambito della Chiesa, generalmente, essi non vengono assunti a criteri. Qui, però, non si tratta semplicemente del fatto che il volto di Cristo si sia impresso su un telo, ma di qualcosa di essenziale; quel volto è la manifestazione del miracolo fondamentale dell’economia divina nel suo insieme: la venuta del Creatore nella sua creazione. È l’immagine, fissata sulla materia, di una Persona divina visibile e tangibile, la testimonianza dell’incarnazione di Dio e della deificazione dell’uomo. È l’immagine attraverso cui si può rivolgere la propria preghiera al suo prototipo divino. Non è solo questione della venerazione della forma umana del Verbo divino, ma di vedere faccia a faccia: “immagine terribile glorifichiamo, resi capaci di vederlo faccia a faccia” (Stico dei Vespri).
Solo questo già rende impossibile qualsivoglia confusione tra questa immagine e il sudario di Torino, confusione che riscontriamo talvolta anche negli ambienti ortodossi. Tale identificazione si verifica soltanto quando non si conosce o non si comprende la liturgia della festa[6]. Qui, la questione dell’autenticità del sudario di Torino in quanto reliquia non ci riguarda. Non insistiamo neppure sull’assurdità, sul semplice piano del senso comune, della confusione tra un volto vivo, che con i suoi grandi occhi aperti guarda l’osservatore, e quello di un cadavere: confusione tra un sudario immenso (di m. 4,36 x 1,10 ) con un piccolo telo usato per asciugarsi quando ci si lava. Tuttavia non si può tacere il fatto che tale confusione contraddice la liturgia e quindi il significato stesso dell’immagine. Ebbene questa liturgia si limita a far risalire l’immagine alla storia del re Abgar, che esprime il suo significato per la preghiera e la teologia e sottolinea spesso e insistentemente il legame tra questa immagine e la Trasfigurazione. “Ieri, sul monte Tabor la luce della Divinità inondò i primi tra gli apostoli per confermare la loro fede (…). Oggi, (…) l’immagine luminosa risplende e conferma la fede di tutti noi: là Dio si è fatto uomo…” (Stico tono 4). Ma ciò che qui viene particolarmente sottolineato, è la portata immediata, diretta, per noi fedeli, di quella luce divina apparsa in Cristo: «festeggiamo, come il salmista, rallegrandoci spiritualmente e proclamando con Davide: siamo segnati dalla luce del tuo volto, Signore!» (Stico dei vespri mattutini). Ed ancora: «Per la nostra santificazione ci hai lasciato la raffigurazione del tuo purissimo volto quando già volontariamente ti preparavi alle sofferenze» (Stico alla litania).
 L’immagine del Padre non fatta da mano d’uomo che è Cristo stesso, immagine manifestata nel Corpo del Signore e conseguentemente divenuta visibile, è un fatto dogmatico. Per questo motivo, in qualunque modo intendiamo l’espressione “immagine non fatta da mano d’uomo”, che sia l’apparizione di Cristo nel mondo immagine del Padre, che sia immagine miracolosamente impressa da Lui stesso su un telo, che sia immagine fissata nella materia da mani umane – anche se la differenza è immensa –, essenzialmente non cambia nulla. Questo la Chiesa esprime nel megalinario del giorno del Santo Volto: «Te, Cristo, Datore di vita, magnifichiamo e la gloriosissima immagine del tuo volto purissimo veneriamo». Questa glorificazione in nessun caso può riferirsi all’impronta di un corpo morto, ma si riferisce ad ogni immagine ortodossa di Cristo.
Ogni immagine di Cristo contiene e mostra quanto viene veramente espresso dal dogma di Calcedonia: è l’immagine della seconda Persona della Santa Trinità che unisce in sé senza separazione e senza confusione le due nature, divina ed umana. Questo viene testimoniato nell’icona con l’iscrizione dei due nomi, quello del Dio della rivelazione veterotestamentaria: O ?N (Colui che è); e quello dell’Uomo: Gesù (Salvatore) Cristo (Unto). «Nell’immagine di Gesù Cristo incarnato abbiamo qualche briciola della rivelazione, non un suo particolare aspetto tra gli altri, ma tutta la rivelazione intera nel suo insieme. Giustamente in questa immagine ci è consentito di vedere insieme la manifestazione assoluta della Divinità e la manifestazione assoluta del mondo divenuto uno con la Divinità. Per questo l’apostolo ci prescrive di provare tutto il resto con questa immagine di Cristo incarnato»[7].
«Dirigi i nostri passi alla luce del tuo volto affinché, camminando nei tuoi comandamenti, siamo giudicati degni di vedere te, Luce inaccessibile». (Stico mattutino)

Da: Il Messaggero ortodosso, n° 112, 1989
numero speciale “Teologia dell’icona”

Traduzione dal Francese del prof. G. M.

Palermo, agosto 2006.
————————————–

[1] Cfr. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 7,18.
[2] Cfr. Vladimir Lossky, «Le Sauveur acheiropoïète» in Le Sens des icônes, Cerf, 2003.
[3] P. Nellas, «Théologie de l’image», Contacts n° 84, 1978, p. 255.
[4] Paragoniamo i due testi:
«Rendete grazie a Dio che vi ha chiamati all’eredità dei santi nella luce, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha condotti nel regno del Figlio del suo amore nel quale abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue, la remissione dei peccati. Egli è l’immagine di Dio invisibile, il primogenito del creato. In Lui sono state create tutte le cose che sono in cielo e sulla terra…» (Col. 1, 12-16).
«È giusto e degno cantare lode a te, benedirti (…) Te ed il Figlio tuo unico ed il Santissimo tuo Spirito; dal nulla ci hai portati alla vita, noi che eravamo caduti, tu ci hai risollevati, e mai hai cessato di operare fino a portarci al cielo e a donarci il tuo regno futuro. Di questo ti rendiamo grazie…» (Canone eucaristico della Liturgia di san Giovanni Crisostomo).
[5] Il re Abgar è venerato nella Chiesa armena. Questa Chiesa non possiede un atto ufficiale di canonizzazione, ma la venerazione di Abgar è stata inserita nel nuovo calendario composto nel concilio che ha deciso di non accettare quello di Calcedonia.
[6] Questa confusione risale probabilmente all’opera di J. Wilson, Le Suaire de Turin, linceul du Christ? (Paris, 1978), dove l’«identità» dell’immagine non fatta da mano d’uomo (il Santo Volto) con l’impronta del corpo morto sul sudario è dimostrata con l’aiuto di ogni sorta di figure geometriche tracciate sul volto di Cristo, o ancora con dettagli come il colore del fondo delle icone (di solito avorio o giallo chiaro) che corrisponde al colore del tessuto. Non è possibile, né utile notare tutti gli errori di quest’opera: sono troppo numerosi.
[7] E. Troubetskoï, Il senso della vita, Berlin, 1922, p. 228 (in russo). Virgolettato dall’autore.

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA, immagini e testi, |on 7 juillet, 2011 |Pas de commentaires »

“Hesed” is a Hebrew word

“Hesed” is a Hebrew word dans immagini e testi, ruth-and-boaz-in-field

“Hesed” is a Hebrew word, and a massively important Old Testament concept. This one little word describes the character of God toward his covenant children: grace, kindness, goodness, faithfulness, sacrificial love. The “hesed” of God is a key theme in the book of Ruth, and it is particularly put on display in chapter 2, the text of last Sunday’s sermon. The audio is posted below:

http://ericcsmith.wordpress.com/2010/03/10/ruth-2-bitterness-sweetened-by-the-hesed-of-god/

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