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14 SETTEMBRE: ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE (ANNO B)
La Chiesa Madre di Gerusalemme iniziò a venerare la Santa Croce del Signore sin dalla prima metà del quarto secolo; tale celebrazione coinvolse successivamente l’intera Chiesa Cristiana, in particolare quella d’Oriente, che in questa giornata ricorda il supplizio sulla Croce con una solennità paragonabile a quella della Santa Pasqua. La data (14 settembre) vuole ricordare anche la realizzazione della stupenda basilica sul Golgota (Calvario) per opera di Costantino, inaugurata appunto il 14 settembre del 335; in quell’occasione, durante la celebrazione eucaristica, si annunciò anche il ritrovamento dei resti del “Legno della Croce”. Da allora, ogni anno in tale data, a Gerusalemme e in tutte le Chiese del mondo, l’avvenimento è ricordato con una cerimonia molto suggestiva, durante la quale il sacerdote celebrante alza la Croce verso i quattro punti cardinali, per indicare l’universalità della salvezza; la Croce, infatti, è il “segno” supremo e indelebile della Risurrezione del Signore, e del disegno di bontà che il Padre ha compiuto per la redenzione dell’intera umanità. Oggi la Chiesa, con l’esaltazione della Santa Croce, vuole ricordare il grande amore di Cristo per ogni essere umano, perché su quel “Legno Santo” è stato sconfitto per sempre l’amore per se stessi e ha trionfato definitivamente l’amore per gli altri; la Croce, quindi, è la sintesi dell’amore del Padre nel Figlio per l’intera umanità.
Tutte le letture bibliche rispecchiano questa grande realtà. La prima, tratta dal libro dei Numeri, racconta come Mosè, per salvare il popolo eletto dal giusto castigo (il morso dei serpenti velenosi), innalzò un serpente di bronzo assicurando la salvezza a chiunque lo avesse guardato con fiducia. In realtà, come ricorda esplicitamente l’Apostolo Giovanni nel brano evangelico, si trattò della prefigurazione della Croce sulla quale fu innalzato Gesù di Nazareth (Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna). L’epistola riporta la meravigliosa catechesi dell’Apostolo Paolo ai cristiani di Filippi, dove ricorda come il Figlio di Dio, incarnandosi per la salvezza degli uomini, si umiliò nella morte di Croce fino allo “svuotamento” di tutta la sua gloria divina. Ma il Padre lo ha esaltato dandogli anche come uomo titoli divini; quelli cioè che competevano a JHWH che è l’equivalente greco di Signore.
PRIMA LETTURA
Dal libro dei Numeri 21,4-9
In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio e disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero». Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti velenosi i quali mordevano la gente e un gran numero d’Israeliti morì. Perciò il popolo venne a Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; prega il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè pregò per il popolo. Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà resterà in vita». Mosè allora fece un serpente di rame e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di rame, restava in vita.
Il brano proposto dalla Liturgia come prima lettura in questa solennità che esalta la Santa Croce vede il popolo eletto, ormai esausto, errare nel deserto, sfiduciato e disperato; esso non accetta più il disegno di salvezza del Signore, e nemmeno il grande Patriarca Mosè come mediatore, e chiede di ritornare come schiavo dal faraone in Egitto. Quel “mormorare” nella lingua semitica ha un significato più intenso di un semplice “borbottare” o “mugugnare”, perché rappresenta diffamazione e ribellione nei confronti di un’altra persona; un peccato orribile, rovinoso, come fu per Adamo ed Eva istigati appunto dal serpente, il persuasore della morte. E il Signore, come segno punitivo, invia nell’accampamento degli Israeliti proprio i serpenti mortali, simbolo della potenza sacra del faraone e della sua magia evocatrice di divinità. Dinnanzi a tanta “potenza divina” il popolo pentito si converte, confessa il proprio peccato contro il Signore, e chiede a Mosè di intercedere per ottenere la salvezza che Dio, nella sua infinita bontà, non può che concedere, subordinandola però alla fabbricazione di un serpente di bronzo (gioco di parole ebraico tra “nahash”, il serpe, e “nehushtan”, bronzo), da innalzare e guardare con fiducia.
Il pregio del racconto non è evidentemente nella realizzazione del serpente di bronzo (probabilmente legato a un culto idolatrico del tempo), ma nell’atto di fede in JHWH che ha donato al popolo eletto il simbolo materiale per manifestare il proprio pentimento; un espediente divino per dimostrare che la salvezza (fisica e spirituale) può avvenire unicamente per la fiducia in Dio o, meglio, in Cristo innalzato sulla Croce. Riflettendo sullo sguardo pieno di fiducia degli Israeliti rivolto al serpente per ottenere la guarigione (uno sguardo proteso verso la salvezza), viene spontaneo meditare su altri due sguardi: lo sguardo di quanti, “quel giorno” sul Golgota, contemplarono Gesù innalzato sulla Croce (tra cielo e terra) per la salvezza del mondo, e lo sguardo di coloro che quotidianamente, pieni di fiducia, si rivolgono al Crocifisso sicuri di essere compresi e aiutati. Nel momento più tragico della sua breve vita terrena, anche lo sguardo di Gesù si è sicuramente posato su ciascuno dei presenti, abbracciando così l’umanità intera che ancora oggi continua a sperare nella ricchezza inesauribile del suo amore.
SALMO RESPONSORIALE
Dal Salmo 77
Sei tu, Signore, la nostra salvezza.
Popolo mio, porgi l’orecchio al mio insegnamento, ascolta le parole della mia bocca. Aprirò la mia bocca in parabole, rievocherò gli arcani dei tempi antichi.
Quando li faceva perire, lo cercavano, ritornavano e ancora si volgevano a Dio; ricordavano che Dio è loro rupe, e Dio, l’Altissimo, il loro salvatore.
Lo lusingavano con la bocca e gli mentivano con la lingua; il loro cuore non era sincero con lui e non erano fedeli alla sua alleanza.
Ed egli, pietoso, perdonava la colpa, li perdonava invece di distruggerli. Molte volte placò la sua ira e trattenne il suo furore.
Il Salmo 77, nel suo insieme, è un’immensa meditazione sulla storia della salvezza che ha ispirato anche il grande compositore Händel quando realizzò la sua stupenda opera (oratorio) “Israele in Egitto”. Lo stile, però, è più quello della lode che della descrizione storica, perché il “credo” d’Israele si fonda esclusivamente sulle azioni che Dio compie nella storia dell’uomo.
Il breve testo proposto dalla Liturgia inizia con le parole dell’orante che, in forma sapienziale, invita l’intera assemblea ad ascoltare le sue parole perché provengono direttamente da Dio, che in forma allegorica (parabola) rivela i segreti della storia passata, perché diventino tesoro della vita presente. Successivamente l’Autore Sacro rievoca, in modo discreto, l’episodio dei serpenti mortali nel deserto e la conversione del popolo al Signore, unico vero Guaritore e Redentore (Quando li faceva perire, lo cercavano, ritornavano e ancora si volgevano a Dio), e termina ricordando come egli (il Signore), nella sua infinita bontà, punisce, ma non distrugge, e aiuta sempre chi crede nelle sue opere divine.
SECONDA LETTURA
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi 2,6-11
Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.
Le semplici parole tratte dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi, proposte come seconda lettura in questa solennità che esalta la Santa Croce, racchiudono un sublime e inesauribile “inno cristologico”; in poche, ma densissime, espressioni l’Apostolo delle genti descrive l’arco dell’abissale “annientamento” del Cristo che, più di un’umiliazione, egli vede come uno “svuotamento” o, meglio, uno “spogliamento” del divino che preesisteva nel Figlio di Dio. La morte di Croce, accettata in spirito di obbedienza al Padre, rappresenta l’ultimo gradino di questo suo volontario “sprofondare” nella più mortificante situazione umana. Paolo, però, non chiude la sua immagine su questo abisso di apparente sconfitta di Cristo; egli fa intravedere anche la sua successiva esaltazione a Signore della gloria, mediante il prodigio della Risurrezione. Il brano si inserisce in un contesto ben preciso: perché regni l’umiltà, l’amore e la concordia tra i fratelli, è necessario avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù; egli non ha avuto paura, e come vero Servo sofferente ha vissuto fino alla morte l’esperienza umana; per questo Dio ha premiato la sua fedeltà glorificandolo e rendendolo Signore. Paolo, in questo modo, raffigura sia l’incarnazione, sia il mistero pasquale che non è solo “Risurrezione” da morte, ma anche “Esaltazione”, cioè innalzamento, ascensione, glorificazione del Risorto nei cieli della divinità.
È affascinante il contrasto tra la “passione” e la “gloria” di Cristo proposto dall’Apostolo delle genti: inizialmente egli vede la discesa umiliante del Figlio di Dio che “precipita” fino allo “svuotamento” (tale è il senso del verbo greco “ekenosen”) di tutta la sua gloria divina con la morte di Croce e con il supplizio dello schiavo, diventando così l’ultimo degli uomini, ma vicino e fratello dell’intera umanità; successivamente Paolo descrive l’ascesa trionfale che si compie nella Pasqua, quando Cristo si presenta nello splendore della sua divinità con il nome di Signore nell’esaltazione gloriosa celebrata da tutto il cosmo (cieli, terra e inferi) e da tutta la storia ormai redenti. Sono delle affermazioni molto belle, che fanno comprendere come la salvezza divina sia destinata a tutta l’umanità, perché è il frutto dell’intervento onnipotente di Dio nella storia dell’uomo; egli ha sacrificato il Figlio per la salvezza della sua creatura più cara; un “dono” che deve essere “meritato” attraverso una docile e gioiosa corrispondenza.
L’uomo, anche se credente, generalmente parla dell’Incarnazione e del sacrificio della Croce in modo superficiale, come di qualche cosa di semplice e di naturale; in realtà egli non ha nessuna esperienza della natura divina e conosce in modo superficiale anche se stesso. Quando questo “balzo” dall’eternità nel tempo è proposto come modello di carità, se non è meditato profondamente è possibile venga considerato come un semplice paradosso senza incidenza concreta. “Dare la vita per i propri fratelli” può diventare una “frase fatta” se l’esperienza di un Vangelo vissuto personalmente non crea almeno i presupposti di una vita in comune con Cristo incarnato, crocifisso e risorto.
IL VANGELO
Dal Vangelo secondo Giovanni 3,13-17
In quel tempo Gesù disse a Nicodemo: «Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui».
Il brano evangelico di questa particolare solennità segue il colloquio di Gesù con Nicodemo (fariseo, maestro della legge, che divenne discepolo di Gesù difendendolo davanti al sinedrio) e presenta in modo concreto la realtà della fede cristiana che dona la vita (la passione di Cristo simbolizzata nel serpente di bronzo, e l’amore del Padre che nel Figlio vuole la salvezza di ogni essere umano); un agire divino nella storia o, meglio, un rivelarsi dell’amore di Dio che, allora come oggi, non è stato da tutti compreso e accettato, provocando la divisione fra gli uomini. A Nicodemo il Rabbi di Nazareth rivela, che per avere la vita eterna, è necessario “rinascere”, cioè “nascere dall’Alto” (dal Cielo) per mezzo della potenza dello Spirito battesimale; concetti stupendi, ma di difficile comprensione, non solo per Nicodemo, ma anche per un vero cristiano credente. A causa del peccato umano, infatti, vi è una “distanza” enorme tra la terra e il cielo, che è la metafora per indicare il “luogo” inaccessibile del Dio trascendente al quale nessuno potrà mai accostarsi con le sole forze umane.
Solo Cristo, unica “primizia”, è già “asceso al cielo” dal Padre, perché è colui che da sempre è presente nella pienezza del seno paterno, da dove è disceso nell’abisso di perdizione degli uomini peccatori; egli è “il Figlio dell’uomo” (l’unico nome che Gesù si sia dato nella sua breve vita terrena), cioè colui che è presente in Dio, viene da Dio e da Dio è inviato (nella forma di figlio di uomo) agli uomini per riportare il Regno, la gloria e la gioia tra gli uomini. Quindi, Dio, essere divino, si è fatto uomo nel Figlio Gesù Cristo (il mistero dell’Incarnazione) per annunciare la salvezza all’intera umanità; una “venuta” che, nonostante sia stata annunciata dai Profeti, non fu realmente attesa dal popolo eletto. Egli, come il “serpente di bronzo” che Mosè eresse nel deserto per la conversione e la guarigione degli Israeliti, sarà “innalzato” o, meglio “esaltato” sulla Croce, il trono della divina gloria e dell’eterna misericordia; questa esaltazione del Figlio dell’uomo sofferente sulla Croce è voluta dal disegno divino, che sempre agisce in modo contrario alla logica umana. Dio ama da sempre il mondo e la sua creatura più cara in modo così esclusivo da comportarsi in modo apparentemente assurdo e quasi paradossale; egli, abbandonando sulla Croce l’unica realtà dovuta alla sua paternità divina (il suo unico Figlio), praticamente dona la parte più intima di se stesso. Per avere la salvezza eterna è necessario credere in questa grande verità che solo lo Spirito Santo può rivelare: un “intervento salvifico” operato dal Padre mediante il Figlio e lo Spirito.
Al termine del commento di questa stupenda pagina evangelica è bello evocare una delle più celebri parafrasi del “Padre nostro”, quella che, al canto undicesimo del primo girone del Purgatorio di Dante, è recitata dalla lenta processione degli spiriti superbi.
Preghiera
O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore
da ogne creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno
ché noi a essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi.
Da’ oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest’ultima preghiera, segnor caro,
già non si per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restano.
Amen.