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GESU’ COME RABBINO (anche su Paolo, interessante)

questo studio è interessante, c’è anche il pensiero di Paolo, io come sempre posto gli articoli che mi…intrigano… dal punto di vista degli studi anche paolini, ma il testo lo prendo come ve lo propongo, da rifletterci su, dal sito:

http://www.laportadeltempo.com/Indagini%20su%20Ges%C3%B9/indagini_rabbino.htm

GESU’ COME RABBINO

Lo studio di Gesù nella storia della cultura umana inizia con il Nuovo Testamento, sul quale si basano tutte le rappresentazioni successive. Ma la presentazione di Gesù nel Nuovo Testamento è essa stessa una rappresentazione, e ricorda una serie di dipinti più che una fotografia.
Nei decenni tra il tempo del ministero di Gesù e la composizione dei vari vangeli, il ricordo delle parole e degli atti di Gesù, circolarono in forma di tradizione orale. L’apostolo Paolo, nella lettera alla congregazione dei Corinzi attorno al 55 d.C. (vent’anni circa dopo la vita di Gesù), ricorda loro che nel corso della sua visita, qualche anno addietro, probabilmente attorno al 50 d.C., aveva annunziato loro il Vangelo per come lo aveva ricevuto in tempi ancora precedenti, forse negli anni quaranta, in relazione alla morte e resurrezione di Gesù, (1 Cor. 15:1-7) e all’istituzione dell’Ultima Cena del Signore (1 Cor. 11:23-26).
Cronologicamente, e perfino logicamente, pertanto, vi fu una tradizione orale della chiesa prima che vi fosse un Nuovo Testamento, o qualsiasi libro del Nuovo Testamento. Per il tempo in cui i materiali della tradizione orale trovarono la loro via nella forma scritta, erano passati attraverso la vita e l’esperienza della chiesa, che sosteneva la presenza dello Spirito Santo di Dio. Fu all’azione di questo Spirito che i Cristiani attribuirono la composizione dei libri del “Nuovo Testamento”, come iniziarono a chiamarlo, e prima di quello del “Vecchio Testamento”, come iniziarono a descrivere la Bibbia Ebraica.
E’ ovvio – eppure, a giudicare dalle tragedie della storia successiva, non ovvio del tutto – che Gesù fu un ebreo, così che i primi tentativi di comprendere il suo messaggio devono svolgersi nel contesto del Giudaismo. Il Nuovo Testamento era scritto in Greco, ma il linguaggio che Gesù parlava con i suoi discepoli sembra essere stato l’Aramaico, una lingua semitica legata all’Ebreo, ma non identica ad esso. Le parole e le frasi aramaiche sono sparse per tutta la lunghezza dei Vangeli, e degli altri primi testi cristiani, a riflettere il linguaggio nel quale i vari detti e le formule liturgiche erano stati ripetuti prima che fosse completata la transizione al Greco.
Tra esse, abbiamo parole familiari come Osanna, e come anche il grido di disperazione di Gesù sulla croce : Eloi, Eloi, lama sabachtani? (Marco 15:34) – “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?” (che in ebreo nel Salmo 22 era Eli, Eli lama azavtani?).
O ancora la dizione Emanuele, “Dio con noi” – il titolo ebreo dato al bambino nella profezia di Isaia (7:14) ed applicato da Matteo (1:23) a Gesù – e le quattro parole aramaiche che appaiono come ricorrenti titoli di Gesù: Rabbi o maestro, Amen o profeta; Messias o Cristo e Mar o Dio.
La più neutrale e meno controversa di queste parole è probabilmente Rabbi, insieme con la collegata Rabbouni. Eccetto per  due passaggi, i Vangeli applicano la parola aramaica solo a Gesù; e se concludiamo che il titolo “maestro” (didaskalos in Greco) era inteso come una traduzione del nome aramaico, sembra naturale poter dire che è come Rabbi che Gesù era conosciuto e indicato. Invece i Vangeli sembrano accentuare le differenze, piuttosto che le somiglianze, tra Gesù e gli altri rabbini. Con il progredire degli studi sul giudaismo, nel tempo, tuttavia, le somiglianze e le differenze sono divenute più chiare.
Luca ci dice (4:16-30) che dopo il suo battesimo e le tentazioni del deserto, egli “Si recò a Nazareth dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga, e si alzò a leggere.” Seguendo il comportamento usuale dei rabbini, prese un rotolo della Bibbia Ebraica, lo lesse, presumibilmente offrì una traduzione aramaica in perifrasi del testo, e quindi lo commentò. Le parole che lesse erano tratte da Isaia 61: 1-2: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere la libertà agli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore.” Ma invece di fare ciò che un rabbino avrebbe fatto normalmente, e cioè applicare il testo agli ascoltatori comparando e contrastando le precedenti interpretazioni, egli dichiarò: “Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi”. Malgrado la reazione iniziale a quest’audace dichiarazione fu di meraviglia “alle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”, la successiva spiegazione produsse la reazione opposta: “tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno”.
Oltre il confronto tra Gesù come Rabbino e le rappresentatività della tradizione rabbinica, le affinità sono comunque chiaramente distinguibili nelle forme in cui i suoi insegnamenti appaiono nel Vangelo. Una delle più familiari è la tecnica  “domanda e risposta”, con la domanda spesso formulata come un dilemma.
Una donna ebbe, uno dopo l’altro, sette mariti: alla resurrezione, di quale dei sette sarebbe stata moglie? (Matteo 22:23-33) E’ lecito o no per un devoto ebreo pagare il tributo a Cesare? (Matteo 22:15-22)      
Cosa devo fare per ereditare la vita eterna (Marco 10:17-22)?      
Chi è il più grande nel regno dei Cieli (Matteo 18:1-6)?
Chi pone le domande si comporta come un uomo retto, che offre al Maestro Gesù l’opportunità di arrivare al punto.
Per gli autori del Nuovo testamento, comunque, la forma più tipica degli insegnamenti di Gesù fu la parabola: “Per questo parlo loro in parabole” dice Gesù in Matteo 13:34. Ma la parola greca parabola è presa dal Settuaginta, la traduzione ebraica della loro Bibbia in Greco. Anche qui, dunque, il racconto dell’evangelista di Gesù narratore di parabole ha senso solo nella dimensione del suo background ebraico. Interpretando le sue parabole sulla base di questo contesto, si alterano le convenzionali spiegazioni dei suoi paragoni tra il regno di Dio e gli incidenti della vita umana. Così il punto della parabola del figliol prodigo (Luca 15:11-32), meglio detta la parabola del fratello maggiore, si trova nelle parole che il padre dice al fratello maggiore, che rappresenta il popolo di Israele: “Figlio, tu sei sempre con me, e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. L’alleanza storica tra Dio ed Israele era permanente, ma a quest’alleanza sarebbero stati ammessi, da questo momento, anche gli altri popoli.
Le oscillazioni tra la descrizione del ruolo di Gesù come Maestro e l’attribuzione a lui di una nuova ed unica autorità rende titoli aggiuntivi necessari. Uno di essi era Profeta, come l’acclamazione della Domenica delle Palme (Matteo 21:11). “Questi è il profeta Gesù, da Nazareth di Galilea”. Probabilmente la versione più interessante di ciò si trova ancora una volta in Aramaico (Rev. 3:24): “Le parole dell’Amen, la fede e la vera testimonianza.” La parola Amen era la formula di affermazione per concludere una preghiera, come nel messaggio di saluto di Mosè al popolo di Israele, che si conclude, in ogni verso (Deuteronomio 27:14-26) “Tutto il popolo dirà: Amen”.
Nel Nuovo Testamento un’estensione del significato di Amen diviene evidente nel Discorso dalla Montagna: Amen lego Hymin, “In verità vi dico”. Alcune delle settantacinque volte in cui nei quattro Vangeli si legge la parola Amen, introducono una pronuncia autoritativa di Gesù. Dal momento che aveva l’autorità di esprimersi in questo modo, Gesù era il Profeta. La parola profeta qui significa principalmente, non colui che prevede, malgrado le parole di Gesù contengano molte predizioni, ma colui che è autorizzato a parlare in nome di un altro, e a manifestare la verità. Nel Discorso dalla Montagna, Gesù è citato asserire (Matteo 5:17-18): “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità [Amen] vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà della legge neppure uno iota o un segno, senza che tutto sia compiuto”. L’affermazione della validità permanente della legge di Mosè è seguita da una serie di specifiche citazioni della legge, ognuna introdotta dalla formula: “Avete inteso che fu detto agli antichi”; ognuna di tali citazioni è quindi seguita da un commentario che si apre con la formula magisteriale “Ma io vi dico” (Matteo 5:21-48). Il commento è un’intensificazione del comandamento, per includere non solo la sua osservanza esterna, ma lo spirito interiore e la motivazione del cuore. Tutti questi commenti sono un’elaborazione dell’ammonizione che la giustizia dei suoi discepoli dovesse superare quella degli scribi e dei farisei (Matteo 5:20).
La conclusione del Discorso della Montagna conferma lo status speciale di Gesù non solo come Rabbi ma come Profeta (Matteo 7:28-8:1): “Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi. Quando Gesù fu sceso dal monte, molta folla lo seguiva.” Quindi si ha la narrazione di molte cose miracolose. Il Nuovo Testamento non attribuisce il potere di compiere miracoli solo a Gesù ed ai suoi discepoli (Matteo 12:27), ma cita i miracoli e sostanzia ed il suo essere Rabbi-Profeta. L’identificazione di Gesù era un mezzo per affermare la sua continuità con i profeti di Israele, e di asserire la sua superiorità rispetto a loro come il Profeta la cui venuta era stata predetta e la cui autorità egli si preparava a ricevere. Nel Deuteronomio 18:15-22, Dio dice a Mosè, e attraverso lui al popolo Egli “susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto.” Nel contesto biblico, questa è l’autorizzazione di Giosuè come successore legittimo di Mosè, ma nel Nuovo Testamento e nei successivi autori cristiani, il profeta a venire è considerato essere Gesù-Giosuè. E’ ritratto come uno dei profeti in cui gli insegnamenti di Mosè troveranno compimento, e saranno addirittura superate, nel Rabbino che contestualmente soddisfa la legge di Mosè e la trascende; perché “La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Giovanni 1:17). Per descrivere una tale rivelazione di grazia e verità, le categorie di Rabbino e Profeta erano necessarie ma non sufficienti. Pertanto in seguito gli apologeti Cristiani anti-musulmani avrebbero trovato l’identificazione offerta dall’Islam di Gesù come un grande profeta e precursore di Maometto, inadeguata e pertanto inaccurata, così che il potenziale della figura di Gesù il Profeta come terreno d’incontro tra i Cristiani e i Musulmani non sono mai state pienamente realizzate.
Perché Rabbi e Profeta si collegano ad altre due categorie, ciascuna delle quali espressa similmente in aramaico e quindi nella sua traduzione Greca: Messias, la forma aramaica per “Messiah” tradotta in Greco, come ho Christos, “il Cristo,” l’Unto (Giovanni 1:41; 4:25) e Marana, “nostro signore”, nella formula liturgica Maranatha, “Nostro Signore, vieni!” tradotto in Greco come ho Kyrios (1 Corinzi 16:22). La figura apparteneva ai titoli di identificazioni di Gesù come Figlio di Dio e seconda persona della trinità.
Ma nel processo di determinare se stesse, le definizioni Cristo e Signore, come anche Rabbi e Profeta, spesso perdono molto del loro contenuto semitico. Per i discepoli cristiani del I secolo, la concezione di Gesù come Rabbino era auto-evidente, per i discepoli cristiani del II secolo imbarazzante, e infine per i discepoli cristiani del III secolo e oltre era divenuta oscura.
L’inizio di questa de-giudeizzazione della Cristianità è visibile già all’interno del Nuovo Testamento. Con la decisone di Paolo di “rivolgersi ai Gentili” dopo avere iniziato la sua predicazione nelle sinagoghe, e quindi con la distruzione del tempio nel 70 d.C., il movimento cristiano seguì in modo crescente la tendenza ad essere Gentile piuttosto che ebraico, nella sua consistenza ed aspetto. Ed è in quel contesto che gli elementi della vita ebraica di Gesù dovevano essere spiegati ai lettori Gentili (per esempio Giovanni 2:6). Gli Atti degli Apostoli possono essere letti come il racconto di due città: il primo capitolo, con Gesù ed i suoi discepoli dopo la resurrezione, è ambientato a Gerusalemme; ma l’ultimo capitolo raggiunge il suo momento culminante con il viaggio finale dell’apostolo Paolo, nella semplice ma stringente frase: “Partimmo quindi alla volta di Roma”. Recentemente, gli studiosi non hanno solo posto la figura di Gesù indietro nel contesto del giudaismo del I secolo; ma hanno anche riscoperto la natura ebraica intrinseca del Nuovo Testamento, e particolarmente di Paolo. Nella sua lettera ai Romani (9-11) egli descrive la sua sofferenza per le relazioni tra la chiesa e la sinagoga, concludendo con la predizione e la promessa: “Allora tutto Israele sarà salvato”. Attenzione, non convertito alla Cristianità, ma salvato, perché nelle parole di Paolo, “ma quanto all’elezione, sono amati a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!” (Romani 11:26-29). Questo leggere la mente di Paolo nella Lettera ai Romani, ha speciale significato per i suoi molti riferimenti al nome di Gesù: da “discese da Davide secondo la carne… Gesù Cristo nostro Signore” nel primo capitolo, alla “predicazione di Gesù Cristo” che “ma rivelato ora e annunziato mediante le scritture profetiche per ordine dell’eterno Dio, a tutte le genti” nella frase finale. Qui Gesù Cristo è, come dice Paolo di se stesso altrove “della stirpe d’Israele…, ebreo da Ebrei” (Filippesi 3:5). Il vero argomento di universalità, presumibilmente la distinzione tra Paolo ed il Giudaismo, era, per Paolo, quello che rendeva necessario che Gesù fosse un ebreo. Perché solo attraverso l’ebraismo di Gesù l’alleanza di Dio con Israele, i graziosi doni di Dio, e la sua chiamata irrevocabile potevano divenire accessibile a tutti i popoli del mondo, anche al popolo dei Gentili, che sarebbe diventato “così partecipe della radice e della linfa dell’olivo” – nominativamente, il popolo di Israele (Romani 11:17).
Nessuno può considerare l’argomento di Gesù come un Rabbino ed ignorare la conseguente stria delle relazioni tra il popolo cui Gesù apparteneva ed il popolo che apparteneva a Gesù. Questa relazione corre come una linea rossa attraverso molta parte della storia della cultura, e dopo gli eventi del XX secolo, abbiamo la responsabilità unica di esserne consapevoli quando studiamo la storia delle immagini di Gesù attraverso i secoli. Interrogarsi su questo argomento è naturalmente più semplice che fornire una risposta. Ma dobbiamo chiederci: vi sarebbe stato un tale dilagante antisemitismo, vi sarebbero stati tanti pogrom, vi sarebbero stati campi di concentramento, se ogni Chiesa Cristiana ed ogni casa Cristiana avessero focalizzato la loro devozione sull’immagine di Maria non solo come Madre di Dio e Regina dei Cieli, ma anche come Vergine ebrea, e Nuova Miriam, e sull’icona di Cristo non solo come il Cristo Cosmico, ma anche come Gesù il Rabbino di Nazareth, il Figlio di David, giunto a riscattare la prigionia di Israele, e dell’intera umanità?

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