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Annunciazione del Signore 25 marzo

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Annunciazione del Signore 25 marzo

Per la festa dell’Annunciazione invito a leggere due brani del Trattato della Vera Devozione alla Santa Vergine Maria di San Luigi Maria Grignion de Montfort (1673-1716). Primo brano: i veri devoti della Santa Vergine “avranno una singolare devozione per il grande mistero dell’Incarnazione del Verbo, il 25 marzo, che è il mistero proprio di questa devozione, perché questa devozione è stata ispirata dallo Spirito Santo: 1) per onorare e imitare la dipendenza ineffabile che Dio Figlio ha voluto avere da Maria, per la gloria di Dio Padre e per la nostra salvezza, dipendenza che appare particolarmente in questo mistero in cui Gesù Cristo è prigioniero e schiavo nel seno della divina Maria e in cui dipende da lei in tutte le cose; 2) per ringraziare Dio delle grazie incomparabili che ha fatto a Maria e particolarmente di averla scelta come sua degnissima Madre, scelta che è stata fatta in questo mistero” (cap. VIII).
Secondo brano: “Poiché il tempo non mi permette di fermarmi a spiegare le eccellenze e le grandezze del mistero di Gesù vivente e regnante in Maria, o dell’Incarnazione del Verbo, mi limiterò a dire in poche parole che abbiamo qui il primo mistero di Gesù Cristo, il più nascosto, il più elevato e il meno conosciuto; che è in questo mistero che Gesù, d’accordo con Maria, nel suo seno, che è per questo chiamato dai santi «la sala dei segreti di Dio», ha scelto tutti gli eletti; che è in questo mistero che ha operato tutti i misteri della sua vita che sono seguiti, per l’accettazione che ne ha fatto: «Entrando nel mondo Cristo dice: Ecco, io vengo per fare la tua volontà» (Eb 10,5.7); e, di conseguenza, che questo mistero è un compendio di tutti i misteri, che contiene la volontà e la grazia di tutti; infine, che questo mistero è il trono della misericordia, della liberalità e della gloria di Dio” (cap. VIII).
I due testi sono collegati tra loro. In primo luogo San Luigi Maria afferma che il mistero dell’Incarnazione è il primo mistero cui i veri devoti della Santa Vergine devono rivolgere la loro attenzione. In secondo luogo, sostiene che il mistero della vita segreta di Gesù in Maria è il mistero che contiene tutti gli altri misteri, il punto di partenza per tutte le meraviglie della sua vita.
Analizziamo il primo testo e quindi il secondo.
Il Trattato della Vera Devozione alla Santa Vergine secondo me è un testo profetico per quanto afferma sui misteri e sulla devozione a Nostra Signora. Annuncia verità profonde che saranno approfondite solo in un’epoca futura di fioritura della Chiesa e quindi della teologia, che lo stesso santo chiama “Regno di Maria”. Oggi il significato delle sue parole non può ancora essere pienamente compreso. Per esempio, chi oserà dire di aver capito l’affermazione secondo cui Gesù Cristo, Dio stesso, fu per un tempo “schiavo di Maria” quando viveva nel suo seno? Dopo l’Annunciazione e il sì di Maria, Nostro Signore si fece carne nel suo seno. Da allora ebbe perfetta conoscenza di sua Madre. Viveva in lei come in un monastero di clausura, in contatto esclusivo e in completa dipendenza umana dalla Madonna: la più perfetta dipendenza che si possa dare sulla Terra.
Il Verbo Incarnato, completamente consapevole fin dal primo momento della sua incarnazione, scelse di vivere all’interno di una creatura. Per sua scelta visse all’interno di questo tempio e di questo palazzo, in misteriosa relazione con Nostra Signora.
Dio manifesta la sua onnipotenza nell’Incarnazione. La manifesta anche mantenendo vergine la Madonna prima, durante e dopo il parto. L’Incarnazione è un evento così straordinario che Dio avrebbe potuto disporre perché Nostro Signore nascesse pochi giorni dopo il concepimento. Ma non lo fece. Il Signore scelse di vivere per nove mesi nel seno di Maria. Volle stabilire questa forma speciale di dipendenza da lei. Scelse di avere con lei questa profonda e misteriosa relazione dell’anima. San Luigi Maria dice che scelse di diventare suo “schiavo”: un’espressione centrale in tutta la teologia mariana del santo, che può lasciarci perplessi specialmente se la riferiamo a Gesù Cristo ma che per il santo è essenziale e che dobbiamo comprendere a fondo. Schiavo? Sì. Anzi, uno schiavo ha la sua vita, respira da solo, ha almeno libertà di movimento. Gesù volle farsi più che schiavo: accettò di dipendere interamente da Nostra Signora.
Che tipo di relazione fra le anime di Gesù e della Madonna si stabilì in quel periodo? Che tipo di unione? Di per sé, il mistero è impenetrabile. Ma, almeno per avere un punto di partenza, possiamo considerare che nel mistero dell’Incarnazione Nostro Signore assume interamente la natura umana. Vero Dio, diventa anche vero uomo. Ha un’anima e un corpo come li abbiamo noi. Nella sua umanità discende da Adamo ed Eva come noi. Ma nello stesso tempo la sua anima umana aveva – anzi ha – un’unione con Dio così stretta che Gesù Cristo è e resta una persona della Santissima Trinità. C’è una sola persona di Cristo, non due, anche dopo l’Incarnazione. Com’è possible tutto questo? È un mistero. I teologi si diffondono sulla nozione di unione ipostatica, ma non sciolgono veramente il mistero.
Considerando la sua natura divina e umana, come spiegare il grido di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. In quel momento certamente Gesù continuava a essere Dio, eppure aveva scelto di soffrire nella sua umanità un abbandono e un isolamento totale. Si sentiva completamente abbandonato nella sua umanità mentre rimaneva unito a Dio Padre e allo Spirito Santo nella sua divinità. Di nuovo, non possiamo spiegare tutto: è un mistero.
L’unione di Nostro Signore con Maria quando era nel suo seno non è naturalmente l’unione ipostatica, eppure quest’ultima ci aiuta in via analogica a capire. Se nella sua umanità Gesù poteva sentirsi abbandonato sulla croce senza compromettere la sua divinità, poteva essere come dice San Luigi Maria “schiavo” di Nostra Signora nel suo seno – s’intende, anche qui nella sua umanità. Ma rimangono molti aspetti misteriosi, su cui penso che getterà luce una teologia nuovamente capace di fiorire nel Regno di Maria, per la maggior gloria di Dio e delle anime.
Anche nell’unione mistica di Nostra Signora con ciascuno dei suoi devoti, che San Luigi Maria chiama “schiavi”, ci sono punti non ancora interamente chiariti. Eppure si tratta di qualche cosa di molto più semplice dei divini misteri dell’unione di Maria con Gesù.Se sono misteri, nessuna spiegazione li esaurisce. Possiamo dire però che la contemplazione del mistero dell’Incarnazione ci aiuta a combattere due delle principali dottrine della Rivoluzione: il panteismo e il soggettivismo.
Secondo il panteismo, tutto è uno e tutto è buono; una cosa non si distingue essenzialmente da un’altra. Tutte le creature formano una sola grande persona cosmica e collettiva. Il soggettivismo afferma che ogni persona umana è assolutamente autonoma e non ha veramente bisogno di essere unita ad altre.
La Chiesa Cattolica condanna entrambi questi errori. Afferma che ogni persona è autonoma e distinta in quanto individuo, ma che l’apertura agli altri è costitutiva e necessaria. La teologia e la filosofia spiegano come per approfondire la nozione di persona ultimamente è necessario considerare la sua relazione con Dio.
Quando la relazione di Gesù Cristo con Nostra Signora nell’Incarnazione sarà meglio compresa, si comprenderà qualcosa di più anche le pagine più misteriose dell’“Apocalisse”. È del tutto lecito pregare e sperare che un giorno sorga una nuova alba in cui gli orizzonti della teologia possano espandersi e I legami fra molti misteri, per quanto umanamente possibili, possano chiarirsi.San Luigi Maria afferma che il mistero dell’Incarnazione contiene tutti gli altri. Sappiamo che ogni giorno di festa della Chiesa porta con sé una grazia speciale. Nella giornata di oggi la prima misteriosa unione di Nostro Signore con Nostra Signore viene a noi, per così dire, con un profumo speciale.
Dobbiamo affidarci con speciale forza alla Madonna in questo giorno di festa, e chiederLe la grazia di diventare i suoi umili soggetti e “schiavi”, come fece lo stesso Bambino Gesù quando viveva nel suo seno.

Autore: Plinio Corrêa de Oliveira

Icona della Presentazione di Gesù al Tempio

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Icona della Presentazione di Gesù al Tempio

Icona della Presentazione di Gesù al Tempio dans FESTE DEL SIGNORE presentazione-tempio

“Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la legge di Mosé, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore: « ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore »; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.”
Luca 2,22-24

La « Presentazione di Gesù al Tempio » è una delle dodici Grandi feste bizantine. Le notizie storiche più antiche risalgono, come vediamo dal Diario di Viaggio di Egeria, al IV secolo. A Gerusalemme presso la chiesa della Resurrezione (Anastasis), 40 giorni dopo l’Epifania, veniva celebrata la memoria della festa semplicemente con un sermone che verteva sulla presentazione al Tempio di Gesù. Nella tradizione Orientale, questa rilevante festa prese il nome di « festa dell’Incontro » (Hypapànte). Soltanto tra la fine del V e gli inizi del VI secolo le Chiese orientali dell’impero bizantino fecero propria tale festività. La festa venne introdotta nella Chiesa occidentale intorno alla fine del settimo secolo, durante il pontificato di papa Sergio I, un siciliano proveniente dalla tradizione bizantina, con il titolo di « Purificatio Sanctae Marie », cioè purificazione di Maria. Solo dopo la riforma liturgica (Concilio Vaticano II), divenne una festa del Signore e prese il nome di « Presentazione di Gesù al Tempio ».
La legge ebraica, contemplata nel Levitico, prevedeva che se non fossero stati compiuti i giorni della purificazione previsti per le puerpere, queste non potevano toccare alcunchè di sacro, né tantomeno potevano partecipare a funzioni sacre. « Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatre giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. » (Levitico 12,1-4). Compiuti che furono i giorni della purificazione, Giuseppe condusse la sua sposa e il Bambino al tempio del Signore, così come prescriveva la legge. Molto frequentemente il modulo iconografico prevedeva la rappresentazione di Giuseppe nella posizione più esterna alla scena, volendo così mettere in evidenza il suo ruolo di protettore della Sacra Famiglia, colui che è pur sempre presente e con affetto e discrezione provvede ai bisogni della sua famiglia. Ma la famiglia di Gesù non è ricca, il povero falegname non ha i mezzi per acquistare un agnello, egli può permettersi di offrire soltanto due colombi. « Se non ha mezzi da offrire un agnello, prenderà due tortore o due colombi: uno per l’olocausto e l’altro per il sacrificio espiatorio. Il sacerdote farà il rito espiatorio per lei ed essa sarà monda ». (Levitico 12,8).
I valori teologici che caratterizzano questa festa sono molto forti, pertanto lo schema iconografico si è fin dall’inizio mantenuto abbastanza stabile. Da un lato la Beata Vergine che porge il bambino a Simeone, dall’altro il Santo vegliardo che lo riceve. Fanno contorno le figure di San Giuseppe e della profetessa Anna. L’unico elemento importante che può differenziare le icone sta nella rappresentazione di Simeone con il bambino in braccio, in altre la tensione del gesto di Simeone per prendere in braccio Gesù. In secondo piano, ma sempre al centro della scena, si intravedono gli elementi che schematizzano il concetto del Tempio: un baldacchino (ciborium), una rappresentazione del presbiterio (vima), o frequentemente una chiesa bizantina. Non è raro vedere sullo sfondo anche degli elementi architettonici esterni; si tratta di un richiamo visivo al pinnacolo su cui il diavolo portò Gesù per tentarlo. « Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio. »(Matteo 4,5)
Il centro della scena è comunque sempre dominato dalla Vergine, ella simboleggia il Tempio vivente.

Inneggiando al tuo parto
l’universo ti canta
qual tempio vivente, o Regina!
Ponendo in tuo grembo dimora
Chi tutto in sua mano contiene, il Signore,
tutta santa ti fece e gloriosa
e ci insegna a lodarti:
(Akathistos, XXIII Stanza)

È meraviglioso contemplare l’espressione della Madonna mentre porge Gesù a Simeone, Maria era pienamente consapevole di ciò che accadeva e fra sé meditava: « Quale nome troverò per designare Te, figlio mio? Se Ti chiamo uomo, quale appari ai miei occhi, sei al di sopra dell’uomo, Tu che hai conservato intatta la mia verginità. Ti chiamerò l’uomo perfetto? Ma so bene che la tua concezione è stata divina: nessun uomo è stato mai concepito senza l’unione nè seme come fosti tu, o senza peccato. E se ti chiamo Dio, mi meraviglio vedendoti del tutto simile a me, perché non hai nulla che ti differenzi dagli attributi degli uomini, salvo che sei stato esente dal peccato nella tua concezione e nella tua nascita. Che cosa ti darò: il mio latte o la mia lode? » (Romano il Melode, XVI, 3-4). Simeone vede la beata Vergine e le viene incontro, le chiede di poter prendere fra le braccia il Salvatore del mondo. Si china sul Bambino e dopo averlo a lungo contemplato, pieno di spirito Santo si rivolge a Maria e le profetizza: « Egli è qui per la rovina e la resurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. » (Luca 2,34-35). La tradizione iconografica attribuisce alla Madonna un mantello (maphorion) di colore rosso, per simboleggiare la grande sofferenza che unirà Maria a Cristo nei momenti della passione. « E anche a te una spada trafiggerà l’anima. » (Luca 2,34-35). Il ruolo di Maria sul piano teologico è tuttavia ben presente, lo prova il colore azzurro della veste, richiamo alla luce increata di Dio.
Vale ancora la pena osservare la centralità della figura di Maria in questa icona, Ella incarna veramente la « Lampada splendente » che porta una vera luce, apparsa a coloro che sono nelle tenebre.

Come fiaccola ardente
per chi giace nell’ombre
contempliamo la Vergine santa,
che accese la luce divina
e guida alla scienza di Dio tutti,
splendendo alle menti
e da ognuno è lodata col canto:
(Akathistos XXI stanza)

Il ruolo di Gesù è però solo apparentemente secondario, l’atteggiamento del Bambino è quello del « Legislatore ». Cristo ha tra le mani un documento, il chirografo su cui è scritto il debito della intera umanità, in esso sono scritti i nostri peccati, e le nostre « condizioni sfavorevoli ». Sarà questo il foglio che con il suo sacrificio Gesù straccerà rendendoci definitivamente liberi.

Condonare volendo
ogni debito antico,
fra noi, il Redentore dell’uomo
discese e abitò di persona:
fra noi che avevamo perduto la grazia.
Distrusse lo scritto del debito,
e tutti l’acclamano: Alleluia.
(Akathistos XXII stanza)

Il Cristo Bambino è vestito di bianco, come al momento della sua Trasfigurazione sul monte Tabor, Simeone è invece vestito di verde, colore simbolo della terra. Egli conferisce la potenza dello Spirito a ciò che è terrestre, facendo evolvere, come vedremo, la Legge in Amore. Il momento culmine della rappresentazione è l’istante in cui il Signore giunge fra le braccia di Simeone che simboleggia la figura veterotestamentaria. « Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d’Israele. » (Luca, 2, 25). In questo momento la storia di Israele trova completamento.
« Uno dei grandi problemi dei primi secoli fu quello della validità per i cristiani dell’Antico Testamento. Se la Legge antica è sostituita dalla nuova, certamente non se ne esige l’osservanza. E se la storia del popolo ebraico arriva al suo compimento in Cristo, perché dovrebbe ancora essere letta nelle assemblee dei fedeli? La risposta dei Padri fu decisiva per salvaguardare l’intera Scrittura. L’antico testamento rimane valido, non più però secondo la lettera, secondo la carne, ma secondo lo Spirito, nel suo senso spirituale. Questo senso nuovo è dato ai testi ebraici dalla realtà della persona di Cristo. In molte e diverse maniere, ma sempre, tutte le scritture parlano di lui: Egli è il vero pane che si offre per nutrire le anime di coloro che si cibano spiritualmente di ciò che fu scritto. Beati gli occhi, dice Origene, che scoprono la gloria del Lògos di Dio sotto l’umile apparenza della lettera. » (La fede secondo le icone, T. Spidlik, M. I. Rupnik). « La sua misericordia è eterna, e proprio questa misericordia ha suscitato nelle menti degli uomini, ottenebrate dal legalismo, una contraddizione che non ha permesso di riconoscerlo come il proprio Dio. » (Icone delle dodici grandi feste bizantine, Gaetano Passarelli).
Lo stesso Paolo nella lettera ai Galati ci dice: « Prima però che venisse la fede, noi eravamo rinchiusi sotto la custodia della legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Ma appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto un pedagogo. Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa. » (Galati, 3, 23-29).
La tradizione stessa sottolinea ulteriormente questo concetto; in molte icone, sull’altare raffigurato in secondo piano sono deposti un libro, o dei rotoli, simbolo delle scritture che avevano bisogno di ricevere uno spirito nuovo.
Colpisce la rappresentazione dinamica di Simeone di alcune Icone, che lo ritraggono in tensione verso Gesù. Simeone sembra correre, o precipitarsi verso il Bambino, contrariamente allo schema classico di composizione che privilegia la staticità dei soggetti come simbolo della perfezione divina. Analizzando con attenzione altri dipinti si può trovare in altri due casi una rappresentazione dinamica di « fretta »: nella resurrezione di Lazzaro, sembra che Gesù si affretti per far uscire l’amico dal regno delle tenebre, simboleggiato dalla morte del corpo; nell’Icona dell’ingresso di Cristo a Gerusalemme, Gesù sembra aver fretta di restaurare il regno di Davide. Per analogia in questo caso è l’Antico Testamento che si affretta a ricevere il suo vero e autentico senso ultimo, che trova nella persona di Cristo l’autentico completamento del piano di Dio per gli uomini. Simeone ne è pienamente consapevole e sotto l’azione dello Spirito Santo, riconosce in Gesù il figlio di Dio, la Luce, la Salvezza promessa da Dio agli uomini e dice:

Ora lascia, o Signore, che il tuo servo
vada in pace secondo la tua parola;
perché i miei occhi han visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli,
luce per illuminare le genti
e gloria del tuo popolo Israele.
(Luca 2,29-32)

Fra Gesù e Simeone si stabilisce uno sguardo di incredibile tenerezza, meravigliose sono le parole che Romano il Melode mette in bocca a Gesù: « Amico mio, ora permetto che tu lasci questo mondo per il soggiorno eterno. Ti invio là dove si trovano Mosè e gli altri profeti: annuncia loro che sono venuto, io di cui hanno parlato nelle loro profezie: sono nato da una vergine, come hanno predetto; sono apparso a coloro che abitano il mondo ed ho vissuto tra gli uomini come hanno annunziato. Presto verrò a trovarti riscattando l’umanità. » I Vangeli apocrifi, in particolar modo quello di Nicodemo, riferiscono che Simeone, in effetti, assolse al compito di precursore che Gesù gli aveva affidato fra i giusti che attendevano negli inferi: « E mentre tutti esultavano nella luce che splendette per noi, sopraggiunse il nostro padre Simeone e disse esultante: « Glorificate il Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, giacché, quando nacque il Bambino, io nel Tempio lo ricevetti tra le mie mani e, spinto dallo Spirito Santo, confessai e dissi: ora i miei occhi hanno visto la tua salvezza che hai il preparato al cospetto di tutti popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele ». Tutta la moltitudine dei santi, udendo questo, esultava ancora di più. »
Gesù si è incarnato ed è apparso all’uomo per attirarlo a sé. Il Signore onnipotente è venuto in noi come umile servitore perché l’uomo rimanesse meravigliato di fronte alla Sua infinita grandezza accorgendosi della sua fragilità e della sua impurità, e come Simeone « correndo » dal Redentore e stringendolo a sé potesse rinascere nello Spirito sperimentandone così pienamente tutta la Sua confidenza.

Si stupirono gli Angeli
per l’evento sublime
della tua Incarnazione divina:
ché il Dio inaccessibile a tutti
vedevano fatto accessibile, uomo,
dimorare fra noi.
(Akathistos, XVI Stanza)

Maria, ora come allora, è ancora al centro della scena: Ella ci porge Gesù invitandoci ad avvicinarci senza paura, esattamente come fece Simeone, sembra quasi di sentire le sue parole: « Vi invito a venire con me con totale fiducia perché io desidero farvi conoscere mio Figlio. Non abbiate paura, figli miei. Io sono con voi, sono accanto a voi. Vi mostro la strada come perdonare voi stessi, perdonare gli altri, con un pentimento sincero nel cuore, inginocchiarvi davanti al Padre. Fate sì che muoia di voi tutto ciò che vi impedisce di amare e salvare, di essere con Lui e in Lui. Decidetevi per un nuovo inizio, l’inizio dell’amore sincero di Dio stesso. »

Publié dans:FESTE DEL SIGNORE, immagini e testi, |on 1 février, 2012 |2 Commentaires »

IL MISTERO DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE (2011)

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IL MISTERO DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE (2011)

ROMA, martedì, 1° febbraio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo a firma di don Enrico Finotti, parroco di S. Maria del Carmine in Rovereto (TN), che apparirà sulla rivista Liturgia ‘culmen et fons’

* * *
* FESTA CRISTOLOGICA. La festa della Presentazione del Signore, il 2 febbraio, 40° giorno dopo Natale, ha per oggetto quei fatti biblici accaduti nel Tempio di Gerusalemme, narrati da Lc 2, 22 – 39.
La Presentazione al Tempio del primogenito significa che egli è offerto a Dio in ricordo degli eventi dell’Esodo e Dio lo restituisce ai genitori. Maria e Giuseppe, presentano il Bambino al Tempio, riconoscono che Gesù è “proprietà” di Dio ed entra nel piano dell’attuazione del disegno divino perché è salvezza e luce per tutti i popoli. L’oggetto centrale della festa è Cristo Signore che entra nel suo tempio e si offre in sacrificio. La dimensione cristologia è quindi il tema essenziale, come in tutti gli eventi della salvezza. Attorno ad esso si sviluppano, con ordine e graduata dipendenza e correlazione, altri personaggi ed altri eventi minori, che commentano e sviluppano l’evento fondamentale, incentrato nella persona e nell’opera del Redentore. Occorre ammettere, che con l’attuale riforma liturgica la festa della Presentazione del Signore è proposta nel suo autentico equilibrio, ossia l’evento misterico è presentato nel suo insieme, senza accentuazioni unilaterali e evidenze marginali. Nella tradizione secolare della Chiesa – e possiamo dire fin dalla nascita stessa della festa – sia la liturgia orientale come quella occidentale, hanno ritagliato aspetti secondari del mistero e li hanno posti ad oggetto prevalente, colorando riti e preci con contenuti conformi a tali accentuazioni. Certo, anche i quadri laterali della scena evangelica hanno una grande importanza e sono latori di un messaggio fondamentale, tuttavia non costituiscono il centro dell’evento e rimangono comunque ad esso referenti e da esso dipendenti. Ecco allora che in oriente la festa è chiamata ‘Ipapante’ – ‘Incontro’-, fissando in tal modo come oggetto primario di celebrazione e di meditazione l’incontro tra Simeone e il Bambino Gesù. I Padri poi commentarono con splendide omelie tale mistero, ma l’ottica orientale osserva l’insieme da quel preciso punto di vista, splendido, ma limitato. In occidente, soprattutto nella liturgia romana, la festa è incentrata sulla persona e il ruolo di Maria SS. considerandola nell’atto di assolvere la sua purificazione legale prevista dalla legge di Mosé. E per questo a Roma la festa si chiamerà Purificazione di Maria Vergine[1] e sarà annoverata, fino all’attuale riforma liturgica, tra le festa mariane. In realtà tale connotazione la portò con sé fin dall’inizio quando il papa Sergio I,[2] di origine orientale, la introdusse a Roma insieme ad alte feste mariane. Tale connotazione risulta da testi splendidamente mariani – peraltro preziosi – ma anche dal tenore penitenziale del rito, come comandavano le precedenti leggi liturgiche.[3] Così si noterà che dal solo titolo della festa ne risulta la impostazione laterale rispetto alla globalità dell’evento e la scelta specifica dei diversi temi evangelici: ‘Incontro’ in oriente e ‘Purificazione di Maria’ in occidente. Anche se lodevolmente oggi nella liturgia romana questa festa ci è donata nel fascino della sua più vera e completa impostazione, non è estraneo attualmente il pericolo di un’altra nuova riduzione di natura pastorale. Infatti la proclamazione del 2 febbraio a Giornata mondiale della vita consacrata – ben radicata, del resto, nel mistero liturgico di questo giorno – può provocare in un pastore non accorto il corto circuito che sostituisce un’emergenze pastorale al mistero di Cristo, o comunque può insidiarlo ed emarginarlo alquanto. E’ il pericolo di tante Giornate mondiali e nazionali che ormai invadono l’Anno Liturgico. Ora, se da un lato è conveniente che tali celebrazioni trovino una sede loro propria in consonanza col mistero liturgico che più le interpreta, dall’altro lato esse devono rimanere marginali di fronte alla sovranità dell’evento misterico evangelico. Se non si vigila attentamente l’invasione medioevale del santorale si ripeterà con una analoga invasione del pastorale-sociologico, compromettendo il meraviglioso restauro dell’Anno Liturgico, come proposizione coerente e organica del Mistero di Cristo dalla sua Incarnazione al suo ritorno nella gloria. Per il 2 febbraio in talune parti vi è anche la riduzione della festa a Giornata degli anziani, in ragione dei santi Simeone ed Anna ‘avanzati in età’. Grati allo Spirito Santo per la completa riforma dell’Anno Liturgico occorre compiere ogni sforzo perché il meraviglioso affresco non sia compromesso da scelte e pratiche riduttive, erroneamente e superficialmente ritenute ‘pastorali’. Sia il particolarismo devozionale del passato come le evidenze pastorali del presente devono chinarsi al Mistero di Cristo, l’unico evento che le può riscattare e abilitarle al Regno di Dio.
* FESTA CONCLUSIVA DEL MISTERO NATALIZIO E ANTICIPO DEL MISTERO PASQUALE. Anche se la festa, attualmente,[4]cade fuori del tempo natalizio, tuttavia è ad esso profondamente collegata per il mistero celebrato, che fa’ parte delle prime manifestazioni del Signore. Insieme è anticipazione della Pasqua, in quanto in nessun altro evento dell’infanzia, come il quello della Presentazione del Signore, viene espresso con tanta chiarezza il riferimento al Sacrificio pasquale che il Signore, in indissolubile unione, con Maria SS. sua madre, offrirà all’eterno Padre nei giorni della sua Pasqua di morte e risurrezione.
“La festa si ricollega al Natale e all’Epifania del Signore. Ma contemporaneamente essa si pone come ponte verso la Pasqua, rievocando la profezia del vecchio Simeone, che in quella circostanza preannunziò il drammatico destino del Messia e di sua Madre”[5].
La natura di festa-ponte tra Natale e Pasqua la possiamo individuare in interessanti considerazioni teologico-simboliche:
[…]
3. Il simbolo natalizio-pasquale della luce. La luce, scaturita nell’umiltà della notte santa, proclamata nel Prologo del giorno di Natale – veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo – e sfolgorante nell’Epifania – alzati rivestiti di luce…- , oggi viene celebrata con una potente espressione simbolica, costituendo il momento più alto del crescere della luce nelle feste natalizie. Al contempo si prelude al lucernale maggiore della Veglia pasquale, quando, dopo le tenebre della passione, la luce del Cero annunzia lo splendore immortale del Risorto. Il ruolo di ponte tra Natale e Pasqua è dunque evidente.
4. Il ‘quarantesimo giorno’. E’ interessante notare che in questo primo ingresso nel 40° giorno dalla nascita, il Signore prelude al suo ultimo e pubblico ingresso nel tempio di Gerusalemme nella domenica delle palme, nei giorni in cui realizzerà in modo pieno il suo sacrificio pasquale. Tale ingresso la liturgia romana lo celebra proprio nel 40° giorno della Quaresima[6]. Nei giorni immediatamente precedenti la sua passione il Signore, nell’ambiente solenne e pubblico del tempio di Gerusalemme, parlerà di sé stesso come Luce del mondo e ammonirà Ancora per poco tempo la luce è con voi. Da quel momento, dopo aver brillato con fulgore e potenza dal candelabro del tempio, la luce si nascose e l’impero delle tenebre a poco a poco sembrerà estinguerla. Per questo quei ceri che il 2 febbraio si accendono con tanta abbondanza e ricompariranno in tutto il loro splendore nei vespri delle palme,[7] commemorando l’ingresso nel tempio, nei giorni successivi verranno gradualmente estinti nei vespri delle tenebre, per esprimere nel simbolo il mistero della passione del Signore. In questo primo ingresso del Bambino Gesù vi è, infine, la profezia del definitivo ingresso nel tempio del cielo, quando risorto, proprio nel 40° giorno dalla Pasqua, salirà al cielo e siederà alla destra del Padre. Si vede allora come il 40° giorno della Presentazione del Signore è l’anticipo e l’annunzio del mistero globale del Messia che a più riprese e a diverse intensità entra nel suo tempio: i tre ingressi ufficiali nel tempio – candelora, palme e ascensione – sono così collegati e interpretati dal mirabile simbolo del 40° giorno.
———
1) RIGHETTI, MARIO, Storia liturgica, ed. Ancora, MI, 1969, vol. II, p. 119: “Opportunamente siffatta intitolazione è stata abolita dal nuovo Messale (1965); sia perché in contrasto col genuino carattere della solennità, sia perché il concetto ebraico e pagano di purificazione della madre non è più ammissibile nella lege cristiana”.
2) RIGHETTI, MARIO, Storia liturgica, ed. Ancora, MI, 1969, vol. II, p. 120: “Il carattere di festa mariana impostole, parzialmente almeno, da Pp. Sergio, si accentuò più tardi soprattutto nella processione che aveva sempre per meta il maggior santuario mariano di Roma e nella quale diciotto diaconi delle regioni urbane portavano dinanzi al Pontefice altrettanti stendardi della SS. Vergine…”. NUOVO DIZIONARIO DI MARIOLOGIA, ed. Paoline, 1985, Presentazione del Signore, p. 1151: “Il carattere mariano della festa – oltre al fatto che Maria è, assieme a Gesù, protagonista del mistero, proprio come a Natale – fu imposto in particolare dal papa Sergio I (687-701)…”.
3) RIGHETTI, MARIO, Storia liturgica, ed. Ancora, MI, 1969, vol. II, p. 118: “A Roma, come in oriente, l’Ipapante era celebrata in una cornice di solennità, ma improntata a penitenza secondo l’uso bizantino…tutti procedono a pie’ scalzi…nella messa solenne si tralascia il Gloria in excelsis…”. NUOVO DIZIONARIO DI MARIOLOGIA, ed. Paoline, 1985, Presentazione del Signore, p. 1151: “Nella processione papa e cardinali recavano vesti sacre di color nero e tutti procedevano a piedi scalzi”.
* Nella liturgia preconciliare il duplice carattere penitenziale e gaudioso della festa veniva espresso col color violaceo per la benedizione delle candele e la processione, e col bianco per la Messa successiva.
4) Fino alla riforma delle rubriche del 1960 il tempo di Natale terminava il 2 febbraio.
5) GIOVANNI PAOLO II, Omelia nella festa della Presentazione del Signore, 2 febbraio 2001, in “L’Osservatore Romano” 4 febbraio 2001, p. 7.
6) Secondo i vangeli sinottici l’ingresso ultimo del Signore nel tempio di Gerusalemme avviene nel medesimo giorno dell’ingresso nella città santa (Mt 21, 12; Mc 11, 11; Lc 19, 45). La solennità liturgica di questo duplice ingresso in Gerusalemme e nel tempio la liturgia romana la celebra effettivamente nel quarantesimo giorno della Quaresima: la domenica delle palme è, infatti, il 40° giorno dalla ceneri.
7) Ci si riferisce ai molteplici ceri che si accendono nel rito di inizio della Sacre Quarantore nel contesto dei Vespri della Domenica delle palme, che nei successivi Vespri di Passione (lunedì, martedì e mercoledì santo) verranno gradualmente estinti.

Publié dans:FESTE DEL SIGNORE |on 1 février, 2012 |Pas de commentaires »

UNA CURIOSA PREDICA DELL’EPIFANIA IN INDIA

http://www.zenit.org/article-29152?l=italian

UNA CURIOSA PREDICA DELL’EPIFANIA IN INDIA

Padre Piero Gheddo racconta un curioso episodio della sua esperienza missionaria in India

di Piero Gheddo
ROMA, venerdì, 6 gennaio 2012 (ZENIT.org).- Nel 1965, in India, alla festa dell’Epifania, sono stato invitato a parlare nella chiesa di una cittadina dello stato di Andhra Pradesh, dove lavorano i missionari del Pime. Essendo l’unico prete disponibile, ho dovuto celebrare la Messa (ma allora si celebrava in latino!) e anche fare la predica dell’Epifania. Dato che sapevo solo poche parole di telegu, la lingua locale (una delle più importanti delle 18 lingue ufficiali dell’India, parlata da più di 80 milioni di indiani, con una letteratura molto ricca e antica), il vescovo di Warangal monsignor Alfonso Beretta mi aveva fatto accompagnare da un catechista che sapeva bene l’inglese. «Tu parla inglese andando adagio», mi aveva detto, «e lui tradurrà in telegu, frase per frase, parola per parola».
Così sono andato in quella grande chiesa di Kammameth (che oggi è diocesi), piena di gente, col mio bel discorso scritto in inglese. Dopo la lettura del Vangelo, la gente si è seduta e io ho cominciato a parlare, facendo riflessioni sulla festa liturgica, sul significato teologico dell’Epifania. A ogni frase mi fermavo e lasciavo al catechista il tempo di tradurre. Ma, man mano che andavo avanti nella predica, mi accorgevo che mentre le mie frasi erano brevi, il catechista parlava a lungo; e poi, io non citavo nessun nome proprio, ma lui continuava a citare Baldassarre, Melchiorre e Gaspare.
Dopo la Messa gli chiedo come aveva tradotto la mia predica e mi sento rispondere: «Padre, tu dicevi cose troppo difficili che io capivo poco e i nostri fedeli, gente semplice, non avrebbero capito nulla e non sapevo come tradurre. Allora ho raccontato alla gente la storia dei tre Re Magi, chi erano, da dove venivano e cosa hanno fatto quando sono tornati alle loro case dopo aver visto Gesù. Forse tu non sai, ma in India c’è la tradizione che i Magi erano indiani. Io li ho ambientati nei nostri villaggi telegu, in modo che tutti li sentissero
come loro antenati. Ma non preoccuparti, ai nostri fedeli la tua predica è piaciuta molto, anche perché hanno capito tutto e adesso le vicende della vita di Gaspare, Baldassarre e Melchiorre le racconteranno anche ad altri».
Quell’episodio mi ha fatto capire una grande verità: il Vangelo è il racconto di un fatto, di un avvenimento, di una notizia; cioè comunica la «Buona Notizia» e usa un linguaggio estremamente concreto, che invita a cambiare vita, a convertirci. Gesù parla con parabole, cioè racconta dei fatti che avrebbero potuto anche essere veri, per dare un’indicazione morale. Non fa come in certe prediche di noi sacerdoti, che la gente non ascolta o non capisce, perchè disincarnate dalla vita quotidiana. Essere cristiani significa vivere la vita di
Cristo e offrire agli uomini degli esempi concreti di vite spese per Dio e per il prossimo. Quello che convince o scuote e fa riflettere i non credenti o i non praticanti non sono i ragionamenti o le dimostrazioni filosofiche o teologiche (ci vogliono anche queste, ma a luogo e tempo debito), sebbene i buoni esempi delle vite di Gesù, di Maria e dei santi. E anche dei Re Magi che venivano dall’Oriente!
Anche la nostra vita cristiana deve diventare, agli occhi di chi non crede, un annunzio di salvezza, una testimonianza di fede e di bontà. Nessuno riesce mai a essere un vero cristiano, perché il modello di Gesù è infinitamente al di là delle nostre piccole persone: ma quel che importa è la sincera volontà di camminare per la via che Cristo ci ha indicato. Non preoccupiamoci troppo delle nostre cadute, quando sono sinceramente combattute e detestate, quando ripetiamo ogni giorno al Signore il nostro pentimento e la volontà di togliere il peccato dalla nostra vita. «La santità», diceva Santa Teresina del Bambino Gesù, «non è una salita verso la perfezione, ma una discesa verso la vera umiltà».

Publié dans:FESTE DEL SIGNORE |on 8 janvier, 2012 |Pas de commentaires »

EPIFANIA DEL SIGNORE – IS 6, 1-6; EF 3, 2-3.5-6; MT 2, 1-12

http://www.parrocchiadimaranello.com/omelie/06gennaio2012.pdf06.01.2012

EPIFANIA DEL SIGNORE – IS 6, 1-6; EF 3, 2-3.5-6; MT 2, 1-12

Il Vangelo odierno è un racconto soffuso di fascino orientale. Attrae come nessun’altra pagina l’immaginazione dei bambini. Ha tutto il sapore di una fiaba, eppure ci pone interrogativi profondi. Il primo riguarda le origini misteriose dei Magi. Perché il Bambino ha voluto i Magi? Non bastavano i pastori di Giuda, poveri e semplici, ignari come le loro pecore? Con essi Maria, sua madre, avrebbe potuto scambiare parole semplici e umili. I Magi sono figure molto diverse dai pastori: li immaginiamo così ricchi da non chinarsi a raccogliere una perla e così sapienti che nessun libro, neanche il più difficile potrebbe far inarcare il loro sopracciglio. I Magi, ricchi e sapienti, parlano una lingua straniera che la madre del Bambino non può comprendere. Li raffiguriamo vestiti di abiti sontuosi che fanno stonare il semplice abito della Vergine. Forse il loro seguito la spaventerà, quando entreranno vestiti di seta nella sua povera casa. Perché allora il Bambino ha scomodato persone così diverse da Lui e dalla sua famiglia? Perché ha punto i loro cuori con una intollerabile inquietudine, tanto da scomodarli e spingerli ad intraprendere un lungo viaggio? Se li ha voluti accanto alla sua mangiatoia è perché neppure il ricco è odioso al piccolo Bambino. Certo, Gesù stesso dirà che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli. Eppure, al Figlio di Dio ripugna solo la ricchezza di chi non sa alzarsi di notte, aprire i suoi forzieri per portare doni ad un bambino sconosciuto. Per questi ricchi c’è posto accanto alla mangiatoia. Il loro viaggio testimonia quanto siano capaci di relativizzare quello che possiedono, ma soprattutto di farne dono a Colui che riconoscono Re e Signore. Sono ricchi che hanno il senso del mistero e della trascendenza; che non si sono seduti, né vogliono fermarsi. E se sono in ricerca, è perché i beni che possiedono non bastano a riempire la vita. Sono uomini con il volto proteso verso il cielo, pronti a piegare il ginocchio davanti a chi merita la loro riverenza. Per questi ricchi, allora, c’è posto accanto alla mangiatoia. Neppure è vero che colui che è sapiente sia molesto al Bambino. Certo, Gesù dirà che dei semplici è il regno dei cieli. Ma al Bambino ripugna soltanto la presunta sapienza di chi crede stolto inseguire una stella capricciosa, di chi ha cancellato la parola «adorare». I Magi, dunque, questi santi d’oro così cari al senso religioso dei bambini, per un miracolo rarissimo della grazia, si sono santificati nella ricchezza e nella sapienza. Le loro guance, per quanto profumate di mirra e di nardo erano degne di premere le guance innocenti del Bambino e le loro mani degne di accarezzarlo senza doversi sfilare un anello. Oggi questi santi d’oro ci invitano a riflettere sul nostro stile di vita e a camminare verso una ricchezza diversa, davvero nobile, né sfacciata, né presuntuosa. La vera ricchezza non si chiude, semplicemente perché non basta a se stessa. Non si erge a idolo, né diventa un Moloch a cui sacrificare valori ben più alti. Soprattutto, non può essere il criterio ultimo delle nostre scelte e del nostro impegno. La ricchezza dei Magi si apre al dono, alla condivisione con il povero e l’affamato. Sono loro, i bisognosi, a ricevere l’onore di quel ricco cosciente che quanto possiede è un dono di Dio. Il Bambino di Betlemme, per questi nobili sapienti, è quell’altro di cui mai possiamo dimenticare la dignità, anche se non raggiungerà gli standard di vita suggeriti dalla cultura odierna; il Bambino è l’uomo che non riduco al suo reddito, ma di cui rispetto la dignità e il mistero. Nell’atteggiamento con cui i Magi visitano il bambinello di Betlemme, c’è veramente qualcosa di regale. In questa ricchezza c’è vera sapienza. I Magi sono un ammirevole connubio di ricchezza e sapienza, dove è solo la seconda a garantire un corretto uso della prima. Ed è sempre la sapienza a garantire un proliferare delle proprie sostanze che è benedetto da Dio, perché sarà un proliferare solidale con chi non ha ricevuto altrettanto dalla vita. C’è dunque una vera sapienza non riducibile alla propria filosofia di vita o alle convinzioni che ci hanno trasmesso le nostre famiglie. La vera sapienza si misura con la concretezza della gestione delle proprie risorse. Non è mai una sapienza disincarnata, che si limita a pronunciare giudizi e non ama sporcarsi le mani nel dono e nell’elemosina. Gesù Cristo, stella che brilla per offrirsi a chi naviga senza chiare mete, non disdegna né l’una né l’altra. Ma, ancora una volta, Lui è il riferimento, Colui che traccia una rotta che non può essere definita dal mondo in cui viviamo. Esso è il luogo del nostro lento ma costante attraversamento, non della nostra perenne dimora. Come i Magi, scendiamo dalle nostre cavalcature soltanto davanti a Colui che dona la gioia più profonda e sincera.

OMELIA SULLA NATIVITÀ – GREGORIO PALAMAS

http://tradizione.oodegr.com/tradizione_index/commentilit/nativitapalamas.htm

OMELIA SULLA NATIVITÀ – GREGORIO PALAMAS

Sulla nascita nella carne di Nostro Signore Gesù Cristo, salvezza per noi

Questa omelia sulla Natività[1], può essere detta “omelia delle antinomie”: cielo-terra, dio-uomo, creatore-creatura, unto-crisma, glorificazione-kenosi. L’antinomia qui è espressa nel senso che il cielo è sulla terra, Dio è nell’uomo, il creatore nella creatura, il Messia è nel crisma, la glorificazione è nella kenosi. Tutto questo si riassume nel dire che il Figlio dell’Altissimo è il frutto del ventre di una Vergine.
L’omelia di Natale sottolinea il “per noi” dell’incarnazione, tema centrale nella teologia di Palamas, fondamento della possibile divinizzazione.
È un testo denso e semplice insieme, di immediata comprensione.

Testo

1. Grandezza nella piccolezza
Oggi festeggiamo il parto verginale; il mio discorso si innalza, in conformità con la grandezza di questa festa e penetra nel mistero, per quanto possibile, per quanto permesso, per quanto il tempo si presti, affinché anch’io riveli parte della potenza che risiede in questo mistero. Per quanto riguarda voi fratelli, destate la vostra attenzione e innalzate la vostra mente perché una volta infiammata dalla sublimità della divinità, essa con più forza possa accedere alla luce della divina conoscenza. Perché oggi vedo il cielo e la terra ricevere lo stesso onore, e la via che sale da qui a ciò che si trova al di là dell’universo, competere con la discesa del mondo superiore quaggiù. Infatti, se esiste un cielo dei cieli, se acque altissime ricoprono le distese del cielo, e se esiste un luogo, o una sede, o ancora un ordine al di sopra di questo mondo, niente di tutto ciò è più degno di ammirazione, di onore, che questa grotta, questa mangiatoia, i catini per il bagno, le fasce di un bambino. Perché niente fra gli eventi che si sono svolti dall’inizio del mondo sotto lo sguardo di Dio, niente è così vantaggioso per noi, niente è più divino di tutto quello che riguarda la nascita di Cristo che oggi festeggiamo.

2. Imparagonabile e inafferrabile mistero
Sì, il Verbo pre-eterno, non circoscritto, il Signore onnipotente, è oggi partorito in una grotta come uno senza tetto, senza dimora; come un neonato è deposto in una mangiatoia, è presentato alla vista di occhi umani, è toccato da mani umane e stretto in fasce. Non si tratta di una sostanza spirituale, che non esisteva ancora, che viene nella creazione; non è una carta destinata a dissolversi poco dopo che è introdotta nel divenire; non si tratta di una carne e un intelletto che si uniscono per formare un essere dotato di ragione, ma si tratta di Dio e della carne con l’intelletto che si uniscono nell’esistenza di un’unica ipostasi divino-umana, che fino ad allora era nascosta nel grembo verginale, nel quale e a partire dal quale, secondo la benevolenza del Padre e la cooperazione dello Spirito, il Verbo sopraessenziale è venuto all’essere. Ora, liberato dal grembo, nasce come un bambino, non rompe ma conserva indenni i sigilli della verginità, è partorito senza dolore colui che era stato concepito senza passione[2]; infatti, colei che lo partorì si rivelava al di sopra del piacere passionale nel concepirlo e superiore ai dolori del parto: essa infatti, prima che giungesse il tempo dei dolori, ne fu preservataa, secondo la parola di Isaia. Partorì nella carne il Verbo pre-eterno, della cui divinità non si possono scoprire le tracce. Anche il modo dell’unione con la carne è inconcepibile, come anche il suo abassarsi è insuperabile. Infine, la divina e ineffabile altezza della sua incarnazione supera ogni intelligenza e ogni parola, tanto che non è possibile paragonarla con niente di creato. Perché anche se si può guardare con occhi di carne colui che è stato partorito da una giovane donna che non ha conosciuto uomob, la Scrittura non permette nessun paragone: bello tu sei fra i figli degli uominic; non è detto “più bello”, ma semplicemente “bello” per non paragonare l’imparagonabile, la natura divina a semplici uomini[3].

3. Vero Dio e vero uomo
Dice il salmo: Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato con olio di letizia, a preferenza dei tuoi egualid. La stessa persona è perfettamente Dio e perfettamente uomo; lo stesso Dio è colui che unge e colui che è unto. Sta scritto infatti: Dio, il tuo Dio ti ha unto. Sì, è in quanto uomo che viene unto il Verbo venuto da Dio Padre, ed è unto dallo Spirito che gli è coeterno e della stessa natura; questo è l’olio di esultanza. Lo stesso Dio è insieme la divina unzione e l’unto. Benché sia unto in quanto uomo, egli ha in Lui, in quanto Dio, la fonte dell’unzione. Ecco perché il divino veggente ha visto e annunziato in anticipo che coloro che partecipano di lui sono tutti unti da Dio. Infatti, appartiene a Dio solo di non partecipare, ma di essere partecipato, e di avere per partecipanti coloro che esultano nello Spirito. Tale è colui che ora è partorito in una misera grotta, colui che noi ora celebriamo, bambino appena deposto nella mangiatoia.

4. Viene incontro al nostro desiderio di essere Dio
Di fatto, colui che ha fatto uscire tutto dal nulla, le realtà della terra come quelle del cielo, vedendo che a causa del loro desiderio di essere qualcosa di più, le sue creature ragionevoli sono diventate vuote, egli fa loro dono di se stesso nella grazia; lui al quale nulla è superiore, né uguale, né simile, lui si presenta a chi desidera partecipare di lui; affinché potessimo in seguito usare senza pericolo questo desiderio di essere qualcosa di più (a causa del quale, all’inizio, fummo presi in un pericolo estremo), e che, ognuno di noi desiderando diventare Dio, fosse non solo reso innocente, ma anche ottenesse la soddisfazione del proprio desiderio[4].
Egli abolisce in questo modo meraviglioso il motivo della nostra caduta delle origini cioè l’essere di più e l’essere di meno che produceva nelle creature l’invidia e la frode, le lotte manifeste e quelle nascoste. Perché il principe del male, non volendo essere inferiore a nessuno degli angeli, ma volendo al contrario essere simile per altezza al Creatore stesso, subì per primo la precipitosa caduta quando nessuno ancora prima di lui era caduto. Poi, siccome si era buttato su Adamo per gelosia e lo aveva precipitato con furbizia nel fondo dell’inferno, divenne difficile richiamare Adamo che ebbe bisogno di un intervento straordinario di Dio, quello che appunto si compie oggi. Il principe del male invece aveva resa la sua propria decadenza impossibile da guarire perché non aveva acquisito la stima di sé per partecipazione, ma era diventato il male stesso e la pienezza della malvagità, pronto a rendere partecipe del male coloro che lo volevano.

5. La via che porta in alto è quella che scende
Per questo Dio ha voluto eliminare la causa dell’orgoglio che aveva trascinato in basso le sue creature dotate di ragione e rende ora ogni cosa simile a lui. E visto che, per natura, egli è uguale a se stesso e riceve lo stesso onore egli rende anche la sua creatura uguale a se stessa, capace di ricevere lo stesso onore, per grazia[5]. Come avviene questo? Dio, il Verbo uscito da Dio si è svuotato[6] in un modo ineffabilee, è deciso dall’alto fino agli abissi dell’umanità, l’ha legata a lui in modo indissolubile, umiliandosi ha assunto la nostra stessa povertà; così, delle realtà inferiori fece realtà superiori, o piuttosto, le radunò insieme, mettendo insieme l’umanità nella divinità, mostrando in questo modo a tutti che la via che porta in alto è l’umanità, presentandosi come modello agli uomini e ai santi angeli.

6. La via del ritorno è l’umiltà
Oggi quindi gli angeli hanno ricevuto l’immutabile, avendo appreso dal Maestro che il cammino che innalza e fa somigliare a lui, non è l’orgoglio ma l’umiltà; così gli uomini hanno avuto la possibilità di correggersi più facilmente sapendo che la via del ritorno (verso l’alto) è l’umiltà; da allora il principe del male, che è la vanità stessa[7], è stato svergognato e abbattuto, lui che sembra essere stabile e credeva di essere qualcuno solo perché aveva reso alcuni suoi schiavi, aveva trascinato altri con sé nel desiderio di essere di più, aveva sperato di trascinare altri nella smisurata follia dell’orgoglio, ma era stato scoperto e deriso da coloro che egli prima aveva ingannato con malizia. E ora che è nato il Cristo, il maligno è calpestato da coloro che una volta giacevano sotto i suoi piedi, è vinto da coloro che hanno smesso di nutrire sentimenti di orgoglio come suggeriva il nemico, e che al contrario sono attratti da ciò che è umilef, secondo le parole e le opere del Salvatore, e grazie all’umiltà, ottengono di essere innalzati al di sopra del mondo.

7. Si abbassa per farci censire con lui, Signore del cielo
Ecco perché Dio che regna sui cherubinig giace oggi sulla terra come un bambino appena nato. Lui che i serafini dalle sei ali non potevano contemplare, non solo perché non potevano vedere la sua natura, ma perché non potevano neanche sostenere con i loro occhi lo splendore della sua gloria – e perciò si coprono il viso con le alih – è lui che vediamo con i nostri sensi e che, fattosi carne, si presenta ai nostri occhi di carne. Lui che delimita ogni cosa e che non è delimitato da nulla, oggi è circoscritto in una semplice e piccola mangiatoia. Colui che contiene e stringe tutto nella sua mano, è avvolto in fasce sottili e stretto da nodi comuni. Colui che possiede la ricchezza di tesori inesauribili, si sottomette volontariamente a una povertà tale che non vi è neppure posto per lui nella locanda. Colui che è stato generato da Dio fuori del tempo, impassibilmente e senza principio, si abbassa a entrare in una grotta per essere partorito. In più, o miracolo, non solo lui che è della stessa natura del Padre altissimo si riveste, per nascita, della nostra natura che giaceva nel più basso. Non solo si sottomette a questa suprema povertà, nascendo in una misera grotta, ma subito, fin dal concepimento, accetta l’estrema condanna della nostra natura e si unisce ai suoi servi e si fa censire con loroi, lui che per natura è il Signore dell’universo, senza considerare il servire come uno stato di disonore rispetto al regnare, ma anzi rende i servi più degni del padrone che regnava allora sulla terra, a condizione che però capissero e si sottomettessero alla grandezza del dono. L’uomo che allora credeva di essere il padrone della terra non viene censito con il Re dei cieli, ma soltanto coloro che sono sottomessi alla potenza del Signore del cielo sono censiti con lui.

8. Plasmati e chiamati di nuovo
Così canta a Dio Davide che per mezzo di colui che ora è partorito nella sua terra è antenato di Dio: Le tue mani ma hanno fatto e plasmato, fammi capire e imparerò i tuoi comandij. Perché dice questo? Perché solo colui che ha modellato l’uomo gli può dare la vera intelligenza. E l’uomo istruito, colui che ha capito a fondo l’onore che ha ricevuto la nostra natura plasmata dalle sue mani a sua immaginek, che è riuscito a prendere coscienza del suo amore per gli uomini, costui accorrerà a lui, gli obbedirà e imparerà i suoi comandamenti; a maggior ragione lo farà se comprende, per quanto gli è possibile, che Dio ci ha plasmati e chiamati di nuovo. Infatti, Dio ha plasmato con la sua mano la nostra natura, a partire dalla terra, e ha soffiato in essa la vita che viene da lui stesso, da lui che ha creato tutto con una parola, lui che ha creato la natura ragionevole e padrona della sua coscienza, libera anche di governare i propri pensieri secondo il proprio movimento; ma essa, una volta lasciata sola, fu ingannata dal consiglio del maligno, e non potendo resistere alle sue insidie, non conservò ciò che gli era naturale, ma scivolò verso ciò che era contro natura. Ecco perché, ora, Dio non si limita a rimodellare meravigliosamente con le sue mani la nostra natura, ma anche la contiene in lui; non la assume soltanto per strapparla alla decadenza, ma la riveste ineffabilmente, unendosi senza separarsi da lei, generato come Dio e uomo insieme, nato da una donnal, per riconquistare quella medesima natura che egli aveva modellato nei nostri antenati, nato da una vergine per creare un uomo nuovo.

9. Una fonte inesauribile
Perché, se fosse nato da un seme umano, non sarebbe uomo nuovo; sarebbe di vecchio stampo ed erede della caduta, e non avrebbe potuto ricevere in lui la pienezza della pura divinità e diventare fonte inesauribile di santificazione. Così, non solo egli con la potenza non avrebbe potuto lavare la macchia del peccato dei nostri primi padri, ma neppure avrebbe potuto portare la santificazione a coloro che hanno vissuto dopo. Come infatti l’acqua presentata in un vaso non basta a dissetare la sete continua degli abitanti di una città molto grande (meglio sarebbe che questa avesse entro le sue mura la propria fonte così da non doversi mai arrendere per sete ai nemici), allo stesso modo, nessuno poteva provvedere alla santificazione continua di tutti, né un uomo, né un angelo, nessuno che possedesse solo per partecipazione la facoltà di santificare. Era necessaria una fonte che avesse in se stessa una sorgente, affinché coloro che ad essa si fossero avvicinati e da essa avessero bevuto, fossero rimasti invincibili di fronte a coloro che sferravano l’attacco alle debolezze e alle deficienze della loro natura. Perciò non è un angelo, né un uomo, ma il Signore stesso che è venuto a salvarcim, divenendo per noi uomo tramite di noi, rimanendo al tempo stesso immutabilmente Dio. Costruendo infatti la nuova Gerusalemme e innalzando a se stesso un tempio con pietre viven e radunando noi, Chiesa santa e cattolica, egli costruisce sulla sua pietra angolare che è Cristoo, la fonte inesauribile della grazia. Sì, la vita piena e sovrana ed eterna, la natura onnisciente e onnipotente si unisce alla natura che a causa della debolezza era sottomessa al maligno, che a causa della mancanza di vita divina giaceva negli abissi degli inferi; di modo che può produrre in se stessa sapienza, potenza, libertà e vita senza colpe.

10. La stella offre i Magi come primo dono al Signore
E vediamo i simboli di questa unione ineffabile e del vantaggio immediato che ne deriva anche per coloro che erano dispersi e lontani. Una stella fa strada con i re Magi, si ferma dove si fermavano loro, va avanti con loro quando si spostano; o meglio essa stessa li trascina e li chiama sulla strada, aprendo loro il cammino e precedendoli; si offre come guida per i re Magi che camminano; concede loro ogni tanto un riposo naturale, ma rimane sul posto per non abbandonarli o scoraggiarli con la sua assenza, evitando che rimanesse incompiuta la sua missione di guida. Ora, sta di fatto che non li ha afflitti nascondendosi loro quando giunsero a Gerusalemmep.
Perché mai si nascose quando i Magi giunsero là? Per fare di loro, a causa delle domande che avrebbero posto, annunciatori insospettabili di Cristo, nato quel giorno secondo la carneq. Ma siccome avevano voluto sapere dai giudei dove, secondo le Sacre Scritture, era nato il Cristo, la stella divina ha permesso che loro ci insegnassero a non cercare più di imparare dai giudei ciò che riguarda la legge e i profeti, ma a ricercare l’insegnamento che viene dal cielo, perché non ci allontanassimo più dalla grazia e dall’illuminazione che ci viene dall’alto. Quando i Magi uscirono da Gerusalemme, la stella apparve loro di nuovo e li riempì di gioia: precedendoli li condusse finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambinor, e con essi adorò pienamente il bambino del cielo e della terra. E la stella offrì i Magi come primo dono al Dio partorito sulla terra e per mezzo di essi, come dice il profeta Isaia, offrì tutta la nazione assira: In quel giorno, Israele sarà il terzo con l’Egitto e la Siria, una benedizione in mezzo alla terras, come infatti vediamo che è avvenuto oggi. Sì, all’adorazione dei re Magi segue immediatamente la fuga di Gesù in Egittot mediante la quale Dio allontanò gli Egiziani dal culto degli idoli. Dopo il suo ritorno dall’Egitto, il popolo di Dio, degno della salvezza, fu tratto da Israele.

11. Pastori e angeli insieme
Tutto questo, Isaia lo ha chiaramente preannunciato: i Magi si prostrarono in adorazione offrendo in dono oro, incenso e mirrau a colui che con la sua morte (di cui la mirra è simbolo), ci ha dato la sua vita divina (di cui l’incenso è immagine) e la luce divina e il regno (rappresentata dall’oro offerto al Signore dell’eterna gloria). Per colui che è nato oggi, anche i pastori costituiscono un coro insieme agli angeli, e cantano lo stesso canto, ritmano una comune melodia: non sono gli angeli a prendere i flauti dalle mani dei pastori, ma i pastori, risplendenti della luce degli angeli, stanno in mezzo alla schiera celeste e imparano dagli angeli l’inno celeste, o meglio, l’inno del cielo e della terra insieme. Dicono: Gloria a Dio nell’alto dei cieli e sulla terrav. D’ora innanzi colui che abita nell’alto dei cieli ed è Signore delle altezze celesti, ha per trono la terra e riceve sulla terra una glorificazione uguale a quella che gli rivolgono, in alto, i santi e gli angeli.

12. Gli angeli cantano ugualmente in cielo e sulla terra
Ma quale è la causa di questa glorificazione comune degli angeli e degli uomini, e quale è la buona notizia celebrata dai pastori e da tutti gli uomini con tanti inni di gioia? Ecco – si dice –, vi annuncio una buona novella, grande gioia per tutto il popolow. Che significa e di quale gioia universale si tratta? Ascoltate fino alla fine il canto della buona novella e capite: pace – dice – e benevolenza di Dio fra gli uominix. Sì, quel Dio che si era adirato con il genere umano e lo aveva sottoposto a terribili maledizioni, viene attraverso la carne a portare la sua pace agli uomini e a riconciliarli con il Padre altissimo. Perché “ecco – dicono gli angeli – egli non è stato generato per noi, anche se adesso vedendolo sulla terra anche noi lo lodiamo come nel cielo, ma per voi uomini, e questo significa: per voi e tramite voi è nato il Salvatore, il Cristo Signore nella città di Davide”.

13. La pace e la benevolenza ci vengono date solo in Cristo Gesù
Ma che significa questa benevolenza di Dio aggiunta alla pace, poiché è detto: pace fra gli uomini di buona volontày. Dio ha mostrato anche prima agli uomini i segni della sua pace. Infatti, con Mosè, egli conversava come uno che parla con un suo amicoz; come anche a proposito di Davide si dice: lo trovò secondo il suo cuoreaa, e a tutta la stirpe dei giudei diede segni di pace scendendo per loro sul monte e parlando loro attraverso il fuoco e la nube tenebrosaab. Ma non era questa ancora benevolenza. La benevolenza indica la volontà di Dio che si compiace in se stessa, fonte originale e perfetta di bene. Ma non è tale quella benevolenza che fa del bene solo ad alcuni uomini o a una nazione. Per questo Dio ha chiamato molti uomini suoi figli, ma uno solo è colui nel quale pose la sua benevolenzaac: allo stesso modo, spesso ha dato la pace, ma una sola porta con sé anche la benevolenza, quella che è data come perfetta e immutabile attraverso l’incarnazione di nostro Signore Gesù Cristo, data a tutto il genere umano e a tutti coloro che la desiderano.

14. La pace è anche uno stile di vita
Questa pace, fratelli, teniamola presso di noi con tutte le nostre forze: perché l’abbiamo ricevuta come un’eredità da parte di colui che è appena nato, il nostro Salvatore, lui che ci ha donato lo spirito di adozione grazie alla quale diventiamo eredi di Dio e coeredi di Cristoad. Viviamo dunque in pace con Dio, compiendo quelle opere a lui gradite, l’integrità, la verità, l’opera giusta, avendo cura di essere assidui nelle preghiere e nelle supplicheae, con canti e salmi nei nostri cuoriaf e non solo sulle nostre labbra. Viviamo in pace con noi stessi sottomettendo la carne allo spirito, scegliendo uno stile di vita coerente con la nostra coscienza e badiamo che i nostri pensieri dentro di noi siano in armonia e santi. Perché è così che metteremo fine alla vera guerra civile, quella che è in atto in noi. Viviamo in pace gli uni con gli altri, sopportandoci e perdonandoci a vicenda se abbiamo qualche motivo di lamentarci di qualcuno, così come il Cristo ha perdonato a noiag; dimostriamo che la compassioni che abbiamo l’uno verso l’altro deriva dal vicendevole amore, come anche Cristo soltanto per amore per noi fu misericordioso e discese fino a noi. Così infatti, con il suo aiuto e la sua grazia, risollevati dalla decadenza del peccato ed elevati per mezzo delle virtù, saremo cittadini del regno dei cieliah; di là riceviamo anche la speranza, la liberazione dalla corruzione, il godimento dei beni celesti ed eterni, come figli del Padre che è nei cieli.
Sia dato a tutti di ottenere tali doni nella futura venuta e nella manifestazione gloriosa del nostro Signore Dio e Salvatore Gesù Cristoai, al quale sia lode nei secoli eterni. Amen.

Tratto da:
Gregorio Palamas, L’UOMO MISTERO DI LUCE INCREATA, Pagine scelte, Paoline 2005, pp 118-130.

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SOLENNITÀ DELL’EPIFANIA DEL SIGNORE – OMELIA DI PAOLO VI 1973

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1973/documents/hf_p-vi_hom_19730106_it.html

SOLENNITÀ DELL’EPIFANIA DEL SIGNORE

OMELIA DI  PAOLO VI

Sabato, 6 gennaio 1973

Venerati Fratelli e Figli carissimi,

questa solenne e piissima cerimonia si iscrive in tre grandi disegni, i quali si aprono sopra di noi e d’intorno a noi, come sconfinati orizzonti. Non possiamo restringere il nostro sguardo al rito, che stiamo compiendo, senza lasciare che da tali amplissimi disegni giungano al nostro rito la luce, il significato, il mistero, di cui sono superiore sorgente.
Il primo disegno, da cui l’atto religioso in via di celebrazione, acquista il senso ed il valore suo proprio, è quello liturgico. Noi celebriamo la festa dell’Epifania. Tutti sappiamo la densità di motivi culturali, ai quali tale festa si riferisce. A noi ora basti considerarli nel loro significato sintetico, e cioè la manifestazione di Dio avvenuta mediante 1’Incarnazione: la teofania che si è compiuta umanamente e storicamente in Cristo Gesù: l’apparizione di Dio nel quadro temporale e sensibile della rivelazione cristiana. «Il mistero occultato ai secoli e alle generazioni ora è stato rivelato . . .» (Col. 1, 26). Il problema spirituale dell’umanità, l’attesa profetica delle religioni vaganti sulla terra e nei tempi in cerca d’un incontro autentico e felice col Dio ignoto, o soltanto conosciuto per via di processi logici negativi o superlativi, per via di segni insufficienti, atti piuttosto a suscitare il desiderio di Dio, che a conferire la gioia d’un vero e ineffabile incontro con Lui, la questione religiosa nel suo contenuto reale e profondo, e nella sua universale estensione, ha avuto la sua soluzione, la sua chiave d’intelligenza e di possesso, ha avuto il suo punto focale di spiegazione e di ordinamento concreto. La vera religione ci è stata aperta ed offerta (Cfr. 1 Io. 1, 1-4). Merita un tale avvenimento una riflessione senza fine. L’interpretazione globale della storia è resa possibile. L’umanità ha trovato il principio della sua fratellanza, della sua unificazione. La salvezza ha inaugurato il suo dramma meraviglioso e tremendo: «è nato per noi un Salvatore» (Luc. 2, 11), e si chiama Gesù (Matth. 1, 21); Lui è l’immagine trascendente e pur visibile e a noi familiare del Padre (Cfr. Io. 14, 9); Lui è l’«Alpha e l’Omega, il principio e la fine» (Apoc. 1, 8). A Lui gridiamo con Tommaso: «mio Signore e mio Dio»! (Io. 20, 28)
Una tale visione del cielo liturgico odierno basterebbe per tenerci incantati in una indefinita contemplazione.
Se non che è per noi dovere e piacere cogliere nell’immenso panorama dell’Epifania un disegno che ci tocca direttamente, quello missionario; quello cioè della diffusione della rivelazione avvenuta in Cristo Signore. Gesù è venuto in silenzio ed in umiltà, ma non per nascondersi, non per circoscrivere l’irradiazione della sua presenza nel mondo; ma piuttosto per rendere accessibili a chi lo cerca, a chi lo accoglie i sentieri più piani (Cfr. IGN. ANT. Ad Eph. 18-19). Vi è un’intenzione missionaria nelle modalità stesse, con cui Gesù Cristo entrò nel mondo e svolse poi il suo disegno evangelico. Vi è un’economia storico-umana a cui certo presiede una guida divina circa la diffusione del Vangelo nel mondo. Ecco. La presenza dei Magi a Betlemme, commemorata in modo particolare oggi dalla Chiesa, indica che subito Gesù, appena nato, è disponibile per alcuni, quasi fosse per tutti; anzi piuttosto, secondo un’economia particolare, la quale sembra riservare ai più lontani i primi posti. Con la nascita di Gesù nel mondo è accesa una stella, è accesa una vocazione luminosa; carovane di popoli si mettono in cammino (Cfr. Is. 60, 1 ss.); vie nuove si tracciano sulla terra; vie che arrivano, e per ciò stesso vie che partono. Cristo è il centro. Anzi Cristo è il cuore: una circolazione nuova per gli uomini è incominciata; essa non terminerà mai più. Anzi essa è destinata a costituire un programma essenziale per la Chiesa, cioè per la comunità degli uomini credenti in Cristo e formanti corpo con Lui. Un programma, una necessità, una urgenza, uno sforzo continuo, che ha la sua ragion d’essere nel fatto che Cristo è il Salvatore, Cristo è necessario, Cristo è potenzialmente universale, e che Cristo vuole essere annunciato, predicato, diffuso da un ministero di fratelli, da un apostolato di uomini inviati apposta da Lui per recare all’umanità il messaggio della verità, della fratellanza, della libertà, della pace (Cfr. Ad Gentes).
Ecco l’arco dello sforzo missionario delinearsi sopra questa cerimonia; essa è di per sé missionaria, ed una circostanza speciale ne mette in gloriosa evidenza l’intenzione. Voi sapete che una data significativa, il trecentocinquantesimo anniversario dell’istituzione dell’organo specificamente missionario della santa Chiesa cattolica, ci ricorda questa legge intrinseca della fede: la necessità della diffusione del Vangelo e della fede, della Chiesa perciò; e ci ricorda come storicamente la Sacra Congregazione «de Propaganda Fide», oggi denominata «per L’Evangelizzazione dei Popoli», abbia sapientemente, coraggiosamente, tenacemente incarnato tale legge, dando alle Missioni cattoliche impulso, direzione, sostegno, diffusione, senza più tregua, né senza mai concludere l’opera ed attenuare lo sforzo; opera c sforzo, che dopo tante esperienze, non poche rinomate per santità e illustrate da sacrifici incalcolabili, perfino dalla testimonianza estrema del sangue, reclamano oggi nuova, anzi maggiore adesione. Le Missioni, si direbbe, sono sempre al principio! Né le ragioni supreme della loro necessità, né i bisogni della loro attività, né le difficoltà per la loro espansione sono venute meno. Crescono piuttosto, con l’evoluzione civile dei Popoli; la quale, mentre apre la loro recettività al messaggio evangelico, ovvero in alcuni luoghi piuttosto la rende più delicata e difficile, aumenta il loro bisogno, diciamo pure il loro morale diritto, a ricevere, e il nostro comune dovere a far loro ricevere dal missionario l’annunzio evangelico.
Temi di tanta importanza e di tale ampiezza, voi ben lo sapete, meritano studio adeguato, che non certo intendiamo svolgere in questo momento, né in questa sede. Ma un atto ci sembra obbligatorio proprio in questo momento ed in questa sede: un atto d’impegno, una promessa: quella di dare, di ridare il cuore alla causa delle Missioni. Ce ne fa obbligo, dicevamo, la natura di questa causa; è quella di Cristo e dell’umanità; è quella del Vangelo, quella della salvezza cristiana di tanti uomini ancora privi della Fede; è quella della civiltà umana abilitata a interpretare e a perseguire i destini autentici della vita umana. Ce ne fa obbligo la recente tradizione missionaria, della quale si è nello scorso anno celebrata la storia eroica, più che mai degna e bisognosa d’essere continuata e promossa. Ce ne fa obbligo altresì la felice circostanza di questa storica cerimonia, nella quale un terzo disegno provvidenziale distende le sue linee ammirabili; ed è quello che presenta al nostro ministero apostolico questi alunni delle nostre Scuole Missionarie Romane, affinché noi conferiamo loro l’ordinazione sacerdotale!
Oh! momento sublime e decisivo, tipicamente missionario! Oh! davvero come il nostro cuore sente la commozione per essere ora noi stessi ministri d’un tanto sacramento! Oh! dove ne cercheremo noi l’essenziale segreto, se non nelle parole stesse di Cristo, le quali non tanto echeggiano come lontano ricordo, ma risuonano con una loro identica attualità nel ministero che stiamo compiendo: «Come il Padre ha mandato me, anch’Io mando voi . . . Ricevete lo Spirito Santo . . .» (Io. 20, 21-22). Qui è la sorgente vitale della missione evangelica. Cristo non affida soltanto un semplice incarico apostolico; Egli trasfonde la potestà, la virtù di compierlo; Egli così associa a Sé alcuni uomini da Lui scelti ed eletti, da abilitarli ad agire per sua potestà; li segna di Sé, così che, come altri Lui stesso, possano compiere con divina efficacia una determinata funzione, quella sacerdotale, intermediaria tra Dio e gli uomini, quella propria di Cristo, unico Mediatore, la quale in loro si caratterizza ontologicamente in un modo peculiare e indelebile, rendendoli partecipi del suo unico ed eterno Sacerdozio.
Oh! prodigiosa estensione del mistero proprio di Cristo! oh! momento generatore d’ogni altra vitalità ecclesiale! oh! profilo della bellezza della Chiesa, reso evidente dall’azione salvatrice di Dio operante per via di strumenti umani, fatti veicoli della sua carità! (Cfr. S. TH. Suppl. III, 24, 1) Oh! Epifania, che ti prolunghi nei secoli e ti diffondi per tutte le regioni della terra! Questa è un’ora tua, questa ì, un’ora nostra! ora di luce, ora di vita, ora di speranza, ora di gaudio, che mentre celebri l’universale vocazione dei Popoli all’unità della fede, tu trasformi la missione, che ne reca il felicissimo annuncio, da forestiera e pellegrina in autoctona e permanente.
Salutiamo con estremo interesse il fenomeno missionario, che si compie sulla tomba del primo Apostolo, il pescatore di Galilea trasformato da Cristo in pescatore di uomini (Matth. 4, 19), l’entusiasta ma debole discepolo, riscattato poi dall’amore a Cristo per essere dopo di Cristo ed in sua vece, sostenuto lui stesso dal grave peso delle chiavi del regno messe nelle sue mani, il pastore buono e zelante del gregge evangelico, pronto egli pure a testimoniare di fronte alle avversità implacabili del mondo (Cfr. Act. 5, 41) quel nome di Gesù, nel quale solo è salvezza (Cfr. Act. 4, 12; 1 Petr. 4, 12 ss.).
Sacerdoti novelli di Paesi missionari, salute a voi! Noi per primi onoriamo il carisma sacramentale del Sacerdozio di Cristo, Sacerdozio che ora a voi trasmetteremo per virtù dello Spirito Santo! Molte, troppe cose noi vorremmo a voi dire in questo momento! La vostra storia familiare e sociale ci è presente: vorremmo più a lungo discorrere della parentela spirituale, della comunione, che codesta ordinazione stabilisce fra i vostri cari, la vostra gente e la Chiesa cattolica intera, e con questa romana specialmente! Vorremmo aver tempo per ringraziare i vostri maestri e quanti hanno spiritualmente ed economicamente contribuito a fare di voi dei nuovi messaggeri del Vangelo! Siano benedetti! Vorremmo parlarvi del mondo al quale siete destinati, e delle prospettive affascinanti e avventurose del vostro futuro ministero. Ma ad una parola sola ora noi affideremo l’esuberanza dei nostri sentimenti, la parola tanto spesso ripetuta da Gesù ai suoi discepoli: «Non abbiate paura!» (Cfr. Matth. 10, 28; Luc. 12, 7; 12, 32; Marc. 6, 50; Io. 6, 20; etc.). La sproporzione delle forze umane e la grandezza della missione a voi affidata giustifica questa raccomandazione, valevole per chiunque di noi abbia ricevuto l’investitura del sacerdozio ministeriale. Oggi poi è venuto il momento di ripeterla con la più cordiale energia: non abbiate paura! una tentazione caratteristica del nostro tempo è venuta ad assalire il cuore del prete, la tentazione polimorfa del timore, dell’incertezza, del dubbio. Del dubbio sopra se stesso, pare strano! sopra la così detta identità propria, declinata in molte sottili questioni, che minacciano di abbattere la vittima, che le ha accolte come fondate entro il proprio spirito, quasi fosse infondato, anacronista, superfluo il sacerdozio cattolico, e senza scopo, senza fortuna la sua missione. Certamente voi tutti conoscete l’insidiosa fenomenologia di questa possibile corrosione interiore della certezza soprannaturale, che l’ordine sacro infonde nel ministro fedele: sono Sacerdote di Cristo! Cristo mi ha scelto e mi ha così posseduto da compiere attraverso di me la sua ineffabile missione di salvezza, con la sua parola, con la sua azione sacramentale, con la santa Messa specialmente e l’assoluzione dei peccati, con il ministero pastorale, e, non foss’altro, con il semplice e singolare esempio d’un particolare stile di vita, la vita pura, sacrificata e santa del prete fedele.
Non abbiate paura, vi ripeteremo, figli e fratelli carissimi! abbiate sempre intatta ed insonne coscienza del vostro Sacerdozio; e la vostra vita avrà la sua nuova e vera figura; avrà la sua forza di resistenza e di azione; avrà la sua originalità e vivacità d’amore per ogni anima, per ogni comunità, per ogni attività ordinata al bene della Chiesa, con l’adesione appassionata alla vostra Chiesa locale, e con l’ampiezza sconfinata della carità per la Chiesa universale; avrà la sua perenne Epifania di ricerca, di possesso, di annunzio di Cristo! e sempre, oramai, con la nostra Benedizione Apostolica.

Publié dans:FESTE DEL SIGNORE, PAPA PAOLO VI |on 4 janvier, 2012 |Pas de commentaires »
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