Archive pour la catégorie 'FESTE DEL SIGNORE'

SANTO NOME Di GESU’ (3 gennaio mf) : Dal « Discorso sulla sobrietà e la virtù » di Esichio Sinaita.

http://www.certosini.info/lezion/Avvento/dal_2_al_6_gennaio.htm

SANTO NOME Di GESU’ (3 gennaio mf)

Dal « Discorso sulla sobrietà e la virtù » di Esichio Sinaita.

De temperantia et virtute,I,5;II,167;I,32;II,150; 1,42.62.96; 11,173.180.185.194; 1,29. PG 93,1481.1533.1491.1528.1493.1300 1509.1536.1537.1540.1541.1489.

L’attenzione (ossia la vigilanza) è l’esichia costante del cuore, libera da ogni pensiero; sempre e perennemente essa respira e invoca Cristo Gesù, Figlio di Dio e Dio: lui solo. Con lui si schiera coraggiosamente contro i nemici, affermando con fede che solo lui ha il potere di perdonare i peccati.
Mediante l’invocazione che sta abbracciata continuamente a Cristo, il solo che conosca i cuori nel segreto, l’anima cerca di nascondere con ogni mezzo agli uomini il proprio diletto e l’intimo travaglio: lo fa perché il maligno non trovi possibilità d’introdurre in lei di soppiatto la sua malizia e cancelli l’opera più bella fra tutte.
Farà naufragio facilmente un pilota stolto in tempo di procella se, dopo aver cacciato via i marinai e buttato remi e vele in mare, lui stesso dorme; ma più facilmente sarà travolta dai demoni un’anima che ha trascurato la vigilanza e l’invocazione del nome di Gesù Cristo, quando incominciano gli assalti.

2 Bisognerebbe fuggire l’eccessiva familiarità come veleno d’aspide ed evitare le molte conversazioni come serpenti e razza di vipere, poiché queste cose hanno la forza di stabilire l’anima nella completa dimenticanza del combattimento interiore. Purtroppo la fanno discendere dalla gioia eccelsa della purezza del cuore.
L’esecrabile dimenticanza si oppone all’attenzione come l’acqua al fuoco e di ora in ora le diviene nemica sempre più forte.
Infatti dalla dimenticanza perveniamo alla negligenza, dalla negligenza al disprezzo, all’indolenza e alla sconveniente concupiscenza. E così ci volgiamo di nuovo indietro come il cane al proprio vomito.
Fuggiamo dunque l’eccessiva confidenza come veleno di morte; mentre il cattivo possesso della dimenticanza e di ciò che ne consegue, si cura con la scrupolosa custodia dell’intelletto e la continua invocazione del Signore nostro Gesù Cristo. Senza di lui non possiamo far nulla (Cf Gv 15,5).

3 Quando avremo cominciato a governare l’attenzione dell’intelletto, cercheremo di armonizzare l’umiltà con la vigilanza e uniremo la preghiera alla confutazione del maligno. Allora cammineremo bene sulla via della conversione, mettendo ogni studio a spazzare, adornare e pulire la casa del nostro cuore dalla malignità con l’adorabile e santo nome di Gesù, come luce di lampada.
Ma se avremo fiducia solo nella nostra vigilanza o attenzione, ben presto spinti dai nemici ci volteremo indietro, cadremo ed essi, fraudolenti e astutissimi, ci atterreranno.
Verremo così ancora più impigliati dalle loro reti, cioè dai pensieri cattivi; o anche saremo sgozzati facilmente da loro, perché non abbiamo la forte spada del nome di Gesù Cristo.
Solo questa sacra spada, roteata molto saldamente, in un cuore solitario, sa radunarli e farli a pezzi, arderli e renderli oscuri, come fa il fuoco con la paglia.
Ma c’è di più: proprio in questa vittoria, il nome di Gesù diventa perfettamente sensibile e insegna al cuore sperimentato del lottatore che Dio in persona è il nostro aiuto: lui purifica il cuore da ogni immagine diabolica perché davanti a lui tutto cede e gli è sottomesso.

4 Gli inesperti sappiano anche questo: non possiamo in alcun modo vincere i nemici incorporei e invisibili, che vogliono il male e sono saggi nel danneggiare, veloci, leggeri ed esperti in guerra, dai tempi di Adamo fino ad oggi, poiché siamo esseri corporei, pesanti e piegati a terra col corpo e col pensiero; questo è possibile solo per mezzo della perpetua vigilanza dell’intelletto e dell’invocazione di Gesù Cristo, Dio e creatore nostro.
E per gli inesperti bastano la preghiera di Gesù e l’impulso a provare e conoscere il bene; per gli esperti, la pratica, la prova e il sollievo del bene sono il migliore costume e maestro.
In realtà, dall’esperienza noi apprendiamo il grande bene della continua invocazione del Signore Gesù contro i nemici spirituali qualora si voglia purificare il proprio cuore. E vedi come concorda l’esperienza con la testimonianza della Scrittura: Preparati all’incontro con il tuo Dio, o Israele (Am 4,12), dice Amos profeta. E anche l’Apostolo afferma: Pregate incessantemente (1 Ts 5, 17).

5 Dal ricordo e dalla invocazione continua del Signore nostro Gesù Cristo risulta uno stato divino nel nostro intelletto, se non trascuriamo la continua supplica interiore a lui e la stretta vigilanza con un impegno stabile.
Ma davvero, facciamo di avere sempre da compiere l’opera dell’invocazione di Gesù Cristo, nostro Signore, opera da ricominciare sempre senza posa. Gridiamo con cuore di fuoco così da ricevere in parte il santo nome di Gesù.
La continuità infatti è madre dell’abitudine, sia per la virtù sia per il vizio, e l’abitudine poi ha forza di natura.
E l’intelletto, giunto a tale stato, cerca i nemici, come un cane che va a caccia della lepre nella boscaglia. Ma il cane cerca la selvaggina per divorarla, e l’intelletto invece per annientare i nemici.

6 Con la preghiera continua il cielo della mente si conserva puro dalle nubi tenebrose, dai venti degli spiriti del male. E quando il cielo del cuore si conserva puro, non è possibile che non si accenda in esso la divina luce di Gesù.
Se invece siamo gonfi di vanagloria, di alterigia, di ostentazione, tentiamo di sollevarci verso ciò che è irraggiungibile e ci troviamo senza soccorso da parte di Gesù. Perché Cristo, esempio di umiltà, odia tali cose.
Dunque, se vuoi veramente coprire di vergogna le immaginazioni e vivere l’esichia, avendo un cuore vigilante con facilità, la preghiera di Gesù si unisca al tuo respiro; in pochi giorni vedrai questo verificarsi.

7 Con il cuore istruito nella sapienza, cerchiamo di vivere sempre, secondo il salmista, respirando di continuo Cristo Gesù, potenza e sapienza di Dio (1 Cor 1,24).
Se svigoriti da una qualche circostanza avversa, trascureremo l’attività spirituale, il mattino seguente di nuovo cingiamo bene i fianchi dell’intelletto, e ricominciamo ancora con forza l’opera, sapendo che non c’è possibilità di una difesa per noi che abbiamo conosciuto il bene se non lo facciamo.
Veramente beato colui che si è così congiunto nella mente alla preghiera di Gesù e lo invoca senza interruzione nel cuore, come l’aria è unita ai nostri corpi o come la fiamma alla cera. E il sole passando sopra la terra farà giorno, ma il santo e adorabile nome del Signore Gesù, risplendendo di continuo nella mente, genererà innumerevoli pensieri fulgidi come il sole.

8 Sii sempre occupato nel tuo cuore col pensiero umile e il ricordo della morte, il biasimo a te stesso, la confutazione del maligno e l’invocazione di Gesù Cristo. Se camminerai ogni giorno sobriamente con queste armi, per la via stretta ma lieta e gioiosa della mente, perverrai alla santa contemplazione degli eletti. Riceverai la luce dei profondi misteri da Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2,3), in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9).
Accanto a Gesù sentirai che lo Spirito santo ha invaso la tua anima; da lui riceve la luce l’intelletto dell’uomo, per vedere a volto scoperto. Nessuno può dire « Gesù è Signore » se non sotto l’azione dello Spirito Santo (1 Cor 12,3). Questo garantisce misticamente ciò che l’invocazione ricerca.

La trasfigurazione, un bagliore del Regno (Da «Le feste cristiane» di Olivier Clément)

dal sito:

http://www.laportadellepecore.it/trasfigurazione6agosto.html

Da «Le feste cristiane» di Olivier Clément

La trasfigurazione, un bagliore del Regno

Gli evangelisti sinottici – Matteo, Marco, Luca – raccontano l’evento della Trasfigurazione in maniera pressoché identica. Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni – gli ultimi due sono fratelli -, a più riprese suoi compagni privilegiati «perché erano più perfetti degli altri», dice Giovanni Crisostomo; Pietro perché amava Gesù più degli altri, Giovanni perché più degli altri era amato da Gesù, e Giacomo perché si era unito alla risposta del fratello: «Sì, possiamo bere il tuo calice» (cf Mt 20, 22).
Gesù li conduce in disparte su di un’«alta montagna», luogo per eccellenza delle manifestazioni divine; la tradizione dirà: il monte Tabor. Là egli appare raggiante di una splendida luce, che fluisce sia dal suo volto «splendente come il sole» che dalle sue vesti – opera d’uomo, della cultura umana – e si riversa sulla natura circostante, come mostrano le icone.
Mosè – la legge – ed Elia – i profeti – appaiono e conversano con Gesù. La prima alleanza addita l’alleanza ultima. Luca precisa che la conversazione verte sull’éxodos del Signore. Pietro in estasi suggerisce di piantare tre tende, nella speranza di poter rimanere a lungo in quello stato. Ma tutto è sommerso dalla «nube luminosa» dello Spirito, e in cui risuona nel cuore dei tre discepoli sconvolti, prostrati con la faccia a terra, la voce del Padre: «Questi è il Figlio mio, l’amato, ascoltatelo!». Poi tutto svanisce, e resta Gesù, solo, che ordina a quei testimoni di tacere ciò che hanno appena visto, «finché il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».
A partire dalla fine delle persecuzioni romane contro i cristiani, ovvero dal IV secolo, furono edificate diverse chiese sul Tabor. La loro dedicazione sembra essere all’origine della festa che, a partire dal VI secolo, si diffuse in tutto il Medio Oriente. Nel calendario occidentale essa fu introdotta stabilmente nel 1457, ad opera di papa Callisto III, in segno di ringraziamento per la vittoria da poco conseguita contro i turchi. Gli evangeli non consentono di fissare, nel ritmo annuale, una data per la Trasfigurazione. Con l’intuizione cosmica che lo caratterizza, l’Oriente fissò quella del 6 agosto, grande mezzogiorno dell’anno, apogeo della luce estiva. In quel giorno si benedicono i frutti della stagione; spesso, nei paesi del bacino mediterraneo, è l’uva a costituire il frutto benedetto per eccellenza. L’occidente, meno sensibile alla portata spirituale dell’evento, pur conservando una festa della Trasfigurazione il 6 agosto, ha preferito aggiungere una seconda celebrazione prima della Pasqua, la seconda Domenica di Quaresima, seguendo in tal modo più da vicino la cronologia della vita di Gesù.
In oriente, la festa pone l’accento sulla divinità di Cristo e sul carattere trinitario del suo splendore. «Conversando con Cristo, Mosè ed Elia rivelano che egli è il Signore dei vivi e dei morti, il Dio che aveva parlato un tempo nella legge e nei profeti; e la voce del Padre, che esce dalla nube luminosa, gli rende testimonianza», recita la liturgia bizantina.
Tuttavia la trasfigurazione non è un trionfo terreno, che sempre Gesù ha rifiutato nella sua vita – e qui sta l’errore di lettura di Callisto III -; essa non è neppure un’emozione spirituale da gustare – ecco l’errore di Petro -. È invece uno sprazzo, un bagliore di quel regno che è il Cristo stesso, una luce che è anche quella di Pasqua, della Pentecoste, della parusia, quando con il ritorno glorioso di Cristo, il mondo intero verrà trasfigurato. Mosè ed Elia, l’abbiamo detto, parlano con Gesù del suo éxodos, cioè della sua passione: solo quest’ultima farà risplendere la luce non in cima al Tabor, la montagna che rappresenta simbolicamente le teofanie e le estasi, ma al cuore stesso delle sofferenze degli uomini, del loro inferno, e infine della morte. La liturgia ci aiuta ancora a capire: «Ascoltate [dice il Padre] colui che attraverso la croce ha spogliato l’inferno e dona ai morti la vita senza fine».
Per la teologia ortodossa, la luce della trasfigurazione è l’energia divina (secondo il vocabolario precisato nel XIV secolo da Gregorio Palamas), vale a dire lo sfolgorare di Dio: Dio stesso che, mentre rimane inaccessibile nella sua «sovraessenza», si rende tuttavia partecipabile agli uomini per una follia di amore. Da cui si comprende l’importanza di questa festa per la tradizione mistica e iconografica.
Lo sfolgoramento, la folgorazione divina è tale da gettare a terra gli apostoli sulla montagna. Eppure sul Tabor essa rimane una luce esterna all’uomo. Ora essa ci è donata – scintilla impercettibile o fiume di fuoco – nel pane e nel vino eucaristici. Allora i nostri occhi si aprono e noi comprendiamo che il mondo intero è intriso di quella luce: tutte le religioni, tutte le intuizioni dell’arte e dell’amore lo sanno, ma è stato necessario che venisse il Cristo e che avvenisse in lui quell’immensa metamorfosi – così chiamano i greci la Trasfigurazione – perché si rivelasse infine che alla sorgente delle falde di fuoco, di pace e di bellezza presenti nella storia, vi è, vincitore della notte e della morte, un Volto. 

La Settimana Santa è seguire una Persona

dal sito:

http://www.segnideitempi.org/14786/chiesa/la-settimana-santa-e-seguire-una-persona/

La Settimana Santa è seguire una Persona

di Nicola Bux

Tratto da La Bussola Quotidiana il 15 aprile 2011

La liturgia della Settimana Santa, e nello stesso tempo la vita cristiana, vuol dire seguire Cristo nel suo culmine, l’offerta di sé al padre Onnipotente per salvare l’umanità dal peccato.
Seguire i riti della Settimana Santa vuol dire seguire le orme di Cristo. Non si possono seguire i riti e nello stesso tempo non vivere quello che Cristo stesso è, cioè seguire la sua persona.
La Settimana santa, che è chiamata così perché è il cuore di tutto l’anno, vuol dire che Gesù non è un’idea ma è una persona da seguire. E il fatto che noi scorriamo attraverso la liturgia i momenti drammatici, conclusivi della vicenda terrena di Gesù, vuol dire che per ottenere da Cristo la vita bisogna seguirne le orme ed essere così guariti, come dice san Pietro: “Egli ci ha dato l’esempio perché ne seguiamo le orme”. Non è soltanto un messaggio o uno sguardo esteriore ma significa guardare Cristo e unirsi a lui nella medesima offerta totale nel sacrificio di sé.
Questo comincia già con la Domenica di Passione, chiamata comunemente delle Palme, ma che è domenica di Passione perché è il primo termine del binomio, il secondo è la domenica pasquale. La domenica di Passione sta alla domenica di Pasqua come la morte di Cristo sta alla sua Glorificazione. Sin dall’antichità il racconto della Passione ha impressionato profondamente la comunità cristiana e viene considerato un unicum che non si può frazionare. Viene proposto già alla domenica perché la domenica della Passione è la domenica che introduce Cristo non solo in Gerusalemme, ma anche nel Sacrificio. Nella liturgia bizantina l’ingresso in Gerusalemme viene evocato al momento dell’offertorio, quando si portano i doni del pane e del vino per l’eucarestia; si fa una processione che nel simbolismo orientale sta ad indicare l’ingresso di Cristo in Gerusalemme, perché Cristo è entrato a Gerusalemme per dare compimento al suo sacrificio.
E’ anche il senso del trionfo delle palme, perché la palma vuol dire vittoria: la vittoria è quella del martirio, i martiri vengono rappresentati in genere con la palma. Cristo è il martire per eccellenza, entra nel santuario per dare testimonianza dell’offerta totale di sé, è l’immolazione sacrificale per i peccati del mondo.
Giustamente quindi la Chiesa ha trattenuto nella domenica – e non solo il venerdì – che precede la Resurrezione la meditazione sulla Passione di Cristo, che così è davanti allo sguardo di tutta la Chiesa. La Passione del Signore, dice la preghiera di colletta della scorsa domenica, deve portare a vivere e agire secondo la carità che spinse il figlio di Dio a dare la vita per noi. Quindi guardare a Cristo significa proprio questo: vivere e agire in quella carità che lo spinse a dare la vita per noi. Per fare questo c’è bisogno del suo aiuto, della sua grazia. Anche la colletta delle Palme ha un significato simile: si prega il Signore onnipotente che avendoci dato come modello Cristo nostro salvatore che si è fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce, noi possiamo sempre aver presente l’insegnamento della sua Passione per partecipare alla gloria della Resurrezione. Qui si dimostra la natura esemplare della Passione di Cristo, ma non solo. Non è solo un esempio da seguire ma anche una grazia da ricevere, perché attraverso la sua Passione, la sua efficacia, noi siamo fatti partecipi della gloria, della Resurrezione.
Ancora una volta, come dice il Papa nel libro “Gesù di Nazaret”, si rivela che l’onnipotenza di Dio, il suo essere vicino al mondo, il suo salvare il mondo, non passa attraverso i criteri mondani o la potenza o la forza del mondo, ma attraverso quella debolezza, quella discrezione, quella vicinanza che è propria di un essere che è libero e ci ha creati liberi, che vuole vincere convincendoci con il suo amore.
Questo è il senso della apertura della Domenica delle Palme e della Settimana Santa, che possiamo descrivere come una grande sinfonia, usando un linguaggio musicale. Si passa dalla gioia dell’ingresso in Gerusalemme alla tristezza della Passione per poi tornare, dopo la gioia della mistica cena, all’angoscia del Getsemani, poi ancora al dramma che sfiora quasi la tragedia del Venerdì Santo, la morte di Cristo che sarebbe una tragedia se Cristo non fosse resuscitato; e quindi poi alla speranza, l’attesa del sabato e alla gioia prorompente, ma tutta profonda e interiore, della Domenica di Resurrezione.
Il triduo pasquale richiama i tre giorni promessi da Cristo, in cui avrebbe sofferto, sarebbe stato crocifisso, sepolto, però al terzo giorno sarebbe resuscitato. Il triduo, il terzo giorno visto come il giorno creato dal Signore, terzo giorno che coincide con l’ottavo della Creazione: il primo giorno dopo il sabato, ovvero dopo i sette giorni della Creazione, l’ottavo è la nuova Creazione.
All’interno di questo grande affresco si colloca il triduo pasquale che ha un anticipo il Giovedì santo, perché il triduo pasquale strettamente inteso è venerdì, sabato e domenica. Però nella liturgia latina c’è un inizio il giovedì sera con la commemorazione della Cena del Signore, per cui i tre giorni vanno dal vespro del giovedì fino al vespro della domenica. E’ l’unico momento dell’anno in cui si celebra una messa per commemorare la Cena del Signore, perché – contrariamnete a quanto molti credono – la messa non commemora l’ultima cena. La messa è la ripresentazione del sacrificio di Cristo sulla croce e quindi la cena di Cristo, l’ultima cena, in realtà non è più celebrata perché i gesti che Gesù ha compiuto in quella cena sono stati trasfigurati nell’offerta del suo corpo e del suo sangue sulla Croce.
Una nota va dedicata alla lavanda dei piedi, che si ricorda nella messa del Giovedì santo. Solo Giovanni parla della lavanda dei piedi, con cui vuole sottolineare che quanto Cristo ha fatto e ha detto, cioè l’eucarestia ovvero l’offerta di sé, ha un simbolo nel gesto della purificazione compiuta. E’ un servizio che egli fa perché vuole indicare che l’eucarestia è un culto che implica un servizio, l’eucarestia deve essere obbedita, non può essere creata, inventata, manipolata. Bisogna obbedire. Siamo in un’epoca di grande anarchia liturgica, invece proprio la lavanda dei piedi è un atto sacro che è tranquillamente speculare a quello della consacrazione del pane e del vino. Gesù ha voluto dire: guardate che dovete lasciarvi lavare i piedi da me, dovete lasciarvi fare da me, non dovete mettere voi davanti a me. Lo ha detto chiaramente quando Pietro gli disse che giammai si sarebbe fatto lavare i piedi, e sappiamo come Gesù gli ha risposto. Aldilà di riduzionismi di natura caritatevole o sociologica, la lavanda dei piedi ha un profondo significato sacramentale, richiama che il sacramento dell’eucarestia è il sacramento dell’obbedienza dell’uomo a Dio perché Cristo ha obbedito al padre facendosi – come lui dice – battezzare con un battesimo di sangue. Battesimo che a nessuno è dato di poter ricevere se non lo vuole, se non lo decide lui, il Signore. E quindi ogni sacramento non è un bene disponibile, nemmeno da parte della Chiesa. La Chiesa non dispone dei sacramenti, li amministra. Tantomeno un prete o un laico può immaginare di manipolare i sacramenti. Egli deve servirli – servire la messa, si diceva una volta – deve servirli come Cristo ha servito i discepoli.
Poi il Venerdì santo è dedicato tutta alla Passione di Cristo, non c’è nemmeno la messa. Già la messa del Giovedì santo si celebra solo in Occidente, ma si è introdotta come un momento commemorativo, mentre la vera grande messa è quella della veglia pasquale, l’unica messa che ricorda tutto il mistero pasquale: dall’eucarestia alla morte sulla croce, alla sepoltura, alla Resurrezione. Il Venerdì santo non c’è messa ma è tutto dedicato alla commemorazione liturgica attraverso le preghiere, il centro è l’adorazione della Croce dopo aver meditato sulla Passione secondo San Giovanni.
Il Sabato santo è un giorno senza alcuna liturgia perché dedicato alla meditazione e all’attesa. Meditazione su Cristo sepolto e attesa della sua Resurrezione. E’ il giorno del silenzio dove Dio parola tace. Ma parla attraverso il figlio che è sceso fino nel profondo della terra per mostrare la sua condivisione con la condizione umana. Morto e sepolto. Ed è proprio colui che parola eterna si è incarnato, venuto nella nostra carne, sceso in terra, che è sceso anche sotto terra, “agli inferi” come dice il Credo apostolico. Cioè è sceso laddove secondo la tradizione ebraica c’erano le ombre dei morti, coloro che l’avevano preceduto ma non erano entrati in Paradiso perché il Paradiso era serrato dopo la cacciata di Adamo. Cristo, morendo, ha riaperto il Paradiso ed è sceso agli inferi: ha preso per mano i progenitori Adamo ed Eva, e poi tutti i patriarchi e tutti i giusti che, pur essendo stati giusti, non avevano potuto entrare nel Paradiso perché chiuso, Paradiso che invece la morte di Cristo ha riaperto.
Cristo scende fino agli inferi, un mistero poco conosciuto anche perché non ha una sua rappresentazione liturgica; ce l’ha iconografica ma non liturgica. Il Sabato santo è la discesa dell’anima di Cristo fino agli inferi, mentre il corpo rimane sepolto in attesa del ricongiungimento anima, corpo e spirito per risorgere. Questo viene celebrato nella notte di Pasqua quando tanta gente (celebrare vuol dire numerosi) accorre per ricordare, per vivere l’avvenimento che certamente è avvenuto nella storia, come ricorda Benedetto XVI, ma che ha superato la storia. La resurrezione di Cristo è un avvenimento storico ma nello stesso tempo ha superato la storia, ha inaugurato una nuova storia, la storia di Dio aperta al compimento futuro. E quindi viene celebrata la veglia attraverso alcuni elementi fondamentali anche per la stessa natura: il fuoco, la luce, l’acqua, il vino, il pane, l’olio: tutti i sacramenti entrano in gioco la notte di Pasqua per indicare che Cristo ha fatto nuove tutte le cose. Attraverso il rinnovamento delle cose, anche quelle materiali, fa passare la potenza della sua resurrezione.
Dall’efficacia della Croce alla potenza della Resurrezione nella notte della domenica. Efficacia e potenza, sono due termini piuttosto dimenticati oggi perché nella pastorale e nella catechesi ormai Cristo è ridotto a un’idea, a un progetto, addirittura a un sogno, come si può leggere in tanti titoli, anche ecclesiastici. Ma Cristo non è un progetto e neanche un sogno, Cristo è una persona, un fatto presente con il quale noi siamo chiamati a vivere. Non solo a condividere un’idea o seguire un esempio, ma vivere per ricevere una vita, che noi chiamiamo con una parola tradizionale: Grazia, cioè una vita donata gratis. A motivo dell’offerta sacrificale Cristo ha reso efficace ogni offerta, ogni pur minima azione umana, e quindi da questa efficacia si passa alla potenza della Resurrezione perché se Cristo non fosse risorto la nostra fede non esisterebbe, come ricorda l’apostolo Paolo.
Quindi il prorompere del fuoco all’inizio della veglia indica proprio questa potenza divina che dalla Creazione passa attraverso la liberazione di Israele dall’Egitto, giunge fino alla Resurrezione e alla Pentecoste, il fuoco dello Spirito Santo. E poi naturalmente tutto è meditato con quella trilogia di lettura-salmo-preghiera che caratterizza la liturgia della Parola, la lunga liturgia della Parola della notte pasquale. Si passa quindi all’acqua – terza parte della veglia – che distrugge il peccato e regala una vita che salva, che rigenera. E dalla rigenerazione del Battesimo si passa al quarto momento della veglia che è l’Eucarestia, il Signore risorto che con le sue cicatrici si mostra spezzando il pane e consacrando il vino. E quindi tutti sono riconciliati e tutti sono veramente gioiosi, quella gioia che l’exultet, questo celebre inno che apre la veglia pasquale, fa risalire al cielo, agli angeli e a tutte le schiere degli angeli per la Resurrezione che viene partecipata anche ai mortali. In un certo senso in questa unione di angeli e uomini si riprende anche il tema della notte di Natale, il Gloria in excelsis deo.
Ecco così che si arriva alla domenica di Pasqua che vede le donne di primo mattino andare al sepolcro, trovarlo vuoto, non poter compiere, pur premurose, quell’atto di compassione che non avevano potuto fare per l’imminenza della festa il venerdì al tramonto. Ma quella premura questa volta è stata preceduta da un’altra premura sorprendente, quella del Padre onnipotente che ha visto il sacrificio del Figlio e gli ha restituita una vita più bella e più grande, come dice Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor Hominis: la Resurrezione non è il ritorno alla vita precedente, ma è una vita più grande, una vita che nasce dall’amore. Così la ragione eterna, il logos eterno coincide con l’amore indistruttibile, perché Dio è il logos, è il vero, è parola, è ragione, perché Dio è essenzialmente amore.
E così si chiude con il vespro di Pasqua il triduo, che poi ovviamente riecheggia per ben otto giorni nell’ottava di Pasqua e poi per 50 giorni fino alla Pentecoste, come se fosse – dice Sant’Agostino – una sola grande domenica
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Venerdì Santo: Buona notizia per i peccatori (Enzo Bianchi)

dal sito:

http://paroledivita.myblog.it/archive/2009/03/31/venerdi-santo-buona-notizia-per-i-peccatori.html

31/03/2009

Venerdì Santo: Buona notizia per i peccatori

ENZO BIANCHI

Giorno severo è il Venerdì santo per i cristiani, ricorrenza percepita come l’”antifesta”, giorno ancora capace di isolare tragicamente la passione e la morte di Gesù rispetto alla sua risurrezione. Quando i cristiani vanno al loro Signore, sempre sono ricondotti all’unico evento della passione-morte-risurrezione, ma oggi è la passione culminata nella morte che è meditata, pensata, celebrata: è la croce che domina con la sua ombra la liturgia e che con il suo imporsi rimanda alla risurrezione solo come speranza, come attesa. Singolarità della fede cristiana l’avere come annuncio centrale il Signore crocifisso e individuare nella crocifissione di Gesù di Nazaret il racconto più epifanico di Dio. Cosa ricordano oggi i cristiani?
Ricordano che il venerdì 7 aprile dell’anno 30 della nostra era a Gerusalemme, città santa e cuore della fede ebraica, Gesù di Nazaret – un rabbi e profeta della Galilea che aveva destato attorno a sé un movimento e che trascinava dietro di sé una piccola comunità itinerante composta di una dozzina di uomini e alcune donne – viene arrestato, condannato e messo a morte mediante il supplizio della crocifissione. Storicamente si può dire che Gesù è stato arrestato su iniziativa di alcuni capi dei sacerdoti, la ierocrazia di Gerusalemme, a motivo di gesti compiuti e parole pronunciate: alcuni tratti messianici del suo agire, l’appassionata cacciata dei venditori dal tempio, la polemica profetica contro gli uomini religiosi, in particolare i sadducei.
Catturato di notte nella valle del Cedron da un pugno di guardie del tempio, fu trascinato presso il Gran Sacerdote alla presenza del quale avvenne un confronto che permise di formulare accuse precise da presentare al governatore romano, l’unico cui spettava il potere di emettere una condanna capitale e di disporne l’esecuzione. Va detto chiaramente che non ci fu un autentico processo formale e che la parte del sinedrio, riunitasi nella notte, quasi certamente non era in grado di deliberare in situazione legale. Gesù viene comunque consegnato a Pilato, il quale, con alcune sedute e procedimenti che paiono un vero e proprio processo, decide di condannarlo con altri malfattori, dopo averlo fatto flagellare. Misura di sicurezza, tentativo di compiacere il gruppo sacerdotale che glielo aveva consegnato, odio verso chiunque tra i giudei apparisse portatore di un messaggio non omogeneo all’ideologia imperiale? Probabilmente tutte queste ragioni insieme portarono Pilato a decidere per la condanna di quel galileo. Certo Gesù muore in croce, subendo quello che per i romani era un “supplizio crudelissimo e orribile” (Cicerone) e per gli ebrei era, come l’impiccagione, segno di scomunica per l’empio, maledizione del bestemmiatore, come recita la Torah: “Maledetto chiunque è appeso al legno” (Deuteronomio 21,23; cf. Gal 3,13).
Gesù muore nell’infamia della sua nudità, appeso a mezz’aria perché né il cielo né la terra lo vogliono, muore nella vergogna di chi è condannato dal magistero ufficiale della sua religione e dall’autorità civile perché nocivo al bene comune della polis! Gesù, a differenza del Battista, non muore come martire, bensì come scomunicato e maledetto, come ama dire Paolo che si vanta di predicare Gesù crocifisso, scandalo per gli uomini religiosi e follia per i saggi del mondo greco.
La croce, sì la croce è il segno di questa morte nell’infamia di Gesù – “annoverato tra i malfattori”, si compiacciono di annotare gli evangelisti – è il racconto della sua solidarietà con i peccatori, del suo abbassamento fino alla condizione dello schiavo umiliato, “fino alla morte e alla morte di croce”, come testifica Paolo. La croce non deve tuttavia prevalere sul Crocifisso! Non è la croce, infatti, a far grande chi vi è appeso, ma è proprio Gesù che riscatta e dà senso alla croce, in modo che tutti gli uomini che conoscono questa situazione di sofferenza e di vergogna, di maledizione e di annientamento possano trovare Gesù accanto a loro. Quello di ogni croce è un enigma, che Gesù rende mistero: in un mondo ingiusto, il giusto può soltanto essere rifiutato, osteggiato, condannato. E’ una necessitas humana, e Gesù – proprio perché ha voluto “restare giusto”, solidale con le vittime, gli agnelli – ha dovuto conoscere quest’urto dell’ingiustizia del mondo contro di lui. Ma chi sa leggere così la passione e la morte di Gesù è obbligato a comprenderla come una vicenda di gloria per Gesù: gloria di chi ha speso la sua vita per gli uomini, gloria di chi ha amato fino alla fine, gloria di chi muore condannato per aver cercato di narrare che Dio è misericordia, amore. Se c’è un luogo in cui Gesù ha reso Dio “buona notizia”, se lo ha “evangelizzato”, è proprio la croce: buona notizia per tutti i peccatori!
Oggi, Venerdì santo, i cristiani raccolgono nell’immagine del crocifisso, agnello innocente, tutte le vittime della storia, gli agnelli uccisi dai lupi: i cristiani in questo giorno sono chiamati a imparare a sostenere lo scandalo della croce senza rovesciare le colpe sull’altro, sicuri che dalla croce di ogni giusto si evidenzia una ragione per cui vale la pena dare la vita. Perché solo chi ha una ragione per cui vale la pena dare la vita, ha anche una ragione per cui vale la pena vivere.

ENZO BIANCHI
Dare senso al tempo

Giovedì Santo: Una vita data liberamente e per amore (Enzo Bianchi)

dal sito:

http://paroledivita.myblog.it/archive/2009/03/31/giovedi-santo-una-vita-data-liberamente-e-per-amore.html

31/03/2009

Giovedì Santo: Una vita data liberamente e per amore

ENZO BIANCHI

http://www.monasterodibose.it/index.php/content/view/1097

Con il tramonto del giovedì santo ha inizio il triduo pasquale, quei giorni “santi”, distinti dagli altri, in cui noi cristiani meditiamo, celebriamo, riviviamo il mistero centrale della nostra fede: Gesù entra nella sua passione, conosce la morte e la sepoltura e il terzo giorno è risuscitato dal Padre nella forza di vita che è lo Spirito santo. Ma questo evento della passione di Gesù era dovuto al caso o a un destino che incombeva su Gesù? Perché Gesù ha conosciuto una condanna, la tortura e la morte violenta? Sono domande cui si deve dare una risposta se si vuole cogliere e conoscere in profondità il senso della passione. Ma sono gli stessi Vangeli che vogliono fornirci questa risposta testimoniando gli eventi di quei giorni pasquali dell’anno 30 della nostra era. Infatti Gesù, proprio per manifestare ai discepoli che entrava nella passione assumendola come un atto, non costretto dal fato e neppure per la casualità di eventi a lui sfavorevoli, anticipa con un mimo, con un gesto simbolico quello che gli sta per succedere e ne svela così il significato. Nella libertà, dunque, Gesù accetta quella fine che va profilandosi: avrebbe potuto fuggire, avrebbe potuto evitare di affrontare quella prova e, certo, ha chiesto al Padre se non fosse possibile questo, ma se Gesù voleva dimorare nella giustizia, se voleva collocarsi dalla parte dei giusti che in un mondo ingiusto sono sempre osteggiati e perseguitati, se voleva restare nella solidarietà con le vittime, gli agnelli della storia, allora doveva accettare quella condanna e quella morte. Sì, liberamente l’ha accettata perché fosse fatta la volontà del Padre: non che il Padre volesse la sua morte, ma la volontà del Padre chiedeva che Gesù restasse nella giustizia, nella carità, nella solidarietà con le vittime.
Ma questa libertà di Gesù era nutrita e accompagnata anche dall’amore: amore per il Padre, certo, ma anche per la verità e la giustizia, amore per noi uomini. Sì, proprio perché fosse manifesto che Gesù deponeva la sua vita liberamente e per amore – non costretto dal destino né da circostanze fortuite – Gesù anticipa con il segno quello che sta per accadergli. A tavola con i suoi discepoli, Gesù compie sul pane e sul vino delle azioni accompagnate dalle sue parole: il suo corpo è spezzato e dato per gli uomini, il suo sangue è versato e dato per tutti. E il segno della sua morte imminente, il sacramento del rendimento di grazie è l’eucaristia che i cristiani dovranno celebrare in memoria di Gesù per essere essi pure coinvolti in quel gesto che è dare la vita per i fratelli, per gli altri: alla fine di quell’azione Gesù esclama “Fate questo in memoria di me!”. Fino al suo ritorno, per tutto il tempo in cui i cristiani vivono nel mondo tra la morte-risurrezione di Gesù e la sua venuta nella gloria, è nella celebrazione di quel gesto del loro Maestro e Signore che i cristiani saranno plasmati come discepoli, parteciperanno alla vita stessa di Cristo, conosceranno che lui, il Signore, è con loro fino alla fine della storia.
Il giovedì santo non può dunque non celebrare questo evento anticipatore della passione di Gesù, narrazione del suo esodo da questo mondo al Padre. Ma la chiesa, significativamente, nella liturgia del giovedì santo sera, oltre a ricordare e vivere questo gesto del suo Signore come in ogni eucaristia, vive e ripete anche un altro gesto di Gesù, quello della lavanda dei piedi. Anche il quarto Vangelo, infatti, ricorda “l’ultima cena di Gesù con i suoi”, quella cena in cui fu svelato il traditore e annunciato il rinnegamento di Pietro e la fuga di tutti gli altri discepoli, quella cena vissuta in occasione dell’ultima pasqua di Gesù a Gerusalemme prima della sua morte. Però, anziché narrare il segno del pane e del vino, Giovanni narra il segno della lavanda! Perché un’azione “altra”, un segno “altro”? Eppure anche il quarto evangelista conosce il racconto dell’eucaristia, la chiesa ormai da decenni celebra questo sacramento. Perché allora la memoria di quest’altro segno? Possiamo ritenere molto probabile che questa scelta del quarto Vangelo sia motivata da un’urgenza avvertita nella chiesa alla fine del I secolo: la celebrazione eucaristica non può essere un rito disgiunto da una prassi coerente di agape, di amore e servizio ai fratelli, poiché proprio questo è il suo significato: dare la vita per i fratelli!
L’evangelista vuole così riattualizzare il messaggio dell’eucaristia ricordando che o essa è servizio reciproco, dono della vita per l’altro, amore fino all’estremo, oppure è solo un rito che appartiene alla “scena” di questo mondo. Potremmo dire che l’intenzione di Giovanni è che il sacramento dell’altare sia letto e vissuto sempre come sacramento del fratello: celebrazione eucaristica con il pane spezzato e il vino offerto e servizio concreto, quotidiano al fratello si richiamano reciprocamente come due facce della partecipazione al mistero pasquale di Cristo. Ecco allora il gesto di Gesù narrato lentamente, quasi al rallentatore, affinché resti ben impresso nella mente del discepolo di ogni tempo: Gesù depone la veste, prende un asciugamano, se lo cinge ai fianchi, verso l’acqua nel catino, lava i piedi, li asciuga, riprende la veste… Sono verbi di azione che rendono plasticamente l’evento della lavanda. E’ un gesto che Gesù compie in piena consapevolezza: Gesù, il Kyrios, il Signore, lava i piedi ai discepoli. Gesto anomalo, gesto paradossale che capovolge i ruoli, gesto scandaloso, come testimonia la reazione di Pietro! Eppure, proprio così Gesù racconta, “evangelizza” Dio, nel senso che rende Dio “buona notizia” per noi.
Due azioni diverse, due mimi sacramentali, due segni che narrano la stessa realtà: Gesù offre la sua vita e, liberamente e per amore, va verso la propria morte facendosi schiavo. Per questo, come al gesto eucaristico, così anche al gesto della lavanda fa seguito il comando: “Come io ho lavato i piedi a voi, così fate anche voi”. E la chiesa, se vuole essere chiesa del Signore, così deve fare in obbedienza al suo mandato: spezzare il pane, offrire il vino, lavare i piedi nell’assemblea dei credenti e nella storia degli uomini.

ENZO BIANCHI
Dare senso al tempo

PASQUA: « O morte dov’è la tua vittoria? » (Enzo Bianchi)

31/03/2009

PASQUA: « O morte dov’è la tua vittoria? »

(ENZO BIANCHI
Dare senso al tempo)

«Il solo e vero peccato è rimanere insensibili alla resurrezione» diceva Isacco il Siro, un padre della chiesa antica. Proprio per questo nel giorno di Pasqua è possibile misurare la fede del cristiano e discernere la sua capacità di sperare per tutti e comunicare a tutti gli uomini questa speranza. Nel giorno di Pasqua ogni cristiano proclama la vittoria della vita sulla morte, perché Gesù il Messia è risuscitato da morte per essere il vivente per sempre: colui che essendo uomo come noi, carne come noi siamo carne, colui che è nato e vissuto in mezzo a noi, colui che è morto di morte violenta, che è stato crocifisso e sepolto, è risorto!

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O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, tu non sei più l’ultima parola per gli uomini, ma sei diventata un passaggio, l’ora dell’esodo dalla vita terrena alla vita eterna, da questo mondo al regno di Dio …
Questo dovrebbe essere il canto del cristiano in questo giorno della Pasqua, festa delle feste, perché Cristo è risorto quale primizia di tutti noi, perché la vita regna definitivamente e in ogni creatura è iniziato un processo segreto ma reale di redenzione, di trasfigurazione.

La morte è una dominante su tutti gli uomini, una vera potenza efficace: non solo perché desta paura e angoscia contraddicendo la vita degli uomini, ma anche perché a causa di essa gli uomini diventano cattivi e peccano. Il peccato è sempre egoismo, è sempre contraddizione alla comunione con gli uomini e con Dio, ed è proprio la presenza della morte che scatena questo bisogno di salvarsi, di vivere addirittura senza gli altri o contro gli altri. La morte non è solo «salario del peccato» (Rm 6,23), ma anche istigazione al peccato … Se gli uomini sono spinti a peccare è a causa dell’angoscia della morte, di quella paura che rende gli uomini schiavi per tutta la loro vita (cf. Eb 2,14-15). A causa dell’angoscia e della paura la brama di vita degli uomini diventa odio, misconoscimento dell’altro, concorrenza, rivalità, sopraffazione. L’angoscia può sfigurare tutto, anche l’amore. Così la morte appare essere attiva e presente non solo nel momento dello spegnimento della vita fisica del corpo umano, ma anche prima: essa è una potenza che compie incursioni nella sfera dell’esistenza e attenta alla pienezza delle relazioni e della vita.
Questa è la morte contro la quale Gesù ha lottato fino a riportare la vittoria. L’agonía iniziata da Gesù nell’orto degli Ulivi (Lc 22,44) è una lotta (agón) che si è conclusa con la discesa agli inferi, quando ha sconfitto il diavolo – e dunque la morte e il peccato – in modo definitivo. E Gesù non ha vinto solo la sua morte, ma la Morte: «Con la morte ha vinto la morte», canta oggi la liturgia! Ora, questa dimensione di lotta è essenziale per il cristiano: tutta la vita è lotta, è una guerra contro la morte che ci abita e contro gli istinti e le pulsioni di morte che ci attraggono.
La resurrezione di Gesù è dunque il sigillo posto dal Padre sulla lotta del Figlio, sul suo agón: questi, mostrando di avere una ragione per morire (dare la vita per gli altri), ha mostrato che c’è una ragione per vivere (amare, dimorare nella comunione). Allora il Padre lo ha richiamato dai morti facendolo Signore per sempre.
Gli uomini tutti, anche se non conoscono Dio e neppure il suo disegno, portano nel loro cuore il senso dell’eternità e tutti si domandano: «Che cosa possiamo sperare?» Essi sanno che, se restano insensibili alla resurrezione, si vietano di conoscere «il senso del senso» della loro vita. Gli uomini attendono, cercano a fatica, e a volte per cammini sbagliati, la buona notizia della vita più forte della morte, dell’amore più forte dell’odio e della violenza. Cristo, risorto e vivente per sempre, è la risposta vera che attende dai cristiani quella narrazione autentica che solo chi ha fatto l’esperienza del Vivente può dare. Dove sono questi cristiani? Sì, oggi ci sono ancora cristiani capaci di questo: ci sono nuovamente martiri cristiani, ci sono nuovamente profeti cristiani, ci sono testimoni che non arrossiscono mai del Vangelo. Ancora una volta giunge dalla tomba vuota, oggi come quel mattino della resurrezione, l’annuncio: «Non temete, non abbiate paura, non siate nell’angoscia! Il Crocifisso è risorto e vi precede!» Sì, è ormai vicina per la chiesa una primavera, una stagione in cui lo Spirito del Risorto si farà presente più che mai, una stagione in cui la Parola di Dio sarà meno rara.
E sarà una stagione senza fughe, né evasioni, né spiritualismi, ma segnata dal vivere la risurrezione nell’esistenza, nella storia, nell’oggi, in modo che la fede pasquale diventi efficace già ora e qui. Cosa significa questo secondo i Vangeli? Che i credenti devono mostrare nella compagnia degli uomini la risurrezione, devono narrare agli uomini che la vita è più forte della morte, e devono farlo nel costruire comunità in cui si passa dall’io al noi, nel perdonare senza chiedere reciprocità, nella gioia profonda che permane anche nelle situazioni di pressura, nella compassione per ogni creatura, soprattutto per gli ultimi, i sofferenti, nella giustizia che porta a operare la liberazione dalle situazioni di morte in cui giacciono tanti uomini, nell’accettare di spendere la propria vita per gli altri, nel rinunciare ad affermare se stessi senza gli altri o contro di essi, nel dare la vita liberamente e per amore, fino a pregare per gli stessi assassini.
Perché il cuore della fede cristiana sta proprio in questo: credere l’incredibile, amare chi non è amabile, sperare contro ogni speranza. Sì, fede, speranza e carità sono possibili solo se si crede alla risurrezione. Allora, davvero l’ultima nostra parola non sarà la morte né l’inferno, ma la vittoria sulla morte e sull’inferno. La Pasqua apre per tutti l’orizzonte della vita eterna: che questa Pasqua sia Pasqua di speranza per tutti. Veramente per tutti!

Publié dans:FESTE - PASQUA, FESTE DEL SIGNORE |on 13 avril, 2011 |Pas de commentaires »

DOMENICA DI PASQUA 2009 – OMELIA DI PAPA BENEDETTO

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2009/documents/hf_ben-xvi_hom_20090412_pasqua_it.html 

DOMENICA DI PASQUA NELLA RISURREZIONE DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Sagrato della Basilica Vaticana

12 aprile 2009

Cari fratelli e sorelle,

“Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!” (1 Cor 5,7). Risuona in questo giorno l’esclamazione di san Paolo, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura, tratta dalla prima Lettera ai Corinzi. È un testo che risale ad appena una ventina d’anni dopo la morte e risurrezione di Gesù, eppure – come è tipico di certe espressioni paoline – contiene già, in una sintesi impressionante, la piena consapevolezza della novità cristiana. Il simbolo centrale della storia della salvezza – l’agnello pasquale – viene qui identificato in Gesù, chiamato appunto “nostra Pasqua”. La Pasqua ebraica, memoriale della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, prevedeva ogni anno il rito dell’immolazione dell’agnello, un agnello per famiglia, secondo la prescrizione mosaica. Nella sua passione e morte, Gesù si rivela come l’Agnello di Dio “immolato” sulla croce per togliere i peccati del mondo. È stato ucciso proprio nell’ora in cui era consuetudine immolare gli agnelli nel Tempio di Gerusalemme. Il senso di questo suo sacrificio lo aveva anticipato Egli stesso durante l’Ultima Cena, sostituendosi – sotto i segni del pane e del vino – ai cibi rituali del pasto nella Pasqua ebraica. Così possiamo dire veramente che Gesù ha portato a compimento la tradizione dell’antica Pasqua e l’ha trasformata nella sua Pasqua.
A partire da questo nuovo significato della festa pasquale si capisce anche l’interpretazione degli “azzimi” data da san Paolo. L’Apostolo si riferisce a un’antica usanza ebraica: quella secondo la quale, in occasione della Pasqua, bisognava eliminare dalla casa ogni più piccolo avanzo di pane lievitato. Ciò costituiva, da una parte, un ricordo di quanto accaduto agli antenati al momento della fuga dall’Egitto: uscendo in fretta dal paese, avevano portato con sé soltanto focacce non lievitate. Al tempo stesso, però, “gli azzimi” erano simbolo di purificazione: eliminare ciò che è vecchio per fare spazio al nuovo. Ora, spiega san Paolo, anche questa antica tradizione acquista un senso nuovo, a partire dal nuovo “esodo” appunto, che è il passaggio di Gesù dalla morte alla vita eterna. E poiché Cristo, come vero Agnello, ha sacrificato se stesso per noi, anche noi, suoi discepoli – grazie a Lui e per mezzo di Lui – possiamo e dobbiamo essere “pasta nuova”, “azzimi”, liberati da ogni residuo del vecchio fermento del peccato: niente più malizia e perversità nel nostro cuore.
“Celebriamo dunque la festa… con azzimi di sincerità e di verità”. Quest’esortazione di san Paolo, che chiude la breve lettura che poco fa è stata proclamata, risuona ancor più forte nel contesto dell’Anno Paolino. Cari fratelli e sorelle, accogliamo l’invito dell’Apostolo; apriamo l’animo a Cristo morto e risuscitato perchè ci rinnovi, perché elimini dal nostro cuore il veleno del peccato e della morte e vi infonda la linfa vitale dello Spirito Santo: la vita divina ed eterna. Nella sequenza pasquale, quasi rispondendo alle parole dell’Apostolo, abbiamo cantato: “Scimus Christum surrexisse a mortuis vere ” – sappiamo che Cristo è veramente risorto dai morti”. Sì! È proprio questo il nucleo fondamentale della nostra professione di fede; è questo il grido di vittoria che tutti oggi ci unisce. E se Gesù è risorto, e dunque è vivo, chi mai potrà separarci da Lui? Chi mai potrà privarci del suo amore che ha vinto l’odio e ha sconfitto la morte?
L’annuncio della Pasqua si espanda nel mondo con il gioioso canto dell’Alleluia. Cantiamolo con le labbra, cantiamolo soprattutto con il cuore e con la vita, con uno stile di vita “azzimo”, cioè semplice, umile, e fecondo di azioni buone. “Surrexit Christus spes mea: / precedet vos in Galileam – Cristo mia speranza è risorto e vi precede in Galilea”. Il Risorto ci precede e ci accompagna per le strade del mondo. È Lui la nostra speranza, è Lui la pace vera del mondo. Amen!

Publié dans:FESTE - PASQUA, FESTE DEL SIGNORE |on 13 avril, 2011 |Pas de commentaires »
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