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6 GENNAIO – EPIFANIA DEL SIGNORE GESÙ: «ABBIAMO VISTO SORGERE LA SUA STELLA E SIAMO VENUTI PER ADORARLO»

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6 GENNAIO | EPIFANIA DEL SIGNORE GESÙ | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

EPIFANIA DEL SIGNORE

«ABBIAMO VISTO SORGERE LA SUA STELLA E SIAMO VENUTI PER ADORARLO»

«Oggi in Cristo, luce del mondo, tu hai rivelato ai popoli il mistero della salvezza, e in lui apparso nella nostra carne mortale ci hai rinnovati con la gloria dell’immortalità divina». In queste parole del Prefazio mi sembra che si esprima mirabilmente il senso della festa dell’Epifania, tutta luce e splendore: la «manifestazione» di Gesù come Figlio di Dio e Salvatore al cospetto di tutti i popoli e, nello stesso tempo, la «manifestazione» degli effetti prodigiosi della salvezza in quelli che si lasciano da lui «rinnovare», partecipando alla «gloria dell’immortalità divina». L’Epifania perciò intende celebrare una doppia irradiazione di luce e di splendore: quella che si sprigiona con forza irresistibile da Cristo e quella che si rifrange, per via di partecipazione, sul volto della Chiesa in quanto «corpo» del Signore.

«Nato Gesù a Betlemme, alcuni Magi giunsero da Oriente» Tutto questo lo ritroviamo espresso e approfondito nella mirabile scena dei Magi, che vengono di lontano per «adorare» il Signore, guidati da una «stella» prodigiosa, e poi ritornano nel loro «paese» diventando essi stessi annunciatori di quella «luce» che li aveva avvolti e compenetrati. Sono da tutti risapute le difficoltà, soprattutto di carattere storico, che presenta questo racconto. Tutto rimane sospeso nel vago, a incominciare dagli stessi protagonisti, che non riusciamo a sapere con precisione chi fossero. Il termine «mago» (in greco mágos), infatti, può significare diverse cose: i sacerdoti persiani di Zaratustra, gli esperti in arti magiche che facevano ricorso allo studio degli astri, certi propagandisti religiosi di quel tempo, ecc. Anche del loro luogo di provenienza non sappiamo niente più di quello che ci dice il testo: venivano «dall’Oriente» (v. 1), cioè da una delle infinite regioni ad est della Palestina (Mesopotamia, Persia, Arabia, India, ecc.). Perché Matteo, che è il solo a parlarcene, non ci dice qualcosa di più preciso? Era anche lui a corto di notizie, o ha voluto sfumare i contorni di un ben preciso episodio per farne il «simbolo» di una messaggio religioso molto più ampio del fatto storico in sé e per sé? Tutte domande legittime, che dobbiamo tenere presenti per non forzare il testo, né riducendolo a un racconto di pura storiografia, né svaporandolo a leggenda edificatoria. L’equilibrio probabilmente sta nel mezzo: un fatto storico, dai contorni un po’ evanescenti, che all’Evangelista interessa soprattutto per il suo significato religioso, che si inserisce mirabilmente nella struttura del suo Vangelo. Sforzandoci dunque di leggere questo brano narrativo secondo l’ottica del primo Evangelista, quali sono gli elementi del messaggio religioso che egli intende trasmetterci? Prima di tutto, la capacità di «autotestimonianza» di Cristo a se stesso: è lui, infatti, che attira a sé gli uomini, anche più lontani e diversi, con la sola forza della sua «presenza» in mezzo a noi. Questo mi sembra indicare, comunque si interpreti, quella «stella» prodigiosa che è la vera protagonista di tutto l’episodio: «Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti per adorarlo», dichiarano i Magi al re Erode (v. 2). A Gerusalemme però essa scompare, forse perché non c’era luce nel cuore dei suoi abitanti! Quando poi i Magi riprendono il cammino verso Betlemme, «ecco che la stella, che avevano vista nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia» (vv. 9-10). Non sono gli uomini a cercare Cristo, ma è lui che va alla ricerca degli uomini per attirarli a sé. E questo perché egli è la «luce» e la luce è sufficiente a «rendere testimonianza a se stessa» (sant’Agostino): basta che il sole la mattina si affacci all’orizzonte perché la terra sia illuminata e gli uomini siano avvolti dal suo splendore. E anche se ci sono le nuvole, che ne contrastano il cammino, il sole vince sempre e disperde le nuvole. Non aveva già il pagano profeta Balaam preannunciato il Messia sotto l’immagine della luce? «Io lo vedo, ma non ora; io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele» (Nm 24,17). E Cristo stesso non si presenterà ripetutamente come la «luce degli uomini» (Gv 1,5.8.9, ecc.)? «Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12). Il problema è di non chiudere gli occhi alla luce, come invece hanno fatto Erode e gli abitanti di Gerusalemme in quel giorno.

«All’udire queste parole Erode restò turbato…» E poi c’è un secondo messaggio religioso in questo racconto, che anticipa in un certo senso tutta la tematica del primo Vangelo, il quale è bensì diretto a una comunità giudeo-cristiana, ma per farle capire che Dio ha ormai allargato le prospettive della salvezza. Tanto più che storicamente, quando san Matteo scriveva il suo libro, già si era verificato un fatto sconvolgente, che non poteva non avere conseguenze drammatiche: Israele aveva respinto la salvezza che Dio gli aveva offerto in Cristo, condannandolo alla morte di croce. Il disegno di Dio rimarrà per questo bloccato, o non si aprirà piuttosto la via all’ingresso dei «popoli» pagani alla salvezza? È su questa apertura «universalistica», infatti, che si chiude il primo Vangelo (28,18-20). L’episodio dei «Magi», che vengono da paesi lontani per adorare «il re dei Giudei che è nato» (v. 2), già anticipa questa situazione di dramma attorno a Cristo: i «lontani» cercano il Messia, lo trovano, lo riconoscono pur sotto i segni di un povero fanciullo, mentre i «vicini», cioè gli Ebrei, rappresentati qui da Gerusalemme che «si turba» insieme al suo dispotico sovrano, lo trascurano, lo osteggiano, addirittura tramano insidie contro di lui. È sotto il segno della insidia, infatti, che si spiegano l’ipocrito interessamento di Erode circa il tempo in cui era apparsa ai Magi la stella e la preghiera loro rivolta: «Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo» (v. 8). La successiva «strage degli innocenti» (Mt 2,16-18) ne sarà la dimostrazione palese. È il nuovo popolo dei credenti che si sostituisce al vecchio Israele, è la Chiesa che sottentra alla Sinagoga, perché davanti a Dio l’unica cosa che conta è la capacità di accettare i suoi progetti senza imporgli i nostri, di riconoscere i molteplici «segni» della sua presenza nella storia: anche la «stella» che guidò i Magi era un «segno», che loro solamente seppero decifrare. Direi che il miracolo più che fuori avvenne «dentro» di loro. Anche oggi Cristo dà «testimonianza di sé» al mondo: è pronta la Chiesa tutta intera a cogliere i segni di questa testimonianza, a lasciarsi «illuminare» dai riflessi della sua luce? Tutta la forza della Chiesa, infatti, è nella penetrante «lucidità» della sua fede: in tal modo anch’essa potrà diventare la «epifania» del suo Signore, che a sua volta è la «epifania di Dio».

«Alzati, rivestiti di luce» Su questa linea mi sembra che si muova la commossa ed esaltante pagina, ripresa da Isaia, nella quale il Profeta descrive lo splendore della nuova Gerusalemme, per dare animo ai gruppi di esuli che ritornavano dalla schiavitù babilonese e potevano essere scoraggiati nel vedere la situazione di abbandono e di squallore della Città santa. Gerusalemme, annuncia il Profeta, sarà avvolta nella «luce» e diventerà come un richiamo per tutti i popoli della terra, che vi accorreranno portando i loro doni più preziosi: diventerà così come la capitale spirituale del mondo intero, anche dei popoli pagani. «Alzati, rivèstiti di luce, perché viene la tua luce, / la gloria del Signore brilla sopra di te. / Poiché, ecco le tenebre ricoprono la terra, / nebbia fitta avvolge le nazioni; / ma su di te risplende il Signore, / la sua gloria appare su di te. / Cammineranno i popoli alla tua luce, / i re allo splendore del tuo sorgere. / Alza gli occhi intorno e guarda: / tutti costoro si sono radunati, vengono a te. / I tuoi figli vengono di lontano, / le tue figlie sono portate in braccio. / A quella vista sarai raggiante, / palpiterà e dilaterà il tuo cuore, / perché le ricchezze del mare si riverseranno su di te, / verranno a te i beni dei popoli. / Uno stuolo di cammelli ti invaderà, / dromedari di Madian e di Efa, / tutti verranno da Saba, portando oro e incenso / e proclamando le glorie del Signore» (Is 60,1-6). È indubbio che san Matteo si è ispirato a Isaia 60,6 nel descriverci i Magi che offrono i loro doni a Gesù: «Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre e, prostratisi, lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (Mt 2,11). Sono cose particolarmente preziose quelle che vengono offerte, e intendono esprimere un riconoscimento di sudditanza e di gratitudine verso il Signore che si è rivelato alle genti. Anche nel brano di Isaia, protagonista vero di tutta la commossa visione profetica è la «luce», che viene irradiata dalla Città santa: anzi, questa si identifica con la luce stessa. Infatti, la traduzione letterale dell’ebraico, più che «rivèstiti di luce», suona: «sii luce». Però non è una luce propria la sua, ma viene da Dio, come dice chiaramente il testo: «La gloria del Signore brilla sopra di te» (v. 1). Poco dopo il Profeta dirà addirittura: «Ma il Signore sarà per te luce eterna, il tuo Dio sarà il tuo splendore» (v. 19). Gerusalemme, dunque, diventa richiamo per tutte le nazioni (v. 3), perché avvolta nella «luce» del suo Signore.

La Chiesa «luce di Cristo» Mi sembra che qui sia delineata la missione di quella «nuova» Gerusalemme che è la Chiesa, formata dall’adunanza di tutti i popoli e mandata, nello stesso tempo, a tutti i popoli: farsi talmente pervadere dalla «luce» che è Cristo, per diventarne la festosa «trasparenza» e il centro di irradiazione per tutto gli uomini. Questo però significa aver assimilato Cristo fino a lasciarsi trasformare da lui, fino a incarnare ad ogni momento le esigenze più profonde del suo amore, della sua fraternità, della sua capacità di donarsi e di servire. A questo punto la Chiesa non può non diventare «annunzio» gioioso del Cristo che è in lei: come abbiamo poco sopra ricordato, essa diventa così l’«epifania» del suo Signore proprio come comunità di credenti che si è lasciata invadere dalla «luce». Il problema della «evangelizzazione» a questo punto sarebbe quasi radicalmente risolto, perché è la vita stessa dei credenti che diventa Vangelo, come ci ricorda Paolo VI. «Ecco: un cristiano o un gruppo di cristiani, in seno alla comunità d’uomini nella quale vivono, manifestano capacità di comprensione e di accoglimento, comunione di vita e di destino con gli altri, solidarietà negli sforzi di tutti per tutto ciò che è nobile e buono. Ecco, essi irradiano, inoltre, in maniera molto semplice e spontanea, la fede in alcuni valori che sono al di là dei valori correnti, e la speranza in qualche cosa che non si vede, e che non si oserebbe immaginare. Allora, con tale testimonianza senza parole, questi cristiani fanno salire nel cuore di coloro che li vedono vivere domande irresistibili: Perché sono così? Perché vivono in tal modo? Che cosa o chi li ispira? Perché sono in mezzo a noi? Ebbene, una tale testimonianza è già una proclamazione silenziosa, ma molto forte ed efficace della Buona Novella».1 Non si può vedere la «stella» senza racchiuderne scintille di luce nei propri occhi e nel proprio cuore per parteciparle ai fratelli, come certamente fecero i Magi quando «ritornarono al loro paese» (v. 12).

Da: CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche, Editrice Elledici, Torino       

L’ESALTAZIONE DELLA CROCE NELLA TRADIZIONE SIRO-OCCIDENTALE DI MANUEL NIN

http://www.reginamundi.info/rassegna-stampa-cattolica/stampa.asp?codice=930

CATTOLICESIMO: TU SEI L’ALBERO DELLA VITA

L’ESALTAZIONE DELLA CROCE NELLA TRADIZIONE SIRO-OCCIDENTALE DI MANUEL NIN

Il 14 settembre, come tutte le altre tradizioni liturgiche di oriente e di occidente, anche quella siro-occidentale celebra la festa dell’Esaltazione della santa Croce. La festa ha un’origine gerosolimitana collegata alla dedicazione della basilica della Risurrezione, che venne edificata sulla tomba del Signore nel 335, e con la celebrazione del ritrovamento della reliquia della Croce da parte dell’imperatrice Elena, madre dell’imperatore Costantino.
I testi dell’ufficiatura sottolineano chiaramente in primo luogo il tema della croce come arma di vittoria per i cristiani: « Segnato il nostro volto con l’immagine preziosa della croce, tu ci fai la grazia, o Dio, di essere preservati dal nemico e di vincere le sue suggestioni. La croce santa sia per noi un’arma invincibile contro il nemico ».
La festa coinvolge nella lode tutta la creazione che la inneggia alla croce come luogo dove avviene la salvezza, con delle espressioni cristologiche proprie della tradizione siriaca: « Celebrando l’esaltazione della croce cosparsa con le gocce del sangue vivificante del Verbo di Dio incarnato, gli eserciti del cielo intonano la lode ed esultano per la salvezza del genere umano. Venite popoli, adorate la croce di salvezza, per cui il mondo ha ottenuto la nuova vita ».
Nell’ufficiatura del vespro la liturgia siro-occidentale collega in primo luogo l’esaltazione della croce con gli imperatori Costantino ed Elena, ma soprattutto con la vita della Chiesa stessa che la regge come vanto e sostegno: « Oggi la croce è apparsa a Costantino ed Elena come segno di vittoria. Oggi gli apostoli si rallegrano e con Paolo cantano: Il nostro vanto è la croce di nostro Signore Gesù Cristo. Oggi i martiri e i confessori esultano perché tu, o Cristo, appeso sulla croce, sei la loro ricompensa. Oggi la santa Chiesa si rallegra perché è la regina assisa alla tua destra vestita con la tua croce ».
In parecchi inni Efrem il Siro parla della croce di Cristo come timone della nave che è la Chiesa e che Cristo, il pilota, conduce a porto tranquillo. In un secondo momento, introducendo sempre la parola « oggi », la liturgia della festa si sofferma su una lettura in chiave cristologica di una lunga serie di fatti veterotestamentari che prefigurano la redenzione di Cristo operata per mezzo della sua croce: « Oggi Abramo esulta perché il mistero della croce gli fu rivelato per mezzo dell’agnello che vide impigliato nel cespuglio. Oggi Mosè, il primo dei profeti, si rallegra perché ha tracciato il segno della croce con le sue mani stese e oranti in forma di croce. Oggi Eliseo il profeta è nella gioia per il legno gettato nell’acqua e che fece galleggiare il ferro pesante, tipo della nostra natura umana che tu, o Cristo, hai innalzato e onorato per mezzo della tua croce ».
La croce ancora viene cantata nella liturgia siro-occidentale come albero di vita, rifugio dei cristiani, compimento di tutti i misteri della Chiesa, saggezza dei credenti.
Uno dei testi del vespro della festa associa nella lode, senza distinzione, Cristo e la croce stessa con gli stessi titoli cristologici dati e all’uno e all’altra: « Signore, re della gloria, ti lodiamo perché hai fatto della croce il vanto di coloro che credono in te. Tu sei l’albero della vita per coloro che in te sperano, e sei anche l’albero che mai appassisce, medico e rimedio di coloro che appassiscono nel peccato. Tu sei l’albero della vita piantato nel bel mezzo del paradiso e porti tutti alla terra della promessa. Tu sei lo scettro di forza mandato da Sion contro i nemici vinti con la tua croce. Tu sei il mistero segreto e nascosto, manifestato a tutti gli uomini ».
L’ufficiatura notturna della festa, divisa in tre parti, prevede il canto di due salmi per ognuna di esse: i salmi 43 e 60 per la prima; 135 e 138 per la seconda, e il lungo cantico di Abacuc (3, 1-19) per la terza. In quest’ufficiatura notturna troviamo ben sei inni di sant’Efrem il Siro, due per ognuna delle parti, in cui l’autore canta il mistero della croce di Cristo con delle immagini e dei simboli sviluppati nella sua poesia teologica, dove il legno della croce è sempre fonte di un lungo sviluppo simbolico.
Efrem accosta volentieri Cristo innalzato sulla croce al carro dei cherubini descritto dal profeta Ezechiele: « Cavalca la croce, sebbene, invisibilmente, cavalcasse il carro, quello dei cherubini. Rimasero svergognati i crocifissori che lo fecero montare sul legno glorioso rivestito di simboli. Ho visto la bellezza di Adamo, immagine di Colui che lo ha plasmato e la bellezza della croce, cavalcatura del Figlio del suo Signore ».
Ancora Efrem allarga la simbologia della croce alla spada del cherubino collocato alle porte del paradiso, e la presenta anche come la lancia che uccide la morte: « Beato sei anche tu, legno vivente, che fosti una lancia invisibile per la morte. Quella lancia infatti aveva colpito il Figlio: trafitto da essa, con essa egli uccise la morte. La sua lancia ha allontanato la lancia, poiché il suo perdono ha strappato il nostro documento di debito. Il paradiso gioì perché erano tornati gli espulsi. Sia benedetto, Lui che mediante la sua croce ha forzato il passaggio verso il paradiso ».
Sant’Efrem mette in parallelo, in uno dei suoi inni e con delle immagini poetiche molto belle, i due alberi, quello del paradiso e quello della croce: « E poiché Adamo si era avvicinato all’albero, si precipitò poi verso il fico. Divenne simile al fico, delle cui foglie era coperto. Florido di foglie a modo di un legno, Adamo venne presso il legno glorioso, da esso si rivestì di gloria, da esso acquistò splendore, da esso udì la verità, che sarebbe di nuovo entrato nell’Eden ».
Infine, in uno degli inni sulla crocifissione, Efrem ancora canta il tema evangelico del prendere la propria croce e seguire Cristo, rivolgendosi a Simone di Cirene che porta la croce di Cristo e a Simone Pietro che muore anche lui in croce: « Beato anche tu, Simone, che hai portato durante la vita la croce dietro al nostro Re. Sono fieri coloro che portano le insegne dei re ma svanirono i re con le loro insegne. Beate le tue mani che si alzarono e portarono in processione la croce che si chinò e ti donò la vita. Il tuo fardello ti ha portato nella dimora della vita e ti ha trasferito là, poiché è il vascello del Regno ».

da Osservatore Romano del 14/09/2010

La rassegna stampa di Regina Mundi: Cattolicesimo

GIANFRANCO RAVASI. LA SUA VERA CARNE TRASFIGURATA – SULLA TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

http://kairosterzomillennio.blogspot.it/2012/02/omelie-sulla-trasfigurazione.html

GIANFRANCO RAVASI. LA SUA VERA CARNE TRASFIGURATA – SULLA TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

«Il Cristo glorioso non cancella la verità dell’Incarnazione». Pubblichiamo la relazione del prefetto della Biblioteca Ambrosiana al convegno sul “Volto dei volti” che si è tenuto nell’ottobre 2001 alla Pontificia Università Urbaniana.
La nostra sarà una lettura particolare della scena della Trasfigurazione. La considereremo, infatti, come un vero e proprio “dramma” nel senso originario del termine. Struttura, svolgimento, attori, scansioni temporali fanno sì che l’evento sia capace di riproporsi davanti ai nostri occhi nella sua azione e nel suo messaggio con una sua efficacia rappresentativa. I dati del testo – che, come è noto, ci è offerto nella triplice redazione sinottica (Mt 17,1-9; Mc 9,2-10; Lc 9,28-36)1 – saranno da noi ricomposti secondo una trama affidata a sette personaggi che, a livelli diversi e secondo ruoli differenti, reggono l’intero “dramma”.
Gesù, il protagonistaE proprio perché una rappresentazione solenne ha bisogno di una sua colonna sonora ideale, noi subito proponiamo come filo musicale un oratorio moderno, quello che Olivier Messiaen ha composto tra il 1965 e il 1969 per coro misto, sette solisti strumentali e una grande orchestra (alla prima furono in tutto 216 esecutori!), intitolandolo La Transfiguration de Notre-Seigneur Jésus Christ2. Eseguita per la prima volta il 7 giugno 1969 a Lisbona in occasione del festival Gubelkian e il 29 ottobre dello stesso anno al Palais de Chaillot di Parigi, quest’opera è simile a una grandiosa cattedrale armonica (dura almeno un’ora e mezzo). Complessa nella sua articolazione in due settenari eppure lineare nella sua monumentalità, essa si basa sul racconto matteano della Trasfigurazione oltre che sui testi liturgici e persino su citazioni dellaSumma Theologiae di Tommaso d’Aquino – tutti rigorosamente in latino –, ma anche con evocazioni strumentali esotiche (cembali turchi, crotali, marimba, gong, tamtam, xilorimba, vari strumenti folclorici e così via). Il tutto sfocia nel corale finale della luce della Gloria, basato sul Salmo 26,8: «Signore, io amo la bellezza della tua casa e il luogo ove abita la tua gloria!». E Messiaen commenta: «La Gloria ha abitato la montagna della Trasfigurazione, la Gloria abita il Santo Sacramento delle nostre chiese, la Gloria abiterà l’eternità».
E se proprio non ci sarà possibile avere a disposizione un così monumentale commento musicale, basterà ricorrere alla più semplice ma deliziosa composizione per pianoforte di Franz Liszt, intitolata appunto In festo Transfigurationis Domini nostri. Come fondale per il nostro “dramma” è difficile non pensare subito alla celebre tela di Raffaello conservata ai Musei Vaticani (1520), ma anche all’affresco del Beato Angelico nel convento fiorentino di San Marco (1441), ad Andrej Rubliov, con la sua icona della Metamorfosi (1405), a Giovanni Bellini con una tela (1480) presente a Napoli nella Galleria di Capodimonte. Tanti altri pittori, però, ci offrono la possibilità di creare lo sfondo ideale di questa scena. Uno sfondo che può essere costituito anche da una foto di quella vetta che tradizionalmente è identificata come il monte anonimo della Trasfigurazione evangelica, cioè il Tabor, con i suoi 582 metri e con il profilo della basilica francescana eretta dall’architetto Antonio Barluzzi tra il 1919 e il 1924. Ma ormai è giunto il momento di introdurre il primo personaggio, il protagonista.
Egli dominerà per tutto lo svolgimento del “dramma” ed è subito presentato col suo nome proprio Iesous4 scandito quattro volte nel la redazione marciana (Mc 9,2.4.5.8). A lui saranno destinati altri titoli solenni che sono proposti nel prosieguo del racconto e nell’apparire dei vari attori dell’evento. Per ora ci accontenteremo di segnalare il trittico terminologico che è messo in bocca a un altro personaggio della Trasfigurazione, Pietro. Egli si rivolge a Gesù interpellandolo comeKyrie, “Signore”, secondo Matteo (Mt 17,4): è il riconoscimento della signoria suprema di Cristo sull’essere e sulla storia, ma è anche – allusivamente – il rimando alla divinità se è vero che nella Bibbia greca cristiana il nome sacro JHWH di Dio era reso proprio con Kyrios (cfr. Fil2,9-11). Gesù è invocato da Pietro secondo Marco (Mc 9,5) come rabbì, che nella sua radice ebraico-aramaica (rab, “grande”) ricalca il titolo precedente, ma che si carica pure della connotazione di “maestro” supremo della verità di Dio. E infine, secondo Luca (Lc 9,33), Gesù èepistáta (vocativo di epistátes), un appellativo peraltro caro al terzo evangelista (Lc 5,5; 8,24.45; 9,49; 17,13). Il termine può essere considerato come la resa greca del precedente rabbì: al concetto di “maestro” si intreccia quello del primato, della superiorità, della reggenza o ispezione. In questa luce potremmo dire che il trittico dei titoli cristologici converge nell’attribuire a Gesù la signoria non solo all’interno della scena della Trasfigurazione, ma anche sulla ribalta della storia intera e della verità (in pratica potremmo pensare al francese “maître” che in sé ingloba la funzione di “signore, padrone” e quella “magisteriale”).
Il ritratto di Gesù, comunque, sarà completato, anzi colto nella sua identità più intima e profonda dall’ultimo personaggio, come avremo occasione di vedere. Gli esegeti, infatti, sono concordi nel ritenere che la finalità ultima della scena è proprio quella di svelare la persona di Cristo come signore della gloria, maestro, figlio di Dio e la sua missione di profeta e legislatore perfetto e definitivo. In questa luce dobbiamo raccogliere una serie di particolari. Iniziamo con la collocazione spaziale della sua figura sul “monte alto” (Mt 17,1; Mc 9,2), un’evocazione anche simbolica non priva di una certa allusività biblica: come non pensare a una specie di Sinai galilaico o al monte dell’apparizione pasquale galilaica di Matteo (Mt 28,16)? C’è, poi, una coordinata temporale esaltata da Marco (Mc 9,2) e da Luca (Lc 9,28): secondo Marco è «dopo sei giorni» che si celebra l’evento, quindi siamo nel settimo giorno pasquale, mentre per Luca è l’«ottavo giorno», forse un modo di stampo più greco-romano per formulare la stessa idea di una pienezza temporale pasquale già raggiunta.
Non per nulla, anche se non si può pienamente rintracciare nel nostro evento lo schema delle apparizioni pasquali, è certo che la “metamorfosi” (Mt 17,2; Mc 9,2; Luca evita il termine per non creare equivoci nei suoi lettori abituati alle “metamorfosi” degli dèi sotto aspetto umano, come insegna Ovidio) è una cristofania in cui Gesù appare aureolato dalla luce pasquale. Infatti è il suo Volto immerso nello splendore (Mt 17,2) e divenuto “altro” nel suo aspetto (Lc 9,29) ed è la sua veste divenuta candida in modo sorprendente (è famoso il “tratto” di Marco, Mc 9,3) a segnalare la gloria della Pasqua e l’eternità divina. Persino François Rabelais, nel capitolo X del suo celebre Gargantua(1534), scriveva: «Il bianco significa gioia, giubilo, festa… Nella Trasfigurazione di Nostro Signore vestimenta eius facta sunt alba sicut lux e questo candore luminoso fece intuire ai suoi tre apostoli presenti, Pietro, Giacomo e Giovanni, l’idea e la sostanza delle gioie eterne»3. Intrecciando, dunque, elementi pasquali e apocalittici, evocando con la nube – che è segno della presenza divina esodica (Mt 17,5; Mc 9,7; Lc9,34), la teofania sinaitica (Es 19,9; 24,15-16; 33,9) sulla quale ritorneremo – si ha un profilo di Gesù dai contorni epifanici. A metà del suo itinerario terreno Cristo svela il suo autentico Volto, per ora celato sotto i lineamenti dell’uomo di Galilea. Non per nulla si parla di una “visione” (oftê in Mt 17,3; Mc 9,4; cfr. Lc 9,31 e Mt 17,9: si tratta del verbo tipico delle apparizioni pasquali, anche se ora non è applicato direttamente a Gesù).
Esiste però un altro particolare da segnalare per completare il ritratto del protagonista. È Luca, come sua consuetudine, a indicarlo quando annota che Gesù sale sul monte a pregare ed è durante la preghiera che si apre la visione. È noto che il terzo evangelista colloca gli eventi capitali della vita di Cristo in un contesto orante: è emblematica la scena del battesimo al Giordano (Lc 3,21), per molti versi analoga a quella della Trasfigurazione. Potremmo allora dire che l’evento che si consuma sul monte avviene nella cornice quasi di un’estasi mistica che è rivelazione e incontro con il mistero di Dio. Non per nulla gli spettatori resteranno abbacinati e avranno bisogno, alla fine, del tocco di Gesù (Mt 17,7) per essere riportati alla quotidianità. E in quel momento essi incontreranno autòn Iesoun mónon (Mt 17,8; cfr. Mc 9,8; Lc 17,36): è il solo Gesù che alla fine campeggia in tutta la scena, come era accaduto agli inizi. Ma là, dopo la cristofania, la sua sarà un’unicità simbolica che fa eclissare ogni altra presenza, pur grandiosa, come è quella di Mosè ed Elia. Lui solo ci basterà, lui solo sarà la meta verso cui convergerà il nostro “ascolto” – obbedienza (Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 17,35).
  I TRE SPETTATORI, PIETRO, GIACOMO E GIOVANNI alla solenne epifania del protagonista assistono tre attori che nei Vangeli hanno un rilievo particolare. È un gruppo privilegiato che, a più riprese, riveste una posizione eminente così da costituire, come ha osservato un esegeta, Joachim Gnilka4, «i portatori speciali della rivelazione di Cristo». Nella stessa lista dei Dodici emerge questa specie di primato: «Simone, al quale impose il nome di Pietro; poi Giacomo di Zebedeo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanerghes, cioè figli del tuono» (Mc 3,16-17). Ad assistere alla risurrezione della figlia di Giairo Gesù «non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo» (Mc 5,37). Anche nella notte tenebrosa del Getsemani egli «prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni…» (Mc 14,33).
Nel nostro racconto l’elencazione ha qualche variante: Pietro, Giacomo e Giovanni (Mt 17,1; Mc 9,2); Pietro, Giovanni e Giacomo (Lc 9,28). Ciò che permane è il primato di Pietro (cfr. Mt 10,2) che anche nel nostro “dramma” ha la funzione di portavoce. Infatti è sua l’unica dichiarazione che sale dalla terra incrociandosi con quella celeste: “kyrie, rabbì,epistáta, è bello per noi essere qui”; ad essa segue, con variazioni lievi secondo i tre Sinottici, la proposta di erigere tre tende, una per ciascuno dei tre attori della teofania, Gesù, Mosè ed Elia. Non è nostro compito, in questa sede, cercare le ragioni di una simile reazione che, tra l’altro, è bollata come insensata da Marco (Mc 9,6), né isolarne la matrice simbolica o sinaitica o legata alla solennità delle Capanne (Lv 23,42; Zc14,16-19) o alle «dimore eterne» (Lc 16,9). Evidentemente le parole di Pietro sono segnate da un equivoco: il discepolo vorrebbe trattenere per sempre quella pregustazione della beatitudine celeste, evitando così la sequela della via della croce e cancellando la Passione e la Morte. I tre, infatti, sono avvolti dalla nube luminosa teofanica, partecipano quindi dell’intimità divina e, dopo aver ascoltato la voce celeste, sono prostrati a terra e pervasi dal timore (Mt 17,6-7) tipico delle esperienze epifaniche (Lc 1,12; 1,29; 2,9; 5,10; 8,35). Sono questi i tratti caratteristici delle “apocalissi” divine (Dn 8,17; 10,9-10; Ap 1,17).
I tre discepoli, perciò, vivono sul monte un vero e proprio ingresso nel trascendente e nel mistero, ed è Gesù a riportarli col suo tocco e con il suo appello a “non temere”, classico nelle teofanie, alla storia nella quale si deve compiere l’itinerario dell’Incarnazione. Una storia che comprende, appunto, la sofferenza (Mt 17,12) e la morte (Mt 15,23). Di quell’esperienza esaltante, comunque, rimarrà l’eco nel cuore di Pietro, come è attestato da un passo della seconda Lettera che la tradizione ha attribuito all’apostolo: «… noi siamo stati testimoni oculari della grandezza [del Signore nostro Gesù Cristo]. Egli ricevette onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: “Costui è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”. Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte…» (2Pt 1,16-18).
I DUE GRANDI TESTIMONI, MOSÈ ED ELIA Al centro dell’epifania che ha per protagonista Gesù si collocano anche due grandi testimoni della Prima Alleanza, anzi, «gli estremi mediatori dell’Alleanza: rappresentano l’inizio e la fine della storia che si adempie in Gesù, giudice escatologico» (così scrive un commentatore del Vangelo di Matteo, Jean Radermakers5).
Curiosamente Marco inverte i due personaggi, forse per rimarcare la tipologia profetico-eliana con cui spesso è tracciato il Volto di Gesù nei Vangeli. L’ordine storico-tradizionale anticipa, comunque, la figura di Mosè, il legislatore del Sinai. Infatti, se si segue la guida dell’Esodo fino al Sinai, ci si accorge che non mancano allusioni possibili presenti nella nostra scena. Anche Mosè sale il monte accompagnato da tre discepoli scelti, Aronne, Nadab e Abiu (Es 24,1.9); anche nella teofania del Sinai c’è la menzione dell’ultimo giorno, quando Dio chiama Mosè (Es 24,16). La nube e il fuoco, simili alla nube luminosa della Trasfigurazione, appaiono come segno della Gloria del Signore (Es 24,16-17). E anche Mosè, come Cristo, avrà il volto risplendente dopo essere stato in comunicazione con Dio (Es 34,29).
Se Mosè è per eccellenza l’incarnazione della legge divina che egli rivela a Israele, Elia rappresenta la profezia che da lui prende idealmente l’avvio. Una profezia che è letta dal Nuovo Testamento come un indice puntato verso Cristo, tanto è vero che subito dopo la Trasfigurazione, «mentre discendevano dal monte», Gesù dichiara che «Elia è già venuto» e i discepoli comprendono che «egli parlava di Giovanni il Battista» (Mt 17,12-13). Elia, perciò, è il Precursore per eccellenza con la sua parola. Ma lo è anche con la sua morte gloriosa, che si svela come ascensione al cielo (2Re 2,11), anticipando quella di Cristo. Anzi, in questa prospettiva anche Mosè può essere coinvolto perché la sua morte dal sepolcro misterioso (Dt 34,5-6) è stata interpretata dalla tradizione giudaica come un’assunzione nella gloria divina (così l’apocrifo Assunzione di Mosè) e la stessa tradizione giudeo-cristiana (Gd 9) si è mossa in questa linea.
Non per nulla Luca – che è attento a porre come meta della vita di Cristo l’ascensione (cfr. Lc 9,51; 24,50-51; At 1,9-11) – nel suo racconto della Trasfigurazione introduce anche il tema del dialogo di Gesù con Mosè ed Elia che «appaiono nella gloria»: essi parlano dell’«éxodos che [Cristo] stava per portare a pienezza [pleroun] in Gerusalemme» (Lc9,31). Si delinea, così, l’esaltazione gloriosa del Risorto; la croce che attende Cristo e la sua morte sfociano nell’Ascensione, cioè nell’ingresso nell’orizzonte dell’eternità, dell’infinito e del divino. Un ingresso che era stato indicato dalla fine di Mosè ed Elia e che è attuato in pienezza (pleroun) da Gesù risorto ed esaltato nella gloria. Siamo ormai giunti alle soglie dell’ultimo atto del “dramma” della Trasfigurazione. Ora sarà dal cielo che si affaccerà l’ultimo personaggio a suggellare l’evento, rivelandosi come l’altro protagonista con Gesù.
IL PROTAGONISTA FINALE IL PADRE A decifrare in modo pieno il profilo del primo protagonista, Gesù, e a sciogliere l’enigma della scena della Trasfigurazione è una presenza-assenza, quella del Padre, il protagonista finale che pone il suggello all’intero “dramma” presentandosi con la sua voce. La sua parola è segno di trascendenza (il suo Volto, infatti, non appare), ma anche di vicinanza e di comunicazione. Essa ha come scopo quello di delineare il ritratto perfetto del Cristo elaborato attraverso il ricorso alle Scritture. È pure evidente che questo intervento rende la Trasfigurazione parallela al battesimo ove la stessa voce divina aveva solennemente presentato al mondo Gesù come figlio prediletto e inviato dal Padre (Mt 3,17; Mc1,11; Lc 3,22). Le dichiarazioni dei Sinottici nella Trasfigurazione riflettono sostanzialmente due schemi.
Lo schema di Matteo (Mt 17,5) ingloba anche la formula di Marco (Mc9,7) ampliandola: «Costui è il Figlio mio amato nel quale mi sono compiaciuto». C’è innanzitutto il profilo messianico del Figlio sulla scia del Salmo 2,7; c’è la proclamazione della sua unicità e predilezione divina con riferimento anche a Isacco, il figlio amato e sacrificato (Gn22,2); c’è il compiacimento che è adesione, approvazione, esaltazione con rimando al Servo sofferente del Signore «nel quale Dio si compiace» (Is 42,1). Ora l’altra formula, quella di Luca (Lc 9,35), si fissa maggiormente su quest’ultimo tratto: «Costui è il mio Figlio, l’eletto», espressione che ricalca proprio Is 42,1: «Ecco… il mio eletto in cui mi compiaccio»6. Dunque in tutti i Sinottici, sia pure con accenti diversi, il Padre rivela che il Figlio sarà glorificato, ma attraverso la via della sofferenza. Gesù è intronizzato nella sua persona divina, ma anche nella sua missione salvifica.
Il Padre, perciò, completa il ritratto del Volto di Cristo che è certamente Signore, rabbì, maestro, culmine della legge e della profezia, ma che è soprattutto Figlio e Salvatore. Verso di lui deve convergere tutta la scena e l’adesione dei tre spettatori che incarnano i discepoli dell’intera storia cristiana. L’imperativo finale: «Ascoltatelo!» non è solo l’appello a rivolgersi a Cristo come al profeta definitivo, secondo la rilettura messianica del Deuteronomio (Dt 18,15.19): «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto… Se qualcuno non ascolterà le parole, che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto». L’imperativo del Padre è un invito anche all’obbedienza piena al Figlio costituito come Signore della storia. Allora, come scriveva un esegeta, H. Baltensweiler, in un saggio dedicato proprio alla Trasfigurazione, «il vero discepolato di Gesù Cristo non consiste in una qualche insensata attività e in una vuota intraprendenza, quale quella che vediamo nei discepoli quando vogliono costruire le capanne, ma soltanto nell’ascolto adeguato del Kyrios, il Gesù trasfigurato»7.
Al centro della scena, dunque, si erge il Figlio intronizzato dal Padre. Quel Figlio che non perde la sua umanità facendola svaporare nella teofania. Alla fine egli, come si è visto, tocca per mano (Mt 17,7) i tre apostoli spettatori, avvicinandosi a loro, cancellando il loro timore sacro e ridiscendendo con loro le pendici del monte per ritornare a percorrere le valli e le pianure della storia ove si annida il male e il demoniaco (Mt17,14-21; Mc 9,14-29; Lc 9,37-42) e per puntare verso Gerusalemme, la città della sofferenza e della morte, ma anche dell’“esodo” (Mt 17,22-23; Mc 9,30-32; Lc 9,44-45). Giustamente Beda il Venerabile commentava: «Transfiguratus Salvator non substantiam verae carnis amisit»8, il Cristo glorioso non cancella la verità dell’Incarnazione. E noi abbandoniamo con lui la vetta del “monte alto” rievocando le sette presenze che hanno popolato quello spazio che è mistico e geografico, cioè trascendente e storico. Ecco per primo Gesù, Signore, rabbì, maestro, legislatore, profeta, Figlio unigenito e Servo sofferente. Ecco poi la Prima Alleanza con Mosè ed Elia, e i discepoli della Nuova, Pietro, Giacomo e Giovanni. Ed ecco, alla fine, il Padre che pone il primo protagonista Gesù di nuovo al centro della scena.

NOTE SUL SITO

AMBROGIO. SULLA TRASFIGURAZIONE (6 AGOSTO)

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AMBROGIO. SULLA TRASFIGURAZIONE (6 AGOSTO)

Appaiono Mosè ed Elia, cioè la Legge e il Profeta col Verbo: di fatto la Legge non può sussistere senza il Verbo, né può essere Profeta se non colui che abbia profetizzato a riguardo del Figlio di Dio. E, certamente, quei figli del tuono hanno ammirato nella gloria del corpo anche Mosè ed Elia, ma anche noi vediamo ogni giorno Mosè insieme col Figlio di Dio; vediamo infatti la Legge nel Vangelo, quando leggiamo: Amerai il Signore Dio tuo; vediamo Elia insieme col Verbo di Dio, quando leggiamo: Ecco la Vergine concepirà nel grembo.
Perciò Luca opportunamente aggiunse che parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. Essi infatti t’insegnano i misteri della sua dipartita. Anche oggi Mosè insegna, anche oggi Elia parla, anche oggi possiamo vedere Mosè in una gloria più grande. E chi non lo può, quando perfino il popolo dei Giudei poté vederlo, anzi lo vide davvero? Vide infatti il volto di Mosè pieno di fulgore, ma ricevette un velo, e non salì sul monte e per questo errò. Colui che ha visto soltanto Mosè, non ha potuto vedere contemporaneamente il Verbo di Dio.
Togliamo allora il velo dalla nostra faccia, affinché a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine (2 Cor 3, 18). Saliamo sul monte, supplichiamo il Verbo di Dio, affinché si mostri a noi nel suo aspetto e nella sua bellezza, e si rafforzi e avanzi con successo e regni. Anche questi sono misteri e rimandano a realtà molto profonde; infatti, a seconda della tua disponibilità, per te il Verbo o diminuisce o cresce, e, se non ascendi la vetta di un più profondo discernimento, non ti si fa vedere la Sapienza, non ti si fa vedere la conoscenza dei misteri, non ti si fa vedere quant’è grande la gloria, quant’è stupenda la bellezza posta nel Verbo di Dio, ma il Verbo di Dio ti si mostra come in un corpo, come uno che non ha apparenza né bellezza, e ti si mostra come un uomo percosso, che può esser caricato delle nostre infermità, ti si mostra come una parola nata da uomo, ricoperta dall’involucro dei segni della lettera ma che non risplende della forza dello Spirito. Se invece, mentre lo consideri come uomo, tu credi ch’è stato generato da una Vergine, e a poco a poco ti asseconda la fede che è nato dallo Spirito di Dio, allora cominci a salire il monte. Se vedi ch’Egli, messo in croce, trionfa su la morte invece di essere annientato, se vedi che la terra tremò, il sole scomparì dallo sguardo, le tenebre avvolsero gli occhi degli increduli, le tombe si aprirono, i morti risorsero per dar prova che il popolo Gentile, il quale era morto per Dio, all’irrompere del fulgore della croce è risorto come se si fossero aperti i sepolcri del suo corpo; se vedi questo mistero, allora sei salito su un alto monte, e vedi una diversa gloria del Verbo.
Le sue vesti sono in un modo quando Egli sta in basso e in un altro quando sta in alto. E forse le vesti del Verbo sono le parole delle Scritture e direi quasi il rivestimento dell’intelletto divino: infatti, come Egli apparve in persona a Pietro e a Giovanni e a Giacomo in un aspetto mutato, e il suo bianco vestito rifulse, allo stesso modo anche agli occhi della tua mente già comincia a divenir chiaro il significato delle letture divine. Ecco allora che le divine parole diventano come la neve, e le vesti del Verbo bianchissime…
Pietro vide questa ricchezza, la videro anche quelli che erano con lui, benché fossero oppressi dal sonno. Infatti lo splendore senza confini della divinità soverchia i sensi del nostro corpo. Se già la potenza visiva corporea non riesce a sopportare un raggio di sole in faccia agli occhi di chi guarda, come potrebbero le nostre membra corrotte sostenere la gloria di Dio? Perciò nella risurrezione viene costituito uno stato corporeo tanto più puro e sottile, quanto ormai è stata annientata la materialità dei vizi. E proprio per questo, forse, essi erano oppressi dal sonno, per poter vedere, dopo il riposo, la bellezza della risurrezione. Perciò, allo svegliarsi, videro la sua maestà; nessuno, che non sia sveglio vede la gloria di Cristo. Pietro ne provò grande gioia, e mentre le seducenti realtà di questo mondo non avevano potuto impadronirsi di lui, lo sedusse lo splendore della risurrezione.
È bello per noi, egli disse, stare qui – per lo stesso motivo scrive anche quell’altro: Partire per essere con Cristo è molto meglio (Fil 1, 23) – e non contento di aver espresso la sua contentezza si distingue dagli altri non solo per il sentimento affettuoso ma per la generosità delle opere e, per costruire tre abitacoli, quel lavoratore infaticabile promette il servizio della comune dedizione. E sebbene non sapesse quello che diceva, tuttavia prometteva un atto di amore: non era una storditaggine irriflessiva, ma una generosità intempestiva, che accresce così i proventi delle sue premure. Infatti, il non sapere era proprio della sua condizione, ma il promettere della sua devozione. Però la condizione umana non ha la capacità di costruire un’abitazione a Dio in questo corpo corruttibile, destinato alla morte. …
Mentre diceva questo venne una nube e li avvolse con la sua ombra. Siffatto avvolger d’ombra è proprio dello Spirito; esso non annebbia i sentimenti dell’uomo, ma mette in luce le realtà nascoste. Lo si trova anche in un altro punto, quando l’angelo dice: E la potenza dell’Altissimo ti adombrerà (Lc 9, 34). E si indica quale ne sia l’effetto quando si ode la voce di Dio che dice: Questi è il mio figlio diletto, ascoltatelo.
Cioè: non è Elia il figlio, non è Mosè il figlio, ma questi è il Figlio, che vedete solo. …
E mentre risonava la voce, Gesù si trovò solo. Erano in tre, uno solo rimase. Tre si vedono in principio, uno solo alla fine; infatti sono una cosa sola per la perfezione della fede. Del resto il Signore chiede anche questo al Padre, che tutti siano una cosa sola. E non soltanto Mosè e Elia sono una cosa sola in Cristo, ma anche noi siamo l’unico corpo di Cristo. Dunque anch’essi sono accolti nel corpo di Cristo perché anche noi saremo una cosa sola in Cristo Gesù, o forse perchéla Legge e i Profeti provengono dal Verbo, e ciò ch’è cominciato dal Verbo culmina nel Verbo; poiché il fine della Legge è Cristo, per la giustificazione di chiunque crede (Rm 10, 4).
(Dall’Esposizione del Vangelo secondo Luca, VII, 10-13. 17-21)

VISITAZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA (31/05/2013)

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VISITAZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA (31/05/2013)

VANGELO: LC 1,39-56  

Nell’Antico Testamento, la visita di Dio era di vera salvezza, ma anche di severo giudizio sull’uomo peccatore. Dio visita Abramo e gli porta la lieta notizia del figlio che sarebbe nato a breve. Dio visita la città di Sodoma e annunzia per essa il castigo.

Quegli uomini si alzarono e andarono a contemplare Sòdoma dall’alto, mentre Abramo li accompagnava per congedarli. Il Signore diceva: «Devo io tenere nascosto ad Abramo quello che sto per fare, mentre Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette tutte le nazioni della terra? Infatti io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui a osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto, perché il Signore compia per Abramo quanto gli ha promesso». Disse allora il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!». Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci». Come ebbe finito di parlare con Abramo, il Signore se ne andò e Abramo ritornò alla sua abitazione (Gen 18,16-33).
Oggi la Beata Trinità, presente tutta in Maria, si reca a visitare la Elisabetta per recarle il conforto della santificazione del suo bambino ancora nel suo grembo. Il saluto di Maria inonda di Spirito Santo quella casa. Il suo canto di lode a Dio è rivelatore del giudizio di Dio sopra ogni uomo. Veramente il Signore è il Giudice Sovrano.
Noi tutti cristiani siamo adoratori di un falso Dio, un falso Cristo, un falso Spirito Santo. Adoriamo uno Spirito Santo fuori di noi e non in noi, come era nella Vergine Maria. Adoriamo un falso Cristo, perché Cristo non è concepito in noi come era concepito nella Vergine Maria. Adoriamo un falso Dio perché Lui non è il nostro Giudice così come viene cantato oggi dalla Vergine Maria. Noi adoriamo un Dio privato della sua eterna e divina verità. Adoriamo un Dio fatto e pensato dalla mente dell’uomo.

Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli, Santi, fateci adoratori del vero Dio.

OMELIA PER LA SOLENNITÀ DEL CORPO E DEL SANGUE DI CRISTO

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OMELIA PER LA SOLENNITÀ DEL CORPO E DEL SANGUE DI CRISTO

PADRE GIAN FRANCO SCARPITTA

CELEBRARE E RIPRESENTARE

« Questo è il mio Corpo » nelle lingue orientali equivale a dire: « Questo sono io » e anche nell’originale greco dei vangeli la copula « è » viene resa con « esti »= è. Insomma con questi termini si intende davvero esprimere che c’è identità reale e sostanziale fra il pane e il Corpo di Cristo. Quello che Gesù invita a mangiare è infatti il suo Corpo reale e non metaforico o simbolico, il suo vero corpo che presenzia nel pane in forma reale e sostanziale. Non è un caso che Gesù decida di rendersi presente nelle sembianze del pane: esso è l’alimento comune di tutti gli uomini, nel quale i popoli e gli individui si ritrovano in unità e per il quale si combattono anche sanguinose guerre e conflitti armati. Se ci trova tutti d’accordo su un qualsiasi argomento, questo è dato dal pane; se si discute sull’importanza di un cibo, ritenuto insosatituibile questo è quello che maggiormente mette tutti d’accordo. Se il pane è l’alimento più accessibile, ebbene Cristo come pane vivo intende farsi mangiare, per essere egi stesso alimento di vita eterna e « farmaco di immortalità. »: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue avrà in sè la vita e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. » In effetti, quale altro luogo poteva indicarci Gesù, invitandoci a nutrirci della sua carne, se non il Sacramento dell’Eucarestia, nel quale Egli stesso si rende presente nelle specie di un pezzo di pane?
A partire da quella sera nella stanza al piano superiore di una casa ben ammannita e adornata a Gerusalemme, il pane vivo disceso dal cielo ci si offre costantemente per essere da noi consumato nella comunione, perché viviamo la relazione con Dio attraverso Cristo nello Spirito Santo e perché tale comunione si estenda anche fra di noi. Afferma il teologo De Lubach che l’Eucarestia fa la Chiesa e la Chiesa fa l’Eucarestia, perché nel pane che noi spezziamo ad ogni assemblea liturgica ci si propone Cristo che riunisce tutti in un solo Corpo; allo stesso tempo però non possiamo celebrare il mistero eucaristico se non formiamo prevamente l’unità e la concordia, se cioè la comunione non caratterizza la nostra vita associata di credenti.

Anche in merito al suo Sangue Gesù si esprime negli stessi termini per presentare se stesso: Matteo (26, 27-28) lo descrive come « il mio sangue dell’alleanza »; Marco 14, 24 lo esprime con maggior vigore « Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti. »Luca e Paolo invece pongono l’accento piuttosto sull’Alleanza che non sul sangue: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi» (Lc, 22, 20); « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue » (1 Cor 11, 25). Si tratta infatti del Sangue che Cristo stesso offre in oblazione per l’umanità, quello che effonderà sulla croce per riscattare gli uomini dal peccato per risollevarne le sorti e giustificarli presso il Padre. Quella sera a Gerusalemme infatti Gesù da un saggio di quanto sta per accadergli sul Golgota al luogo detto Cranio: il suo Sangue sarà l’avallo dell’alleanza fra l’uomo Dio, il suggello del nuovo patto che avrà come protagonista lo stesso amore sacrificale di Dio in Cristo: Gesù offrirà se stesso per espiare i nostri peccati e nel suo Sangue si realizzerà la nuova ed eterna Alleanza. Il Sangue di Cristo verrà versato a beneficio di tutta l’umanità perché tutti sono chiamati a salvezza universale. Ma non tutti trarranno beneficio da questo effetto salvifico; i suoi frutti infatti saranno riscontrabili solamente in coloro che accetteranno il mistero dell’amore di Dio in Cristo e che vi aderiranno nella fede. Per questo motivo il testo originale greco, che nella liturgia eucaristica noi erroneamente traducianmo con « per voi e per tutti », in realtà è reso con « per voi e per molti ». Come si sa, anche per esortazione del papa Benedetto XVI e della Pontificia Commissione Liturgica, si intende correggere il testo anche nei nostri messali parrocchiale per la fdeltà alla traduzione letteraria ma anche per esprimere come la portata del sacrificio eucaristico sulla croce debba comportare l’adesione da parte della comunità e del sigolo credente.
In ogni caso Gesù dona se stesso ai suoi discepoli nelle sembianze di quel pane e di quel vino in cui si idetnifica per sottolineare e offrire caparra di quel sacrificio che egli realizzerà per volere del Padre sulla croce, ai fini di instaurare un nuovo patto con l’umanità. Tutte le volte dunque che celebriamo la Messa non solamente Cristo presenzia fra di noi come alimento, ma ripresenta sull’altare il medesimo sacrificio consumato una volta per tutte nella sua immolazione gratuita: nella fede rivediamo lo stesso evento del Golgota.
C’è tuttavia un’ altra espressione che si presenta nel racconto del pasto sarale: « Fate questo in memoria di me ». Come giustamente osserva Mons. Cipriani, secondo la descrizione di Paolo nella 1Lettera ai Corinzi, questi termini vengono ripetuti due volte: 1) subito dopo la consacrazione del pane 2) al termine del pasto, dopo la presentazione del vino divenuto suo Sangue e questo evidenzia con forza come l’Eucarestia non sia soltanto la memoria di un fatto accaduto, ma esprime la necessità che questo fatto si perpetui nella storia.
In altre parole, con quei gesti e con quelle espressioni Gesù dispone che fintanto che Lui non sarà tornato visibilmente alla fine dei tempi il rito eucaristico debba ripetersi perché lui sia presente nelle specie del pane e del vino e perché allo stesso tempo si ripresenti il suo sacrificio sulla croce. E così oggi avviene che tutte le volte che noi assistiamo ad una celebrazione eucaristica oltre che « ricordare » quanto avvenne durante l’Ultima Cena abbiamo davanti lo stesso Cristo Gesù, realmente presente nelle sembianze del pane e del vino e allo stesso tempo ci viene ripresentato il sacrificio cruento che Lo interessò duemila anni fa. Esso certamente avvenne una volta per tutte, ma in forza di un mistero che noi accogliamo solo in quanto credenti (nella fede) esso ci si ripropone.
Celebrare infatti vuol dire riattualizzare, rendere presente, rivivere. Commemorare invece si limita alla sola rievocazione di un fatto passato. Se in tutti gli altri sacramenti Cristo opera e agisce invisibilmente nel Sacramento dell’Eucarestia egli è presente nella sostanza che dalla consacrazione in poi non è più quella del pane (e del vino) ma quella del suo Corpo e del suo Sangue per cui la grazie che in Essa egli esercita è permanente e continua, edifica la vita della Chiesa e santifica il soggetto credente nel suo solo essere esposta sull’altare o nel suo semplice presenziare nel tabernacolo. Egli comunica tutti gli elementi della santificazione e dell’edificazione spirituale che si rendono fruttuosi man mano che il Sacramento lo si assume con fede e tutte le volte che con fare dimesso ci si pone davanti ad Esso in atto di profonda venerazione. Nella misura in cui infatti io mi dispongo a ricevere con vera devozione e senso di partecipazione personale l’Eucarestia non posso che trarne vantaggio poiché a lungo andare riscoprirò come essa trasforma la mia vita in meglio e attribuendomi la pienezza e la consistenza dello spirito…

CORPO E SANGUE DI CRISTO – OMELIA DI APPROFONDIMENTO

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/09-Corpus-Domini-2013/09-Corpus-Domini-2013_C-MM.html

2 GIUGNO 2013 | 9A DOM. : CORPUS DOMINI – T. ORDINARIO C  |  OMELIA DI APPROFONDIMENTO

CORPO E SANGUE DI CRISTO

Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice, annunziamo la morte del Signore,
finché Egli venga.

I testi della Sacra Scrittura, che la Liturgia oggi offre, ci aiutano a celebrare nel migliore dei modi la solennità del Corpo e del Sangue di nostro Signore Gesù Cristo.
Questa solennità è stata istituita sia per lodare e ringraziare il Signore Gesù del grande dono che ci ha fatto, proprio nell’imminenza della sua passione e morte, lasciandoci la prova del suo amore per noi, sia per riparare le tante offese che vengono recate a questo Sacramento e per compensare le negligenze e le indifferenze con cui è circondato.
Il brano del libro della Genesi (1a lettura) ci presenta la figura ed il sacrificio di Mechisedech, re di giustizia e di pace. Nella figura di questo re e sacerdote, che offre pane e vino al Dio altissimo, che benedice il patriarca Abramo, e al quale lo stesso Abramo rende omaggio, la tradizione cristiana ravvisa una figura profetica di Gesù Sacerdote, ed una prefigurazione del sacrificio eucaristico.
Nel miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, narrato dall’evangelista Luca, troviamo un riferimento ancora più diretto alla Eucaristia; i gesti e le parole con cui Gesù compie il miracolo sono i medesimi gesti con i quali, durante l’ultima Cena, Gesù istituisce l’Eucaristia: prese i pani, alzò gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò, li diede ai discepoli.
Le parole della 1a lettera di S. Paolo ai cristiani di Corinto rappresentano poi il passaggio dalle figure profetiche alla loro realizzazione, e costituiscono il racconto più antico della istituzione dell’Eucaristia; S. Paolo scrive a non più di 20 anni dalla morte di Gesù!
L’occasione della lettera di S. Paolo è data dal modo scandaloso con il quale a Corinto si celebrava l’Eucaristia; egli scrive: quando vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la Cena del Signore. E questo perché i Corinzi, alla celebrazione vera e propria dell’Eucaristia, facevano precedere un banchetto, una cena che risultava il trionfo dell’egoismo e dell’individualismo: chi aveva possibilità, mangiava e beveva a sazietà, mentre gli indigenti non avevano nulla.
S. Paolo fa capire che il modo di celebrare l’Eucaristia non è lasciato ai capricci o all’arbitrio di ciascuno, ma è fissato da una tradizione che risale a Gesù stesso: Io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso. E ciò che Gesù ha compiuto, ed ha ordinato di ripetere, è il rito della consacrazione del pane e del vino: questo è il mio corpo; questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo in memoria di me.
In questo consiste la comunione o partecipazione al suo corpo e al suo sangue: ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, annunziate la morte del Signore finché Egli venga.
S. Paolo e la Chiesa primitiva, fin dalle origini, hanno avuto piena coscienza della preziosità del dono della Eucaristia, e della sua funzione di cuore e centro della vita liturgica del Popolo di Dio, di nutrimento spirituale e di elemento di unione tra i fratelli e le sorelle.
Negli Atti degli Apostoli troviamo infatti che i primi cristiani erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nella unione fraterna, nella frazione del pane (Eucaristia) e nelle preghiere; e la comunità della Troade si riuniva con Paolo, il primo giorno della settimana (la domenica) a spezzare il pane.
Sempre nella 1a lettera ai Corinzi S. Paolo continua: parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane.
Alla luce di queste esortazioni di S. Paolo, esaminiamoci anche noi: le nostre celebrazioni eucaristiche sono veramente Cena del Signore, segno cioè di amore, di fratellanza, di dono di sé? davvero noi formiamo un solo corpo, noi che ci nutriamo dello stesso Pane?
Se permangono tra noi divisioni, egoismi, freddezze ed indifferenza reciproca, se tolleriamo o, peggio se facciamo delle ingiustizie nei riguardi dei fratelli, questo non è più mangiare la Cena del Signore.
Accostiamoci pertanto alla Mensa Eucaristica con animo retto e con volontà di bene, tenendo sempre presente ancora il monito di S. Paolo: ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il Corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna.

La Madonna che ci ha portato Gesù, ci aiuti ad essere sempre degni di riceverlo nel nostro cuore con le dovute disposizioni.

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