Archive pour la catégorie 'FESTE – PASQUA'

Omelia per il Giovedi Santo : Donare la vita (1Cor 11,23-26)

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/15461.html

Omelia (09-04-2009) 
don Ezio Stermieri

(1Cor 11,23-26)

Donare la vita.

Carissimi, ascoltando con voi dalla Parola di Dio quanto S. Paolo scrive ai cristiani di Corinto: “Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta ho trasmesso…” per un attimo ho riassunto tutti il senso che ho dato alla mia esistenza: trasmettere quello che Gesù ha fatto nella sera di Pasqua, portando a compimento il memoriale di Israele e ponendo la memoria di Cristo a fondamento della storia futura. Sì, sono qui per donarvi Gesù. Non l’idea di Gesù, o qualcosa del suo insegnamento ma la sua vita donata per noi. I cristiani di Corinto facevano fatica a far memoria di Gesù, tendevano a evidenziare se stessi, la loro amicizia… come anche oggi può nascere la tendenza a valutare solo gli elementi umani, buoni ma non sufficienti per immettere nella vicenda umana, oggi bambini, ma domani adulti che testimonino “finché Egli venga” che il comunicarsi al Signore è testimonianza che Dio non ci lascia soli, è alleato con ogni fatica per costruire una società più umana, un mondo più giusto, rapporti di benevolenza, uno sguardo sull’uomo come figlio, amato da Dio e dunque sempre da rispettare: nel suo lavoro, nella sua famiglia, nei suoi sentimenti, nel suo corpo, nella sua libertà.
Di più ancora! Mangiando, nutrendoci di Lui noi impariamo a vivere con Lui e per Lui dando continuità non solo al gesto ma al significato del dono. Lo abbiamo ascoltato da Giovanni. Egli si è curvato sulla nostra sporcizia, ci ha accolti come amici, commensali degni di condividere la sua avventura. Tutto questo lavando i nostri piedi! Sarete capaci voi bambini di mettere il proposito per tutta la vita di essere gente che fa quello che ha fatto Gesù? Vorrete bene a tutti? Imparerete a farvi accoglienti? Andrà al di là della festa il vostro incontro con Gesù? Molto dipende da noi adulti: genitori, sacerdote, catechista, comunità tutta: insegnarvi come l’antico Israele che celebrare la Pasqua è vivere lo stile di vita che il Signore ha dato, riassumibile in una sola parola: libertà. Ma molto dipenderà da ognuno di noi perché il Signore si fa strada nel cuore in qualunque contesto; parola in ogni situazione, sceglie per amico chi vuole. Ebbene, nonostante la nostra tiepidezza, intermittenza, lo scarso valore che noi diamo alla dimensione religiosa: al rapporto con il Signore… Egli stesso vi ha condotti qui, a questo giorno, a questo incontro, primo di chissà quanti altri e in quali contesti della vita. Metterete nel vostro cuore questo momento per farne memoria, ricordarvi che il Signore vi vuole bene. Ponete il proposito di essere come Lui. Se lo amerete Egli vi darà la forza di superare ogni ostacolo e un giorno anche voi direte a vostro figlio: È giunto il momento che ti faccia conoscere il Signore e quello che ha fatto. È il momento che tu sappia che Egli è la forza della mia vita.
 

Venerdì Santo: la Croce (Chiesa Ortodossa)

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/commentilit/venerdischmemann.htm

Protopresbitero A. Schmemann

5. Venerdì Santo:

La Croce

Dalla luce del Santo Giovedì, si entra nelle tenebre del Venerdì, il giorno della Passione di Cristo, della Morte e della Sepoltura. Nella Chiesa antica questo giorno veniva chiamato “Pasqua della Croce”, perché esso è davvero l’inizio di questa Pasqua o Passaggio il cui senso ci sarà progressivamente rivelato, in primo luogo, nella meravigliosa quiete del Grande e Benedetto Sabato, e, poi, nella gioia del giorno della Risurrezione.

Ma, in primo luogo, le Tenebre. Se solo riuscissimo a capire che nel Santo Venerdì le tenebre non sono solo simboliche e commemorative! Molto spesso guardiamo la bellezza e la solenne tristezza di queste ufficiature in uno spirito di auto-redenzione e di auto-giustificazione. Duemila anni fa uomini cattivi hanno ucciso Cristo, ma oggi noi – il buon popolo cristiano – innalziamo sontuosi sepolcri nelle nostre chiese – non è questo il segno della nostra bontà? Eppure, il Santo Venerdì non si occupa solo del passato. È il giorno del Peccato, il giorno del Male, il giorno in cui la Chiesa ci invita a renderci conto della loro terribile realtà e del loro potere in “questo mondo”. Perché il Peccato e il Male non sono scomparsi, ma, al contrario, costituiscono ancora la legge fondamentale del mondo e della nostra vita. E noi che ci diciamo cristiani, non facciamo molto spesso nostra questa logica del male che ha portato il Sinedrio ebraico e Ponzio Pilato, i soldati Romani e tutta la folla ad odiare, torturare e uccidere Cristo? Da quale parte, con chi saremmo stati, se fossimo vissuti a Gerusalemme sotto Pilato? Questa è la domanda indirizzata a noi in ogni parola dell’ufficiatura del Santo Venerdì. È, infatti, il giorno di questo mondo, e la sua condanna reale e non simbolica, il giudizio reale e non rituale sulla nostra vita… È la rivelazione della vera natura del mondo, che poi ha preferito, e preferisce ancora, le tenebre alla luce, il male al bene, la morte alla vita. Dopo aver condannato a morte Cristo, “questo mondo” ha condannato a morte sé stesso nella misura in cui accetta il suo spirito, il suo peccato, il suo tradimento di Dio – siamo anche noi condannati… Questo è il primo e terribilmente reale significato del Santo Venerdì – una condanna a morte…

Ma questo giorno del Male, della sua manifestazione e trionfo finale, è anche il giorno della Redenzione. La morte di Cristo si rivela a noi come morte oikonomica[1] per noi e per la nostra salvezza.

Si tratta di una Morte oikonomica perché è il totale, perfetto e supremo Sacrificio. Cristo dona la Sua Morte al Padre Suo e dona la Sua Morte a noi. A Suo Padre, perché, come vedremo, non vi è altro modo per distruggere la morte, per salvare gli uomini da essa, ed è la volontà del Padre che gli uomini siano salvati dalla morte. A noi, perché in assoluta verità Cristo muore al posto nostro. La morte è il naturale frutto del peccato, un castigo immanente. L’uomo ha scelto di stare lontano (alienato) da Dio, ma non avendo la vita in sé stesso e da sé stesso, muore. Eppure in Cristo non vi è alcun peccato e, quindi, nessuna morte. Egli accetta di morire solo per nostro amore. Vuole assumere e condividere la nostra condizione umana sino alla fine. Accetta il castigo della nostra natura, come si è assunto l’intero onere del genere umano. Muore perché si è veramente identificato con noi, ha preso su di sé la tragedia della vita dell’uomo. La sua morte è l’ultima rivelazione della Sua compassione e del Suo amore. E poiché il suo morire è amore, compassione e condivisione della sofferenza, nella Sua morte, la natura stessa della morte è stata cambiata. Da punizione diventa radioso atto d’amore e di perdono, la fine dell’alienazione e della solitudine. La condanna è trasformata in perdono…

E, infine, la sua morte è una morte oikonomicamente salvifica, perché distrugge la fonte stessa della morte: il male. Accettando nell’amore tutto questo, dando sé stesso ai suoi uccisori e permettendo loro un’apparente vittoria, Cristo rivela che, in realtà, questa vittoria è la totale e decisiva sconfitta del Male. Per essere vittorioso il Male deve annientare il Bene, deve dimostrare di essere la verità ultima sulla vita, screditare il Bene e, in una parola, mostrare la propria superiorità. Ma in tutta la Passione è Cristo e Lui solo che trionfa. Il Male non può fare nulla contro di Lui, poiché non può indurre Cristo ad accettare il Male come verità. L’Ipocrisia si rivela come Ipocrisia, l’Omicidio in quanto Omicidio, la Paura quale Paura; e come Cristo avanza in silenzio verso la Croce e la Fine, così la tragedia umana raggiunge il Suo culmine, il Suo trionfo, la Sua vittoria sul male, la Sua glorificazione divenuta sempre più evidente. E ad ogni passo questa vittoria è riconosciuta, confessata, proclamata – da parte della moglie di Pilato, da Giuseppe, dal ladro crocifisso, da parte del centurione. E quando Lui muore sulla Croce avendo accettato l’ultimo orrore della morte: la solitudine assoluta (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?), non rimane null’altro da confessare se non che “veramente questo era il Figlio di Dio!…”. E, quindi, è questa Morte, questo Amore, questa obbedienza, la pienezza della Vita che distrugge ciò che rese la morte un destino universale. “E le tombe si aprirono…” (Matteo 27, 52). Appaiono già i raggi della risurrezione. 

Questo è il duplice mistero del Santo Venerdì, rivelato nelle sue ufficiature che ci rendono di esso partecipi. Da un lato, vi è la costante attenzione sulla Passione di Cristo come il peccato di tutti i peccati, il crimine di tutti i crimini. Dal Mattutino, nel corso del quale la lettura dei dodici Evangeli della Passione ci fa seguire passo per passo le sofferenze di Cristo, alle Ore (che sostituiscono la Divina Liturgia: il divieto di celebrare in questo giorno l’Eucaristia significa che il sacramento della presenza di Cristo non appartiene a “questo mondo” di peccato e di tenebre, ma è il sacramento del “mondo che verrà”) e, infine, i Vespri, gli uffici della sepoltura di Cristo, gli inni e le letture sono pieni di solenni accuse di coloro che volontariamente e liberamente decisero di uccidere Cristo, che addussero a giustificazione per questo omicidio la loro religione, la loro lealtà politica, le loro considerazioni pratiche e la loro obbedienza professionale.

Ma, dall’altro lato, il sacrificio d’amore che prepara la vittoria finale è altresì presente fin dall’inizio. Dalla lettura del primo Evangelo (Giovanni 13, 31), che inizia con il solenne annuncio di Cristo: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e in Lui Dio è stato glorificato”, agli stichira alla fine del Vespro – vi è l’accrescersi della luce, il lento evolversi della speranza e della certezza che “la morte sarà calpestata dalla morte…” 

“Quando Tu, il Redentore di tutti,
fosti posto per tutti nel sepolcro nuovo,
l’Ade, che di nessuno ha timore, vedendo Te si chinò impaurito.
I chiavistelli furono infranti, le porte sconquassate,
le tombe furono aperte, i morti risuscitati.
Allora Adamo, con gioiosa gratitudine, Ti gridò:
“Gloria alla tua condiscendenza, o Misericordioso Sovrano”.

E quando, alla fine dei Vespri, abbiamo posto al centro della Chiesa, l’immagine di Cristo nel sepolcro, quando questo lungo giorno sta giungendo alla sua fine, sappiamo che siamo giunti alla fine della lunga storia della salvezza e della redenzione. Il Settimo Giorno, il giorno di riposo, il benedetto Sabato sta giungendo e con esso – la rivelazione della Tomba Vivificante.

Rev. Alexander Schmemann, Holy Week: A Liturgical Explanation for the Days of Holy Week (La Santa Settimana: Spiegazione Liturgica per i giorni della Santa Settimana), pubblicato da St Vladimir’s Seminary Press.
 

Tradotto :  Tradizione Cristiana da E. M. Aprile 2009

Testo originale in http://www.svots.edu/News/Recent/schmemann-holy-week-friday-cross/

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA, FESTE - PASQUA |on 1 avril, 2010 |Pas de commentaires »

4. Giovedì Santo: l’Ultima cena (Chiesa Ortodossa)

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/commentilit/ultcenaschmemann.htm

Alexander Schmemann

4. Giovedì Santo

L’Ultima Cena

            Due importanti eventi caratterizzano le sacre ufficiature del Santo e Grande Giovedì: l’Ultima Cena del Signore Gesù Cristo con i suoi discepoli e il tradimento di Giuda. Il significato più profondo di questi due eventi è l’amore. L’Ultima Cena è la rivelazione escatologica dell’amore salvifico di Dio per l’uomo, l’amore che è il cuore della salvezza. Il tradimento di Giuda rivela che il peccato, la morte e l’autodistruzione sono anch’essi dovuti all’amore; ma un amore distruttivo, un amore che divide, disperde e conduce là dove domina tutt’altro che l’amore. Proprio qui sta il mistero di questo unico giorno, del Santo Giovedì. Le sacre ufficiature, dove la luce e le tenebre, la gioia e il dolore sono stranamente mescolati, ci provocano mettendoci di fronte ad una scelta dalla quale dipende la destinazione finale di ciascuno di noi.

«Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre… dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine…» (Gv 13, 1). Per capire il significato dell’Ultima Cena, essa deve essere vista come il fine della grandiosa potenza del Divino Amore, che ha avuto inizio con la creazione del mondo e adesso si conclude con la Morte e la Risurrezione di Cristo.

«Dio è amore» (Gv 4, 8). E il primo dono dell’Amore è stato la vita. Il significato e il contenuto della vita era la comunione. Perché l’uomo riuscisse a vivere doveva mangiare e bere, partecipare alla vita del mondo. Così il mondo era amore divino che divenne cibo, divenne Corpo dell’uomo. Ed essendo vivo, partecipando cioè al mondo, l’uomo ha dovuto vivere in comunione con Dio, trovare senso in Dio, trovare in Lui il contenuto e il fine della sua vita. Comunione con il mondo – la creazione di Dio – era una vera e propria comunione con Dio.

L’uomo ha ricevuto il cibo da Dio, facendoli corpo e vita propria, ha offerto tutto il mondo a Dio trasformandolo in vita «in Cristo». L’amore di Dio ha dato la vita all’uomo, l’amore dell’uomo per Dio ha trasformato questa vita in comunione con Dio. Questo è stato il Paradiso. La vita nel Paradiso era veramente eucaristica. Attraverso l’uomo e il suo amore per Dio, l’intera creazione si sarebbe santificata e trasformata in un mistero della Presenza Divina e l’uomo sarebbe stato il celebrante di questo mistero.

Però con il peccato, l’uomo ha perso questa vita eucaristica. L’ha persa perché smise di vedere il mondo come un mezzo di comunicazione con Dio, e la sua vita come eucaristia, come adorazione e gratitudine… Amò sé stesso per sé stesso e il mondo per il mondo. Fece di lui e del mondo qualcosa fine a sé stessa. Amò tanto sé stesso che lo rese il centro, il contenuto e il fine della sua esistenza. Credé che la sua fame e la sua sete, cioè la dipendenza della sua vita dal mondo, potesse essere soddisfatta da questo mondo, dal cibo che offre il mondo. Ma il mondo e il cibo, una volta separati dal loro significato misterico – come mezzi di comunicazione con Dio – dal momento in cui essi non sono assunti come doni di Dio e non soddisfano la fame e la sete per Dio, non offrono più una certa soddisfazione, né colmano la vita. In altre parole, quando Dio non è più il reale contenuto e il significato della vita del mondo, la fame e la sete cessano di essere soddisfatte, perché il mondo non ha più la vita in sé… Quindi mettendo l’amore in queste cose l’uomo si distaccò dal solo oggetto di tutto l’amore, di tutta la fame, di tutti i desideri. Ed è morto. Egli è morto perché la morte è l’inevitabile «decomposizione» della vita staccata dall’unica fonte e dall’autentico contenuto.

L’uomo, invece di trovare la vita in questo mondo e il cibo che offre il mondo, trovò la morte. La vita diventò ormai comunione con la morte invece di trasformare il mondo attraverso la fede, l’amore, il culto di Dio e della comunione con Lui. L’uomo si sottomise interamente al mondo, cessò di essere il suo celebrante e divenne il suo schiavo. Con il suo peccato tutto il mondo è diventato un immenso cimitero dove le persone sono condannate a morte, perché sono «abitanti nella regione dell’ombra della morte…» (Mt 4, 16).

Sebbene l’uomo abbia tradito, Dio è rimasto fedele all’uomo, non gli ha voltato le spalle. «Tu non hai respinto per sempre la creatura che avevi plasmato, o Buono, né hai dimenticato l’opera delle tue mani, ma l’hai visitata in molti modi nella tua grande misericordia» (Preghiera della Divina Liturgia di Basilio il Grande). Un nuovo progetto divino ebbe inizio; il progetto della redenzione e della salvezza. E questo progetto si completò con Cristo, il Figlio di Dio, che, per restaurare l’uomo nella sua «bellezza primitiva» e riportare la vita in comunione con il suo Creatore, si è fatto Uomo. Assunse la nostra natura umana con tutte le sue caratteristiche: la fame, la sete, il desiderio di amore, di vita. Nel volto del Cristo incarnato si rivelò la vera vita la quale fu data in origine all’uomo come una completa e perfetta Eucaristia, come piena e perfetta comunione con Dio. Il Cristo Teantropo negò la tentazione umana fondamentale: di vivere «di solo pane». Egli rivelò che Dio e il Suo Regno sono il vero pane, la vera vita dell’uomo. Questa perfetta vita eucaristica, piena di Dio – e quindi della vita divina e immortale – l’ha data a tutti i Suoi fedeli. Quindi, i credenti in Dio trovano in Lui il senso e il contenuto della loro vita. Questo è esattamente il più profondo, il meraviglioso senso dell’Ultima Cena.

Gesù Cristo offrì Sé stesso come il vero, l’essenziale cibo dell’uomo, perché la vita di Cristo è la vera vita. Così il movimento del Divino Amore che ha avuto inizio nel Paradiso con l’offerta di Dio «Mangia [del frutto] di qualunque albero del paradiso» (perché il cibo è la vita dell’uomo) raggiunge ora il suo culmine con il divino «prendete e mangiate, questo è il mio corpo…» (perché Dio è la vita dell’uomo). L’Ultima Cena, quindi, è il ripristino del Paradiso delle Delizie, la restaurazione della vita come Eucaristia e comunione.

Ma questo momento di estremo Amore è anche il tempo dell’estremo tradimento. Giuda abbandona la luce che inondava la «Gran Sala» ed entra nel buio. «Quello però, preso il boccone, uscì subito. Era notte» (Gv 13, 30). Perché se ne è andato? Perché amava, risponde l’Evangelo. E questo amore fatale si sottolinea ripetutamente negli inni del Grande Giovedì. «Il tuo agire è colmo di perfidia, illegittimo Giuda; essendo ammalato di avarizia, hai guadagnato la misantropia; se amavi le ricchezze perché seguivi Colui che insegnava la povertà? anche se lo baciasti, perché hai venduto colui che non ha prezzo?…». Non ha importanza il fatto che l’oggetto dell’amore di Giuda sia stato l’«oro». L’oro, il denaro, rappresentano qui tutti gli amori perversi e distruttivi che portano l’uomo alla negazione di Dio. È infatti un amore rubato a Dio ed è proprio per questo che Giuda è un ladro. E quando qualcuno non ama Dio e il suo amore in genere non proviene da Dio, anche allora l’uomo ama e desidera – perché è creato per amare e l’amore è la sua natura – ma una passione oscura e autodistruttiva lo porta alla morte.

Ogni anno, mentre celebriamo questo grande giorno del Santo Giovedì e affondiamo nella sua luce infinita, e nelle profondità insondabili dei significati del giorno, la stessa domanda decisiva è rivolta a ciascuno di noi: Io, corrispondo all’amore di Dio e l’accetto come mia vita, o seguo Giuda nel buio della sua notte?

Le ufficiature del Grande Giovedì includono il Mattutino, il Vespro e poi la Divina Liturgia di Basilio il Grande. Anticamente nelle cattedrali si compiva l’ufficiatura del «Lavabo» dopo la Divina Liturgia. Oggi si riscontra in pochi monasteri. Mentre il diacono legge l’Evangelo, il Vescovo (o l’igumeno) lava i piedi di dodici sacerdoti (o monaci), fatto che ci ricorda che l’amore di Cristo è il fondamento della vita della Chiesa e caratterizza tutti i rapporti all’interno della Chiesa. Inoltre nelle prime Chiese Autocefale era d’uso anticamente nel Grande Giovedì la pratica dell’ufficiatura del Santo Miron il quale viene utilizzato nel sacramento della Santa Unzione. Ma oggi il Santo Miron si prepara solo al Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, in una specifica ufficiatura del Grande Giovedì. A questa ufficiatura partecipano il Patriarca Ecumenico, i Metropoliti e tutto il clero del Santo Trono (Ecumenico). Con il Santo Miron che riceviamo dopo il nostro battesimo, riceviamo i doni del Santo Spirito. Pertanto, il nuovo amore che Cristo porta sulla terra, ci sigilla nel giorno in cui, come nuovi membri, facciamo il nostro ingresso nella Chiesa.

Nel Mattutino i tropari sottolineano il tema del giorno che è il contrasto tra l’amore di Cristo e l’«insaziabile anima» di Giuda. Uno dei tanti tropari ci dice:

«Mentre i gloriosi discepoli venivano illuminati con la lavanda della cena, ecco che l’empio Giuda, malato di avarizia, si ottenebrava; e consegnava a giudici iniqui te, il giusto Giudice. Vedi come l’amante del denaro proprio per questo finisce impiccato; fuggi anima insaziabile che tanto ha osato contro il Maestro. O tu, buono con tutti, Signore, gloria a te».

La lettura dell’Evangelo (Lc 22, 1-39) è la narrazione dei fatti accaduti in quella «grande sala pronta». Segue il meraviglioso canone – pieno di significati teologici – poema del Monaco Cosma: «Il Mar Rosso squarciato si apre…». Questo ci dà l’impulso per concentrarci e meditare sul significato escatologico dell’Ultima Cena. L’ultimo Irmòs della 9ª Ode ci invita a prendere parte alla tavola immortale che ci fornisce il Signore con imperiosa ospitalità:

«Venite, o fedeli, con sensi elevati godiamo, nella sala alta, dell’ospitalità del Signore e della sua mensa immortale, godiamo il Logos innalzato, che esaltiamo poiché egli ce l’ha rivelato».

Nel Vespro dopo il «Signore, ho gridato a te…» agli idiòmela delle Lodi che seguono si evidenzia il terribile declino spirituale di Giuda: Il tradimento. Lo stico che segue è rappresentativo:

«Giuda, servo e ingannatore, discepolo e insidiatore, amico e diavolo, si rivela nelle opere. Seguiva infatti il Maestro e meditava tra sé il tradimento; diceva in sé: lo consegnerò e raccoglierò il denaro. Cercava di vendere il miron ma anche di consegnarlo con l’inganno. Diede l’abbraccio, consegnò Cristo come agnello al macello, così seguì, l’unico misericordioso e amico dell’uomo».

Dopo l’Ingresso del santo Evangelo si leggono tre letture dall’Antico Testamento:

1) Esodo 19, 10-19. Dio viene «nelle nubi» sul monte Sinai e Mosè con il popolo esce a incontrarlo. Ciò prefigura la venuta di Cristo nel mondo e soprattutto nella riunione Eucaristica.

2) Giobbe 38, 1-23; 42, 1-5. Dio parla a Giobbe e Giobbe risponde: «… chi è costui che senza cognizione ottenebra il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose grandi e meravigliose che non comprendevo». E queste cose «grandi e meravigliose» si compiono ora in questa splendente «Grande Sala» con i Doni altissimi: il Corpo e il Sangue di Cristo.

3) Isaia 50, 4-11. Le profezie sulla Passione di nostro Signore Gesù Cristo. «Ho dato il mio corpo a quelli che mi percuotevano, e le mie guance a quelli che mi strappavano la barba; non nascosi il mio volto a quelli che mi schernivano e che mi sputavano…».

Nella lettura dell’Apostolo si legge dalla Prima Lettera ai Corinzi (11, 23-32) la descrizione dell’Ultima Cena e il significato della Santa Comunione, come li riporta l’apostolo Paolo.

La lettura dell’Evangelo che segue, è la più lunga nel corso dell’anno, ed è un testo composto da brani di tutti e quattro gli Evangeli. Parla di tutto quanto accade nell’Ultima Cena, del tradimento di Giuda e dell’arresto di Gesù Cristo nel giardino del Getsemani.

Segue la Divina Liturgia di Basilio il Grande, dove invece dell’Inno Cherubico e del Koinonikòn si canta l’inno che diciamo sempre prima della santa Comunione: 

«Della tua mistica cena, Figlio di Dio, rendimi oggi partecipe; non svelerò il Mistero ai tuoi nemici, né ti darò un bacio come Giuda, ma come il ladrone ti confesserò: ricordati di me, Signore nel tuo Regno».

Publié dans:CHIESA ORTODOSSA, FESTE - PASQUA |on 1 avril, 2010 |Pas de commentaires »

I TRE GIORNI SANTI

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/

I TRE GIORNI SANTI

* Oggi la grazia dello Spirito Santo ci ha radunati. Tutti, portando la tua croce, diciamo: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!
Oggi il sinedrio malvagio si è riunito contro Cristo… Oggi Giuda si stringe intorno il laccio del danaro… Oggi Caifa senza volerlo profetizza… Oggi Giuda mette da parte la maschera dell’amore per la povertà e svela la natura della sua cupidigia. Non si occupa più dei poveri, non vende più il profumo della peccatrice, ma il miron celeste…
* Oggi, o Figlio di Dio, prendimi come commensale alla tua mistica Cena: non dirò il Mistero ai tuoi nemici, non ti darò il bacio di Giuda; ma come il ladro ti confesserò: ricordati di me, o Signore, quando verrai nel tuo regno.
* Oggi è appeso al legno Colui che ha appeso la terra alle acque! Il Re degli angeli è cinto di una corona di spine! È avvolto di una porpora mendace Colui che avvolge il cielo di nubi! Riceve uno schiaffo lui che nel Giordano ha liberato Adamo! Lo Sposo della Chiesa è inchiodato con i chiodi! Il Figlio della Vergine è trafitto da una lancia! Adoriamo la tua passione, o Cristo! Mostacci anche la tua risurrezione.
* Oggi una tomba racchiude Colui che nella sua mano stringe il creato, una pietra copre Colui che copre i cieli con la sua potenza. Dorme la Vita e l’Hades trema e Adamo è sciolto dalle sue catene. Gloria alla tua economia! Per essa, dopo aver compiuto tutto, tu ci hai donato il sabato eterno, la tua risurrezione santissima dai morti!

Liturgia bizantina

Publié dans:FESTE - PASQUA, MEDITAZIONI |on 1 avril, 2010 |Pas de commentaires »

Martedì Santo: Uno di voi mi tradirà. (commento alle letture di oggi: Is 49, 1-6; Sal.70; Gv 13, 21-33. 36-38.)

dal sito:

http://liturgia.silvestrini.org/commento/2010-03-30.html

Martedì Santo

COMMENTO
 LETTURE: Is 49, 1-6; Sal.70; Gv 13, 21-33. 36-38.

Uno di voi mi tradirà.

Dopo le accese polemiche con i suoi indomabili nemici, ci saremmo aspettato il tradimento da uno di loro: da tempo erano nell’aria minacce di morte, avevano tentato ripetutamente di trarlo in inganno, di coglierlo in fallo. Avviene però che il traditore è a mensa con Lui, è lì tra i suoi a condividere una intimità già dissacrata con i cupi pensieri, a fingere una fedeltà già tradita nel cuore. C’è tanta amarezza in ogni tradimento perché è l’offesa peggiore all’amore, all’amicizia, alla fedeltà. Aveva ragione il salmistra a dire con profonda delusione: «Se mi avesse insultato un nemico, l’avrei sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio camminavamo in festa». Comprendiamo la profonda commozione del Signore: una dei suoi, un commensale, uno a cui aveva riservato stima e fiducia particolari, ora è in preda a satana. Ingoia un boccone e poi s’immerge nel buio della notte. Come è triste quella notte senza luce! Come è turbata quella cena! Che brutta esperienza uscire dalla Luce e immergersi delle tenebre. Gesù però scandisce già la sua vittoria su quelle tenebre: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito». Uno dei discepoli esce e si distacca da Gesù, ma un altro in atteggiamento di amore e di tenerezza posa il capo sul petto di Gesù. Alla trama di morte, già in atto, fa riscontro l’annuncio della glorificazione del Padre e del Figlio. Il piano divino di salvezza sta per compiersi, la redenzione è già in atto, la vittoria sul male e sul peccato troverà il suo sigillo nella ascensione al cielo. Il tutto suono come un addio, ma poi lo stesso Gesù dirà «vado a prepararvi un posto». L’impazienza si Pietro è frenata dalla dichiarazione della sua fragilità e sui suoi rinnegamenti: non può essere la presunzione umana a far cambiare i progetti al buon Dio. Le promesse di fedeltà devono essere prima irrorate dallo Spirito per poter trovare l’attuazione nel momento della prova.

LA PASQUA NEI PRIMI SECOLI

dal sito:

http://www.nostreradici.it/pasqua_cristiana.htm 

LA PASQUA NEI PRIMI SECOLI
 
G. Visonà


1. Alle origini della parola  (E. Cattaneo)
2. Un bib bang alle origini della Chiesa
3. Pasqua giudaica e Pasqua cristiana – la continuità
4. Pasqua giudaica e Pasqua cristiana – la discontinuità
5. Il mistero della Pasqua
6. Origene
7. Gli sviluppi successivi
8. Il declino e la riscoperta
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Alle origini della parola    

La parola « pasqua » (pascha in greco e latino) è una traslitterazione dell’aramaico pasha che corrisponde all’ebraico pesah.
L’etimologia di questa parola ebraica è incerta, ma pare che il suo significato fondamentale sia « passare oltre ». Gli antichi amavano molto riflettere sul senso delle parole, anche se non sempre in modo rigorosamente scientifico. Anche i Padri della Chiesa si sono soffermati su questa questione assumendo posizioni diverse tra loro. Un primo gruppo di Padri – generalmente di tradizione asiana, come Melitone di Sardi, Ireneo, Ippolito, Tertulliano – collegano il termine pascha con il verbo greco páschein, soffrire, riferendolo quindi alla passione (páthos) di Cristo. Benché piuttosto ingenua, questa spiegazione coglie però quello che era il senso giudaico della pasqua. In effetti nel giudaismo « pasqua » era diventato sinonimo di agnello pasquale, da cui le espressioni « immolare la pasqua », « mangiare la pasqua », che troviamo anche nel Nuovo Testamento (Mt 26, 17; Mc 14, 12; Gv 18, 28). Questa spiegazione mette in risalto il senso tipologico dell’agnello ponendo l’accento sulla passione del Signore nel suo significato salvifico. Da qui il tema della Pasqua come salvezza (sotería).
Un secondo gruppo (gli alessandrini, con Origene e la maggioranza dei Padri orientali e occidentali) trova un’etimologia più esatta nel termine « passaggio » (diabasis, transitus). Soggetto diventa il popolo che « passa » dalla schiavitù dell’Egitto alla Terra promessa attraverso il Mar Rosso. In questo caso viene sottolineata la tipologia battesimale, poiché con il battesimo si « passa » dalla schiavitù del peccato e dei vizi e si entra nella Chiesa. Applicata a Cristo, questa etimologia indicherà il suo « passaggio » da questo mondo al Padre, e quindi la sua passione-risurrezione, secondo le parole di Agostino.
Un terzo gruppo, più esiguo (scrittori di area palestinese-antiochena, come lo pseudo-Origene, Apollinare di Laodicca, Teodoreto di Ciro, Procopio di Gaza), intende pascha come « passar-oltre » (hypérbasis) e pone come soggetto « l’angelo sterminatore » che, vedendo il sangue dell’agnello, « passa oltre » le case degli Ebrei, procurando loro la salvezza. Oppure è Cristo stesso che, con la sua passione e risurrezione, è « passato oltre » i limiti della morte e comunica questo dono ai credenti in lui. « Cristo – scrive Apollinare di Laodicea – non ha mangiato la pasqua, ma è diventato egli stesso quella Pasqua, il cui compimento è nel Regno di Dio, quando passa oltre definitivamente la morte: ciò infatti indica la parola pasqua, che significa passar oltre » (Commento a Matteo, frammento 130).

- La pasqua dei primi secoli

Un big bang alle origini della Chiesa 

Ci fu un’epoca nella vita della chiesa in cui la Pasqua era, per così dire, tutto. Non solo perché essa commemorava, senza spartirla con nessun’altra festa, l’intera storia della salvezza dalla creazione alla parusia, ma anche perché essa era il luogo di formazione di alcune componenti essenziali nella vita della comunità: la liturgia, l’esegesi tipologica, la catechesi, la teologia e lo stesso canone delle Scritture » (R. Cantalamessa).
In effetti, se si esaminano le origini dell’esperienza cristiana, la Pasqua ci appare come una specie di Big Bang che racchiude nel suo densissimo nucleo quel patrimonio teologico e liturgico della chiesa che solo progressivamente si andrà articolando nella serie delle componenti che costituiscono le tappe del mistero cristiano e, insieme, dell’anno liturgico.
Essa, però, rappresenta anche uno dei più nitidi raccordi del cristianesimo con la sua matrice giudaica e, al tempo stesso, uno degli esempi più perspicui delle modalità di affrancamento del primo dalla seconda attraverso un processo di (ri)elaborazione e (ri)fondazione autonome.
Infine, la Pasqua è anche uno dei casi più fruttuosi di ritorno all’antico e di ricorso ai Padri: infatti, la riforma liturgica – con la connessa ricomprensione teologica – della Pasqua e della Settimana santa, introdotta in questo secolo a partire dagli anni cinquanta e ratificata dal Concilio Vaticano II, poggia interamente sulla riscoperta e sul recupero della significazione teologica e liturgica della Pasqua della chiesa antica dopo un’eclissi di secoli.

Pasqua cristiana e pasqua giudaica – la continuità  

Pasqua è una festa che il cristianesimo assume dal giudaismo, ove commemorava (secondo il rito codificato in Es 12) la liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto. Un primo legame con la Pasqua cristiana è di ordine storico, in quanto gli eventi che i cristiani da subito avvertirono come decisivi per la loro fede, ovvero la passione morte risurrezione di Gesù, si situarono nel quadro della celebrazione della « Pasqua dei giudei » (come la chiama l’evangelista Giovanni) di un anno ‘che poté essere il 29 d.C. Ma naturalmente questo legame puramente esteriore non è sufficiente a giustificare l’importanza assunta dalla Pasqua nella chiesa antica; è legittimo ritenere che esso, come tale, avrebbe lasciato campo libero a un’altra direttrice, questa sì specificamente e originariamente cristiana, che pure vediamo spuntare prestissimo: quella della Domenica, il « giorno del Signore » (Ap 1, 10), giorno della risurrezione di Cristo (Mc 16, 2 e paralleli), perno già in età apostolica di una « liturgia » settimanale dei cristiani (At 20, 7; 1 Cor 16, 2) che si configura come banchetto eucaristico con il risorto (cf. già Gv 20, 19 e 20, 26: « Otto giorni dopo »).
Invero, esiste una teoria che radica la Pasqua cristiana in questa direttrice della Domenica come festa della risurrezione, rispetto alla quale la Pasqua annuale sarebbe una emanazione secondaria come « grande Domenica dell’anno » (festa anniversaria della risurrezione), ma, quantunque il legame tra Pasqua e Domenica tenda a farsi sempre più stretto, molti elementi depongono a favore di un rapporto di continuità e di filiazione tra la Pasqua giudaica e la primitiva Pasqua cristiana, la quale solo in un secondo momento, in forza anche delle spinte antigiudaiche, si sarebbe portata sul tratti distintivi della Domenica.
Tra questi elementi vi sono il nome, la data e la struttura liturgico-teologica della festa. Il nome Pascha (rimasto sia in greco che in latino) deriva dalla forma ararnaica dell’ebraico Pesach; la data (mobile) della festa, anche quando questa si localizzerà sulla domenica, rimarrà comunque legata alla data della Pasqua giudaica (il 14 – quindi al plenilunio – del mese lunare di Nissan, tra marzo e aprile) come risultante di tre coordinate: essa cadrà la domenica dopo il plenilunio successivo all’equinozio di primavera (ovvero la domenica dopo la Pasqua giudaica), quindi tra il 22 marzo e il 25 aprile.
Questi elementi verranno teologicamente valorizzati dai Padri: la Pasqua è giorno di luce ininterrotta, in cui la luna piena, nell’equinozio, subentra di continuo alla luce del sole a segnalare un giorno senza tramonto; essa inoltre raccoglie il simbolismo della rinascita del mondo a primavera, dopo i rigori dell’inverno (= il peccato e la morte), e – in dipendenza dall’associazione tra primavera e creazione – diviene sinonimo di nuova creazione, di una palingenesi che coinvolge l’universo intero.
Quanto alla struttura liturgica, l’antica celebrazione della Pasqua cristiana come unica veglia la notte del 14 Nissan (Pasqua quartodecimana) o la notte tra sabato è domenica (Pasqua domenicale) non si spiega con la prassi cristiana ma con l’indicazione e la prassi biblico-giudaica della Pasqua come « notte di veglia per il Signore » (Es 12, 42: Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione »). In questa notte il Targum di Es 12, 42 fa cadere la sequenza di quattro eventi cardine: è la notte della creazione, quella del sacrificio di Isacco, quella appunto della liberazione dall’Egitto e quella futura dell’avvento messianico.
Nelle letture bibliche e nella prospettiva teologica antica veglia pasquale cristiana ha mirabilmente conservato questa struttura storico-salvifica racchiusa tra creazione ed escatologia. In particolare essa mantiene il carattere fortemente dinamico della soteriologia dell’Esodo, fondata sul passaggio da una situazione di perdizione a una di salvezza. Lo mostra il fatto che una delle più antiche omelie pasquali cristiane riprende pressoché alla lettera, applicandolo a Cristo, un passaggio che l’haggadah pasquale giudaica (precisamente Pesachim 10, 5) riferisce a :
Egli è colui che ci ha fatti passare dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannia al regno eterno… Egli è la Pasqua della nostra salvezza (Melitone di Sardi, Sulla Pasqua 68-69). 
In questa prospettiva la più antica Pasqua cristiana appare essere la Pasqua detta « quartodecimana », che del Pesach giudaico conservava anche la data del 14 Nissan, mentre la Pasqua « domenicale » non rappresenterebbe che una fase successiva, dettata dall’esigenza di distinzione dal giudaismo e dalla forza attrattiva della domenica di risurrezione. Ma è possibile anche che le due tradizioni risalgano a due distinti filoni del giudaismo, ovvero che la Pasqua quartodecimana sia la ripresa cristiana del Pesach (e quindi più. propriamente la « Pasqua »), e che invece la Domenica di risurrezione corrisponda alla festa dell’Omer (ovvero delle primizie), primo dei cinquanta giorni (Pentecoste) della festa delle Settimane, che in base a Lv 23, 11 il calendario sacerdotale in uso a Qumran faceva cadere « il giorno dopo il sabato » successivo al 14 Nisan.
Va ricordato, in proposito, come Paolo evochi il tema della « primizia » in rapporto alla risurrezione di Cristo (1 Cor 15, 20.23) o come risurrezione e festa dell’Omer risultino collegate ad esempio nello scritto Sulla Pasqua di Clemente Alessandrino (framm. 28). « Ciò che chiamiamo Pasqua è in realtà l’inizio della Pentecoste » (J. van Goudoever): a sostegno va citata anche la strettissima correlazione che nei primi secoli lega la Pentecoste alla Pasqua di risurrezione, di cui costituisce una specie di cassa di risonanza da celebrare come un’unica « grande Domenica ».

Pasqua giudaica e pasqua cristiana – la discontinuità 

Il nesso tra Pasqua giudaica e Pasqua cristiana si situa a un livello ben più profondo della coincidenza cronologica, ovvero nella comprensione dell’evento Cristo in chiave storico-salvifica attraverso la griglia di lettura fornita dalla Pasqua storica dell’Esodo, memoriale del riscatto del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto. Qui troviamo le ragioni non più solo della continuità tra la Pasqua di Israele e quella della chiesa, ma anche e soprattutto dello scarto che separa la seconda dalla prima, scarto la cui misura è data dalla tipologia, cioè dalla struttura binaria che ora taglia l’intera storia dell’umanità e che ha il suo punto discriminante in Cristo.
La realtà non è più univocamente orientata e determinata, ma è ora suddivisa in due versanti (due « economie’), quello della figura (typos) e quello della verità, quello dell’immagine e quello della realtà, quello del preannuncio e quello del compimento, quello della Legge e quello del Verbo. Tutto questo presuppone che le realtà della storia di Israele perdano consistenza propria e assumano significato solo in rapporto a Cristo. Questo trasferimento, quanto alla Pasqua di Es12, è già presente nella perentoria proclamazione dell’Apostolo Paolo: « Cristo, nostra Pasqua (Pascha nostrum) è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verìtà » (1 Cor 5, 7-8)
Qui gli elementi rituali della Pasqua di Es 12 appaiono risignificati e trasferiti su Cristo come Pascha, qui da intendere nel senso di « agnello pasquale » immolato, l’agnello il cui sangue valse agli ebrei la salvezza dal flagello di sterminio » con cui Dio colpì l’Egitto (Es 12, 7-13). Anche il Vangelo di Giovanni legge la morte di Cristo in croce (il giorno di Pasqua, nell’ora in cui nel tempio i sacerdoti uccidevano gli agnelli) come immolazione dell’agnello pasquale, al quale « non sarà spezzato alcun osso » (Es 12, 46, citato in Gv 19, 36).
Anche altrove nel Nuovo Testamento – in particolare 1 Pt 1,19 (« foste liberati … con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia »: cf. Es 12, 5; ma anche 1 Pt 2, 9: « Vi ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce », da confrontare con Pesachim e Melitone) – si segnalano tracce di una haggadah pasquale cristiana, cioè di una illustrazione/spiegazione del significato della Pasqua (era una delle componenti del rito ebraico) in una prospettiva cristologica. Questa haggadah diviene la struttura stessa delle più antiche omelie pasquali cristiane, che poggiano sulla trasposizione tipologica delle prescrizioni di Es 12, la cui lettura durante la liturgia è esplicitamente attestata.
Ma sono gli stessi racconti evangelici della passione a mettere in risalto la natura « pasquale » del sacrificio di Cristo (e non stupirà, dunque, che per l’intero Vangelo di Marco – definito, com’è noto, un racconto della passione con una lunga introduzione – sia stata avanzata l’ipotesi di un’origine come ‘haggadah pasquale cristiana »).
Non è escluso, anzi, che proprio questa comprensione – e la sua traduzione liturgica nelle prime comunità cristiane – si sia imposta sul resoconto storico-cronachistico degli eventi della passione e sia quindi all’origine della discordanza cronologica tra i racconti sinottici e quello di Giovanni. Per quest’ultimo, come abbiamo visto, Gesù muore il 14 del mese di Nisan, giorno della Pasqua giudaica (Gv 18, 28: i giudei non entrano nel pretorio « per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua »); per i Sinottici, invece, l’ultima cena di Gesù è per l’appunto un banchetto pasquale tenuto la sera del 14 Nisan (Mc 14, 12-16; Lc 22, 15: « Ho ardentemente desiderato mangiare questa Pasqua con voi prima di patire »).
Per Giovanni, dunque, Cristo stesso è l’agnello pasquale immolato, cui non viene « spezzato alcun osso »: questa prospettiva diviene il motivo guida della primitiva teologia pasquale: « Al posto dell’agnello il Figlio di Dio » (Melitone, Pseudo Ippolito, Apollinare di Gerapoli); nella prospettiva dei Sinottici, invece, la risignificazione dell’immolazione pasquale avviene a livello rituale, nel cenacolo, ma ha comunque come centro la morte redentrice di Cristo (Lc 22, 19: « Questo è il mio corpo dato per voi: fate questo in memoria di me »). La chiesa antica ha mantenuto un filone che collega la notte di Pasqua con la Pasqua-eucaristia dell’Ultima Cena. Canta un inno di Efrem Siro:
Beata sei tu, o notte ultima, perché in te si è compiuta la notte d’Egitto. Il Signore nostro in te mangiò la piccola Pasqua e divenne lui stesso la grande Pasqua: la Pasqua si innestò sulla Pasqua, la festa sulla festa. Ecco la Pasqua che passa e la Pasqua che non passa; ecco la figura e il suo compimento. 
È stato ipotizzato che i racconti sinottici della cena pasquale altro non siano che la storicizzazione delle prime liturgie pasquali dei cristiani, cioè del memoriale con cui i cristiani riconoscevano nella immolazione in croce di Cristo la nuova Pasqua redentrice del (nuovo) popolo di Dio. Come che sia, i Sinottici e Giovanni ci ammettono da punti di inserzione diversi in quella piena circolarità tra l’evento originario e la sua traduzione/attualizzazione sacramentale che può forse confondere i termini dell’esatto decorso storico ma non meno realmente pone la croce e l’eucaristia al centro della Pasqua dei cristiani.

Il mistero della pasqua     

Come credo appaia da quanto siamo venuti illustrando, la pasqua non rappresenta nella chiesa antica esclusivamente – e nemmeno primariamente – la festa della risurrezione, bensì la festa della salvezza nella sua globalità e onnicomprensività. I termini del mistero pasquale sono i termini del disegno salvifico di Dio, il mistero di Pasqua è tout- court il mistero di Cristo, come recita Melitone nella sua omelia pasquale (§ 65). La Pasqua, proclama lo Pseudo Ippolito, è « Dio apparso come uomo e l’uomo asceso ai cieli come Dio ». Perno di questo movimento è, casomai, la croce piuttosto che la risurrezione, secondo una correlazione amplificata dai cristiani attraverso il nesso etimologico che vollero instaurare tra Pascha e páschein (in greco patire), cioè tra Pasqua e passione.
Questo nesso, però, si estese fino a mettere in relazione il patire di Cristo con il patire dell’uomo, dilatando il mistero pasquale fino alle origini stesse dell’umanità, allorché Adamo cadde preda del peccato e della morte; a supporto intervenne la stessa comprensione tipologica della Pasqua storica di Es 12, sotto la cui figura (liberazione degli ebrei dalla schiavitù d’Egitto e del faraone) si vide adombrata la realtà del riscatto dell’umanità dalla schiavitù del mondo e del demonio, facendo della Pasqua di Israele il paradigma della liberazione dell’uomo dal male e dalla morte. Dunque, così lo Pseudo Ippolito mirabilmente fonde Pasqua, croce ed eucaristia:
Questa era la Pasqua che Gesù desiderava patire per noi. Con la passione ci ha liberati dalla passione, con la morte ha la morte e per mezzo dei suo cibo visibile ci ha elargito la sua vita immortale. 
Melitone risponde in questo modo alla domanda: cos’è la Pasqua?
Apprendete dunque chi è colui che patisce (l’uomo) e chi colui che ha compatito con chi patisce (Cristo) e apprendete perché il Signore è venuto sulla terra, per rivestire colui che pativa e trascinarlo verso la sommità dei cieli. 
I confini della Pasqua sono quelli della storia della salvezza, il suo baricentro è la morte redentrice di Cristo.

Origene   

Origene (sulla Pasqua 1) espressamente si propone di correggere la falsa derivazione etimologica di Pasqua da passione, che egli riconosce imperante ai suoi tempi, a favore di quella, basata sull’ebraico, che collega il termine pasqua a passaggio, e spiega: « Poiché in questa festa il popolo esce dall’Egitto, conseguentemente essa è chiamata Pasqua, cioè « passaggio »" (ivi). Per questa via si dischiudono alla esplorazione cristiana gli ampi spazi della trasposizione allegorica, già anticipata in ambiente alessandrino dal giudeo Filone: « La Pasqua dell’anima significa il passaggio da ogni passione e da ogni realtà sensibile ». Vediamo come Origene applica questa concezione al testo basilare di 1 Cor 5,7:
Colui che ha compreso che la nostra Pasqua, Cristo, è stata immolata e che bisogna celebrare la festa mangiando la carne del Verbo, non c’è momento che non faccia Pasqua, che significa passaggio: egli infatti con il pensiero, con ogni parola e con ogni azione sempre passa dalle cose della vita a Dio e si affretta verso la sua città (Contro Celso 8, 22). 
Origene ribadisce, sempre in riferimento a 1 Cor 5,7, che
La Pasqua è sì figura (typos) di Cristo, ma non della sua passione. Dobbiamo infatti immolare noi il vero agnello e arrostire noi e mangiare noi le sue carni: ma se questo non è avvenuto in occasione della passione del Salvatore, allora la realtà corrispondente alla Pasqua non è la passione, bensì è la Pasqua che è figura di Cristo immolato per noi (Sulla Pasqua 13).
Ovvero, per Origene la struttura portante del mistero pasquale non è quella che collega l’agnello di Es 12 e gli eventi della passione di Cristo, bensì quella che mette in relazione la celebrazione storica della Pasqua dell’Esodo e la celebrazione che oggi il credente è chiamato a fare (si noti l’insistenza sul noi!) cibandosi del vero agnello e compiendo il vero passaggio della Pasqua.

Gli sviluppi successivi   

NeIla prospettiva origeniana sono racchiusi tutti i principali successivi sviluppi, teologici, liturgici e sacramentali, della Pasqua cristiana. Anche se nel caso di Origene è eccessivo dire, come è stato fatto, che « la cristologia passa dietro l’antropologia », è innegabile che una concezione secondo cui « la Pasqua del Signore è il passaggio dalle passioni alla pratica delle virtù » (così Ambrogio di Milano, grande divulgatore in Occidente dell’esegesi origeniana) porterà la catechesi e l’omiletica a concentrarsi piuttosto su tematiche antropologiche e morali, col rischio di perdere il radicamento cristocentrico
Parimenti, la prospettiva origeniana, che privilegia la Pasqua che oggi il cristiano è chiamato a celebrare e vivere, alimenterà l’accentuazione in senso sacramentale che la Pasqua riceverà soprattutto a partire dal IV secolo, con la strutturazione liturgica del tempo pasquale e dell’istruzione catecumenale. Battesimo ed Eucaristia sono valorizzati come « sacramenti pasquali », in particolare il battesimo come passaggio nell’acqua verso la salvezza, che ha ora, nella tipologia dell’Esodo, un riscontro privilegiato nel passaggio del Mar Rosso (Es 14). Scrive Ambrogio : Cosa c’è di più opportuno, a proposito del passaggio dei Mar rosso da parte dei popolo ebraico, che parlare dei battesimo? Gli ebrei che passarono morirono nel deserto; invece chi passa attraverso questo fonte, cioè dalle cose terrene alle celesti – questo è infatti il ‘passaggio’ e quindi la Pasqua, passaggio dal peccato alla vita, dalla colpa alla grazia, dalla macchia alla santità – chi passa attraverso questo fonte non muore ma risorge (I sacramenti 1, 4,12). 
La veglia pasquale diviene il momento culminante dell’iniziazione cristiana e la « notte battesimale dell’anno » (Asterio Sofista la chiama « la madre dei neobattezzati »). La schiera dei neofiti, che dal fonte battesimale viene accolta nella basilica con già una ‘liturgia della luce » (lucernarium) e viene ammessa alla comunione eucaristica, rappresenta visivamente la Pasqua-passaggio dalle tenebre dei peccato alla luce della grazia. In questa prospettiva si viene strutturando la Quaresima come periodo di preparazione catecumenale, mentre l’Ottava di Pasqua verrà dedicata all’istruzione mistagogica dei neobattezzati. Di questo abbiamo circostanziata testimonianza nei cicli di catechesi battesimali e mistagogiche di Cirillo di Gerusalemme, Crisostomo, Ambrogio, Agostino.
Dal nucleo originario dell’antica Pasqua vediamo dunque dispiegarsi un più articolato « tempo pasquale », che comprende la Quaresima, la Settimana santa e il Triduo, l’Ottava di Pasqua, e celebra come feste distinte l’ascensione e la Pentecoste. La veglia pasquale non perde la sua centralità (essa rimane la « madre di tutte le veglie », come la chiama sant’Agostino) ma perde la sua assolutezza. Alla « scomposizione » della festa di Pasqua contribuisce anche il fenomeno della sua storicizzazione, cioè la tendenza a scandire i riti della Settimana santa ricalcando la successione storica degli eventi e quindi commemorando separatamente i singoli misteri della passione morte risurrezione di Cristo.
Questa tendenza ha come centro propulsore Gerusalemme (in concomitanza con la « corsa » ai luoghi santi dal IV secolo in poi) e ne è testimone preziosa la pellegrina Egeria che, nel 383/384, ci descrive i riti che si svolgevano a Gerusalemme dal Giovedì santo all’Ottava « apte diei et loco », cioè in maniera conforme al giorno e al luogo. Alla fine del sec. IV, con Giovanni Crisostomo in Oriente e Agostino in Occidente, troviamo ormai strutturato il Triduo, sacratissimum tríduum crucifixi, sepulti, suscitati (Agostino), che comporta in particolare una liturgia propria per il Venerdì Santo.
Con Agostino è ancora garantita la forte coesione di morte e risurrezione nel mistero pasquale di Cristo (ne è garanzia il ricorso privilegiato e assiduo a Rm 4, 25: « Morto per i nostri peccati, risorto per la nostra giustificazione »). Essa è alla base della concezione della Pasqua con cui il grande dottore volle comporre la prospettiva antropocentrica della Pasqua-passaggio con quella cristocentrica della Pasqua-passione, che in Occidente manteneva tenaci sostenitori (Ambrosiaster: « Pascha itaque immolatio est, non transitus »). Per Agostino la Pasqua è transitus per passionem, cioè « passaggio attraverso la passione », passaggio prima di Cristo e poi dell’uomo. Il passaggio di Cristo al Padre attraverso la croce dischiude all’uomo il passaggio dalla morte alla vita:
Tramite la passione il Signore passò dalla morte alla vita, aprendo la via a noi che crediamo nella sua risurrezione, per passare anche noi dalla morte alla vita » (Commento al salmi 120, 6); « Cristo è morto, moriamo al peccato; Cristo è risorto, viviamo per Dio. Cristo passa da questo mondo al Padre: non si fissi qui il nostro cuore, ma lo segua nelle realtà di lassù (Serm. 229/DI). 
Ma la distinzione tra la memoria della passione e quella della risurrezione (scrive Ambrogio: « Celebriamo in tal modo un giorno di tristezza e uno di gioia. Nel primo digiuneremo, nel secondo saremo saziati ») comporterà, dal punto di vista teologico, il rischio di una frammentazione dell’unità profonda del mistero pasquale e in particolare della perdita dello stretto legame tra la croce e la risurrezione, passando da una concezione unitaria, dinamica, storico-salvifica della Pasqua a una prospettiva storicizzante che allinea e distingue, celebrandoli separatamente, i singoli momenti ed eventi.
La conseguenza più rilevante fu che, dopo Agostino, la Pasqua nell’ambito del Triduo si identificò sempre più con la domenica divenendo la festa della risurrezione, lasciando al Venerdì santo la memoria della croce in una prospettiva di lutto e cordoglio. Troviamo già pienamente affermata questa prospettiva incentrata sulla « Pasqua di risurrezione » nei sermoni per il tempo pasquale di san Leone Magno (m. 461).

Il declino e la riscoperta    

Successivamente, ulteriori fattori contribuirono a uno stravolgimento del significato della Pasqua e in particolare al declino della veglia pasquale, già nucleo assoluto dell’antica Pasqua cristiana. Il fenomeno più rilevante fu l’anticipazione sempre più marcata della veglia: dovendo terminare prima di mezzanotte, essa fu liturgicamente computata al Sabato santo e non più alla Pasqua; quando poi si stabilì che le messe dovevano finire prima di mezzogiorno, la veglia « notturna » si trovò collocata la mattina del sabato (!), che per di più decadde da giorno festivo. Il significato di vigilia passò definitivamente da quello di « veglia » a quello di « giorno che precede » la festività: quest’ultima si identificò più che mai con la domenica di risurrezione, sviluppando la specifica liturgia.
Intervennero, inoltre, da una parte il crescente rilievo del Giovedì santo, che venne inserito nel Triduo, e dall’altra il fatto che giorni festivi rimasero soltanto oltre alla Domenica di Pasqua, il lunedì e il martedì successivi: si venne di fatto a creare quello che è stato chiamato « Doppio Triduo », cioè un triduum mortis (Giovedi-Venerdì-Sabato santi) e un triduum resurrectionis (che si apre con la Domenica di Pasqua), sancendo così la frattura fra passione e risurrezione.
La Pasqua aveva perso il suo nucleo liturgico e teologico, la veglia notturna (celebrata la mattina di un giorno feriale), il cui ricco simbolismo, svilito e snaturato, non era più compreso. Col diffondersi della consuetudine di battezzare i neonati, essa non fu più nemmeno veglia battesimale. Pasqua rimaneva una festa della risurrezione sganciata dalla comprensione « pasquale » del mysterium crucis.
Nel nostro secolo, lo sforzo pionieristico di liturgisti e patrologi, l’impulso decisivo del Movimento liturgico tra le due guerre, l’apporto di personalità come Romano Guardini e di ambienti monastici come quello benedettino, tutto questo ha rimesso in luce la centralità del mysterium paschale nella teologia e nella liturgia della chiesa e ha valorizzato la Pasqua come fons et culmen dell’anno liturgico e la veglia come cuore e vertice delle celebrazioni pasquali.

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1 Tratto da: Primi Secoli – Il mondo delle origini cristiane, Anno II – n.3 gennaio 1999, Città Nuova

PAOLO E IL MISTERO PASQUALE DI CRISTO (1Cor 1,18-2,5)

dal sito:

http://www.sanpaolo.org/istit/rivistagm/0803catec.htm

PAOLO E IL MISTERO PASQUALE DI CRISTO
La famiglia vive il suo esodo
 
1Cor 1,18 — 2,5:

La parola della croce è stoltezza per quelli cha vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio… Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio… Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili.

Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti. …sta scritto: Chi si vanta si vanti nel Signore. Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.
  

1) È importante comprendere il significato dell’espressione « mistero pasquale » e conseguentemente del termine « esodo », che deve qualificare la vita di ogni famiglia.

La parola « mistero » deriva dal greco e significa « progetto segreto ». Vi è un progetto, segreto nel suo svolgersi, che ha componenti da accogliere, anche se non le comprendiamo bene con la ragione. Le accogliamo con fede, pur cercando di ragionarvi.

« pasquale » da Pasqua; significa « passaggio ». Per il popolo ebraico, in esilio in Egitto, ha segnato il passaggio dalla schiavitù egiziana alla libertà nella terra promessa; per noi credenti il passaggio dalla schiavitù del peccato alla libertà di figli di Dio. Il passaggio è avvenuto nel battesimo: è la nostra Pasqua.

Questo passaggio comporta un « esodo », cioè un cammino più o meno lungo di fatica e di sofferenza. Per il popolo ebraico l’esodo durò 40 anni; per noi credenti l’esodo è il cammino di questa vita che con la morte sfocia nella vera vita.

2) Quali sono le componenti del « mistero pasquale » di Cristo, che ci tocca incarnare anche nella nostra vita personale e di famiglia? Paolo ce lo dice chiaramente:

passione di Cristo. Gesù ha voluto accettare flagellazione, incoronazione di spine e crocifissione per redimere e dare valore alle sofferenze della vita, a cui ogni uomo, credente o non credente, va incontro. Quindi, vita natural durante, la sofferenza non è stata eliminata, ma acquista un grande valore di salvezza;

morte di Cristo. Gesù ha voluto morire per redimere e dare valore anche alla morte, a cui tutti dobbiamo andare incontro;

risurrezione di Cristo. Gesù non è rimasto prigioniero della morte. È risorto nel suo vero corpo; e ora siede alla destra del Padre come Figlio di Dio e come « figlio dell’uomo ». Di conseguenza anche noi risorgeremo con il nostro corpo.

Su tutto svetta la verità dell’incarnazione: il Figlio di Dio si è fatto uomo, assumendo un corpo di carne da Maria; è il « suo » corpo, come ognuno di noi ha il proprio.

3) In che senso, allora, la famiglia vive il suo esodo? Con la convinzione che in questa vita è solo di passaggio; per cui i membri si impegnano a valorizzare le sofferenze e le fatiche, coltivano in modo saggio il pensiero della morte (impara a vivere chi pensa al morire), certi che la morte è solo la porta di entrata alla vera vita.

A) Un gravissimo problema di fondo. – La scelta del brano biblico ci aiuta a mettere in luce un serio errore di valutazione che tutti possiamo commettere.

1) È il problema della croce, su cui Cristo ha volontariamente accettato di essere appeso. Quanto sia paradossale e scandalosa la « predicazione della croce » ce lo fa intendere un’affermazione di Cicerone che scrive: «Il nome stesso della croce sia allontanato non solo dalla persona dei cittadini romani, ma anche dai loro pensieri e dai loro occhi, perché la sola menzione della croce è indegna per un cittadino romano e per un uomo libero». Era il supplizio degli schiavi ribelli, considerati la feccia della società. Per i pagani era, perciò, « obbrobrio », per gli ebrei era « scandalo » perché legato alla maledizione divina: «Maledetto chi pende dal legno» (Dt 21,23; Gal 3,13).

Invece, la vicenda di un Dio, ucciso nella forma più degradante, diviene una sublime lezione della « logica divina » che fa sì che «ciò che è stoltezza di Dio sia più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza per Dio sia più forte degli uomini» (v 25). La croce diventa il nucleo essenziale dell’annunzio: la nostra salvezza è la croce.

2) Ma in tutti i tempi il messaggio della croce sarà sempre segno di contraddizione, ritenuto folle ed assurdo per la « sapienza orizzontale », accolto come salvezza da chi crede, senza perdersi in inutili e devianti ragionamenti. Già Paolo, scrivendo ai corinzi, deve affrontare un problema che snaturava il messaggio cristiano: la morte in croce di Gesù era sì accolta ma considerata solo un incidente di percorso.

3) La posta in gioco è la salvezza: «Predicare la morte di Cristo in croce sembra una pazzia a quelli che vanno verso la perdizione; ma per noi… è la potenza di Dio».

In un tempo, volto alla ricerca del più facile e del più comodo, sempre all’insegna della minor fatica, questo annuncio diventa scandalo; in un tempo, in cui l’uomo tenta in tutti i modi di deporre la sua croce, di scrollarsela di dosso (i due mondi: spiaggia e casa di ricovero) è necessario predicare Cristo crocifisso.

B) Vivere il mistero pasquale. – è essenziale «per non rendere inutile la morte di Cristo in croce» (v 17). Scrive mons. Tonino Bello: «Purtroppo la nostra vita cristiana non incrocia il Calvario. Come i corinzi anche noi, la croce, l’abbiamo « inquadrata » nella cornice della sapienza umana, e nel telaio della sublimità di parola. L’abbiamo attaccata con riverenza alle pareti di casa nostra, ma non ce la siamo piantata nel cuore. Pende dal nostro collo, ma non pende sulle nostre scelte. Le rivolgiamo inchini in chiesa, ma ci manteniamo agli antipodi della sua logica».

Per questo Paolo esorta le famiglie della comunità: «Considerate, fratelli, la vostra chiamata». Nella logica della croce la famiglia è chiamata a valorizzare le sofferenze e le fatiche della vita quotidiana, a svolgere nell’umiltà il lavoro di ogni giorno senza cedere alla tentazione del successo, del potere, del denaro e del sesso. Difatti:

1) La croce configura l’aspetto della comunità ecclesiale e familiare. Paolo ha notato che la comunità di Corinto è formata, a parte poche eccezioni, da persone di scarsa cultura (« non molti sapienti »), di poco peso politico e sociale (« non molti potenti »), di origine popolana, insignita di nessun blasone (« non molti nobili »). Eppure Dio ha voluto scegliere proprio queste persone di nessun peso per donare loro la fede e aprirli al progetto di salvezza. Perché? «Chi si vanta, si vanti nel Signore».

2) La croce qualifica la persona del battezzato. Paolo ha imparato la lezione della croce; si presenta ai corinzi non con affascinanti discorsi. Per di più, con probabilità, reso fisicamente o moralmente impotente dalla « spina nella carne », di cui parla in 2Cor 12,7ss. «Il messaggio e il messaggero fanno un tutt’uno » (Barbaglio).

Quante e quali problematiche che deviano i vostri figlioli dalla retta via della fede. A volte i figli sono convinti di essere nel vero: aborto, eutanasia, convivenze, matrimoni gay, embrioni congelati, discoteca, strage del sabato sera, utero in affitto… Non dovete perdere la convinzione delle verità di fede, anche se vi pare di essere perdenti.

C) La risurrezione dei corpi. – La meta finale del nostro esodo, e quindi del mistero pasquale, è la nostra risurrezione: come Cristo è risorto nel suo corpo, così anche il nostro corpo risorgerà. Questa verità è negata oggi da molte pseudo-religioni, tipo New Age e Next Age, a cui aderiscono anche cristiani. Paolo aveva già affrontato questa eresia; scrivendo ai Colossesi, afferma: «In Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (2,9). Quel « corporalmente » mette in luce due verità della nostra fede che, pur nel rispetto delle altre religioni, non possiamo negare:

la verità dell’incarnazione: il Figlio di Dio si è fatto uomo con un suo corpo. Gesù è una persona specifica e singola, e nel suo proprio corpo di carne abita tutta la pienezza della divinità; è vero Dio e vero uomo con un suo corpo; con quel suo corpo di carne ha offerto se stesso sulla croce;

la verità della risurrezione: con quel suo corpo di carne è risorto dai morti. Anche questo nostro corpo risorgerà. Il Battesimo ci ha introdotti in questa straordinaria esperienza di Dio, che culminerà nella risurrezione dei corpi.

Ebbene, queste due verità sono negate da queste nuove religioni che oggi vanno di moda, soprattutto dalla New Age e dalla Next Age. Quali sono gli errori?

non esiste un Dio-Persona, ma solo una Grande Energia di cui tutti facciamo parte (panteismo). Gesù non è Dio, non si è incarnato, ma è solo una reincarnazione del Cristo cosmico che anima l’universo.

Propone come vero quello che ognuno crede. Ciascuno si fabbrica la sua spiritualità per stare bene nella sua pelle, in attesa della Grande Religione. Le religioni tradizionali sono espressamente rigettate.

Qualunque mezzo è buono per entrare in contatto con le potenze spirituali: esoterismo, occultismo, magia, divinazione, telepatia, viaggi fuori del corpo.

Della morte occorre ridere perché non esiste. Il corpo lo si abbandona semplicemente quando si è completata la propria maturità spirituale. Se lo si abbandona in anticipo, si rientra (reincarnazione) in questa prigione che è il corpo. Quindi la persona non ha un suo corpo, è solo spirito. Non si ammette la risurrezione dei corpi; di conseguenza l’incarnazione del Figlio di Dio è una fandonia.

Attenti! In quarta pagina vi è dato un elenco di queste nuove proposte religiose, a cui purtroppo aderiscono anche cristiani, ingannati dal fatto che gli adepti dicono di rispettare le convinzioni religiose di ognuno; in alcune di esse si fa uso della Bibbia; ma con il tempo la propria fede viene talmente svilita da un costante lavaggio delle idee che si perde la coscienza delle verità fondamentali della fede cristiana.

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