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Risurrezione: nascosti per sempre nel grembo dell’Amore (Pasqua)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21974?l=italian

Risurrezione: nascosti per sempre nel grembo dell’Amore

Domenica di Pasqua, 4 aprile 2010

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 2 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il primo giorno della settimana, al mattino presto, le donne si recarono al sepolcro portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono che la pietra era stata rimossa dal sepolcro e, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. Mentre si domandavano che senso avesse tutto questo, ecco due uomini presentarsi a loro in abito sfolgorante. Le donne, impaurite, tenevano il volto chinato a terra, ma quelli dissero loro: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea e diceva: “Bisogna che il figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno”. Ed esse si ricordarono delle sue parole e, tornate dal sepolcro, annunciarono tutto questo agli undici e a tutti gli altri. Erano Maria Maddalena, Giovanna e Maria madre di Giacomo. Anche le altre, che erano con loro, raccontavano queste cose agli apostoli. Quelle parole parvero a loro come un vaneggiamento e non credevano a esse. Pietro tuttavia si alzò, corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli. E tornò indietro, pieno di stupore per l’accaduto (Lc 24,1-12).

Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria (Col 3,1-4).

“Proviamo a collocare il fatto nella nostra realtà quotidiana: un amico sta per morire; noi lo assistiamo, lo vediamo divenire sempre più debole, riceviamo le sue ultime parole ed esortazioni, il suo testamento…ci prendiamo cura del freddo cadavere, lo laviamo e lo ungiamo con unguento, lo avvolgiamo secondo le antiche usanze con fazzoletti e bende, deponiamo la salma nella terra,..vi rotoliamo sopra la pietra, sigilliamo il sepolcro,..ce ne andiamo a casa strisciando come mosche stordite, mezzo morte, come esseri per i quali ogni presente è sprofondato nel passato, il quale soffia nel futuro come un vento impetuoso attraverso un tronco vuoto. Dopodomani il sepolto sta in mezzo a noi, ci saluta, come se ritornasse da un viaggio e, mentre noi non sappiamo se ridere o piangere,..egli ci mostra le sue mani, i suoi piedi e il suo costato, – come un turista di ritorno da un viaggio è solito mostrare i souvenirs – per dimostrare che egli era veramente là..nel paese della morte e delle ombre, del freddo e della prigione senza speranza, di cui le quattro assi della bara sono solo un simbolo…” (H.U.V. Balthasar, “Tu coroni l’anno con la tua grazia”, p. 65s).

Il significato pasquale di questa scena stupefacente è quello espresso una settimana fa da Benedetto XVI: “La fede in Gesù Cristo non è un’invenzione leggendaria. Essa si fonda su una storia veramente accaduta. Questa storia noi la possiamo, per così dire, contemplare e toccare.(…) E’ commovente salire la scala verso il Calvario fino al luogo in cui Gesù è morto per noi sulla Croce. E stare infine davanti al sepolcro vuoto; pregare là dove la sua santa salma riposò e dove il terzo giorno avvenne la risurrezione. Seguire le vie esteriori di Gesù deve aiutarci a camminare più gioiosamente e con una nuova certezza sulla via interiore che Egli ci ha indicato e che è lui stesso” (Omelia nella Domenica delle Palme 2010).

La via interiore tracciata dal Risorto non è un percorso spirituale a tappe, ma è una crescente intimità nella fede e nell’amore con Colui che ha detto “Io sono la via” (Gv 14,6). Il Signore Gesù, risorto e vivo dentro di noi, è la via che rivela e conduce alla meta della vita terrena, quella che viene affermata dalla comunità dei fedeli ogni domenica: “credo la risurrezione della carne e la vita del mondo che verrà”.

Credere nella risurrezione della carne significa sperare (cioè essere convinti) che realmente accadrà fra noi mortali qualcosa di simile al racconto di Balthasar, con la differenza che l’infinita sorpresa del reciproco incontro è trasferita nel mondo che verrà.

Occorre precisare, inoltre, che risurrezione della carne non vuol dire semplicemente “eterna giovinezza”, l’idea che nell’aldilà saremo tutti come bambini in perfetta salute, pieni di vitalità, radiosi e gioiosi per sempre. In quest’immagine, per altro, c’è sicuramente qualcosa di vero, dal momento che Gesù stesso ha detto: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).

La similitudine con il bambino va mantenuta e completata, però, alla luce di queste altre parole del Signore: “Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro, infatti, appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso” (Mc 10,14-15).

Ma cosa vuol dire accogliere il Regno di Dio come un bambino? Nella risposta a questa domanda sta la comprensione del mistero della nostra personale risurrezione.

L’accoglienza del Regno di Dio alla maniera di un bambino non dice solo che l’adulto deve imitare la fede semplice e fiduciosa dei piccoli. Con il paragone “a chi è come loro”, Gesù vuole indicare anzitutto ciò che definisce essenzialmente l’esistenza del bambino, vale a dire quella relazione profonda con la mamma che lo fa vivere in totale e vitale simbiosi con lei.

Per comprendere meglio come sarà la pienezza di quel Regno che è già in mezzo a noi, e cosa significa risorgere nella vita del mondo che verrà, basta allora ricordare che il senso etimologico di “in mezzo” è “nelle viscere”, nel grembo. Come il grembo materno appartiene per nove mesi al bambino che vi sta nascosto fin dal primo giorno di vita, così per l’eternità sarà nostro il Regno di Dio e la nostra vita sarà “nascosta” con Cristo in Dio, custodita per sempre nell’intimità ineffabile del grembo divino della Santissima Trinità.

Perciò il Regno di Dio nel quale vivremo risorti in Cristo, sarà la nostra perfetta ed eterna comunione d’amore con le tre divine Persone, nel cui mondo vivremo beati come bambini nel grembo, assieme ad una miriade di altri figli.

Consideriamo infatti ciò che Gesù stesso, poco prima di morire, dichiara a Marta: “Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me , anche se muore, vivrà” (Gv 11,25). Non dice: io sono il principio, la causa, il fine della risurrezione, ma “Io sono la risurrezione e la vita”, che significa: “Io sono la risurrezione, la vita eterna di tutti i risorti”. Un po’ come se la mamma dicesse al bambino: “io sono la tua generazione, e la mia relazione con te è la tua vita”, personificando in se stessa il fatto biologico del concepimento per fondarlo nella sua vitale, profonda e perenne relazione con il figlio.

Quando ho letto per la prima volta l’Istruzione “Dignitas personae”, leggendo le splendide parole: “la vita vincerà: è questa per noi una sicura speranza. Sì, vincerà la vita, perché dalla parte della vita stanno la verità, il bene, la gioia, il vero progresso. Dalla parte della vita è Dio, che ama la vita e la dona con larghezza” (n.3), ho pensato che la vittoria della vita è un evento che riguarda anche il presente, dal momento che la Risurrezione di Gesù è un fatto perennemente attuale. Perciò, nonostante che la morte non sia stata ancora definitivamente sconfitta, la vita vince adesso, la vita è una vittoria del presente, come grida Paolo: “Siano rese grazie a Dio che ci da la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo! Perciò fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili…” (1Cor 15,57-58). Ancora più esplicitamente: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?…Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati” (Rm 8,35.37).

E’ un formidabile grido di sfida e di vittoria sulla morte che potrei attualizzare così: l’angoscia della perdita di una persona cara, come quella di un genitore al quale è stato tolto tragicamente un figlio per malattia o incidente; l’angoscia ancor più dolorosa di una mamma che il figlio se lo è fatto togliere per mano del medico abortista o per effetto di un farmaco mortale; e tante altre simili situazioni di morte (viste anche dal versante della stessa vittima), può realmente trovare tregua e pace duratura al presente nella verità della Risurrezione, non solo per il pensiero che nell’aldilà incontreremo i nostri cari e sarà asciugata ogni lacrima per sempre, ma per reale esperienza.

Possiamo capire questo solamente se rispondiamo alla domanda cruciale: che cos’è la vita? Qual è la verità essenziale della vita umana? Se la vita è solo qualcosa di biologico e psicologico, valgono le tristi parole di Giobbe: “Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!” (Gb 1,22).

Ma la vita non può essere e non è il contrario della morte. La vita è infinitamente di più, è una realtà incorruttibile che dimora in noi e a cui il nostro corpo da’ visibilità. Tale realtà divina proviene da una Fonte zampillante che ha detto: “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11,25).

Se Gesù è la risurrezione e la vita, allora la risurrezione e la vita non sono rimandate all’al di là, ma appartengono già all’al di qua, poiché Gesù risorto è vivo in mezzo a noi.

Per questo Benedetto XVI ha detto: “La preghiera non è un accessorio, un optional, ma è questione di vita o di morte. Solo chi prega, infatti, cioè chi si affida a Dio con amore filiale, può entrare nella vita eterna, che è Dio stesso”.

Vi può entrare da subito, per mezzo dello Spirito del Signore risorto.

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

I ROTOLI DELL’EXULTET

dal sito:

http://www.exultet.it/rotoli.html

I ROTOLI DELL’EXULTET

 Il termine Exultet corrisponde alla prima parola del canto liturgico che, dall’alto del pulpito, veniva intonato dal diacono nel corso della cerimonia della notte del Sabato Santo .
Tale canto, denominato praechonium paschale , aveva la funzione di annunciare alla comunità dei fedeli il mistero della Resurrezione e celebrare il rito dell’offerta del cero pasquale .
Per esteso, lo stesso termine è passato ad indicare anche i rotoli sui quali il testo dell’inno è stato più volte trascritto e illustrato tra X e XIV secolo, secondo una prassi attestata pressoché quasi esclusivamente nell’Italia meridionale.

L’Exultet e la liturgia pasquale

I rituali della vigilia del Sabato Santo sono molto antichi.
Essi derivano dall’usanza di restare in attesa per tutta la notte del giorno della Resurrezione. La veglia prevede da sempre una serie di letture e preghiere che si concludono con la messa.
Nel medioevo essa, in quanto simbolo di rinnovamento, coincideva anche con il momento dell’ammissione al Battesimo dei catecumeni.
In tale contesto l’Exultet ha svolto un ruolo fondamentale. La sua proclamazione dall’alto dell’ ambone costituiva infatti il momento culminante di tutto un complesso cerimoniale che comprendeva, se pure con diverse varianti, il rito della benedizione del fuoco nuovo per il cero pasquale , quello dell’accensione del cero stesso da parte del diacono o del vescovo e la cerimonia del Lumen Christi.
Quest’ultima prevedeva che il diacono, spesso a conclusione di una processione, esclamasse per tre volte le parole Lumen Christi (Luce di Cristo).
Ad ogni enunciazione i fedeli dovevano rispondere in modo sempre più trionfante con l’invocazione Deo Gratias (Rendiamo Grazie a Dio).
La lettura solenne dell’Exultet seguiva subito dopo a conclusione del rituale.

Il Testo dell’Exultet

Il testo dell’Exultet che si legge ancora oggi nel corso della veglia pasquale discende da una redazione duecentesca fissata da papa Innocenzo III.
A sua volta, questo si fonda su una tradizione più antica, rimasta pressoché invariata nel corso dei secoli.
Soltanto nell’Italia meridionale l’Exultet ha conosciuto agli albori del suo utilizzo una diversa redazione, denominata « testo di Bari » o della Vetus Itala.
Essa conteneva una formula variata nella prefazio che è stata successivamente normalizzata nel corso del XII secolo sulla base dell’ordo romano .
Soltanto nella parte finale il testo seguiva varianti di volta in volta diverse: esso si concludeva infatti con le commemorazioni liturgiche, cioè formule di intercessione per il clero, i fedeli, i papi, i sovrani e le autorità locali.
Poiché nel corso degli anni si potevano avere serie diverse di reggenti, spettava al diacono ricordare o leggere il nome della autorità del momento, che di solito veniva appuntata sul rotolo mediante note mnemoniche.
Queste ultime offrono oggi preziosi indizi per la datazione e la provenienza dei rotoli.

TESTO LATINO

Exultet iam angelica turba caelorum! Exultent divina mysteria, et pro tanti regis victoria tuba intonet salutaris. Gaudeat se tantis Tellus inradiata fulgoribus, et aeterni regis splendore lustrata, totius orbis se sentiat amisisse caliginem. Laetetur et Mater Ecclesia, tanti luminis adornata fulgore, et magnis populorum vocibus haec aula resultet. Quapropter adstantibus vobis, fratres carissimi, ad tam miram sancti huius luminis claritatem, una mecum, quaeso, Dei omnipotentis misericordiam invocate. Ut qui me, non meis meritis, intra levitarum numerum dignatus est adgregare, luminis sui gratia infundente, cerei huius laudem implere praecipitat. Per (..) Vere qui dignum et iustum est invisibilem Deum omnipotentem Patrem, Filiumque unigenitum Dominum nostrum Iesum Christum, toto cordis ac mentis adfectu at voci ministerio personare, qui pro nobis aeterno Patri Adae debitum solvit et veteris piaculi cautionem pio cruore detersit. Haec sunt enim festa paschalium, in quibus verus ille agnus occiditur eiusque sanguis postibus consecratur. Haec nox est in qua primum patres nostros, filios Israel, educens de Aegypto, Rubrum mare sicco vestigio transire fecisti. Haec igitur nox est, quae peccatorum tenebras columnae inluminatione purgavit. Haec nox est, quae hodie per universum mundum in Christo credentes, a vitiis saeculi segregatos et caligine peccatorum, reddit gratiae, sociat sanctitati. Haec nox est, in qua destructis vincolis mortis, Christus ab inferis victor ascendit. Nihil enim nobis nasci profuit, nisi redimi profuisset. O mira circa nos tuae pietatis dignatio! O inaestimabilis dilectio caritatis: ut servum redimeres, filius tradidisti! O certe necessarium Adae peccatum, quod Christi morte deletum est! O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere redemptorem! O beata nox, quae sola meruit scire tempus et horam in qua Christus ab inferis resurrexit. Haec nox est, de qua scriptum est: Et nox ut dies inluminabitur, et: Nox inluminatio mea in deliciis meis. Huius igitur sanctificatio noctis fugat scelera, culpas lavat et reddit innocentiam lapsis, maestis laetitiam; fugat odia, concordiam parat et curvat imperia. In huius igitur noctis gratia, suscipe, sancte Pater, incensi huius sacrificium vespertinum, quod tibi in hac cerei oblatione solemni, per ministrorum manus, de operibus apum, sacrosancta reddit Ecclesia. Sed iam columnae huius praeconia novimus, quam in honore Dei rutilans ingnis accendit. Qui licet divisus in partes, mutuati luminis detrimenta non novit: alitur liquantibus ceris quas in substantiam pretiosae huius lampadis apis mater eduxit. Apis ceteris, quae subiecta sunt homini animantibus antecellit. Cum sit minima corporis parvitate, ingentes animos angusto versat in pectore, viribus imbecilla sed fortis ingenio. Haec explorata temporum vice, cum canitiem pruinosa hiberna posuerint, et glaciale senium verni temporis moderata deterserint, statim prodeundi ad laborem cura succedit; dispersaque per agros, libratis paululum pinnibus, cruribus suspensis insidunt, prati ore legere flosculos; oneratis victualibus suis, ad castra remeant, ibique aliae inaestimabili arte cellulas tenaci glutino instruunt, aliae liquantia mella stipant, aliae vertunt flores in ceram, aliae ore natos fingunt, aliae collectis et foliis nectar includunt. O vere beata et mirabilis apis, cuius nec sexum masculi violant, foetus non quessant, nec filii destruunt castitatem; sicut sancta concepit virgo Maria, virgo peperit et virgo permansit. O vere beata nox, que expoliavit Aegyptos, ditavit Hebraeos; nox in qua terrenis caelestia iunguntur. Oramus te, Domine, ut cereus iste, in honore nominis tui consecratus, ad noctis huius caliginem destruendam indeficiens persevert. In odorem suavitatis acceptus, supernis luminaribus miseatur. Flammas eius Lucifer matutinus inveniat, ille inquam Lucifer qui nescit occasum; ille qui regressus ab inferis, humano generi sereno inluxit. Precamur ergo te, Domine (…)

TRADUZIONE ITALIANA

Esulti ormai l’angelica schiera dei cieli!
Esultino i ministri divini, e per la vittoria di sì gran re risuoni la tromba salvifica. Gioisca la Terra irradiata da tanti fulgori e, illuminata dallo splendore del re eterno, senta di essersi liberata dalla tenebra in tutta la sua estensione.
Si rallegri anche la madre Chiesa, adornata dallo splendore di tanta luce, e quest’aula echeggi delle alte voci dei fedeli. Perciò, o fratelli carissimi, essendo voi presenti a sì meravigliosa luce di questa santa fiamma, invocate insieme con me, vi prego, la misericordia di Dio onnipotente; affinché colui il quale, non per meriti miei, si degnò di pormi tra il numero dei leviti, travasandosi la grazia della sua luce, mi insegni a compiere la lode di questo cero.
Per (il nostro signore Gesù Cristo..)
Perché è cosa veramente degna e giusta con tutto lo slancio del cuore e della mente e con l’ausilio della voce proclamare la gloria di Dio invisibile Padre onnipotente e del Figlio unigenito nostro Signore Gesù Cristo, il quale in nostra vece pagò all’Eterno Padre il debito di Adamo e col sangue innocente cancellò l’obbligazione contratta con l’antico peccato.
Sono queste, infatti, le feste pasquali, in cui è sacrificato il vero agnello e il suo sangue è destinato alle porte.
È questa la notte in cui, conducendo fuori dall’Egitto i nostri padri, figli d’Israele, li facesti passare attraverso il Mar Rosso a piedi asciutti.
È questa dunque la notte che ha rimosso le tenebre del peccato con la luce della colonna di fuoco.
È questa la notte che i credenti in Cristo, allontanati dai vizi del mondo e dalle tenebre del peccato, oggi in tutto il mondo restituisce alla grazia, riunisce alla santità. E questa la notte in cui, spezzate le catene della morte, Cristo risorge vittorioso dagli inferi.
A nulla avrebbe giovato a noi l’esser nati, se non ci fosse toccato il bene della redenzione.
O meravigliosa condiscendenza della tua misericordia verso di noi!
O inestimabile amore di carità! Per redimere il servo consegnasti il figlio!
O peccato di Adamo, certo necessario, che è stato cancellato con la morte di Cristo! O colpa felice, alla quale fu concesso di avere tale e tanto redentore!
O notte beata, alla quale sola fu concesso di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo risuscitò dalla morte!
È questa la notte di cui fu scritto: e la notte sarà illuminata come giorno, e ancora: la notte sarà la mia luce nella felicità.
E dunque la santificazione di questa notte fuga i delitti, lava le colpe e ridà l’innocenza ai traviati, letizia agli afflitti; dissipa gli odi, procura la concordia, piega le potenze.
Accetta dunque, padre Santo, in questa notte di grazia, il sacrificio vespertino di questa fiamma che la santa Chiesa per mano dei suoi ministri a te porge in questa solenne offerta del cero, frutto di operosità delle api.
Ma ormai conosciamo gli annunci di questa colonna che a onore di Dio la vivida fiamma accende. Fiamma che, sebbene spartita, non conosce diminuzione della luce distribuita: si alimenta delle molli cere che madre ape ha prodotto per formare la materia di questa preziosa lampada
L’ape è superiore a tutti gli altri esseri viventi che sono soggetti all’uomo.
Pur molto piccola di corpo, rivolge tuttavia nell’angusto petto alti propositi; debole di forze ma forte d’ingegno.
Essa, dopo aver esplorato l’alternare delle stagioni, allorché il gelido inverno depose la canizie e poi il clima moderato della primavera spazzò via il torpore glaciale, subito sente la preoccupazione di uscire al lavoro; e le api sparse per i campi, librando leggermente le ali, si posano appena con le agili zampe per cogliere con la bocca i piccoli fiori del prato, cariche del loro vitto rientrano negli alveari e qui alcune con arte inestimabile costruiscono cellette con tenace glutine, altre stipano il fluido miele, altre tramutano in cera i fiori, altre danno forma ai loro piccoli lambendoli con la bocca, altre incamerano il nettare delle foglie raccolte.
O ape veramente beata e mirabile, di cui i maschi non violano il sesso, né lo turbano i feti, né i figli distruggono la castità; così come, nella sua santità, Maria concepì vergine, partorì vergine e vergine rimase.
O notte veramente beata, che spogliò gli Egizi e arricchì gli ebrei, notte in cui le cose celesti si congiungono con le terrene, Preghiamo te, o Signore, affinché questo cero consacrato in onore del tuo nome persista senza venire meno per dissipare le tenebre.
Possa l’astro del mattino trovare la sua fiamma (ancora accesa), quell’astro di Lucifero, dico, che non conosce tramonto, quell’astro che, ritornando dagl’Inferi suole spargere sereno la sua luce sul genere umano.
Preghiamo dunque te, o Signore, (…)

Origini e significato del rotolo

Il testo e la melodia dell’Exultet furono più volte trascritti tra il X e il XIV secolo su rotoli formati da più fogli di pergamena cuciti insieme.
L’origine di questa pratica è attestata quasi esclusivamente in ambito meridionale ed è forse da ricercarsi nei cosiddetti libelli: piccoli libretti composti da uno o più quaternioni destinati alla celebrazione di determinate festività o di particolari azioni liturgiche (il rito di investitura sacerdotale, l’unzione dei malati ed altro).
Essi erano molto diffusi nel medioevo e costituivano manufatti estremamente semplici e di modesto valore.
Di conseguenza, nelle celebrazioni più importanti, venivano talvolta sostituiti da esemplari assemblati nella più nobile forma di rotolo.
L’adozione di questa inconsueta tipologia libraria a fini liturgici richiamava infatti le forme dei papiri dell’antichità.
Essa fu però probabilmente suggerita nel Meridione anche dalla conoscenza dei riti della chiesa greco-orientale.
Questi ultimi prevedevano l’utilizzo di rotoli manoscritti, denominati kontakia, forse già nel V-VI secolo e comunque sicuramente nell’VIII-IX secolo.
La loro conoscenza dovette avvenire in ambito beneventano-cassinese grazie ai monaci italo-greci che, nei secc X-XI, trasmigrarono dalle Calabria e la Sicilia verso la Campania e il Lazio meridionale.
E’ infatti nell’area beneventana che compaiono i primi esemplari di rotoli di Exultet.

Il ciclo iconografico

In quanto genere creato ad hoc, l’Exultet non si conforma ad una tipologia illustrativa già esistente, ma è frutto di una vera e propria invenzione iconografica elaborata intorno al X secolo.
Per questo motivo le decorazioni non seguono uno schema predefinito, ma compongono un ciclo variabile che prevede l’illustrazione di soggetti diversi.
Essi sono sostanzialmente riconducibili a tre ambiti tematici connessi al testo e alla liturgia pasquale: la storia sacra, le cerimonie liturgiche – le più ricorrenti mostrano il diacono che riceve il rotolo dal vescovo, accende il cero pasquale, o recita l’orazione dall’ambone – e i ritratti di contemporanei.
Anche per la traduzione visiva del medesimo concetto vengono inoltre proposte differenti soluzioni.
Ad esempio, l’allegoria della terra, Tellus, chiamata a celebrare la Resurrezione, può essere ritratta in veste di donna riccamente abbigliata, oppure come una figura, o come Cristo in trono con gli animali; la figura della Mater Ecclesia è invece talora indicata dalla comunità dei fedeli raccolti intorno al Vescovo, altre volte da una figura di donna, o da ulteriori varianti.
Le scene bibliche sono numerose e tratte per lo più dal Nuovo Testamento.
Fanno eccezione pochi temi, quali la salvazione delle primogeniture israelitiche, il peccato originale, il passaggio del Mar Rosso, che si ispirano ai brani del Genesi e dell’ Esodo contenuti nel Vecchio Testamento.
Una delle immagini ricorrenti è quella introdotta a corredo della Laus Apium, l’elogio delle api.
Essa segue diverse varianti dettate dagli specifici orientamenti dei miniatori: talvolta assume un carattere fortemente simbolico o decorativo; altre volte è improntata alla narrazione vivace e mostra gli sciami che volano per i campi e i contadini che raccolgono il miele e la cera.
L’Exultet si concludeva con le commemorazioni liturgiche, spesso accompagnate dal ritratto solenne e stereotipato dei personaggi politici e religiosi evocati.

Christ the Lord is risen again!

dal sito:

http://revprs.blogspot.com/2009/04/joy-of-resurrection-6.html

Christ the Lord is risen again!
Christ hath broken every chain!
Hark! angelic voices cry,
singing evermore on high,
Alleluia!

He who gave for us his life,
who for us endured the strife,
is our Paschal Lamb today;
we too sing for joy, and say:
Alleluia!

He who bore all pain and loss
comfortless upon the cross
lives in glory now on high,
pleads for us, and hears our cry;
Alleluia!

He who slumbered in the grave
is exalted now to save;
through the universe it rings
that the Lamb is King of kings:
Alleluia!

Now he bids us tell abroad
how the lost may be restored,
how the penitent forgiven,
how we too may enter heaven.
Alleluia!

Thou, our Paschal Lamb indeed,
Christ, thy ransomed people feed;
take our sins and guilt away,
that we all may sing for aye
Alleluia!

Peter Simpson (deacon in the Catholic Church)

Maria: Testimone privilegiata del Risorto

dal sito:

http://www.stpauls.it/madre/0704md/0704md18.htm

Testimone privilegiata del Risorto  

Nei vangeli non viene raccontato che Gesù sia apparso alla Madre dopo la risurrezione. Ma questo velo di riserbo che avvolge la persona di Maria non impedisce ragionevolmente di affermare che la Vergine abbia visto il Risorto. 

«È convinzione della Chiesa orientale che la Vergine non abbia dovuto essere esclusa dal privilegio delle pie donne e sia stata forse la prima a vedere il Figlio risorto» (G. Gharib, Le Icone festive della Chiesa ortodossa, Milano 1985, pag. 186).

Ma anche nella tradizione latina, stando alla testimonianza di san Girolamo di Stridone (347-420 circa), Maria, dopo l’Ascensione del Figlio, «conversatur autem cum testibus sanctae resurrectionis et ipsa testis»(Epistola 9,4 in Patrologia Latina 30,129; cf n. 3-4, col. 128-130): «ella, in verità, conversa con i testimoni della santa risurrezione, ed è essa stessa la prima testimone della risurrezione».

La Vergine Madre ha visto il Figlio risorto?

Rimanendo nell’area occidentale, in Spagna, sant’Ildefonso di Toledo (607- 667) dà per scontata la teofania del Signore alla Madre, testimone privilegiata della risurrezione. Nella Inlatio (Prefazio) della messa del sabato dell’ottava di Pasqua, sant’Ildefonso aggiunge: «Agnoscit Mater membra quae genuit» e cioè «nel corpo glorioso di Cristo, la Madre la notte di Pasqua riconosce le medesime membra che si erano formate nel suo grembo verginale a Betlemme».

Cristo risorto appare a sua Madre, affresco, XVI secolo, Momo (No).

Non a caso varie omelie pasquali dei Padri parlano della Vergine presente alla risurrezione del Figlio. Non senza fondamento alcuni libri liturgici antichi riportano riferimenti mariani nella notte di Pasqua e nel tempo pasquale. Non sarà solo per un fatto devozionale che la Chiesa di Roma prevede la venerazione della Vergine nel triduo pasquale e «il saluto pasquale alla Madre del Risorto» al termine della Veglia pasquale o dopo i secondi vespri della domenica di Pasqua.

Ma nei vangeli «non viene raccontato che Gesù sia apparso alla Madre dopo la risurrezione». Tuttavia «questa mancata citazione della Madre appartiene a quel velo di riserbo che avvolge la persona di Maria» (R. Guardini, La Madre del Signore. Una lettera, Brescia 1989, pag. 55). Il prodigio di Dio nella Vergine non è spiegabile fino in fondo: va accolto solo nella fede.

Fin dall’antichità si sono determinate due tradizioni, che si intrecciano tra loro, quindi non separabili: 1) Maria non sta nel giardino della risurrezione (ad esempio sant’Ippolito di Roma, Cirillo di Alessandria, Giovanni Crisostomo), perché è già stata assunta in cielo, alla destra del Figlio, per meglio servire da lassù la Chiesa pellegrina sulla terra; 2) la Vergine Madre è la prima a vedere il Figlio risorto, e sta nel « santo giardino » per accogliere i credenti che si recano al sepolcro rimasto vuoto.

Questa duplice tradizione va accolta così come è stata tramandata, poiché mostra il collegamento e la continuità tra Natale e Pasqua.

La Chiesa celebra il Natale grazie alla Pasqua, e celebra la Pasqua facendo memoria del Natale. E Maria nelle due tradizioni è mostrata sia quale testimone della divinità di Gesù e della potenza vivificatrice dello Spirito, sia quale Madre vergine del « Cristo totale »: del Capo a Natale, e delle sue membra a Pasqua.

Corrispondenza tra Pasqua e Natale

Sarà utile mostrare come la Chiesa apostolica abbia avvertito un felice e fecondo parallelo:

tra il « sepolcro nuovo » (vergine) dove fu deposto il Signore, grembo della risurrezione (Mt 27,60; Lc 23,53; Gv 19,41), e il grembo vergine di Maria, sorgente della vita (Lc 1,35);
tra le fasce in cui Maria avvolse il suo neonato (Lc 2,7) e le bende funerarie nelle quali Giuseppe d’Arimatea avvolse il corpo esanime di Gesù calato dalla croce (Lc 23,53);
tra la mangiatoia nella quale Maria adagiò il bambino (Lc 2,7) e il sepolcro nuovo nel quale Giuseppe d’Arimatea depose Gesù (Lc 23,53);
nella notte della risurrezione, Cristo in modo miracoloso uscì dal grembo del sepolcro, come ad opera dello Spirito Maria aveva concepito verginalmente il Verbo di Dio;
nel grembo della tomba operò l’energia dello Spirito (cf Rm 8,11); nel grembo della Vergine egualmente era stata operante l’energia dello Spirito (Lc 1,35).
l’angelo, ministro del Signore all’annunciazione (Lc 1,26-38), fu egualmente presente al sepolcro per rotolare via la pietra e annunciare la risurrezione (Mt 28,2.6 e paralleli).
Va ricordato che tutte queste corrispondenze sono state avvertite costantemente dalla tradizione. Tra i Padri della Chiesa, citiamo san Massimo di Torino (350-423 circa), che riprende il parallelo tra il grembo vergine di Maria e il « sepolcro nuovo » dove fu deposto il Signore (Sermone 38,4 in CCL 23,150).

Altrettanto fa la liturgia ispanica in una Inlatio dell’ottava di Pasqua: paragona il sepolcro nuovo di Gesù, intagliato nella roccia, nel quale non era ancora stato posto nessuno, al grembo verginale di Maria, dove si era formato il corpo di Cristo. L’antica iconografia cristiana accosta la grotta della natività di Betlemme al sepolcro, grotta di Gerusalemme, dalla quale Cristo rinasce come il vivente eterno.

Il Risorto incontra la Madre, Sacro Monte sopra Varese.

Agostino d’Ippona (354-430) nella settimana di Pasqua, commentando Gv 20,19-23 (manifestazione del Risorto a Maria di Magdala) accosta la risurrezione al concepimento verginale. Egli si domanda: «Come avvenne la risurrezione? Come poté Cristo entrare nel cenacolo a porte chiuse ed esser visto, toccato dai discepoli? Come era avvenuto ancor prima il concepimento di Maria?». E Agostino risponde: il medesimo miracolo che si verificò nel concepimento verginale continua alla risurrezione: «Ben prima che risorgesse, il Signore nascendo passò per delle porte chiuse» (Discorso 247,2 in NBA XXXII/2,710; cf 709-711).

L’esegeta Emanuele Testa aggiunge: interpretando alla luce del Nuovo Testamento il libro di Ezechiele 44,1-2 (si tratta della porta esterna del santuario, posta ad oriente, porta chiusa, dove nessuno potrà passare, poiché c’è passato il Signore), si comprende che alla risurrezione (Gv 20,19) come alla nascita (Lc 2,7), Gesù è passato per una porta chiusa: nel concepimento il Verbo entra in Maria senza infrangerne la verginità, alla risurrezione egli entra nel cenacolo senza forzarne le porte. Ecco perché nell’arte il sepolcro è rappresentato come intatto: il Signore è risorto senza romperne i sigilli (cf Maria terra vergine, 1-2, Jerusalem 1985, 56-66; 108).

Un tropario bizantino della VI Ode della V domenica di Pasqua stabilisce un significativo paragone tra la verginità di Maria e l’uscita di Cristo dal sepolcro: «Nell’incarnarti, tu [Signore] non hai aperto le porte chiuse della Vergine, né hai rotto i sigilli del sepolcro, o Re del creato. Ci hai aperto le porte del paradiso».

La Madre del Capo e delle membra

In una Inlatio della Veglia pasquale, sant’Ildefonso narra che la Chiesa a Pasqua partorisce senza dolore i cristiani, come Maria senza dolore aveva partorito Gesù a Betlemme.

Dalla gloria del cielo la Vergine Madre intercede per tutti i credenti, chiamati sulla terra a far crescere la totalità del corpo del Figlio risorto, tramite il dono dello Spirito pentecostale (prima tradizione).

La stessa Madre che, dal giardino nuovo della nuova primavera, per prima annuncia la risurrezione del Figlio, assiste premurosamente la Chiesa, chiamata a generare nuove membra a Cristo nei sacramenti pasquali (seconda tradizione).

Ma la crescita dei fedeli nel Risorto e la generazione dei nuovi figli avverrà senza il dolore del peccato se la comunità celebrante, nella verginità della fede, si affida alla potenza dello Spirito che, dopo aver restituito la vita divina a Cristo primogenito, farà risorgere anche i suoi fratelli nella fede.

La Vergine, che nella risurrezione del Figlio riconosce tutti i figli nel Figlio, custodirà queste membra da lei generate nell’amore olocaustico presso la croce.

Sergio Gaspari   

Publié dans:FESTE - PASQUA, MARIA VERGINE |on 3 avril, 2010 |Pas de commentaires »

LA PASQUA DEI SAMARITANI: Il piccolo popolo del monte Gerizim

dal sito:

http://www.famigliacristiana.it/jesus/0704je/0704je10.htm

LA PASQUA DEI SAMARITANI

Il piccolo popolo del monte Gerizim
di Sara Laurenti – foto di Diego Zanetti  

Nei Vangeli sono spesso citati ma restano una realtà quasi sconosciuta. Pochi sanno, per esempio, che i samaritani, pur ridotti a un pugno di famiglie, sopravvivono ancora oggi, esattamente nei luoghi che abitavano al tempo di Gesù. E come allora, la Pasqua è la festa religiosa più importante, memoria del tempo in cui il popolo ebraico fuggì dall’Egitto.   

«Se obbedirai ai Suoi comandamenti, Egli ascolterà la tua voce; se metterai in pratica le Sue parole, Egli esaudirà le tue invocazioni. Se Lo temerai, tutte le genti della terra ti temeranno. Se ricorderai i Suoi comandamenti, sarai esaltato. Se aprirai le Scritture e le leggerai, Egli aprirà per te i tesori del bene» (Memar Markah IV. 10). È un’invocazione ripetuta all’infinito nelle preghiere dei samaritani più anziani, già raccolti nel tempio del villaggio di Kiryat Luza, sul Gerizim, «il monte scelto da Dio», come cita la Bibbia samaritana. Ieri questa vetta era parte del regno d’Israele, oggi è una colonia ebraica in territorio palestinese, nel cuore della Samaria, uno dei luoghi più nominati nel Libro sacro.

Abramo su questa montagna pose il primo altare quando quattromila anni fa arrivò qui dal Nord della Siria. Lo stesso fece Giacobbe. Sempre in questo luogo, dopo un anno dall’ingresso nella Terra promessa, Giosuè fece rinnovare l’Alleanza a tutto il popolo d’Israele, reduce dall’esperienza dell’Esodo. Qui ancora è posta la tomba venerata di Giuseppe, il patriarca riportato dall’Egitto.

Durante il pellegrinaggio sul Gerizim, i rotoli della Torah vengono
innalzati al cielo in una delle soste verso la cima, nel luogo dove –
secondo i samaritani – Giacobbe sognò una scala che saliva al cielo.

Attualmente solo la metà dei settecento samaritani, l’ultima comunità al mondo, vive tutto l’anno sul monte sacro. Il resto si è stabilito a Holon, una comunità fondata nel 1954-55, vicino Tel Aviv.

Sono ore di trepidazione: la vigilia di Pasqua riunisce tutti in cima. C’è chi cuoce la matzoth, il pane azzimo non lievitato, prima che inizi la festa; chi, invece, in ritardo si affretta a entrare nella sinagoga, che appare piuttosto una moschea, con tappeti invece di banchi. Non ci sono donne: non sono tenute a rivolgersi a Dio in pubblico. La religione è un affare maschile. Le mogli e le figlie, con tutta probabilità, sono a casa a ultimare le pulizie perché nulla di lievitato rimanga prima che inizi la celebrazione pasquale. Gli uomini in preghiera sembrano califfi turchi del passato, con lunghe tuniche bianche e in testa il tarboosh, il fez rosso di sapore ottomano. Chi lo decora con strisce di stoffa dorata vuole sottolineare la sua autorità di capofamiglia. «Nella nostra cultura è rimasta forte l’influenza della dominazione turca, cominciata nel XVI secolo e durata, con qualche interruzione, fino agli inizi del Novecento. Portiamo questo copricapo per rispetto al luogo sacro di Dio», spiega Izhar, 30 anni.

I pellegrini si avviano verso il monte Gerizim prima dell’alba:
in braccio, tappeti per le soste di preghiera.

Oggi la comunità samaritana è formata da sei grandi famiglie: i Sassoni, gli Tsedaka, gli Altif, gli Yehoshua, i Marchiv e i Kohen, quest’ultima erede della tribù sacerdotale di Levi. Solo i discendenti maschi di quest’ultimo gruppo possono, come è sempre stato nel passato, diventare sacerdoti, interpreti della legge e custodi della tradizione: si distinguono per il copricapo più basso e largo, a balze. Eppure l’eccezione non manca: il sommo sacerdote, sposato come tutti gli altri ministri della comunità, fa Tsedaka di cognome. «Qualche anomalia c’è sempre», sorride l’eletto, Elazar, 80 anni, che ci accoglie nella sua casa all’entrata del quartiere, ma non mi dà la mano perché potrei essere « impura ». Le leggi di purità e impurità sono state date a Mosè da Dio stesso e sono scritte nel Libro del Levitico. Tutto il popolo, ciascuno per la sua condizione, le deve rispettare. In questo caso l’impurità riguarda il ciclo mestruale: se la donna è in questo periodo, è considerata impura e non deve essere toccata se non ci si vuole contaminare.

«Sono discendente di Aronne, fratello di Mosè», racconta il sommo sacerdote. «Oltre 3.600 anni fa gli israeliti entrarono nella terra di Canaan e fin dall’inizio siamo stati guidati da quattro principi di fede: un unico Dio, il Dio di Israele; un profeta, Mosè figlio di Amram; un unico libro sacro, il Pentateuco (ma rilevanti sono anche la liturgia samaritana, i commenti biblici e il Memar Markah, l’insegnamento di Markah, uno dei teologi più importanti, vissuto tra il III e IV secolo d.C., ndr), un unico luogo sacro, il monte Gerizim, la cui santità è detta anche nel nostro decimo comandamento», spiega preciso Elazar.

Tra una tappa e l’altra del pellegrinaggio sul Gerizim,
la Torah viene coperta con un telo.

Poi continua, dando conto delle regole della comunità: «Essere samaritano richiede di vivere in terra d’Israele senza lasciarne i confini storici oppure mantenendovi la residenza se si vive fuori, di partecipare al sacrificio di Pasqua sul monte Gerizim, di mangiare cibo kasher (secondo le regole alimentari che comprendono il non mescolare carne e latte), di studiare fin da bambini la Torah, che interpretiamo letteralmente, di rispettare il sabato e di osservare scrupolosamente le leggi della purità e impurità che indica la Bibbia: chiunque non osservi uno solo di questi doveri non può vivere all’interno della comunità».

La rigida ubbidienza a queste regole rende noto questo gruppo in Israele come Shomerim, osservanti appunto. «Può diventare uno di noi», prosegue Elazar, «chi si converte alla nostra fede: le donne straniere, che devono obbedire al marito, diventano samaritane prima di unirsi in matrimonio con uno dei nostri, altrimenti entrambi sono scomunicati. Anche il divorzio è contemplato: c’è bisogno però del mio consenso», dice il capo spirituale samaritano.

Il sommo sacerdote ci lascia. Deve affrettarsi a raggiungere gli altri in sinagoga. Tutti, appena entrati, si prostrano in direzione dell’altare, in fondo allo stanzone, dove è vietato apporre immagini sacre perché l’unicità di Dio non può essere divisa in tante riproduzioni; sull’ara è posta solo una teca chiusa a chiave che contiene il rotolo di Abisha, letteralmente «custode del sacro», il Pentateuco scritto in alfabeto « samaritano », che è precedente a quello adottato dagli ebrei dopo l’esilio. Prima di entrare, le scarpe sono deposte nell’anticamera.

Le donne assistono al pellegrinaggio sul Gerizim, riunite in gruppo,
ai lati del percorso.

La preghiera, a volte in ebraico antico, altre in aramaico, è cantata. Nell’invocare Dio, Mosè e i patriarchi, tutti si passano la mano destra sul viso in segno di venerazione. La cantilena è alternata da un chiacchiericcio che, ci spiegano, è una discussione animata sui testi del Pentateuco. I samaritani non considerano tutti i testi dei profeti e degli agiografi come sacri, ma credono che alla fine dei giorni ci sarà la resurrezione dei morti grazie a un taheb, un restauratore, possibilmente un profeta come Mosè, della tribù di Giuseppe, come dice la Bibbia samaritana nel Libro del Deuteronomio.

Per capire la cultura e il culto samaritano bisogna tornare al 926 a.C., quando con la morte del re Davide la Palestina si divise in due e le dodici tribù si separarono: al nord si formò il regno d’Israele, con capitale Sichem e quindi Samaria, i cui discendenti erano per lo più delle tribù di Giuseppe, Efraim e Manasse; a sud quello di Giuda, con capitale Gerusalemme. Il regno d’Israele dovette presto fronteggiare la potenza degli assiri che, dopo varie vicende, nel 722 a.C. con Sargon II, distrussero la città come aveva predetto il profeta Michea (1,6): «Ridurrò Samaria a un mucchio di rovine in un campo, a un luogo per piantarvi una vigna. Rotolerò le sue pietre nelle valli, scoprirò le sue fondamenta». Una parte della popolazione fu deportata in Mesopotamia.

Il pellegrinaggio sul Gerizim prende avvio prima dell’alba,
nel freddo pungente della notte.

Dopo il ritorno dall’esilio babilonese, i samaritani tentarono di opporsi alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme e, sotto Antioco IV, si allearono con i pagani contro i giudei e crearono un tempio tutto loro sul Gerizim. In Samaria si stabilirono un certo numero di coloni assiri che si fusero con gli ebrei locali. I giudei non riconobbero mai ai samaritani lo statuto di ebrei ed ebbero sempre verso di loro disprezzo e rivalità. Nel 128 a.C. arrivarono addirittura a distruggere il tempio samaritano. «Noi non siamo ebrei, siamo samaritani», dice con orgoglio Elazar.

Al tempo di Gesù, l’ostilità fra questi due gruppi era ancora viva. Non a caso la parabola parla del buon samaritano per spiegare l’amore verso il prossimo. Questa comunità appare anche in un altro passo del Vangelo: Gesù chiede da bere a una samaritana con grande scandalo degli apostoli e, a una domanda della donna, risponde che ogni posto è buono per adorare Dio. Gesù si riferisce appunto alla disputa fra il Tempio di Gerusalemme e quello sul monte Gerizim. Solo verso la metà del secolo scorso la frattura si colmò: il Gran rabbino di Gerusalemme, Abraham Hayyim, dichiarò che i samaritani erano un ramo dell’albero giudaico e professavano la verità della Legge.

Un samaritano legge le Sacre Scritture,
codificate in un alfabeto ebraico antico.

Nel luogo del sacrificio pasquale, intanto, il fuoco di legno d’ulivo è acceso da diverse ore in profonde buche che diventeranno presto forni per una cinquantina di agnelli. È l’imbrunire del quattordicesimo giorno del nuovo anno samaritano. Tutti gli uomini sono pronti, ognuno con la propria offerta. Elazar e il suo assistente intonano i canti secondo gli antichi riti dell’Esodo. Fanno memoria di Pesach, il passaggio del popolo d’Israele dalla schiavitù alla liberazione. E proprio come allora, oggi i samaritani sacrificano l’agnello.

Assiepati sugli spalti del centro costruito proprio per il sacrificio, molti curiosi vocianti, intanto, si godono lo spettacolo: sono ebrei ortodossi con molti figli al seguito, turisti e fotografi per lo più stranieri. Vicino al sommo sacerdote siedono i rappresentanti di altre comunità religiose: un rabbino, un prete cattolico, uno ortodosso e un imam palestinese, venuti dalla vicina Nablus per festeggiare. Sui tetti delle case circostanti giovanissimi soldati israeliani, con i fucili spianati, proteggono il luogo ma specialmente l’incolumità dei presenti. Anche molti di loro fotografano l’evento.

Prima del banchetto pasquale, gli uomini si riuniscono
e cantano inni liturgici tradizionali.

Più che una festa sacra, la Pasqua samaritana sembra una sagra. L’odore del sangue versato è intenso e gli abiti bianchi degli uomini al lavoro si macchiano inevitabilmente di rosso. Le donne della comunità siedono in seconda fila e commentano, guardando i loro uomini compiere il sacrificio. «Non ci sentiamo discriminate perché non siamo coinvolte nelle celebrazioni. È sempre stato così e siamo felici di vivere in questo modo la nostra fede», spiega Ema, 30 anni.

Compiuto il sacrificio, tutti si abbracciano e cantano le preghiere dell’Esodo invocando Mosè e i profeti. È tempo di preparare gli agnelli prima di cucinarli. Scende il buio. Le vittime sacrificali sono calate nella terra incandescente. L’atmosfera si fa convulsa: i forni sono chiusi ermeticamente col fango per una cottura più rapida. Ci vogliono oltre tre ore per arrostire le offerte: la lunga attesa scoraggia molti che se ne vanno. I pochi rimasti siedono intorno all’altare dove si bruciano le frattaglie perché è scritto che nulla di impuro deve rimanere.

Bambini seduti fuori dalla sinagoga, in attesa dell’avvio
del pellegrinaggio sul Gerizim.

La notte è sempre più umida e fredda. Il fuoco mitiga l’attesa ed è l’ora delle confidenze. «Come sarebbe bello ricostruire il tempio distrutto», dice malinconico Jacob, elettricista di 32 anni. «A quel punto dovremmo sacrificare a Dio due agnelli al giorno e sarebbe impegnativo», ironizza poi inconsapevole. «Ma se togliamo la tradizione religiosa alla nostra comunità, cosa ci farebbe rimanere uniti? Eppure non sono diverso dai miei coetanei ebrei. Vado in discoteca, al bar, e bevo alcolici, proprio come loro e, come tutti, cerco una brava ragazza, che, se mi amerà, sarà capace di convertirsi alla mia fede».

Finalmente gli agnelli sono pronti: il centro è di nuovo gremito. Le donne in vestaglia, assonnate, non vogliono mancare alla festa. Si canta e si balla: ognuno a suo modo ringrazia Dio e ricorda ancora il grande Mosè e le sofferenze del popolo d’Israele. Ogni famiglia torna a casa con il proprio agnello deposto sull’azzima tra le erbe amare. Qualcuno si ferma lì a festeggiare. «Chi non è samaritano non è invitato al banchetto perché impuro», dice Jacob. Le regole della purità sono ferree. Nel periodo pasquale è d’obbligo non mangiare pane o altro cibo lievitato durante tutti i sette giorni di Pesach. Chi non rispetta questa norma può contaminare chi è puro.

In queste foto, le fasi del sacrificio pasquale:
le pecore vengono scuoiate e poste in forni scavati nel terreno.
Dopo tre ore di cottura, i forni vengono riaperti.

Guardiamo da lontano la festa e non condividiamo la gioia pasquale. È l’una del mattino.

Nei sette giorni che seguono la Pasqua, si celebra la Festa del pane azzimo, che fa memoria dell’Esodo del popolo scelto da Dio. Durante questo periodo, nel quale non è permesso mangiare nulla di lievitato, né cibi preparati, ma solo frutta, verdura, dolci fatti in casa e carne macellata nella comunità, tutto è cucinato prima della festa. Il settimo e ultimo giorno, la mattina presto, verso le tre, la comunità si ritrova a pregare in sinagoga. Dopodiché gli uomini, vestiti con lunghe tuniche bianche, salgono al monte sacro tra canti e preghiere: il pellegrinaggio è avvolto da un buio nebbioso, gelido, inospitale.

Nella prima tappa si ricordano le dodici pietre che Giosuè comandò a dodici uomini delle tribù d’Israele di trasportare fino al monte Gerizim per costruire un altare per i sacrifici a Dio. La preghiera non s’interrompe mai. Uno dei più anziani della comunità, con un grande mantello bianco, alza al cielo più volte la Torah e la preghiera si fa più intensa. Sembra Mosè sul monte Sinài che accoglie le leggi da Dio. Il canto accorato, misto al freddo pungente dell’altitudine, penetrano nelle ossa e nel cuore. Poco più avanti la processione sosta davanti all’altare di Adamo e del figlio Seth. La terza sosta, invece, ricorda Giacobbe e il sogno di una scala che giunge in cielo, ponte tra l’umano e il divino. Il gelo non si stempera. Ci si ripara come si può: con coperte, tappeti, sciarpe. Il corteo dopo pochi passi, si ferma ancora: questa volta dove si dice che Abramo abbia sacrificato l’ariete al posto del figlio Isacco. Non manca nemmeno un luogo sacro eretto dal patriarca Noè dopo il diluvio.

Dopo aver estratto le pecore dal forno, si recuperano i frammenti
di carne caduti sul fondo; le frattaglie vengono bruciate;
infine si dà il via al banchetto.

Tutto si compie nello spazio di poche decine di metri. La nebbia, nel frattempo, è diventata foschia, ma il sole fa ancora fatica a uscire dalle nuvole. Nablus s’intravede appena ai piedi della vallata. Si arriva così all’ultimo luogo, il più sacro, l’Eterna Collina, dove erano conservate le Tavole della Legge, detto anche Sakhra. I canti aramaici continuano ad animare il momento solenne. La Torah si staglia sempre meglio al cielo: c’è chi piange ricordando la schiavitù in Egitto. Accanto agli altari, una chiesa bizantina con il poco che resta dei preziosi mosaici ricorda un’altra storia, quella cristiana. Si è alzato il vento: chissà se è quello dello Spirito, che non conosce divisioni né confini.

Mentre continua la preghiera della comunità, arrivano le donne in tenuta da casa portando cibo e tè caldo per i loro uomini. Prima di rifocillarsi, ricordano anche loro i patriarchi fermandosi ai diversi altari. La discesa è in ordine sparso. Si continua a festeggiare nelle case. Stavolta qualcuno ci offre da bere. Alla fine della giornata la maggioranza si prepara per tornare a Tel Aviv. Chi resta entra in sinagoga per la preghiera: fino a tarda sera ringrazia Dio per un’altra Pasqua di pace.

Sara Laurenti

Il mistero della «discesa agli inferi

dal sito:

http://www.cappellauniss.org/teologia/discesa_inferi.htm

Gesù Cristo discese agli inferi

Il mistero della «discesa agli inferi

A.   «DESCENDIT IN INFERNA» (CCC 632-637)

L’apocrifo Vangelo di Nicodemo (II secolo), di origine giudeo-cristiana, contiene una pittore­sca narrazione dell’ingresso vittorioso di Gesù nel regno dei morti, della disintegrazione di questo regno e della liberazione dei morti:

«E subito, a quella parola, le porte bronzee si frantumarono e le sbarre di ferro fu­rono infrante. Tutti i morti legati furono sciolti dalle catene [...]. Il re della gloria entrò come un uomo. I luoghi bui tutti dell’ade s’illuminarono»2.

Particolarmente suggestiva la liberazione di Adamo:

«II re della gloria, porgendo la sua destra, prese e sollevò il progenitore Adamo. Quindi, volgendosi agli altri, disse: « Orsù, venite con me voi tutti che subiste la morte per il legno che costui ha toccato. Ecco io vi faccio risorgere tutti per mezzo del legno della croce”»3.

Questa tradizione apocrifa è largamente attestata nei padri, sia orientali che occidentali, che attribuiscono alla discesa di Gesù nel regno dei morti una precisa intenzionalità salvifica. Anche se assente nel simbolo niceno-costantinopolitano, il descensus è testimoniato nei simboli di fede già a partire dal quarto secolo. Rufino di Aquileia (vissuto nella se­conda metà del secolo IV e all’inizio del secolo V), nella Expositio Sym­boli commenta più volte l’articolo che recita: «Crucifixus sub Pontio Pi­lato et sepultus descendit in inferna». La di­scesa viene da lui interpretata come vittoria sul regno della morte e an­nuncio di salvezza per i defunti.

Il descensus viene documentato sempre più frequentemente in sim­boli, formule di fede, precisazioni dottrinali, pronunciamenti conciliari. Anche nel Credo Apostolico, che dopo il simbolo niceno-costantinopolitano è il più importante sommario di fede della cristianità, si professa: «patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto, discese agli inferi ». Si può, pertanto, affermare che «la dottrina che Cristo abbia tra­scorso negli inferi il tempo tra la morte di croce e la sua risurrezione era comunemente insegnata ai cristiani fin dai primi tempi».

B.    IL DATO BIBLICO

1.    I passi di 1Pt 3,19-20; 4,6

L’apostolo, dopo aver parlato di Cristo «messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito» (1Pt 3,18), così prosegue: «E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione…» (1Pt 3,19-20). E più oltre afferma: «infatti è stata annunziata la buona novella anche ai morti, perché pur avendo su­bito, perdendo la vita del corpo, la condanna comune a tutti gli uomini, vivano se­condo Dio nello spirito» (1Pt 4,6).

A questi testi, che venivano presi come fondamento del descensus di Gesù Cristo nel regno dei morti, si pone  la domanda: chi sono gli spiriti che attendono in prigione? Non è affatto chiaro: le anime dei giusti dell’AT convertitisi in occasione del diluvio? o gli uomini della generazione del diluvio? o gli angeli, figli di Dio, di cui parla Gen 6,1-6?

Inoltre la 1Pt non parla affatto di una «discesa», quanto piuttosto di una «ascesa». Infatti le espres­sioni «reso vivo nello spirito» e «in spirito andò ad annunziare» (1Pt 3,18.19) indicano inequivocabilmente il Cristo risorto (e non solo l’anima umana di Cristo, separata dal corpo dopo la morte). Il testo, quindi, in­tende parlare dell’ascesa di Cristo nella gloria, evento che significa sal­vezza per coloro che hanno creduto in lui, a partire dai giusti dell’AT, e condanna per gli increduli di ogni epoca, soprattutto per quegli spiriti malvagi che provocarono la devastazione del diluvio. 

2.   Il fondamento biblico

Il fondamento biblico al «descensus» viene allora ritrovato in altre allusioni neotestamentarie, che facevano parte dell’esegesi patristica e che poi furono trascurate a vantaggio dei supposti testi probanti di 1Pt. In Mt 12,40, ad esempio, si accenna al segno di Giona: «Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra». Il segno di Giona è un segno della passione e del descensus del Figlio dell’uomo. Allo stesso modo viene interpretata l’affermazione paolina di Rm 10,7:

«Così come Giona era stato dentro il buio ventre del pesce nelle profondità dell’a­bisso, così Cristo è stato nell’abisso del regno dei morti».

Questa permanenza di Cristo nel regno dei morti non è inerzia sal­vifica, ma è già l’inizio dell’era messianica. L’evento della morte di Cristo è già reviviscenza di ossa inaridite (cf. Ez 37) e irruzione di vita e di salvezza. Gli straordinari eventi accaduti alla morte di Gesù lo testimo­niano:

«Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscita­rono» (Mt 27,51-52).

Altre allusioni del «descensus» agli inferi si trovano in At 2,27-31; Ef 4,8-10; Fil 2,5-10; Col 1,18; Eb 13,20; Ap 1,18. Quest’ultimo testo af­ferma:

«Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli in­feri».

In realtà nel NT il descensus è solo un’implicanza collaterale del mistero della morte e risurrezione di Gesù. Ha però un suo preciso e au­tonomo significato salvifico. Il Gesù, che si è immerso nella kénosi assoluta della morte, è lo stesso Cristo, che, proprio attraverso questo suo es­sere nella morte e presso i morti, conduce i morti alla vita. Di qui la rap­presentazione figurativa giudeo-cristiana del descensus messianico.

C.   SIGNIFICATO TEOLOGICO

A proposito del descensus di Gesù nel regno dello sheol, si è affer­mato che «il sabato santo sta, come mistero tra croce e risurrezione, non alla periferia ma al centro di tutta quanta la teologia». La morte di Cristo significa la sua piena e solidale entrata nello sheol, che insieme con il cielo e la terra (cf. Es 20,4), costituiva una delle tre parti della cosmologia biblica (Is 14,9; Sal 63,107). Lo sheol è il regno dei morti (Gen 37,35; 1Sam 2,6; Sal 89,49), da cui l’uomo non può mai uscire (Gb 7,9). In esso sono ospitati buoni e cattivi (1Sam 28,19). È un carcere senza ritorno, la terra delle tenebre eterne (Gb 10,21), del silen­zio, dell’abbandono (Pr 15,11; Gb 12,22; 26,6; 34,22), della solitudine, del­l’incapacità di lodare Dio (Is 38,18; Sal 6,6). È il regno assoluto della ne­gatività, del caos, della mancanza di bene.

Mediante la morte, Gesù viene immerso in questa situazione di estrema derelizione. Sperimentò l’abbandono, la solitudine, l’inerzia to­tale. Il dato biblico, però, ci dice che non ne rimase sopraffatto: «non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide la corruzione» (At 2,31). Il Santo fu sciolto «dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere» (At 2,24). È lui, infatti, ad avere «potere sopra la morte e sopra gli inferi» (Ap 1,18; cf. 1Cor 15,26). Per questo la morte è obbligata a restituire i suoi prigionieri: «la morte e gli inferi re­sero i morti da loro custoditi» (Ap 20,13; cf. Mt 27,52).

La solidarietà di Gesù nella morte e l’esperienza dello sheol costi­tuiscono un’offerta di salvezza per l’uomo, doppiamente mortale per la sua condizione umana e per i suoi peccati. Del resto, durante la sua vita, Gesù aveva affermato:

«In verità, in verità vi dico: è venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno» (Gv 5,25).

Se prima lo sheol era un carcere di morte, in Gesù diventa via di re­denzione. La presa di possesso dello sheol da parte sua significa che le porte degli inferi sono state scardinate («la morte e gli inferi furono get ati nello stagno di fuoco»: Ap 20,14) e l’uomo è stato liberato dal caos e dalla condanna al nulla.

Anche il Figlio dell’uomo è disceso nell’abisso dell’estremo abbandono, ma per sconfiggerlo mediante il legame indistruttibile della sua comu­nione di carità trinitaria. Il descensus diventa allora una possibilità di esodo e di risalita. Rappresenta la mano tesa del Figlio di Dio ai figli del­l’uomo «morti», ma non per questo abbandonati al loro destino di an­nientamento e di insignificanza esistenziale. Nel luogo della perenne soli­tudine dell’io, Gesù porta l’offerta della comunione del «noi». Infatti, pur trovandosi nella morte e cioè nella situazione della lontananza estrema da Dio, Gesù non era privato della comunione di carità col Padre nello Spirito. Il luogo più «apneumatico» si trasforma cosi in una situazione di carità e di salvezza trinitaria.

Oltre a questo aspetto «verso il basso», il «descensus» è anche un momento di liberazione «all’indietro», «verso il passato». Gesù morto si trova solidale con gli uomini vissuti prima di lui. Per cui la sua liberazione si estende anche ad essi. La storia della salvezza non ha ripercussioni solo nel presente e nel futuro, ma anche nel passato. Non ci sono barriere temporali e spaziali alla salvezza inagurata dalla morte redentrice del Cristo.
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1 A. Amato, Gesù è il Signore, cit., pp. 530-536.
2 M. Ebretta (a cura di), Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, Marietti, Casale Monferrato 1981, I/2,  p. 268.
3 Ibid.,  p. 269.
  

SANT’AGOSTINO – DISCORSO 231: UN SERMONE PASQUALE

dal sito:

http://www.santagostino.info/pdf/un_sermone_pasquale.pdf

SANT’AGOSTINO – DISCORSO 231

UN SERMONE PASQUALE

Predicato un lunedì di Pasqua a partire dal 412, il discorso 231 è uno dei tanti sermoni di Agostino sull’evento centrale per la fede cristiana: la risurrezione di Gesù. Anche il cristiano, come dice san Paolo nella lettera ai Colossesi, è risorto con Cristo, e per questo deve «cercare le cose di lassù». Il sermone agostiniano illustra questo tema dell’unione con il Cristo risorto come principio di vita nuova per il credente.

DISCORSO 231

1. È costume in questi giorni leggere la resurrezione del nostro Signore Gesù Cristo desumendone il racconto da tutti e quattro i Vangeli. Nella lettura di oggi abbiamo potuto osservare che il Signore Gesù rimproverò i suoi discepoli, che pure erano le membra più ragguardevoli del suo corpo in quanto gli erano stati proprio fianco a fianco. Li rimproverò perché ricusavano di credere che fosse vivo colui per la cui morte erano rattristati. Essi, padri della fede, non ancora fedeli; essi, maestri, ad opera dei quali tutto il mondo avrebbe creduto a quel che essi annunziavano e per cui sarebbero morti, ancora non credono. L’avevano visto risuscitare i morti, eppure non credevano che lui stesso fosse risorto. Giusto pertanto il rimprovero, che mirava ad aprire i loro occhi e mostrar loro cosa erano se abbandonati a se stessi e cosa sarebbero diventati per grazia di lui. Così anche Pietro poté scoprire chi fosse quando, poco tempo prima della passione del Signore presunse ma poi, durante la passione, vacillò. Rientrato in sé, si vide, si addolorò e si mise a piangere, finché non si ravvide e si rivolse a colui che l’aveva creato. Quanto ai discepoli, eccoli là!, non credevano ancora; come qui si legge, ancora non credevano mentre già vedevano. Quale misericordia non ha usato con noi colui che ci ha concesso di credere in ciò che ancora non vediamo! Noi crediamo alle loro parole, essi non credevano ai propri occhi!

2. La resurrezione del nostro Signore Gesù Cristo segna la nuova vita di quanti credono in Cristo; e questo mistero della sua morte e resurrezione voi lo dovete conoscere in profondità e riprodurlo nella vostra vita. Non fu infatti senza motivo che la Vita si sottopose alla morte; non fu senza motivo che la fonte della vita, da cui beve chiunque vuol vivere, si accostò a bere qui quel calice che per nulla le era dovuto. Cristo infatti era esente da morte. Indaghiamo pure da che cosa provenga la morte, quale ne sia l’origine: [troveremo che] padre della morte è il peccato. Se non si fosse peccato, nessuno sarebbe morto; e, quando il primo uomo ricevette da Dio quella legge, cioè quel primo precetto di Dio, lo ricevette con la condizione che se l’avesse osservato sarebbe vissuto, se l’avesse trasgredito sarebbe morto. Non credendo che sarebbe dovuto morire fece quello che gli causò la morte e toccò con mano quanto fosse vero quello che gli aveva minacciato l’Autore

della legge. Da lì venne la morte, la condizione di mortalità, la tribolazione, la miseria; da lì, ancora, dopo la morte prima, la morte seconda, cioè, dopo la morte temporale, la morte eterna. E soggetto a questa condizione mortale, a queste leggi dell’inferno, nasce ogni uomo, escluso – naturalmente – colui che si fece uomo per liberare l’uomo dalla perdizione. Costui non venne condizionato dalle leggi della morte, tanto che nel Salmo si dice di lui che fu libero in mezzo ai morti (Sal 87, 6). Egli era stato concepito da una vergine senza influsso di concupiscenza, era stato generato da una vergine rimasta vergine. Egli visse esente da colpa e la sua stessa morte non fu dovuta a colpa: partecipò alla pena inflitta a noi, ma non partecipò alla nostra colpa. È vero che la morte è pena di una colpa, ma il nostro Signore Gesù Cristo venne a morire non commettendo peccato: subendo, lui che era senza colpa, la stessa nostra pena ci liberò e dalla colpa e dalla pena. Da quale pena ci ha liberati? Quella che ci era dovuta dopo la vita presente. Quando dunque fu crocifisso, da quella croce diede a tutti di vedere che era finita con il nostro uomo vecchio, e quando risuscitò mostrò nella sua stessa vita la nuova vita che avremmo dovuto vivere. Così ci istruisce l’Apostolo quando insegna: Egli – dice – fu consegnato a causa dei nostri peccati e

risorse per la nostra giustificazione (Rm 4, 25). A significare tale trasformazione era stata data ai patriarchi la circoncisione, per cui ogni maschio veniva circonciso otto giorni dopo la nascita. La circoncisione si faceva con coltelli di pietra (cf. Gs 5, 2): la quale pietra era Cristo (1 Cor 10, 4). In questa circoncisione era raffigurato lo spogliamento della vita carnale che avviene mediante la resurrezione di Cristo nel giorno ottavo. Difatti il settimo giorno della settimana si conclude con il sabato, e di sabato il Signore restò a giacere nel sepolcro. Ciò nel settimo giorno, cioè nel sabato; ma nell’ottavo giorno risuscitò. Con la sua resurrezione ci dona la vita nuova. Dunque ci ha circoncisi nel giorno ottavo. In tale speranza noi viviamo.

3. Ascoltiamo l’Apostolo che ci dice: Se siete risorti con Cristo (Col 3, 1). Ma quando risorti se ancora non siamo morti? Cosa vuol dirci dunque l’Apostolo con le parole: Se siete risorti con Cristo? O che lui stesso sarebbe potuto risorgere se prima non fosse morto? Parlava a dei vivi, non a dei morti; eppure li vedeva risorgere. Che significa? Badate alle sue parole: Se siete risorti con Cristo, gustate le cose di lassù, dov’è Cristo, assiso alla destra di Dio; cercate le cose di lassù e non quelle della terra. Siete infatti morti (Col 3, 1-3). Lo dice l’Apostolo, non io; e dice la verità, per cui anch’io vi dico la stessa cosa. Perché anch’io vi dico la stessa cosa? Perché così ho creduto e così per conseguenza ho da parlare (Sal 115, 1). Se viviamo bene, è segno che siamo morti e risuscitati. Se uno, al contrario, non è né morto né risuscitato, vive ancora nel male e, se vive nel male, non vive. Muoia, se non vuol

morire! Che significa: Muoia se non vuol morire? Cambi condotta e così eviterà la condanna. Se siete risorti con Cristo – ripeto le parole dell’Apostolo – gustate le cose di lassù, dov’è Cristo, assiso alla destra di Dio; cercate le cose di lassù e non quelle della terra. Siete infatti morti e la vostra vita è nascosta insieme con Cristo in Dio. Quando apparirà Cristo, vostra vita, allora apparirete anche voi insieme con lui nella gloria (Col 3, 1-4). Ecco le parole dell’Apostolo; e io, da parte mia, a colui che ancora non fosse morto dico che ha da morire, a colui che ancora vive nel male dico che deve cambiare vita. Se infatti un tempo viveva nel male ma ora ha smesso di viverci, è morto [al male]; se vive bene, è risuscitato.

4. Ma che vuol dire vivere bene? Gustate le cose di lassù e non quelle della terra (Col 3, 2). Orbene, fino a quando sarai terra, sarai orientato alla terra (Gn 3, 19) e leccherai la terra. Finché amerai la terra leccherai la terra, e sarai nemico di colui del quale dice il Salmo: I suoi nemici leccheranno la terra (Sal 71, 9). Cosa eravate un tempo? Figli dell’uomo. Ora cosa siete? Figli di Dio. Ebbene, o figli dell’uomo, fino a quando avrete il cuore intorpidito? Perché amate la vanità e andate a caccia di ciò che è falso? (Sal 4, 3) E qual è la falsità? Ve lo dico subito. So che voi desiderate la felicità. Trovami un uomo, magari ladro, delinquente, fornicatore, un uomo dedito a malefici o sacrilegi, o immerso in ogni sorta di vizi, o gravato da una moltitudine di scelleratezze e delitti, il quale non desideri una vita felice. Sì, lo so bene: tutti volete vivere felici; ma di ciò che rende felice l’uomo non tutti andate in cerca. Desideri l’oro, pensando che con l’oro possa diventare felice, ma l’oro non ti renderà felice. Perché vai in cerca di ciò che è falso? E perché ambisci onori mondani? Forse pensi di diventar felice una volta raggiunta una onorificenza umana o una grandezza di questo mondo. Sappi però che nessuna grandezza mondana può renderti felice. Perché dunque andare in cerca di ciò che è falso? E così di qualsiasi altra cosa di cui ti appassioni. Se cerchi cose mondane, se cerchi amando e, per così dire, leccando la terra, è vero che cerchi in vista di una felicità; tuttavia nessuna cosa terrena potrà renderti felice. Perché dunque non smettere di cercare il falso? E, quanto alla felicità, come potrai conquistarla? O figli dell’uomo, fino a quando avrete il cuore intorpidito? O vorreste dire che non sia torpido il vostro cuore quando lo appesantite con cose terrene? E fino a quando gli uomini ebbero il cuore intorpidito? Finché non venne Cristo, finché non risuscitò, gli uomini ebbero intorpidito il cuore. Fino a quando sarete torpidi di cuore? Perché amate la vanità e andate in cerca di ciò che è falso? Volete essere felici, e cercate le cose che vi rendono miseri! Vi ingannano le cose che cercate; sono una falsità le cose che cercate. 5. Vuoi essere felice? Se lo vuoi, ti mostrerò la via per esserlo. Dice [il Salmo]: Fino a quando avrete il cuore intorpidito? Perché amate la vanità e andate in cerca di ciò che è falso? e poi continua: Sappiate. Cosa dobbiamo sapere? Che il Signore ha glorificato il suo Santo (Sal 4, 4). Incontro alle nostre miserie è venuto Cristo, il quale ha voluto aver fame e sete, stancarsi e dormire. Egli, pur avendo compiuto miracoli, si sottopose al dolore: fu flagellato, coronato di spine, sputacchiato, schiaffeggiato, sospeso ad una croce, trafitto da una lancia e deposto in un sepolcro. Da lì però risorse il terzo giorno, ponendo fine alla sofferenza, uccidendo la morte. Lì pertanto, cioè nella sua resurrezione, fissate lo sguardo, poiché Dio ha tanto glorificato il suo Santo da risuscitarlo da morte e da accordargli il privilegio di sedere alla sua destra nel cielo. Ti ha mostrato le cose a cui devi aspirare se desideri essere beato, essendo scontato che quaggiù non puoi esserlo. Nella vita presente infatti non potrai

certo raggiungere la felicità: nessuno ha questo potere. Tu cerchi, è vero, una cosa buona, ma questa terra non è il luogo dove alligni la cosa da te cercata. Cosa cerchi? La vita felice. Purtroppo non è di quaggiù. Fa’ conto che ti metta a cercare l’oro in un posto dove non c’è. Se arriva uno che sa non essere quello il posto dove si trova l’oro, non ti direbbe forse: Ma che stai scavando? perché smuovi la terra? Fai una buca dove potresti cadere, non dove si trovano le cose che cerchi. Cosa replicheresti a chi ti dà questi suggerimenti? Sto cercando l’oro. E l’altro: Non ti dico che sia cosa da nulla quello che cerchi; tu cerchi una cosa buona, ma non è dove la cerchi. Così quando tu dici: Voglio la felicità. Cerchi una cosa buona, ma non è cosa di questo mondo. Se in questo mondo fu felice Cristo, lo sarai anche tu. Venendo nella regione dove tu giaci morto, cosa vi trovò Cristo? Notalo bene! Egli proveniva da una regione diversa: ebbene, quando venne quaggiù, cosa vi trovò se non quelle cose che quaggiù abbondano? Tribolazioni, dolori, morte: ecco quello che si trova quaggiù, che quaggiù abbonda. Mangiò insieme con te i cibi che in abbondanza erano riposti nella dispensa della tua miseria. Bevve l’aceto, gli fu dato il fiele. Ecco cosa trovò nella tua dispensa. In cambio, egli ti invitò alla sua grande tavola imbandita, alla mensa celeste, alla mensa degli angeli dove pane è lui stesso. Scese dunque e nella tua dispensa trovò le cose ributtanti sopra accennate; eppure non ricusò di sedersi a una tal mensa qual era la tua, promettendo la sua. E cosa ci dice? Abbiate fede, abbiate fede! Voi verrete da me e gusterete i beni della mia mensa, com’è vero che io non ho ricusato d’assaporare i mali della mensa vostra. Ha preso su di sé il tuo male, e ti darà il suo bene? Ma certo che te lo darà! Ci ha promesso la sua vita, anzi ha fatto una cosa ancora più inaudita: come anticipo ci ha elargito la sua morte, quasi volesse dirci: Ecco, io vi invito a partecipare della mia vita. È una vita dove nessuno muore, una vita veramente beata, che offre un cibo incorruttibile, un cibo che ristora e mai vien meno. La meta a cui v’invito, ecco, è la regione degli angeli, è l’amicizia con il Padre e lo Spirito Santo, è la cena eterna, è la comunione con me. Di più: vi invito a [godere di] me stesso, a partecipare della mia vita. Stentate a credere che io vi darò la mia vita? Ebbene, ve ne sia pegno la mia morte, che già è in vostro possesso. Se quindi al presente ci tocca vivere nella carne soggetta a corruzione, moriamo con Cristo cambiando condotta, e viviamo con Cristo amando la santità. Ricordiamoci che non conseguiremo la vita beata se non quando saremo giunti là dove è colui che è disceso in mezzo a noi e quando cominceremo a vivere totalmente uniti a colui che è morto per noi.

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