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CORPUS DOMINI: LE ORIGINI DI UNA FESTA

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CORPUS DOMINI: LE ORIGINI DI UNA FESTA

Tag: Eucaristia

La festa del Corpus Domini ha avuto origine in un determinato contesto storico e culturale: è nata con lo scopo ben preciso di riaffermare apertamente la fede del Popolo di Dio in Gesù Cristo vivo e realmente presente nel santissimo Sacramento dell’Eucaristia.

Il Papa Benedetto XVI spiegò così la storia di questa festa, che inizia nel duecento:
Santa Giuliana di Cornillon ebbe una visione che «presentava la luna nel suo pieno splendore, con una striscia scura che la attraversava diametralmente. Il Signore le fece comprendere il significato di ciò che le era apparso. La luna simboleggiava la vita della Chiesa sulla terra, la linea opaca rappresentava invece l’assenza di una festa liturgica, per l’istituzione della quale era chiesto a Giuliana di adoperarsi in modo efficace: una festa, cioè, nella quale i credenti avrebbero potuto adorare l’Eucaristia per aumentare la fede, avanzare nella pratica delle virtù e riparare le offese al Santissimo Sacramento. (…)
Alla buona causa della festa del Corpus Domini fu conquistato anche Giacomo Pantaléon di Troyes, che aveva conosciuto la Santa durante il suo ministero di arcidiacono a Liegi. Fu proprio lui che, divenuto Papa con il nome di Urbano IV, nel 1264 istituì la solennità del Corpus Domini come festa di precetto per la Chiesa universale, il giovedì successivo alla Pentecoste.
Fino alla fine del mondo
Nella Bolla di istituzione, intitolata Transiturus de hoc mundo (11 agosto 1264) Papa Urbano rievoca con discrezione anche le esperienze mistiche di Giuliana, avvalorandone l’autenticità, e scrive: “Sebbene l’Eucaristia ogni giorno venga solennemente celebrata, riteniamo giusto che, almeno una volta l’anno, se ne faccia più onorata e solenne memoria. Le altre cose infatti di cui facciamo memoria, noi le afferriamo con lo spirito e con la mente, ma non otteniamo per questo la loro reale presenza. Invece, in questa sacramentale commemorazione del Cristo, anche se sotto altra forma, Gesù Cristo è presente con noi nella propria sostanza. Mentre stava infatti per ascendere al cielo disse: «Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20)”.
Il Pontefice stesso volle dare l’esempio, celebrando la solennità del Corpus Domini a Orvieto, città in cui allora dimorava. Proprio per suo ordine nel Duomo della Città si conservava – e si conserva tuttora – il celebre corporale con le tracce del miracolo eucaristico avvenuto l’anno prima, nel 1263, a Bolsena.
Un sacerdote, mentre consacrava il pane e il vino, era stato preso da forti dubbi sulla presenza reale del Corpo e del Sangue di Cristo nel Sacramento dell’Eucaristia. Miracolosamente alcune gocce di sangue cominciarono a sgorgare dall’Ostia consacrata, confermando in quel modo ciò che la nostra fede professa.

Testi che fanno vibrare le corde del cuore
Urbano IV chiese a uno dei più grandi teologi della storia, san Tommaso d’Aquino – che in quel tempo accompagnava il Papa e si trovava a Orvieto –, di comporre i testi dell’ufficio liturgico di questa grande festa. Essi, ancor oggi in uso nella Chiesa, sono dei capolavori, in cui si fondono teologia e poesia. Sono testi che fanno vibrare le corde del cuore per esprimere lode e gratitudine al Santissimo Sacramento, mentre l’intelligenza, addentrandosi con stupore nel mistero, riconosce nell’Eucaristia la presenza viva e vera di Gesù, del suo Sacrificio di amore che ci riconcilia con il Padre, e ci dona la salvezza. (…)

Una “primavera eucaristica
Vorrei affermare con gioia che oggi nella Chiesa c’è una “primavera eucaristica”: quante persone sostano silenziose dinanzi al Tabernacolo, per intrattenersi in colloquio d’amore con Gesù! È consolante sapere che non pochi gruppi di giovani hanno riscoperto la bellezza di pregare in adorazione davanti al Santissimo Sacramento. Penso, ad esempio, alla nostra adorazione eucaristica in Hyde Park, a Londra. Prego perché questa “primavera” eucaristica si diffonda sempre più in tutte le parrocchie, in particolare in Belgio, la patria di santa Giuliana. Il Venerabile Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia, constatava che “in tanti luoghi […] l’adorazione del santissimo Sacramento trova ampio spazio quotidiano e diventa sorgente inesauribile di santità. La devota partecipazione dei fedeli alla processione eucaristica nella solennità del Corpo e Sangue di Cristo è una grazia del Signore, che ogni anno riempie di gioia chi vi partecipa. Altri segni positivi di fede e di amore eucaristici si potrebbero menzionare” (n. 10).
Ricordando santa Giuliana di Cornillon rinnoviamo anche noi la fede nella presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. Come ci insegna il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, “Gesù Cristo è presente nell’Eucaristia in modo unico e incomparabile. È presente infatti in modo vero, reale, sostanziale: con il suo Corpo e il suo Sangue, con la sua Anima e la sua Divinità. In essa è quindi presente in modo sacramentale, e cioè sotto le specie eucaristiche del pane e del vino, Cristo tutto intero: Dio e uomo” (n. 282).
Cari amici, la fedeltà all’incontro con il Cristo Eucaristico nella Santa Messa domenicale è essenziale per il cammino di fede, ma cerchiamo anche di andare frequentemente a visitare il Signore presente nel Tabernacolo! Guardando in adorazione l’Ostia consacrata, noi incontriamo il dono dell’amore di Dio, incontriamo la Passione e la Croce di Gesù, come pure la sua Risurrezione.
Sorgente di gioia
Proprio attraverso il nostro guardare in adorazione, il Signore ci attira verso di sé, dentro il suo mistero, per trasformarci come trasforma il pane e il vino. I Santi hanno sempre trovato forza, consolazione e gioia nell’incontro eucaristico. Con le parole dell’Inno eucaristico Adoro te devote ripetiamo davanti al Signore, presente nel Santissimo Sacramento: “Fammi credere sempre più in Te, che in Te io abbia speranza, che io Ti ami!”. Grazie.»

LETTERA AGLI EFESINI 1, 3-23

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LETTERA AGLI EFESINI 1, 3-23

San Paolo benedice Dio in quanto Padre del Signore nostro Gesù Cristo, perché per mezzo di Lui ci sono sopraggiunte tutte le benedizioni divine. L’azione di Dio a favore degli uomini è comune alle tre Persone divine e perciò il di­segno eterno di Dio, contemplato qui da Paolo, ha la sua origine nella santissi­ma Trinità. «Non bisogna pensare», insegna l’XI concilio di Toledo, «che que­ste tre persone siano separabili, poiché non si deve credere che l’una fu od operò prima di un’altra, o l’una dopo l’altra, o una senza l’altra, essendo inse­parabili nella loro essenza e in ciò che operano»1. Nella realizzazione di questo progetto divino di salvezza si attri­buisce al Figlio l’opera della Redenzione e allo Spirito Santo il compito della santificazione. «Possiamo immaginare – per avvicinarci in qualche modo a questo insondabile mistero – che la Trinità, nella sua intima e ininterrotta re­lazione d’amore infinito, decida eternamente che il Figlio unigenito di Dio Pa­dre assuma la condizione umana, caricandosi delle nostre miserie e dei nostri dolori, per finire inchiodato a un legno»2.
San Paolo chiama benedizioni spirituali i doni che l’attuazione del piano salvi­fico ha portato con sé, perché questi doni sono distribuiti agli uomini median­te l’azione dello Spirito Santo. Dicendo «nei cieli» e «in Cristo» l’Apostolo in­dica il modo in cui siamo stati benedetti: tramite Cristo risorto e innalzato al cielo, che ha introdotto anche noi nel mondo di Dio3. L’espressione benedictus (benedetto) rivolta a Dio implica il riconoscimento da parte dell’uomo della grandezza e bontà divine e manifesta la gioia per i do­ni ricevuti4. Così san Tommaso commenta il senso di questo passo: «L’Apostolo dice “Benedictus” per parte mia, vostra e di altri; con il cuore, con la bocca e con le opere lo loda come Dio e come Padre, poiché è Dio per essenza e Padre per la sua potenza generatrice»5. La lode a Dio nostro Signore, alla quale così spesso ci invita la Sacra Scrittura6 si esprime non solo con le parole, ma anche con le opere: «Chiunque con le mani compie opere buone, inneggia a Dio col salte­rio. Chiunque confessa Dio con la bocca, canta a Dio. Canta con la bocca! Sal­meggia con le opere!»7.
4 In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità,
Nel corso dell’inno l’Apostolo specifica ciascuna delle benedizioni o benefi­ci contenuti nel disegno eterno di Dio. La prima di queste benedizioni è la scelta, precedente la creazione del mondo, di coloro che avrebbero fatto parte del­la Chiesa. L’espressione usata da san Paolo, tradotta con «ci ha scelti», è la stessa utilizzata nella versione greca dell’ Antico Testamento per designare l’elezione di Israele. La Chiesa, nuovo Popolo di Dio, è costituita dalla riunione in Cristo di coloro che sono stati eletti e chiamati alla santità. Ciò significa che la Chiesa, benché fondata da Cristo in un preciso momento storico, ha ori­gine nel disegno eterno di Dio. «L’eterno Padre, con liberissimo e arcano dise­gno di sapienza e di bontà ( … ] tutti gli eletti fin dall’eternità “li ha conosciuti nella sua prescienza e li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Fi­glio suo, affinché Egli sia il primogenito tra molti fratelli” (Rm 8, 29). I creden­ti in Cristo li ha voluti convocare nella santa Chiesa, la quale, già prefigurata fin dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’Antica Alleanza, e istituita “negli ultimi tempi”, è stata manife­stata dall’effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei seco­li»8. L’elezione ha lo scopo di renderci «santi e immacolati al suo cospetto». Come nell’Antico Testamento la vittima offerta a Dio doveva essere pura e senza macchia9, la santità alla quale Dio ci ha destinati deve essere pie­na, immacolata. Benché già nel battesimo siamo stati santificati e durante la vita cerchiamo, con l’aiuto di Dio, di crescere nella santità ri­cevuta, tuttavia la pienezza della santità la raggiungeremo solo nella gloria del cielo. La santità ricevuta è un dono gratuito di Dio, senza alcun merito da parte no­stra, dal momento che non esistevamo ancora quando Dio ci ha scelti. «Ci ha scelti prima della creazione del mondo perché fossimo santi. So che questo non ti riempie di orgoglio né ti fa considerare superiore agli altri». «Questa scelta, radice della tua chiamata, deve esse­re la base della tua umiltà. Si innalza forse un monumento ai pennelli di un grande pittore? Sono serviti per dipingere dei capolavori, ma il merito è dell’artista. Noi cristiani siamo soltanto strumenti del Creatore del mondo, del Redentore di tutti gli uomini»10. «Nella carità»: si riferisce anzitutto all’amore di Dio per noi. Se Dio ci ha onorato Con un’infinità di benefici, ciò lo si deve al suo amore e non al valore dei nostri meriti. Il nostro fervore e la nostra forza, la nostra fede e la nostra unità sono frutto della benevolenza di Dio e della nostra corrispondenza alla sua bontà. Nella elezione e nella chiamata alla santità, così come nel dono della filiazione divina, si rivela che Dio è amore11, poiché in questo modo siamo divenuti partecipi della natura divina12 e dell’amore di Dio. L’espressione «nella carità» comprende l’amore del cristiano verso Dio e verso gli altri. La carità è dunque partecipazione dell’amore di Dio ed è l’essenza del­la santità, la legge del cristiano13.
5 predestinandoci a essere suoi figli adotti vi per opera di Gesù Cristo,
L’Apostolo continua a contemplare l’eterno disegno di Dio: per far parte della Chiesa, gli eletti sono stati anche, come in una seconda benedizione, predestinati a essere figli adottivi di Dio. «Questo popolo messianico ha per condizione la dignità e libertà dei figli di Dio, nel Cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio»14. La predestinazione di cui parla l’Apostolo consiste nel fatto che Dio, secondo il suo libero beneplacito, stabilì fin dall’eternità che i membri del nuovo Popo­lo di Dio attingessero la santità mediante il dono della filiazione adottiva. Dio vuole che tutti gli uomini si salvino15 e fornisce a ciascuno i mezzi necessari per raggiungere la vita eterna. Nessuno, pertanto, è predestinato alla condanna16. La filiazione divina del cristiano ha la Sua origine in Gesù Cristo: il Figlio uni­genito, consustanziale al Padre, ha assunto la natura umana per rendere gli uo­mini figli adottivi di Dio17. Ciascun membro del­la Chiesa può dire: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiama­ti figli di Dio, e lo siamo realmente!»18. La relazione di adozione non è un rapporto esclusivamente giuridico, estrinse­co e meramente accidentale. L’adozione divina attiene a tutto l’essere dell’uo­mo e lo introduce nella stessa vita di Dio, dato che per mezzo del battesimo di­veniamo figli di Dio, partecipi della natura divina19. La filiazione divina è dunque il più grande dei doni che Dio ha concesso all’uomo. «Bene­detto sia Dio», possiamo esclamare con san Paolo (v.3) considerando questa gioiosa realtà, poiché è proprio dei figli manifestare apertamente riconoscenza e amore al loro Padre. La filiazione divina è fonte di conseguenze feconde per la vita spirituale. «Un figlio di Dio tratta il Signore come Padre. Non con ossequio servile né con ri­verenza formale, ma Con sincerità e fiducia. Dio non si scandalizza degli uomi­ni, non si stanca delle nostre infedeltà. Il Padre del cielo perdona qualsiasi of­fesa, quando il figlio torna a Lui, quando si pente e chiede perdono. Anzi, il Si­gnore è a tal punto Padre da prevenire il nostro desiderio di perdono: è Lui a farsi avanti aprendoci le braccia Con la sua grazia»20.
6 secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto;
Il dono della filiazione divina è la manifestazione Suprema della gloria di Dio, poiché in questo dono si rivela la pienezza dell’amore di Dio. San Paolo pone in risalto la finalità di quel progetto eterno di Dio: «a lode e gloria della sua grazia». La gloria di Dio si è rivelata attraverso il suo amore misericordioso, con il quale ci ha resi suoi figli, secondo il disegno eterno della sua volontà. Questo disegno «scaturisce dall”’amore fontale”, cioè dalla carità di Dio Padre che, essendo il principio senza principio, da cui il Figlio è generato e lo Spirito Santo attraverso il Figlio procede, per la Sua immensa e misericordiosa bene­volenza liberamente creandoci e inoltre gratuitamente chiamandoci a parteci­pare nella vita e nella gloria, ha effuso con liberalità e non cessa di effondere la divina bontà, sicché lui che di tutti è il Creatore, possa anche essere “tutto in tutti”21, procurando insieme la Sua gloria e la nostra felicità»22. La grazia di cui parla san Paolo, e per mezzo della quale si manifesta la gloria di Dio, si riferisce in primo luogo al carattere gratuito delle benedizioni divine, e comprende anche i doni della santità e della filiazione divina, di cui è gratifi­cato il cristiano. «Nel suo Figlio diletto»: l’Antico Testamento insiste ripetutamente sul concet­to che Dio ama il suo popolo e che Israele è il popolo prediletto da Dio23. Nel Nuovo Testamento i cristiani sono de­signati con l’espressione «amati da Dio»24. Tuttavia, «l’Amato», «il diletto», in senso stretto è solo nostro Signore Gesù Cristo. Lo rivelò Dio Padre nella nube luminosa della Trasfigurazione: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto»25. Il Figlio del suo amore ha ottenuto la redenzione degli uomini, il perdono dei peccati26 (e, con la sua grazia, ci rende accetti a Dio, capaci di venire amati con lo stesso amore con cui ama suo Figlio. Nell’Ultima Cena, Gesù pregò il Padre proprio per questo: perché «il mondo sappia che Tu [ ... ] li hai amati come hai amato me»27. «Vedi», rileva san Giovanni Crisostomo, «come Paolo non dica che questa grazia ci sia stata concessa senza fine alcuno, ma che ci è stata data per renderci graditi e amabili agli occhi di Dio, una volta purificati dai nostri peccati»28.
7 nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. 8 Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza,
San Paolo ferma ora la sua attenzione sull’opera redentrice di Cristo ­terza benedizione, mediante la quale si è realizzato nella storia il disegno eterno di Dio descritto nei versetti precedenti. Redimere significa liberare. La redenzione da parte di Dio si manifesta già nell’Antico Testamento, quando il popolo d’Israele viene liberato dalla schiavitù d’Egitto29. Allora, mediante il sangue dell’agnello sparso sugli stipiti delle case degli Ebrei, i primogeniti furono liberati dalla morte. In ricor­do di questa salvezza gli Israeliti celebravano il rito della Pasqua, sacrificando l’agnello pasquale30. La redenzione dalla schiavitù d’Egitto era fi­gura della Redenzione operata da Cristo. «Quest’opera della redenzione uma­na e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili ge­sta divine operate nel popolo del Vecchio Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore, specialmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte e gloriosa ascensione»31. Gesù, mediante il proprio sangue versato sulla croce, ci ha riscattati dalla schiavitù del peccato e dal dominio del demonio e della morte; è Cristo il vero agnello pasquale32. «Da ciò si rileva che quante volte noi ricorderemo di essere stati riscattati non a prezzo di dena­ro, ma a prezzo del sangue di Gesù, agnello purissimo e senza macchia33, dovremo anche riflettere che Dio non ci poteva concedere nulla di più prezioso, nulla di più salutare di questa potestà del perdono dei peccati; dono che mette in evidenza tutta la misteriosa provvidenza di un Dio pieno d’amo­re verso di noi»34. Il frutto della Redenzione di Cristo è la liberazione dalla schiavitù del peccato. In realtà «l’uomo si trova incapace di superare efficacemente da sé medesimo gli assalti del male, così che ognuno si sente come incatenato. Ma il Signore stesso è venuto a liberare l’uomo e a dargli forza, rinnovandolo nell’intimo, e scacciando fuori “il principe di questo mondo”35, che lo teneva schiavo del peccato. Il peccato è, del resto, una diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza»36. Cristo Gesù operò la redenzione spinto dal suo infinito amore verso gli uomi­ni. La ricchezza di questo amore gratuito si rivela soprattutto nella generosità del perdono divino, poiché «laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbonda­to la grazia»37; questo perdono, ottenuto con la morte di Cristo sulla croce, è la più grande prova dell’amore di Dio, poiché «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici»38. Se Dio Padre consegnò suo Figlio alla morte per la remissione dei peccati degli uomini, «lo fece per rivelare l’amore, che è sempre più grande di tutto il creato», ricorda Giovanni Paolo II, «l’amore che è Lui stesso, perché “Dio è amore”39. E soprattutto, l’amore è più grande del peccato, della debolezza, della “caducità del creato”40, più forte della morte»41. Per mezzo della Redenzione, Cristo ci ottiene il perdono dei peccati, restaurando la vera dignità dell’uomo. «La Chiesa, che non cessa di contemplare l’in­sieme del mistero di Cristo», insegna ancora Giovanni Paolo II, «sa, con tutta la certezza della fede, che la Redenzione, avvenuta per mezzo della Croce, ha ridato definitivamente all’uomo la dignità e il senso della sua esistenza nel mondo, senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato»42. Si rivelano così la sapienza e la prudenza divine riguardo all’uomo.
9 poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito
Mediante l’opera redentrice di Cristo, Dio non solo ha concesso il perdono dei peccati, ma ha rivelato che il suo piano salvifico abbraccia la totalità della storia e della creazione. Questo disegno divino, che era nascosto e che si è sve­lato in Gesù Cristo, è chiamato da san Paolo «il mistero», la cui rivelazione co­stituisce un’altra benedizione divina. Questo mistero, dunque, oltre alla istitu­zione della Chiesa e al dono della filiazione divina (vv. 4-7), comprende la ri­capitolazione di tutte le cose in Cristo (v. 10) e la chiamata degli Ebrei e dei Gentili a far parte della Chiesa (vv. 11-14; cfr 3, 4-7). Tutto questo è stato rive­lato da Cristo, così che in Lui culmina la Rivelazione di Dio. Il Signore Gesù, «col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito Santo, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e per risusci­tarci per la vita eterna»43. Il fatto che Dio riveli i suoi piani di salvezza è una dimostrazione del suo amo­re e della sua misericordia, poiché l’uomo può così riconoscere l’infinita sa­pienza e bontà divine, e cogliere l’invito a partecipare dei piani di Dio. In real­tà, «piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare sé stesso e manifestare il mistero della sua volontà44, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura45. Con questa rivelazio­ne, infatti, Dio invisibile46 nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici47 e si intrattiene con essi48, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé»49.
10 per realizzarlo nella pienezza dei tempi; il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra.
Il «mistero» rivelato dall’amore di Dio si dispiega in forma armoniosa, seguendo diverse tappe o tempi nel corso della storia. La pienezza dei tempi è iniziata con l’Incarnazione50 e continua a svolgersi, secon­do la sapienza divina, fino a giungere alla comunione definitiva. Per mezzo della Redenzione, Gesù ha ricondotto i tempi a Dio; anzi, è Lui che governa in senso Soprannaturale tutta la storia. Mediante l’opera di Cristo, i disegni divi­ni non solo sono divenuti realtà, ma sono stati rivelati alla Chiesa, a sua volta strumento nell’esecuzione di tali disegni. «Già dunque è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi51 e la rinnovazione del mondo è irrevocabilmente fissata e in un certo modo realmente è anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche se imperfetta. Ma fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora52, la Chiesa peregrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e sospirano la manifestazione dei figli di Dio53»54. Il vertice del progetto divino, anteriore alla creazione, sta nel «ricapitolare in Cristo tutte le cose», fare cioè che tutta la realtà abbia Cristo come Capo. Ciò significa che Gesù, mediante la sua opera redentrice, riunisce e riconduce a Dio il mondo creato, prima lacerato dal peccato, così che in Cristo ritrovino il loro vincolo di unità sia gli esseri celesti, sia gli uomini e tutte le realtà terrestri. Insegna san Giovanni Crisostomo che «le cose celesti erano disgiunte dalle ter­restri, non avevano capo [ ... ]. E Dio pose come unico capo di tutte le cose, degli angeli e degli uomini, il Cristo secondo la carne. Diede cioè un unico principio agli angeli e agli uomini [...]; poi si avrà l’unità, la perfetta e necessaria unione, quando cioè tutte le cose, in possesso del vincolo essenziale che procede dal­l’alto, saranno raccolte sotto un solo capo»55. Il primato di Cristo su tutte le cose, pienamente manifesto alla fine dei tempi, si fonda sul fatto che Cristo, vero Dio e vero uomo, è già Capo, primogenito di tutto il creato. Per mezzo della sua risurrezione, Gesù ha trionfato sul peccato e sulla morte ed è stato costituito Signore di tutto l’universo56. Tutti gli esseri, visibili e invisibili, sono sottomessi a Cristo co­me a loro Capo, che si innalza al di sopra di tutto. Questa profonda realtà è sempre stata vissuta nella Chiesa, come mostra per esempio il motto proposto da san Pio X all’inizio del suo pontificato: «se alcu­no da Noi richiede una parola d’ordine, che sia espressione della Nostra volon­tà, questa sempre daremo e non altra: “Restaurare ogni cosa in Cristo”». «Ricapitolare in Cristo tutte le cose»: implica anche mettere Cristo al vertice di tutte le attività umane; come affermava Escriva De Balaguer Josemaria: «Instaura­re omnia in Christo, questo è il motto di san Paolo per i cristiani di Efeso57; informare tutto il mondo con lo spirito di Gesù, mettere Cristo nelle visce­re di ogni realtà:), «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutto a me»58. Cristo, mediante la sua incarnazione, la sua vita di lavoro a Nazaret, la sua predicazione e i suoi mira­coli nelle contrade della Giudea e della Galilea, la sua morte in Croce, la sua ri­surrezione, è il centro della creazione, è il Primogenito e il Signore di ogni crea­tura. «La nostra missione di cristiani è di proclamare la regalità di Cristo, annun­ciandola con le nostre parole e le nostre opere. Il Signore vuole che i suoi fedeli raggiungano ogni angolo della terra. Ne chiama alcuni nel deserto, lontano dal­le preoccupazioni della società umana, per ricordare agli altri, con la loro testi­monianza, che Dio esiste. Ad altri affida il ministero sacerdotale. Ma i più li vuole in mezzo al mondo, nelle occupazioni terrene. Pertanto, questi cristiani devono portare Cristo in tutti gli ambienti in cui gli uomini agiscono: nelle fab­briche nei laboratori, nei campi, nelle botteghe degli artigiani, nelle strade del­le grandi città e nei sentieri di montagna»59.
11 In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente, conforme alla Sua volontà,
12 perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo.
La speranza del popolo giudaico ha avuto compimento in Cristo poiché con lui sono giunti il Regno di Dio e i beni messianici, destinati in primo luogo a Israele, sua eredità60. Lo scopo dell’ele­zione di Israele da parte di Dio era di formarsi un proprio popolo61, che gli rendesse gloria e fosse testimone in mezzo alle nazioni della speranza nella venuta del Messia. «Dio, intendendo e preparando nel suo grande amore la salvezza del genere umano, si scelse con singolare disegno un popolo al quale affidare le promesse. Infatti, mediante l’Alleanza stretta con Abramo62 e col popolo d’Israele per mezzo di Mosè63, Egli si rivelò al popolo che così si era acquistato come l’unico Dio vivo e vero, in modo tale che Israele sperimentasse quali fossero le vie divine con gli uomini e, parlando Dio per bocca dei profeti, le comprendesse con sempre maggiore profondità e chiarezza e le facesse conoscere con maggiore ampiezza alle genti64»65. San Paolo rileva che, già prima della venuta di Gesù Cristo, gli uomini giusti dell’Antica Alleanza coltivavano la fede nel Messia promesso66: ne attendevano la venuta e, accogliendo la promessa, la loro speran­za si nutriva della fede in Cristo. Come esempi di questa fede, più vicini ai tempi del Nuovo Testamento, si possono citare Zaccaria ed Elisabetta, Simeo­ne e Anna, ma soprattutto san Giuseppe. Josemaria Escriva commen­ta che la fede di san Giuseppe fu «piena, fiduciosa, integra; una fede che si ma­nifesta con la dedizione efficace alla volontà di Dio, con l’obbedienza intelli­gente. E, assieme alla fede, ecco la carità, l’amore. La sua fede si fonde con l’amore: l’amore per Dio che compiva le promesse fatte ad Abramo, a Giacob­be, a Mosè; l’affetto coniugale per Maria; l’affetto paterno per Gesù. Fede e amore si fondono nella speranza della grande missione che Dio, servendosi proprio di lui – un falegname della Galilea – cominciava a realizzare nel mon­do: la redenzione degli uomini»67.
13 In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promes­so,
14 il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lo­de della sua gloria.
Se san Paolo riconosce la grandezza del piano salvifico di Dio nella realizzazione delle promesse al popolo giudaico mediante Gesù Cristo, un prodi­gio ancora più grande ravvisa nella chiamata dei Gentili a divenire partecipi delle stesse promesse. Questa chiamata è come una nuova benedizione divi­na. L’incorporazione dei Gentili alla Chiesa avviene per mezzo della predicazione del Vangelo. Ciò significa che la fede inizia con l’ascolto della parola di Dio68. Una volta che sia stata accolta, Dio segna il credente con lo Spirito Santo promesso69, e questo segno costituisce la caparra o garanzia dell’eredità eterna e rappresenta la certezza di essere stati accolti da Dio e uniti alla sua Chiesa, in ordine alla salvezza prima riservata solo a Israele. Si stabilisce come un parallelo tra il «suggello» della circoncisione, che inse­riva il credente dell’Antica Alleanza nel popolo d’Israele, e il «suggello» dello Spirito Santo nel battesimo che, nella Nuova Alleanza, incorpora i cristiani al­la Chiesa70. Dio è, dunque, causa efficien­te della nostra giustificazione: «la misericordia di Dio gratuitamente lava71 e santifica, segnando e ungendo72 con lo “Spirito della promessa”, quello Santo “che è pegno della nostra eredità”73. La caparra è l’importo che si consegna o si riceve in una compravendita come anticipo e garanzia della somma convenuta. In questo caso rappresenta l’im­pegno da parte di Dio di conferire al credente il possesso pieno e definitivo del­l’eterna beatitudine, di cui concede un anticipo in forza del battesimo74. Tramite Gesù Cristo, commenta san Basilio, «riceviamo in do­no il riacquisto del paradiso, l’ascesa al Regno dei cieli, il ritorno all’adozione filiale, la familiarità di chiamare Padre lo stesso Dio. Diveniamo partecipi del­la grazia di Cristo, siamo chiamati figli della luce, godiamo della gloria del cie­lo; in una parola, viviamo in pienezza di benedizione tanto nel mondo presen­te quanto nel venturo [ ... ]. Se questo è il pegno, come sarà la condizione ulti­ma? Se gli inizi sono così grandi, come sarà la fine?»75. Il dono dello Spirito Santo, che inabita nel cristiano in grazia, è il punto culmi­nante nell’attuazione del disegno divino di salvezza. Lo Spirito Santo, che adunò la Chiesa nella Pentecoste76, è il medesimo che anima e vi­vifica i fedeli del nuovo Popolo di Dio nella loro missione apostolica attraver­so i secoli. Il Magistero della Chiesa ci ricorda che lo Spirito Santo «in tutti i tempi “unifica nella comunione e nel servizio, e fornisce dei diversi doni ge­rarchici e carismatici”77 tutta la Chiesa, vivificando co­me loro anima le istituzioni ecclesiastiche e infondendo nel cuore dei fedeli quello spirito della missione, da cui era stato spinto Gesù stesso. Talvolta, an­zi, previene visibilmente l’azione apostolica, come incessantemente in vari modi l’accompagna e dirige»78. Il popolo nuovo è stato acquistato da Dio con il prezzo del sangue di suo Fi­glio. Al popolo dell’Antico Testamento è succeduto il popolo dei credenti in Cristo, quale che ne sia la provenienza. Tutti formano ormai la Chiesa, il Po­polo degli eletti. Il concilio Vaticano II insegna: «Come già Israele, secondo la carne, peregrinante nel deserto, viene chiamato Chiesa di Dio79, così il nuovo Israele dell’èra presente, che cammina alla ricerca della città futura e permanente80, si chiama pure Chiesa di Cristo81, avendola Egli acquistata col suo sangue82, riempita del suo Spirito e fornita di mezzi adatti per l’unione visibile e sociale. Dio ha convocato tutti coloro che guardano con fede a Gesù, autore della sal­vezza e principio di unità e di pace, e ne ha costituito la Chiesa, perché sia per tutti e per i singoli sacramento visibile di questa unità salvi fica»83.
15Perciò anch’io, avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, 16 non cesso di render grazie per voi, ricordandovi nelle mie preghiere,
La sollecitudine di san Paolo costituisce uno splendido esempio, in modo particolare per i responsabili della formazione cristiana. Al pari di lui, essi devono pregare per coloro che sono loro affidati, ringraziare Dio per i pro­gressi delle anime e chiedere allo Spirito Santo che conceda loro il dono della sapienza e dell’intelligenza. «Svolgi il tuo incarico con ogni attenzione, di cor­po e di spirito», esorta sant’Ignazio di Antiochia. «Preoccupati dell’unità, non esistendo nulla di meglio. Fatti carico di tutti, come di te si fa carico il Signore. Sopporta tutti con spirito di carità, come già stai facendo. Dèdicati senza pau­se all’orazione. Chiedi ancora più intelligenza di quella che già possiedi. Rima­ni all’erta, come spirito che non conosce il sonno. Parla agli uomini del popolo come Dio parlerebbe loro»84. La «fede nel Signore Gesù» non significa qui credere in Cristo Gesù, ma espri­me qual è il fondamento della vita di fede. Coloro che hanno ricevuto il dono della fede vivono in Cristo, e questa vita con Cristo rende la loro fede realmen­te viva manifestandosi nell’«amore verso tutti i santi». Per mezzo della fede si scopre che ogni battezzato è figlio di Dio e, quindi, l’amore fraterno fra i cri­stiani ne è una logica conseguenza.
17 perché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Pa­dre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazio­ne per una più profonda conoscenza di lui.
Il Dio al quale san Paolo si rivolge è «il Dio del Signore nostro Gesù Cri­sto», cioè il Dio che si è rivelato attraverso Cristo e che Gesù, in quanto uomo, prega invocandone l’aiuto85. Quel Dio che prima – nell’Antico Testamento – era designato come «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» viene ora chiamato «il Dio del Signore nostro Gesù Cristo». È il Dio persona­le, conosciuto per la sua relazione a Cristo, il Figlio che, come mediatore della Nuova Alleanza, ottiene da Dio Padre tutto quanto gli chiede. E così noi se ci uniamo a Cristo, secondo quanto ha promesso: «Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà»86. «Gesù è il Cammino, il Mediatore; in Lui tutto, senza di Lui, nulla. In Cristo, istruiti da Lui, osiamo chiamare Padre nostro l’Onnipotente: Colui che fece il cielo e la terra è questo Padre affettuoso»87. L’Apostolo chiama Dio anche «Padre della gloria». La gloria di Dio ne signifi­ca la grandezza, la potenza, la ricchezza immensa che, nel manifestarsi, susci­tano l’ammirazione e il riconoscimento dell’uomo. Così Dio si era rivelato nel­la storia d’Israele, con azioni salvifiche a favore del suo popolo. Chiedere a Dio di glorificare il suo nome vuol dire chiedergli che si mostri salvatore, inter­venendo con azione potente e benefica88. La più alta manife­stazione della gloria di Dio, della sua potenza, è stata tuttavia la risurrezione di Gesù, e quella del cristiano con Lui89. In questo passo san Paolo invoca Dio come «Padre della gloria» per chiedere che conceda ai cristiani una sapienza soprannaturale con cui possano riconoscere la grandez­za dei benefici che Egli ha elargito loro per mezzo di suo Figlio; perché possano cioè conoscerlo come Padre e origine della gloria. Lo «spirito di sapienza e di rivelazione» che l’Apostolo chiede è un dono soprannaturale: quella sapienza, dono dello Spirito Santo, che penetra i misteri divini: «Chi ha conosciuto il tuo pensiero, se tu non gli hai concesso la sapienza e non gli hai inviato il tuo Santo Spirito dall’alto?»90. Questa sapienza, affidata alla Chiesa91, può essere ricevuta da alcuni fedeli in modo speciale, come dono personale dello Spirito Santo. San Paolo chiede anche che Dio conceda agli Efesini lo «spirito di rivelazione», cioè la grazia di visioni personali, com’era stata con­cessa a lui92 e ad altri fedeli93; si tratta di una par­ticolare illuminazione dello Spirito Santo, perché conoscano con maggiore profondità la verità di fede o la volontà di Dio in una determinata circostan­za.
18 Possa egli dav­vero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi com­prendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi
19 e qual è la straor­dinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza
Insieme a una profonda conoscenza di Dio, san Paolo invoca per i cristiani la conoscenza piena e vissuta della speranza, poiché le due realtà – Dio e la nostra speranza _ vanno inseparabilmente unite. Egli già conosce la fede e la carità dei fedeli ai quali scrive (cfr 1, 15); ciò che ora domanda per loro è la spe­ranza: che Dio li illumini interiormente, perché scoprano le conseguenze di es­sere stati eletti _ chiamati – a far parte del popolo santo di Dio, la Chiesa. La speranza è dunque un dono di Dio: «La speranza è una virtù soprannaturale, infusa da Dio nell’anima nostra, per la quale desideriamo e aspettiamo la vita eterna che Dio ha promesso ai suoi servi, e gli aiuti necessari per ottenerla»94. Fondamento della speranza è l’amore e la potenza di Dio, che si è manifestata nella risurrezione di Cristo. Questa potenza di Dio opera anche nel cristiano. Il progetto della nostra santità è eterno: Dio, che ci ha chiamati, ci donerà una vi­ta celeste e immortale. Il fatto che la potenza di Dio operi in noi95 non significa che siamo liberi da ogni difficoltà. Ricorda il beato Josemaria Escriva: «mentre lotti – una lotta che durerà fino alla morte – non escludere la possibilità che insorgano, violenti, i nemici di dentro e di fuori. E, come se questo peso non bastasse, a volte faranno ressa nella tua mente gli errori com­messi, forse abbondanti. Te lo dico in nome di Dio: non disperare. Se ciò av­viene _ non deve succedere necessariamente, né sarà cosa abituale – trasforma la prova in un’occasione per unirti maggiormente al Signore, perché Lui, che ti ha scelto come figlio, non ti abbandonerà. Permette la prova, per spingerti ad amare di più e farti scoprire con maggiore chiarezza la sua continua protezione, il suo Amore»96.
20 che egli manifestò in Cri­sto, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua de­stra nei cieli, 21 al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si pos­sa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro.
San Paolo contempla stupito le meraviglie che la potenza di Dio Padre ha operato in Cristo Gesù. In tal maniera Cristo appare come principio e modello della nostra speranza. Infatti, come la vita di Cristo configura la nostra santità e ne è esempio, così la gloria e l’esaltazione di Cristo adombra la nostra gloria ed esaltazione, e ne è la figura. Essere seduto «alla destra» del Padre significa qui, come in altri passi del Nuovo Testamento97, che Cristo risorto partecipa della potenza regale di Dio. San Paolo si serve di un’immagine ben nota nelle più alte assemblee pubbliche dell’epoca, che l’imperatore presiedeva stando seduto su un trono. Il trono è sempre stato il simbolo del potere supremo. Per­ciò il Catechismo romano spiega che «qui “sedere” non significa la posizione del corpo, ma esprime simbolicamente il fermo e stabile possesso di quella su­prema potestà e di quel trono regale che Cristo ha ricevuto dal Padre»98. La sovranità di Cristo è assoluta su tutta la creazione, sia fisica che spirituale, terrestre come celeste. Principati, Potestà, Potenze o Virtù e Dominazioni so­no gli spiriti angelici che i falsi predicatori ritenevano su­periori a Cristo. San Paolo sottolinea che Gesù, nella risurrezione, è stato glori­ficato da Dio al di sopra di tutti gli enti creati.
22 Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha co­stituito su tutte le cose a capo della Chiesa,
23 la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose.
In Lettere precedenti, san Paolo aveva insegnato che la Chiesa è come un corpo99. L’immagine del corpo e del capo po­ne in risalto la funzione salvifica di Cristo nella Chiesa e la sua supremazia su di essa. Questa realtà riempie di gioia i cristiani che, incor­porati alla Chiesa mediante il battesimo, sono realmente membra del Corpo di nostro Signore. «Oh, non è orgoglio», rilevava Paolo VI, «non è presunzione, non è ostentazione, non è follia, ma luminosa certezza, ma gioiosa convinzio­ne la nostra, d’essere costituiti membra vive e genuine del Corpo di Cristo, d’essere autentici eredi del Vangelo di Cristo»100. Questa immagine esprime, inoltre, la forza dell’unione di Cristo con la sua Chiesa e il suo profondo amore: la «amò tanto», osserva san Giovanni d’Avila, «che, sebbene abitualmente vediamo uno mettere innanzi il braccio per salvarsi da un colpo sul capo, questo Signore benedetto, pur essendo Capo, si an­tepose al colpo della giustizia divina e morì sulla croce per dare vita al suo cor­po, che siamo noi. E, dopo averci vivificato mediante la penitenza e i sacra­menti, ci difende e custodisce come cosa tanto propria da non accontentarsi di chiamarci servi, amici, fratelli o figli; ma, per meglio mostrare il suo amore e darci più gloria, ci dona il suo stesso nome; da ciò, per questa ineffabile unione di Cristo, Capo, con la Chiesa, suo corpo, Lui e noi siamo chiamati tutti un solo Cristo»101. La Chiesa, Corpo di Cristo, viene designata da Paolo anche con la parola «pienezza». Significa che, mediante la Chiesa, Cristo si rende presente e riempie tutto l’universo, al quale sono estesi i frutti della sua opera redentrice. Essendo strumento di Cristo nell’amministrazione universa­le della sua grazia, la Chiesa non si riduce, come l’antico Israele del Vecchio Testamento, a un popolo o a una razza determinata, né limita i suoi confini a una specifica area geografica. Poiché è illimitata nella sua grazia, lo è anche nella chiamata che rivolge a tutti gli uomini affinché, in Cristo, raggiungano la salvezza. Da secoli la Chiesa è diffusa in tutto il mondo, ed è composta da persone di tutte le razze e condizioni so­ciali. Però la cattolicità della Chiesa non dipende dall’estensione geografica, che comunque ne è segno visibile e motivo di credibilità. La Chiesa era cattoli­ca già nella Pentecoste; nasce cattolica dal cuore piagato di Gesù, come un fuo­co alimentato dallo Spirito Santo. «La chiamiamo cattolica», scrive san Ci­rillo, «non soltanto perché è diffusa su tutta la terra, dall’uno all’altro confine, ma perché in modo universale e senza alcun difetto insegna tutti i dogmi che gli uomini devono conoscere, e che riguardano ciò che è visibile e ciò che non lo è, ciò che è celeste e ciò che è terreno. E anche perché unifica nel retto culto tutti gli uomini, governanti e semplici cittadini, dotti e ignoranti. E, infine, perché cura e sana da ogni genere di peccati, dell’anima e del corpo, e perché possiede inoltre – in qualunque modo le si voglia chiamare – tutte le virtù, nei fatti e nelle parole e in ogni specie di doni spirituali»102. Tutta la grazia giunge alla Chiesa per mezzo di Cristo. Il concilio Vaticano Il ci ricorda: «Egli, nel suo Corpo che è la Chiesa, continuamente dispensa i doni dei ministeri, con i quali, per virtù sua, ci aiutiamo vicendevolmente a salvar­ci, e operando nella carità conforme a verità, noi andiamo in ogni modo cre­scendo in Colui che è il nostro Capo»103. Perciò san Paolo chiama la Chiesa «Corpo» di Cristo; e, in questo senso, essa è «pienezza» (pleròma) di Cristo, non perché la Chiesa completi Cristo, ma perché essa è piena di Cristo, formando con Lui un solo corpo, un unico organismo spiritua­le, il cui principio di unione e di vita è Cristo-Capo. Si pone così in evidenza l’assoluta supremazia di Cristo, il cui flusso, allo stesso tempo unificante e vi­vificante, si diffonde alla Chiesa e da questa a tutti gli uomini. Gesù è in realtà Colui che riempie tutto in tutte le cose104. Il fatto che la Chiesa è il Corpo di Cristo costituisce una ragione ulteriore per amarla e servirla. Insegna perciò papa Pio XII: «A ottenere poi che un tal pie­nissimo amore regni negli animi nostri, e di giorno in giorno aumenti, è neces­sario assuefarsi a riconoscere nella Chiesa lo stesso Cristo. È infatti Cristo che nella sua Chiesa vive, per mezzo di lei insegna, governa, comunica la santità; è Cristo che, in molteplici forme, si manifesta nelle varie membra della sua so­cietà»105.

LA FIGURA DI MARIA NELLA LITURGIA – ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE

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LA FIGURA DI MARIA NELLA LITURGIA

ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE  

Circa la solennità dell’Annunciazione del Signore del 25 marzo, la Marialis cultus scrive: «Per la solennità dell’Incarnazione del Verbo, nel Calendario Romano, con motivata risoluzione, è stata ripristinata l’antica denominazione di “Annunciazione del Signore”, ma la celebrazione era ed è festa congiunta di Cristo e della Vergine: del Verbo che si fa “figlio di Maria” (Mc 6, 3), e della Vergine che diviene la Madre di Dio. Relativamente a Cristo l’Oriente e l’Occidente, nelle inesauribili ricchezze delle loro liturgie, celebrano tale solennità come memoria de fiat salvifico del Verbo incarnato, che entrando nel mondo disse: “Ecco, io vengo (…) per fare, o Dio, la tua volontà” (cf. Eb 10, 7; Sal 39, 8-9); come commemorazione dell’inizio della redenzione e dell’indissolubile e sponsale unione della natura divina con la natura umana nell’unica persona del Verbo. Relativamente a Maria, come festa della nuova Eva, vergine obbediente e fedele, che con il suo fiat generoso (cf. Lc 1, 38) divenne, per opera dello Spirito, Madre di Dio, ma anche vera Madre dei viventi e, accogliendo nel suo grembo l’unico Mediatore (cf. 1Tm 2, 5), vera Arca dell’Alleanza e vero Tempio di Dio, come memoria di un momento culminante del dialogo di salvezza tra Dio e l’uomo, e commemorazione del libero consenso della Vergine e del suo concorso al piano della redenzione» (MC 6). Da quanto afferma Paolo VI nella sua esortazione apostolica la solennità dell’Annunciazione del Signore è una festa sia cristologia sia mariana, quindi è una festa in stretto rapporto con quella del Natale. Gli storici della liturgia, tuttavia, dati gli elementi in loro possesso, non sono in grado di determinare quale delle due date sia stata determinante e predominante. L’origine della festa non è devozionale, e nemmeno deriva da riflessione teologica sul deposito della rivelazione, ma va ad iscriversi nel segno del realismo dell’incarnazione e nella dimensione della storia della salvezza. Per cui prima di tutto ciò che si celebra è un avvenimento e come tale deve essere privilegiato su tutte le altre celebrazioni. L’Annunciazione del Signore ci dice che il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora fra noi (cf. Gv 1, 14); scegliendo di mostrarsi nella fragilità della spogliazione e dell’abbassamento (cf. Fil 2, 5-8). Da tempo immemorabile, è l’annuncio dei profeti, la visita di Dio al suo popolo era stata annunciata e in modo insistente, per cui non vi era nessun dubbio che ciò sarebbe avvenuto, solo restava il mistero di come questa si sarebbe realizzata. Qui sta la novità, perché Dio non è passato tra gli uomini, ma si è fermato, non si è rivolto agli uomini dall’esterno, si è fatto uomo assumendo tutto dall’interno. Dio si fa uomo per parlare ed agire nel cuore stesso dell’esperienza umana. Scrive E.G. Mori: «Nel nostro momento storico, in cui si parte sempre più dall’uomo, dalla sua scoperta, dal suo significato, dalla sua centralità, l’evento dell’incarnazione è un fatto di straordinaria attualità. È la proposta di Dio che apre alla storia umana dimensioni senza confine. La finitezza umana rimane sempre disponibile ad essere “segno”, anche della presenza personale di Dio» . Dio pur rimanendo il Totalmente Altro, si è fatto uomo, quindi va cercato nella realtà degli uomini. D’ora in poi la storia della salvezza sarà caratterizzata e dominata da una sconvolgente scelta di Dio: l’incarnazione, per questo tutto il mistero cristiano viene posto sotto il segno del Dio-uomo. Di conseguenza la solennità dell’Annunciazione del Signore, non è solo il celebrare l’inizio della nuova avventura di Dio con l’umanità, ma ne è la chiave di lettura e di comprensione di tutto quello che avverrà poi. «L’esaltazione di Gesù, che fa di lui il “Signore” per sempre, non deve mai attenuare il mistero “dell’uomo Gesù”» , perché «quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4, 4-5). Dalla storia della liturgia sembra non esserci una data certa di quando veniva celebrato il giorno dell’Annunciazione, questo fino al X concilio di Toledo (656). Infatti, è in questo concilio che pur non parlando in modo esplicito della festa dell’Annunciazione, constata che la madre del Verbo non ha ancora una festa celebrata ovunque allo stesso giorno. Il non possedere una data comune, anche se quella del 25 marzo risulta essere la più comune, ci fa comprendere come si sia in presenza di molteplici liturgie legate ai rispettivi luoghi di provenienza (si conservano ancora oggi vari sacramentali e rituali: mozarabico, ispanico, gallicano, romano, senza dimenticare l’area orientale) e di conseguenza come la festa legata all’incarnazione abbia diverse comprensioni. Dai documenti che oggi possediamo, si sa che le prime commemorazioni di questa festa si hanno dapprima nella solennità del Natale, in seguito con il codificarsi del tempo d’Avvento vengono spostate in esso, e precisamente in una domenica o in un giorno dedicato alla celebrazione dell’incarnazione di Cristo dalla Vergine, per opera dello Spirito Santo. Solo più tardi prese piede la data del 25 marzo come giorno fissato per celebrare l’Annunciazione. I testi antichi ci dicono dunque una cosa importante, agli inizi la solennità dell’Annunciazione del Signore, non veniva celebrata come festa a se stante, ma ne veniva fatta memoria in altre celebrazioni. Ciò si può rilevare nelle omelie che troviamo in oriente tra il IV e V secolo, una delle più datate è quella scritta da Esichio di Gerusalemme († dopo 451), che fa riferimento a Lc 1, 26-38 ed è da ascriversi nel tempo di preparazione al Natale, anche di Antipatro di Bostra († 457) possediamo due omelie da lui tenute nelle domeniche precedenti il Natale. Anche Basilio di Seleucia († dopo il 468) ci ha lasciato un commento al racconto dell’Annunciazione databile prima del Natale del 449. Grande importanza hanno le omelie che ci provengono da Proclo di Costantinopoli († 430), frutto della sua predicazione, in esse vibrano profondi assensi di ammirazione alla Vergine santa, alla base di questi testi c’è l’oracolo di Isaia 7 e il vangelo di Luca relativo all’Annunciazione. Anche il comportamento liturgico delle Chiese che nel secolo V orbitano attorno ad Antiochia è analogo. Un secolo più tardi la chiesa nestoriana organizzò per il periodo precedente il Natale le domeniche chiamandole dell’Annunciazione (Sûbâra), e l’ultima domenica commemora proprio l’annuncio portato a Maria.  Solo nella prima metà del VI secolo apparve la festa dell’Annunciazione in data 25 marzo, e questo avviene nel patriarcato di Costantinopoli, tale festa in epoca Giustiniana si diffonde anche nelle altre regioni di rito bizantino, e nel giro di qualche decennio fu adottata anche da altri patriarcati. Prima di passare all’ambito occidentale penso sia opportuno porsi una domanda: perché la data del 25 marzo? Certamente la prima risposta che viene spontanea dare è perché il Natale si celebra il 25 dicembre, e quindi nove mesi prima è appunto il 25 marzo. Ma non è questo il motivo. Il 25 marzo astronomicamente è l’equinozio di primavera. Fin dai tempi di Tertulliano erano presenti tradizioni che richiamavano questa data come quella della creazione del mondo, in alcune anche quella dell’uomo, e della concezione di Cristo. In seguito a questa data si è aggiunta anche la commemorazione della morte di Cristo, lo stesso sant’Agostino nel De Trinitate vi allude, infatti facendo calcoli sulla simbologia dei numeri afferma che la gestazione perfetta comprenderebbe il preciso periodo di nove mesi e sei giorni. Questo si è verificato per la perfezione del corpo di Cristo. Anche nel Sacramentario Gelasiano preadriano si legge: «VIII calende di aprile Annunciazione Santa Madre di Dio e Passione del Signore». Dopo questa parentesi circa l’aver fissato la data al 25 marzo, vediamo come si è andata formando questa festa nell’occidente cristiano. Le omelie di Pietro Crisologo, vescovo di Ravenna, nel V secolo, ci dicono l’esistenza e l’importanza di una preparazione al Natale, incentrata sul racconto lucano dell’Annunciazione, l’importanza di questa preparazione è sottolineata pure dal celebre Rotolo di Ravenna (manoscritto copiato nel secolo VIII, ma risalente al secolo VI – fine V -. Il Pinell sostiene che le orazioni presenti siano state composte per l’Ufficio di Avvento delle Chiese del Nord Italia). Anche per altre Chiese dell’Italia del nord, abbiamo testimonianze, risalenti al VI – VIII secolo, che attestano che nella V Domenica di Avvento veniva letto il vangelo di Lc 1, 26 – 38. Un’importante testimonianza dell’esistenza della commemorazione dell’Annunciazione del Signore, ci viene offerta dalla Chiesa milanese, dove fin dal secolo V l’ultima domenica di Avvento era dichiaratamente celebrativa della verginale-divina maternità di Maria. Il Sacramentario Bergomense (e altri libri liturgici ambrosiani) contengono due formulari di Messa relativi a questa domenica, uno porta il titolo In Ecclesia (cioè la cattedrale), con indicato il vangelo della Visitazione (Lc 1, 39-55), l’altro Ad Sanctam Mariam (usato in seguito da tutte le chiesa) con il vangelo dell’Annuncizaione (Lc 1, 26-38). I prefazi  di queste messe in modo eloquente tratteggiano il tenore mariano di questa domenica, che successivamente nel corso del Medioevo venne chiamata a volte De Incarnatione altre In Annuntiatione, le orazioni di queste messe sono state conservate anche nell’attuale liturgia ambrosiana, come testimonia questa preghiera: «Esaudisci, o Padre infinitamente buono, la nostra supplica: donaci di aderire con umile fede alla tua parola sull’esempio della Vergine immacolata che, all’annuncio dell’angelo, accolse il tuo Verbo ineffabile e, colma di Spirito santo, divenne tempio di Dio». Anche la chiesa ambrosiana sotto l’influsso della liturgia romano-carolingia assunse la festa del 25 marzo, ed in essa vi confluì la tradizione ecologica gelasiana e gregoriana dell’Annunciazione. San Carlo Borromeo, abolì tuttavia questa festa, per rispettare la veneranda regola di non festeggiare durante la Quaresima, e solo nel 1897 fu ripristinata con decreto della Sacra Congregazione dei Riti in risposta ai desideri espressi sia dal clero che dal popolo milanese. Anche la Chiesa di Spagna seguendo l’esempio delle altre Chiese aveva nel proprio calendario liturgico d’Avvento una domenica dedicata al mistero dell’Annunciazione, come testimonia un mirabile prefazio: «È cosa degna, giusta conveniente e salutare celebrare la miracolosa nascita del nostro Signore Gesù Cristo: che il messaggero celeste annunziò dover nascere tra gli uomini e per gli uomini, che la Vergine in terra accolse mentre veniva salutata e che lo Spirito santo creò mentre si incarnava; affinché per la promessa di Gabriele, la fede di Maria e la reale cooperazione dello Spirito di Dio, l’evento seguisse il saluto dell’Angelo, il fatto mostrasse compita la promessa e la vergine comprendesse di essere stata resa feconda dalla misteriosa potenza dell’Altissimo. Ecco concepirai nel seno e darai alla luce un Figlio, l’Angelo annunziò E come avverrà ciò? Rispose Maria. Ma poiché rispose credendo senza dubitare, lo Spirito santo concepì ciò che l’Angelo aveva annunziato. Maria, vergine prima del concepimento,che rimarrà sempre vergine anche dopo il parto, ha concepito il suo Dio prima nella mente e poi nel ventre. La Vergine, ripiena della grazia di Dio, per prima ha accolto il Salvatore del mondo, e perciò è divenuta la vera Madre del Figlio di Dio. Il quale adorano gli Angeli, i Troni, le Dominazioni e le Potestà, dicendo così: santo…» .  Come la Chiesa ambrosiana anche quella spagnola fu influenzata dalla liturgia romana e la festa dedicata all’Annunciazione del Signore fu portata al 25 marzo fino all’intervento del X concilio di Toledo (656), nel quale i padri conciliari spagnoli decisero di stabilire il 18 dicembre una solenne festività mariana, ed in essa si intendeva celebrare il mistero dell’Annunciazione-Incarnazione. Solo nel secolo X-XI e ancora sotto l’influsso romano-franco, nella chiesa ispanica fu introdotta la festa dell’Annunciazione al 25 marzo, tuttavia questa festa conservava l’impianto ecologico di quella del 18 dicembre presente nel Sacramentario Mozarabico. Le orazioni presenti nel Messale di Bobbio, insieme ad altre presenti in alcuni libri gallicani dei secoli VII e VIII che richiamano ai testi biblici di Is 7, 10 – 9, 7 e Lc 1, 26-38, ci dicono che anche la Chiesa di Gallia, almeno fino alla romanizzazione operata da Carlo Magno, la verginale maternità di Maria veniva onorata in modo speciale il giorno di Natale. Quanto è stato detto per varie Chiese occidentali è valido pure per la Chiesa di Roma, infatti, anche in questa Chiesa la commemorazione dell’Incarnazione e della maternità verginale di Maria erano confluite nella solennità del Natale, che veniva celebrato nella basilica di S. Maria Maggiore. Solo nel VII secolo con l’importazione dall’Oriente di quattro festività mariane (2 febbraio – Purificazione di Maria, 15 agosto – Assunzione al cielo, 8 settembre – natività di Maria e 25 marzo – Annunciazione del Signore), la festa mariana relativa a Lc 1, 26-38, viene portata al 25 marzo, data che in virtù dell’espansione avuta sarà diffusa in tutti i paesi dell’Occidente. Tuttavia per la liturgia romana non va dimenticato che anche le Tempora di dicembre progressivamente si sono colorate di tonalità mariane, infatti nel Sacramentario Gelasiano un prefazio composto per il mercoledì, ci dice che il vangelo letto era quello relativo all’Annunciazione del Signore. Questa messa nel Medioevo acquistò un’importanza speciale soprattutto nei monasteri, tanto venir chiamata Missa aurea beatae Mariae. Sempre nella liturgia romana è presente una commemorazione dell’incarnazione del Signore in una domenica d’Avvento, come si legge nell’Ordo Romano redatto verso la metà del secolo VIII. La festa dell’Annunciazione del Signore ha variato spesso la sua denominazione ufficiale di questa festa, in età antica era comune l’espressione Annunciazione dell’angelo alla beata Vergine Maria, ma anche Annunciazione del Signore, Annunciazione di Cristo, addirittura Concezione di Cristo; questi ultimi titoli erano dovuti al fatto che la festa più antica era nel ricordo del Signore. Ma il pressante riferimento a Maria ne ha fatto molto presto una festa di Maria, per cui negli ultimi secoli la denominazione ufficiale data è stata Annunciazione della beata Vergine Maria. Da questo excursus possiamo rilevare come questa festa non solo ha cambiato spesso denominazione, ma anche ha variato molte volte la data della celebrazione, varietà legata alla diversa concezione dell’anno liturgico ed ecclesiastico. In oriente non era presente un’idea molto rigida a questo riguardo, per cui le feste sia dei santi quanto quelle mariane erano sparse lungo tutto l’anno. Al contrario in occidente, e soprattutto in Spagna e nella Chiesa ambrosiana, non erano ammesse deroghe alle feste nei santi nel periodo quaresimale. Da qui l’aver fissato in modo deciso la data dell’Annunciazione al 18 dicembre, in pieno periodo d’avvento. Tuttavia a Roma “la rigidità” quaresimale era minore, questo spiega perché sia il Sacramentario Gelasiano quanto quello Gregoriano conservano la festa dell’Annunciazione al 25 marzo come il calendario orientale. Nella liturgia delle tempora, in avvento, si ricorda l’annunciazione, solo tardivamente al 18 dicembre viene introdotta una festività chiamata Expectatio partus. Solo negli ultimi tempi si arriva alla data del 25 marzo come comune a tutta la chiesa per la festa dell’Annunciazione. Con la riforma liturgica, a seguito del Vaticano II, la festa ha ripreso il suo nome più autentico, per una profonda motivazione teologica: Annunciazione del Signore. Infatti, il concilio ricorda che la vera radice di tutta la grandezza e unicità della persona di Maria e della missione di Maria: la sua relazione a Cristo (cf. LG 67), tema ripreso dal prefazio della messa della solennità dell’Annunciazione: «È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. All’annunzio del vangelo la Vergine accolse nella fede la tua parola, e per l’azione misteriosa dello Spirito Santo concepì e con ineffabile amore portò in grembo il primogenito dell’umanità nuova, che doveva compiere le promesse d’Israele e rivelarsi al mondo come il Salvatore atteso dalle genti. Per questo mistero esultano gli angeli e adorano la gloria del tuo volto. Al loro canto congedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode».   P. Gino Alberto Faccioli, ISSR « Santa Maria di Monte Berico »

ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE – IL SIGNIFICATO BIBLICO-SPIRITUALE.

http://digilander.libero.it/mariaoggi/annunciazionedelsignore.htm

ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE

IL SIGNIFICATO BIBLICO-SPIRITUALE.

È lo Spirito che annuncia il Signore a Maria (Lc 1, 26-38). Luca lascia emergere con sufficiente evidenza l’analogia tra la discesa dello Spirito su Maria all’Annunciazione e sulla Chiesa apostolica a Pentecoste. Del resto l’Annunciazione è giustamente detta « la Pentecoste di Maria » (S. Bulgakov) o la proto-Pentecoste della Chiesa. È l’inizio dell’Oméga, l’inaugurazione della Alleanza Nuova nel Sangue del Dio-Uomo, l’inizio del Giudizio escatologico. Perciò l’Annunciazione è la Parte del Tutto, la radice e l’inizio cronologico e salvifico dell’evento pasquale.
Vi è una discreta analogia tra l’Annunciazione a Maria e la Pentecoste della Chiesa apostolica. Basta confrontare Le 1,35.46.49a con Le 24,49; At 1,8; 2,4.6.7.11. Adombrata dallo Spirito nell’intimo della sua persona (Le 1,35), la Figlia di Sion erompe quasi all’esterno, sulle montagne della Giudea (Le 1,39) per annunziare le grandi opere compiute in lei dall’Onnipotente (Le 1,46.49). Dall’altra parte la Chiesa apostolica di Gerusalemme, corroborata dal vigore dello Spirito (Le 24,49; At 1,8) – mentre erano radunati all’interno della casa (At 2,2) – lascia il suo ritiro per proclamare pubblicamente le grandi opere del Signore (At 2, 4.6.7.11).
L’Annuncio a Maria supera ogni vecchio schema delle annunciazioni dell’Antico Testamento. I temi narrati qui sono completamente nuovi: il concepimento verginale del Figlio di Dio, la compartecipazione della Madre ai Misteri salvifici, la Maternità divina e perciò Maternità verginale, propria ed esclusiva dei tempi messianici. Anche le Promesse dell’Antico Testamento si compiono in un modo del tutto inatteso, nella novità che è Cristo Signore.
Nella radicale novità inaugurata con l’Annunciazione trovano attuazione i tratti originali dei tempi escatologici e apocalittici. Il Fiat della Vergine – che riecheggia quello di Israele alle falde del Sinai (Es 24, 3.7), ma mai pienamente compiuto – conclude l’Alleanza escatologica. Ritroviamo qui gli elementi teofanici caratteristici: la manifestazione della Gloria (Sékinàh) e della Presenza di Dio, il segno della nube. La presenza dello Spirito, Forza (Dynamis) divina per il concepimento verginale del Figlio di Dio, prelude la gloria del Battesimo del Signore (Lc 3, 21-22), della sua gloriosa Trasfigurazione (Lc 9, 29-35), del Giudizio del mondo (Lc 22, 69-70) e della Resurrezione (cfr Rm 1, 3-4).
La Novità del Figlio di Dio che trasforma i modelli preesistenti è unicamente quella della Resurrezione; una novità che passa attraverso la Croce gloriosa, tanto che l’Annunciazione è spiegata anche con la Croce, radice dell’Annuncio del Signore. Il Fiat della Madre di Dio esprime il suo desiderio di entrare in comunicazione filiale e nuziale con Dio e con il Verbo; è un’offerta sacrificale, e ogni sacrificio è celebrazione della Pasqua, Ingresso liturgico in Dio Padre, crescita dei fedeli del Signore nella Vita Nuova (cfr Eb 10, 4-10; Sal 39, 7-9).
Come altrove, Luca, nel riferire l’annunciazione alla Vergine, va controcorrente rispetto agli slogan del suo tempo, secondo i quali la donna in genere sarebbe caratterizzata per la passività e l’uomo per l’attività. L’autore usa un suo metodo originale: presenta il turbamento sia di Zaccaria che di Maria. Ma Zaccaria è turbato dalla visione dell’angelo (Lc 1,12), Maria « per tali parole rimane molto turbata » (Lc 1,29): il suo turbamento è a causa dell’audizione dell’invito alla gioia messianica e all’elogio insolito. Il sacerdote rimane passivo e quasi paralizzato. La Vergine invece è in situazione attiva: riflette per aderire.
I titoli e i contenuti pasquali dell’Annuncio
L’Annunciazione a Maria è un evento che spiega la Pasqua, per questo nel racconto troviamo una ricchezza di titoli e di temi pasquali. I cieli si aprono affinché lo Spirito della Resurrezione di scenda sulla creatura; il medesimo Spirito incarna il Verbo dell’Amore del Padre mediante un’azione creatrice di carattere ipostatico. L’Incarnazione del Figlio di Dio e la Pentecoste dello Spirito sono due azioni inseparabili, identiche e inconfondibili: il Lógos è reso Ipostasi divino-umana dallo Spirito Ipostatico e Creatore.
Maria, la Divenuta-tutta-grazia, è da Dio Gratificata, privilegiata, favorita (Lc 1, 28): è la dimora dello Spirito e riceve la sua pie-
nezza. Già a Nazaret la Pentecoste si concentra totalmente in Maria perché limitata alla sua persona. Ella cresce in questa pienezza fino alla Dormizione e all’Assunzione in cielo. Maria in tal modo è la « Portatrice dello Spirito » (Pneumatophóra), ella comunica attivamente, cioè anche per virtù propria, la Vita divina della Triade Unita. Vita che il Con-noi-Dio darà agli Apostoli il giorno della Pentecoste. Ma fin d’ora, essendo membro perfetto della Chiesa nascente e la Chiesa prima della Chiesa, Maria porta lo Spirito del Figlio ad Elisabetta e a Giovanni il Battista (Lc 1, 39-45), come lo porterà poi ai fratelli del Signore (cfr Mc 16, 5-8).
Il Figlio annunciato a Maria è connotato da numerosi titoli pasquali: egli è Gesù, cioè « il Signore-è-salvezza » (Lc 1, 31); il Grande (Lc 1, 32; cfr Is 9, 7); il Figlio dell’Altissimo (Lc 1, 32; cfr v. 35); il Figlio di David e il possessore del trono di lui (Lc 1, 32); il Re eterno della Casa di Giacobbe o di Israele (Lc l, 32); il Figlio di Dio (Lc 1, 35); il Santo (Lc 1, 35), della stessa santità di Dio, il Sacerdote Sommo dell’Alleanza Nuova che pone termine al sacerdozio levitico (cfr Lc 1, 5-25) attraverso la sua futura sofferenza e la morte espiatrice.
Anche il contenuto è pasquale. Di Lc 1, accenniamo ad alcuni versetti: v. 28: l’angelo saluta Maria con « gioisci.! »; è un verbo tipicamente pasquale: è la gioia della Pasqua, portata dallo Spirito della Resurrezione; v. 32: « egli sarà Grande »; nell’Antico Testamento solo Dio è Grande. Ma il Messia Salvatore è Grande perché Figlio di Dio e « Santo » (v. 35) ad opera dello Spirito santificatore. Il nascituro è il Re Pantokrator che appartiene alla sfera divina; v. 35: il linguaggio è proprio della Resurrezione, legato con il Battesimo e la Trasfigurazione: in entrambi gli eventi si parla dell’adombramento su Cristo da parte dello Spirito, della nube e della gloria del Padre. Lo Spirito che scende su Maria non è tanto lo Spirito profetico, quanto la Potenza creatrice divina che crea la Vita divina; è lo Spirito, principio di Vita e di Resurrezione (cfr Rm 1, 4; 1 Cor 15, 45; Gv 3, 4-8; Mt l, 18); v. 38: il Fiat di Maria non è tanto o solo espressione di umiltà, quanto di fede (v. 45), di docilità e di amore oblativo, che richiama quasi la figura del Servo del Signore (Is 53). Maria per prima proclama l’Amen alla gloria di Dio e intona per tutta la Chiesa: « Vieni, Signore Gesù! » (1 Cor 16, 22; Ap 22, 17.20). La Resurrezione, come l’Annunciazione, è opera dello Spirito: solo lui è la Forza di Dio (Lc l, 35) che si esprime per eccellenza e innanzitutto nella Resurrezione del Signore (Rm 1, 3-4). Cristo Risorto è Spirito vivificante (Rm 8, 5-10); è lui che dà la Vita e la Vittoria sulla morte (Rm 6, 8-11); è lui che dona la fecondità intradivina alla Vergine nel momento della sua Incarnazione. La Maternità divina inizia a Nazaret, raggiunge il suo segno storico nel Natale del Figlio a Betlemme e tocca il suo culmine nella Passione e Resurrezione; si perpetua poi nel tempo della grazia dello Spirito, tramite la Chiesa che celebra incessantemente il suo Signore.
L’Annunciazione nella celebrazione della Chiesa.
Il 25 marzo la Chiesa celebra la solennità dell’Annuncio del Signore a Maria. L’Incarnazione del Verbo è l’inizio della sua Pasqua: perciò la festa del 25 marzo, già nel IV/V secolo è considerata « la radice delle feste » (Giovanni Crisostomo), l’inizio dei tempi nuovi, l’inizio della fine: inizio dell’Incarnazione storica del Messia e inizio della deificazione dell’uomo, della rinnovazione del creato.
Per gli Ebrei il Capodanno liturgico è celebrato nel mese di Nisan, durante il quale si fa memoriale della Pasqua (cfr Es 12,2.18; 34,18). Tale data era anche il Capodanno del re e delle feste. Infatti si contava l’inizio del regno del sovrano a partire proprio dal Capodanno festivo. Anche in epoca cristiana l’inizio dell’Anno liturgico nell’alto Medioevo era fissato a marzo, precisamente il 25 marzo, capodanno pure civile, quindi primo mese dell’anno. In seguito l’inizio dell’Anno liturgico si spostò a Natale, poi all’Avvento, mentre l’inizio dell’anno solare fu regolato in corrispondenza con il calendario civile di Roma, dal quale potrebbe derivare la data del Natale cristiano al 25 dicembre, giorno in cui in tutto l’impero romano si celebrava il Natale del dio Sole.
L’espressione patristica greca rhíza tón heortón, « radice delle feste » – con la quale si denomina il 25 marzo – deriva proprio dal Capodanno del re e delle feste. Il 25 marzo perciò sorge nella Chiesa come il Capodanno del Re Salvatore e della Regina Madre.
Nella letteratura cristiana il 25 marzo è indicato come il giorno che comprende tutti i giorni del tempo nuovo: il giorno somma del tempo della Chiesa. Seguendo l’ipotesi che spiega la festa del Natale fissata al 25 dicembre in dipendenza dal 25 marzo (e non viceversa), gli Antichi e i Padri – fin dal tempo di Tertuliano – credevano che questo giorno, equinozio di primavera, segnasse l’inizio della creazione del mondo e dell’uomo. Perciò era ritenuto come una data simbolica del concepimento del Verbo di Dio: il Signore si sarebbe incarnato e sarebbe anche morto il 25 marzo..
La festa tuttavia cadeva in Quaresima, tempo in cui per la Chiesa antica era vietato celebrare qualsiasi solennità. Per l’Occidente la difficoltà fu affrontata dal concilio di Toledo (656); in Oriente invece il Concilio trullano (692) stabilì che in Quaresima si sarebbe fatta un’eccezione per l’Annunciazione, senza trasferirla, anche se coincide con il Venerdì o il Sabato santo. Questo uso è in vigore ancora oggi tra gli Orientali.(La nascita del Signore al 25 dicembre è documentata a Roma per la prima volta nel 336. Ciò non esclude la prima ipotesi che spiega la data del Natale in dipendenza del 25 marzo.)
Sia in Oriente che in Occidente, la festa dell’Annunciazione è tra le più solenni dell’Anno liturgico; in questo giorno Maria è venerata e ricordata come la Portatrice della Vita Nuova, della Vita pasquale del Signore. Abramo di Efeso in una omelia per il 25 marzo proclama:
« Oggi è sciolta l’antica condanna:
da quando infatti fu pronunciato in terra quel Gioisci, è cessato quel Partorirai figli nel dolore;
per una donna subentrò agli uomini la morte; per una donna ritornò loro la vita » .
L’Annuncio di Cristo a Maria richiama anche l’apparizione di Cristo Risorto a sua Madre il mattino di Pasqua. Era necessario – dicono i Padri (Atanasio il Grande, Cirillo di Gerusalemme, Gregorio Palamas) – che l’Adamo nuovo, destandosi dal sonno (cfr Gn 2, 21-23), vedesse prima di tutto la Donna e fosse veduto da lei. La Donna che prima di qualunque altra creatura vede il Risorto, per i Padri, è senza dubbio la Vergine Madre di Dio.
L’Annunciazione non è solo l’inizio della Redenzione: è la chiave di lettura e di comprensione di tutta la vicenda di Cristo che seguirà poi. L’esaltazione del Verbo fattosi Carne a Signore uni versale non attenua minimamente il suo Mistero di Verbo fattosi Uomo dalla Donna per l’eternità. Il Mistero pasquale si sviluppa e cresce nel segno dell’Incarnazione storica e gli uomini nell’Emmanuele diventano figli di Dio (Gal 4, 4-5).
Come evento storico-salvifico la Chiesa celebra l’Annunciazione una volta l’anno, il 25 marzo; ma lo stesso Mistero – secondo l’economia sacramentale – si attua ogni giorno e in ogni celebrazione. Il Signore Risorto, annunciato a Maria, è annunciato quotidianamente alla Comunità dei fedeli per il perpetuarsi della Incarnazione sua e ciò avviene in prospettiva storica, come compimento della Profezia, in dimensione sacramentale come attuazione dell’Evangelo « per noi-qui-ora » e nella dimensione escatologica, tempo ecclesiale della crescita di Cristo Capo nel suo Corpo, fino alla Venuta parusiaca del Signore. A questi tre livelli corrispondono infatti le tre letture della Liturgia della Parola: il Profeta (o Antico Testamento), 1′Evangelo e la lettura dell’Apostolo. Del Mistero integrale ogni celebrazione fa memoriale, più o meno esplicito, secondo 1′Evangelo e il « colore » liturgico del giorno. (Sergio Gaspari, Celebrare con Maria l’anno di grazia del Signore, ed. Monfortane, pp.91-110).
inizio

FESTA DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE – OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2006/documents/hf_ben-xvi_hom_20060202_presentation-lord_it.html        

SANTA MESSA PER I RELIGIOSI E LE RELIGIOSE NELLA FESTA DELLA PRESENTAZIONE DEL SIGNORE

GIORNATA DELLA VITA CONSACRATA

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana

Giovedì, 2 febbraio 2006

Cari fratelli e sorelle!

L’odierna festa della Presentazione al tempio di Gesù, a quaranta giorni dalla sua nascita, pone davanti ai nostri occhi un momento particolare della vita della santa Famiglia: secondo la legge mosaica, il piccolo Gesù viene portato da Maria e Giuseppe nel tempio di Gerusalemme per essere offerto al Signore (cfr Lc 2, 22). Simeone ed Anna, ispirati da Dio, riconoscono in quel Bambino il Messia tanto atteso e profetizzano su di Lui. Siamo in presenza di un mistero, semplice e solenne al tempo stesso, nel quale la santa Chiesa celebra Cristo, il Consacrato del Padre, primogenito della nuova umanità. La suggestiva processione dei ceri all’inizio della nostra celebrazione ci ha fatto rivivere il maestoso ingresso, cantato nel Salmo responsoriale, di Colui che è « il re della gloria », « il Signore potente in battaglia » (Sal 23, 7.8). Ma chi è il Dio potente che entra nel tempio? È un Bambino; è il Bambino Gesù, tra le braccia di sua madre, la Vergine Maria. La santa Famiglia compie quanto prescriveva la Legge: la purificazione della madre, l’offerta del primogenito a Dio e il suo riscatto mediante un sacrificio. Nella prima Lettura la Liturgia parla dell’oracolo del profeta Malachia: « Subito entrerà nel suo tempio il Signore » (Mal 3, 1). Queste parole comunicano tutta l’intensità del desiderio che ha animato l’attesa da parte del popolo ebreo nel corso dei secoli. Entra finalmente nella sua casa « l’angelo dell’alleanza » e si sottomette alla Legge: viene a Gerusalemme per entrare in atteggiamento di obbedienza nella casa di Dio. Il significato di questo gesto acquista una prospettiva più ampia nel brano della Lettera agli Ebrei, proclamato oggi come seconda Lettura. Qui ci viene presentato Cristo, il mediatore che unisce Dio e l’uomo abolendo le distanze, eliminando ogni divisione e abbattendo ogni muro di separazione. Cristo viene come nuovo « sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo » (Eb 2, 17). Notiamo così che la mediazione con Dio non si attua più nella santità-separazione del sacerdozio antico, ma nella solidarietà liberante con gli uomini. Egli inizia, ancora Bambino, a camminare sulla via dell’obbedienza, che percorrerà fino in fondo. Lo pone ben in luce la Lettera agli Ebrei quando dice: « Nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche… a colui che poteva liberarlo da morte … Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono » (cfr Eb 5, 7-9). La prima persona che si associa a Cristo sulla via dell’obbedienza, della fede provata e del dolore condiviso è sua madre Maria. Il testo evangelico ce la mostra nell’atto di offrire il Figlio: un’offerta incondizionata che la coinvolge in prima persona: Maria è Madre di Colui che è « gloria del suo popolo Israele » e « luce per illuminare le genti », ma anche « segno di contraddizione » (cfr Lc 2, 32.34). E lei stessa, nella sua anima immacolata, dovrà essere trafitta dalla spada del dolore, mostrando così che il suo ruolo nella storia della salvezza non si esaurisce nel mistero dell’Incarnazione, ma si completa nell’amorosa e dolorosa partecipazione alla morte e alla risurrezione del Figlio suo. Portando il Figlio a Gerusalemme, la Vergine Madre lo offre a Dio come vero Agnello che toglie i peccati del mondo; lo porge a Simeone e ad Anna quale annuncio di redenzione; lo presenta a tutti come luce per un cammino sicuro sulla via della verità e dell’amore. Le parole che in quest’incontro affiorano sulle labbra del vecchio Simeone – « I miei occhi han visto la tua salvezza » (Lc 2, 30) – trovano eco nell’animo della profetessa Anna. Queste persone giuste e pie, avvolte dalla luce di Cristo, possono contemplare nel Bambino Gesù « il conforto d’Israele » (Lc 2, 25). La loro attesa si trasforma così in luce che rischiara la storia. Simeone è portatore di un’antica speranza e lo Spirito del Signore parla al suo cuore: per questo può contemplare colui che molti profeti e re avevano desiderato vedere, Cristo, luce che illumina le genti. In quel Bambino riconosce il Salvatore, ma intuisce nello Spirito che intorno a Lui si giocheranno i destini dell’umanità, e che dovrà soffrire molto da parte di quanti lo rifiuteranno; ne proclama l’identità e la missione di Messia con le parole che formano uno degli inni della Chiesa nascente, dal quale si sprigiona tutta l’esultanza comunitaria ed escatologica dell’attesa salvifica realizzata. L’entusiasmo è così grande che vivere e morire sono la stessa cosa, e la « luce » e la « gloria » diventano una rivelazione universale. Anna è « profetessa », donna saggia e pia che interpreta il senso profondo degli eventi storici e del messaggio di Dio in essi celato. Per questo può « lodare Dio » e parlare « del Bambino a tutti coloro che aspettavano la redenzione di Gerusalemme » (Lc 2, 38). La lunga vedovanza dedita al culto nel tempio, la fedeltà ai digiuni settimanali, la partecipazione all’attesa di quanti anelavano il riscatto d’Israele si concludono nell’incontro con il Bambino Gesù. Cari fratelli e sorelle, in questa festa della Presentazione del Signore la Chiesa celebra la Giornata della Vita Consacrata. Si tratta di un’opportuna occasione per lodare il Signore e ringraziarlo del dono inestimabile che la vita consacrata nelle sue differenti forme rappresenta; è al tempo stesso uno stimolo a promuovere in tutto il popolo di Dio la conoscenza e la stima per chi è totalmente consacrato a Dio. Come, infatti, la vita di Gesù, nella sua obbedienza e dedizione al Padre, è parabola vivente del « Dio con noi », così la concreta dedizione delle persone consacrate a Dio e ai fratelli diventa segno eloquente della presenza del Regno di Dio per il mondo di oggi. Il vostro modo di vivere e di operare è in grado di manifestare senza attenuazioni la piena appartenenza all’unico Signore; la vostra completa consegna nelle mani di Cristo e della Chiesa è un annuncio forte e chiaro della presenza di Dio in un linguaggio comprensibile ai nostri contemporanei. È questo il primo servizio che la vita consacrata rende alla Chiesa e al mondo. All’interno del Popolo di Dio essi sono come sentinelle che scorgono e annunciano la vita nuova già presente nella nostra storia. Mi rivolgo ora in modo speciale a voi, cari fratelli e sorelle che avete abbracciato la vocazione di speciale consacrazione, per salutarvi con affetto e ringraziarvi di cuore per la vostra presenza. Un saluto speciale rivolgo a Mons. Franc Rodé, Prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, e ai suoi collaboratori, che concelebrano con me in questa Santa Messa. Il Signore rinnovi ogni giorno in voi e in tutte le persone consacrate la risposta gioiosa al suo amore gratuito e fedele. Cari fratelli e sorelle, come ceri accesi, irradiate sempre e in ogni luogo l’amore di Cristo, luce del mondo. Maria Santissima, la Donna consacrata, vi aiuti a vivere appieno questa vostra speciale vocazione e missione nella Chiesa per la salvezza del mondo.

Amen!

PRESENTAZIONE DEL SIGNORE NEL TEMPIO – STORIA

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PRESENTAZIONE DEL SIGNORE NEL TEMPIO – STORIA

Festa delle luci (cfr Lc 2,30-32), ebbe origine in Oriente con il nome di ‘Ipapante’, cioè ‘Incontro’. Nel sec. VI si estese all’Occidente con sviluppi originali: a Roma con carattere più penitenziale e in Gallia con la solenne benedizione e processione delle candele popolarmente nota come la ‘candelora’. La presentazione del Signore chiude le celebrazioni natalizie e con l’offerta della Vergine Madre e la profezia di Simeone apre il cammino verso la Pasqua. (Mess. Rom.) La festività odierna, di cui abbiamo la prima testimonianza nel secolo IV a Gerusalemme, venne denominata fino alla recente riforma del calendario festa della Purificazione della SS. Vergine Maria, in ricordo del momento della storia della sacra Famiglia, narrato al capitolo 2 del Vangelo di Luca, in cui Maria, in ottemperanza alla legge, si recò al Tempio di Gerusalemme, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, per offrire il suo primogenito e compiere il rito legale della sua purificazione. La riforma liturgica del 1960 ha restituito alla celebrazione il titolo di « presentazione del Signore », che aveva in origine. L’offerta di Gesù al Padre, compiuta nel Tempio, prelude alla sua offerta sacrificale sulla croce. Questo atto di obbedienza a un rito legale, al compimento del quale né Gesù né Maria erano tenuti, costituisce pure una lezione di umiltà, a coronamento dell’annuale meditazione sul grande mistero natalizio, in cui il Figlio di Dio e la sua divina Madre ci si presentano nella commovente ma mortificante cornice del presepio, vale a dire nell’estrema povertà dei baraccati, nella precaria esistenza degli sfollati e dei perseguitati, quindi degli esuli. L’incontro del Signore con Simeone e Anna nel Tempio accentua l’aspetto sacrificale della celebrazione e la comunione personale di Maria col sacrificio di Cristo, poiché quaranta giorni dopo la sua divina maternità la profezia di Simeone le fa intravedere le prospettive della sua sofferenza: « Una spada ti trafiggerà l’anima »: Maria, grazie alla sua intima unione con la persona di Cristo, viene associata al sacrificio del Figlio. Non stupisce quindi che alla festa odierna si sia dato un tempo tale risalto da indurre l’imperatore Giustiniano a decretare il 2 febbraio giorno festivo in tutto l’impero d’Oriente. Roma adottò la festività verso la metà del VII secolo; papa Sergio 1 (687-701) istituì la più antica delle processioni penitenziali romane, che partiva dalla chiesa di S. Adriano al Foro e si concludeva a S. Maria Maggiore. Il rito della benedizione delle candele, di cui si ha testimonianza già nel X secolo, si ispira alle parole di Simeone: « I miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti ». Da questo significativo rito è derivato il nome popolare di festa della « candelora ». La notizia data già da Beda il Venerabile, secondo la quale la processione sarebbe un contrapposto alla processione dei Lupercalia dei Romani, e una riparazione alle sfrenatezza che avvenivano in tale circostanza, non trova conferma nella storia.

DAGLI SCRITTI…

DAI « DISCORSI » DI SAN SOFRONIO, VESCOVO – ACCOGLIAMO LA LUCE VIVA ED ETERNA Noi tutti che celebriamo e veneriamo con intima partecipazione il mistero dell’incontro del Signore, corriamo e muoviamoci insieme in fervore di spirito incontro a lui. Nessuno se ne sottragga, nessuno si rifiuti di portare la sua fiaccola. Accresciamo anzi lo splendore dei ceri per significare il divino fulgore di lui che si sta avvicinando e grazie al quale ogni cosa risplende, dopo che l’abbondanza della luce eterna ha dissipato le tenebre della caligine. Ma le nostre lampade esprimano soprattutto la luminosità dell’anima, con la quale dobbiamo andare incontro a Cristo. Come infatti la Madre di Dio e Vergine intatta portò sulle braccia la vera luce e si avvicinò a coloro che giacevano nelle tenebre, così anche noi, illuminati dal suo chiarore e stringendo tra le mani la luce che risplende dinanzi e tutti, dobbiamo affrettarci verso colui che é la vera luce. La luce venne nel mondo (cfr. Gv 1, 9) e, dissipate le tenebre che lo avvolgevano, lo illuminò. Ci visitò colui che sorge dall’alto (cfr. Lc 1, 78) e rifulse a quanti giacevano nelle tenebre. Per questo anche noi dobbiamo ora camminare stringendo le fiaccole e correre portando le luci. Così indicheremo che a noi rifulse la luce, e rappresenteremo lo splendore divino di cui siamo messaggeri. Per questo corriamo tutti incontro a Dio. Ecco il significato del mistero odierno. La luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (cfr. Gv 1, 9) é venuta. Tutti dunque, o fratelli, siamone illuminati, tutti brilliamo. Nessuno resti escluso da questo splendore, nessuno si ostini a rimanere immerso nel buio. Ma avanziamo tutti raggianti e illuminati verso di lui. Riceviamo esultanti nell’animo, col vecchio Simeone, la luce sfolgorante ed eterna. Innalziamo canti di ringraziamento al Padre della luce, che mandò la luce vera, e dissipò ogni tenebra, e rese noi tutti luminosi. La salvezza di Dio, infatti, preparata dinanzi a tutti i popoli e manifestata a gloria di noi, nuovo Israele, grazie a lui, la vedemmo anche noi e subito fummo liberati dall’antica e tenebrosa colpa, appunto come Simeone, veduto il Cristo, fu sciolto dai legami della vita presente. Anche noi, abbracciando con la fede il Cristo che viene da Betlemme, divenimmo da pagani popolo di Dio. Egli, infatti, é la salvezza di Dio Padre. Vedemmo con gli occhi il Dio fatto carne. E proprio per aver visto il Dio presente fra noi ed averlo accolto con le braccia dello spirito, ci chiamiamo nuovo Israele. Noi onoriamo questa presenza nelle celebrazioni anniversarie, né sarà ormai possibile dimenticarcene.(Disc. 3, sull’«Hypapante» 6, 7; PG 87, 3, 3291-3293). 

Publié dans:FESTE DEL SIGNORE, STORIA DELLA FESTA |on 31 janvier, 2014 |Pas de commentaires »

SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELL’EPIFANIA DEL SIGNORE – PAPA BENEDETTO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2009/documents/hf_ben-xvi_hom_20090106_epifania_it.html  

SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELL’EPIFANIA DEL SIGNORE – 2009 – forse anno b, non sono sicura

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

BASILICA VATICANA

MARTEDÌ, 6 GENNAIO 2009 

Cari fratelli e sorelle!

L’Epifania, la « manifestazione » del nostro Signore Gesù Cristo, è un mistero multiforme. La tradizione latina lo identifica con la visita dei Magi al Bambino Gesù a Betlemme, e dunque lo interpreta soprattutto come rivelazione del Messia d’Israele ai popoli pagani. La tradizione orientale, invece, privilegia il momento del battesimo di Gesù nel fiume Giordano, quando egli si manifestò quale Figlio Unigenito del Padre celeste, consacrato dallo Spirito Santo. Ma il Vangelo di Giovanni invita a considerare « epifania » anche le nozze di Cana, dove Gesù, mutando l’acqua in vino, « manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui » (Gv 2,11). E che dovremmo dire noi, cari fratelli, specialmente noi sacerdoti della nuova Alleanza, che ogni giorno siamo testimoni e ministri dell’ »epifania » di Gesù Cristo nella santa Eucaristia? Tutti i misteri del Signore la Chiesa li celebra in questo santissimo e umilissimo Sacramento, nel quale egli al tempo stesso rivela e nasconde la sua gloria. « Adoro te devote, latens Deitas » – adorando, preghiamo così con san Tommaso d’Aquino. In questo anno 2009, che, nel 4° centenario delle prime osservazioni di Galileo Galilei al telescopio, è stato dedicato in modo speciale all’astronomia, non possiamo non prestare particolare attenzione al simbolo della stella, tanto importante nel racconto evangelico dei Magi (cfr Mt 2,1-12). Essi erano con tutta probabilità degli astronomi. Dal loro punto di osservazione, posto ad oriente rispetto alla Palestina, forse in Mesopotamia, avevano notato l’apparire di un nuovo astro, ed avevano interpretato questo fenomeno celeste come annuncio della nascita di un re, precisamente, secondo le Sacre Scritture, del re dei Giudei (cfr Nm 24,17). I Padri della Chiesa hanno visto in questo singolare episodio narrato da san Matteo anche una sorta di « rivoluzione » cosmologica, causata dall’ingresso nel mondo del Figlio di Dio. Ad esempio, san Giovanni Crisostomo scrive: « Quando la stella giunse sopra il bambino, si fermò, e ciò poteva farlo soltanto una potenza che gli astri non hanno: prima, cioè, nascondersi, poi apparire di nuovo, e infine arrestarsi » (Omelie sul Vangelo di Matteo, 7, 3). San Gregorio di Nazianzo afferma che la nascita di Cristo impresse nuove orbite agli astri (cfr Poemi dogmatici, V, 53-64: PG 37, 428-429). Il che è chiaramente da intendersi in senso simbolico e teologico. In effetti, mentre la teologia pagana divinizzava gli elementi e le forze del cosmo, la fede cristiana, portando a compimento la rivelazione biblica, contempla un unico Dio, Creatore e Signore dell’intero universo. E’ l’amore divino, incarnato in Cristo, la legge fondamentale e universale del creato. Ciò va inteso invece in senso non poetico, ma reale. Così lo intendeva del resto lo stesso Dante, quando, nel verso sublime che conclude il Paradiso e l’intera Divina Commedia, definisce Dio « l’amor che move il sole e l’altre stelle » (Paradiso, XXXIII, 145). Questo significa che le stelle, i pianeti, l’universo intero non sono governati da una forza cieca, non obbediscono alle dinamiche della sola materia. Non sono, dunque, gli elementi cosmici che vanno divinizzati, bensì, al contrario, in tutto e al di sopra di tutto vi è una volontà personale, lo Spirito di Dio, che in Cristo si è rivelato come Amore (cfr Enc. Spe salvi, 5). Se è così, allora gli uomini – come scrive san Paolo ai Colossesi – non sono schiavi degli « elementi del cosmo » (cfr Col 2,8), ma sono liberi, capaci cioè di relazionarsi alla libertà creatrice di Dio. Egli è all’origine di tutto e tutto governa non alla maniera di un freddo ed anonimo motore, ma quale Padre, Sposo, Amico, Fratello, quale Logos, « Parola-Ragione » che si è unita alla nostra carne mortale una volta per sempre ed ha condiviso pienamente la nostra condizione, manifestando la sovrabbondante potenza della sua grazia. C’è dunque nel cristianesimo una peculiare concezione cosmologica, che ha trovato nella filosofia e nella teologia medievali delle altissime espressioni. Essa, anche nella nostra epoca, dà segni interessanti di una nuova fioritura, grazie alla passione e alla fede di non pochi scienziati, i quali – sulle orme di Galileo – non rinunciano né alla ragione né alla fede, anzi, le valorizzano entrambe fino in fondo, nella loro reciproca fecondità. Il pensiero cristiano paragona il cosmo ad un « libro » – così diceva anche lo stesso Galileo –, considerandolo come l’opera di un Autore che si esprime mediante la « sinfonia » del creato. All’interno di questa sinfonia si trova, a un certo punto, quello che si direbbe in linguaggio musicale un « assolo », un tema affidato ad un singolo strumento o ad una voce; ed è così importante che da esso dipende il significato dell’intera opera. Questo « assolo » è Gesù, a cui corrisponde, appunto, un segno regale: l’apparire di una nuova stella nel firmamento. Gesù è paragonato dagli antichi scrittori cristiani ad un nuovo sole. Secondo le attuali conoscenze astrofisiche, noi lo dovremmo paragonare ad una stella ancora più centrale, non solo per il sistema solare, ma per l’intero universo conosciuto. In questo misterioso disegno, al tempo stesso fisico e metafisico, che ha portato alla comparsa dell’essere umano quale coronamento degli elementi del creato, è venuto al mondo Gesù: « nato da donna » (Gal 4,4), come scrive san Paolo. Il Figlio dell’uomo riassume in sé la terra e il cielo, il creato e il Creatore, la carne e lo Spirito. E’ il centro del cosmo e della storia, perché in Lui si uniscono senza confondersi l’Autore e la sua opera. Nel Gesù terreno si trova il culmine della creazione e della storia, ma nel Cristo risorto si va oltre: il passaggio, attraverso la morte, alla vita eterna anticipa il punto della « ricapitolazione » di tutto in Cristo (cfr Ef 1,10). Tutte le cose, infatti – scrive l’Apostolo –, « sono state create per mezzo di lui e in vista di lui » (Col 1,16). E proprio con la risurrezione dai morti Egli ha ottenuto « il primato su tutte le cose » (Col 1,18). Lo afferma Gesù stesso apparendo ai discepoli dopo la risurrezione: « A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra » (Mt 28,18). Questa consapevolezza sostiene il cammino della Chiesa, Corpo di Cristo, lungo i sentieri della storia. Non c’è ombra, per quanto tenebrosa, che possa oscurare la luce di Cristo. Per questo nei credenti in Cristo non viene mai meno la speranza, anche oggi, dinanzi alla grande crisi sociale ed economica che travaglia l’umanità, davanti all’odio e alla violenza distruttrice che non cessano di insanguinare molte regioni della terra, dinanzi all’egoismo e alla pretesa dell’uomo di ergersi come dio di se stesso, che conduce talora a pericolosi stravolgimenti del disegno divino circa la vita e la dignità dell’essere umano, circa la famiglia e l’armonia del creato. Il nostro sforzo di liberare la vita umana e il mondo dagli avvelenamenti e dagli inquinamenti che potrebbero distruggere il presente e il futuro, conserva il suo valore e il suo senso – ho annotato nella già citata Enciclica Spe salvi – anche se apparentemente non abbiamo successo o sembriamo impotenti di fronte al sopravvento di forze ostili, perchè « è la grande speranza poggiante sulle promesse di Dio che, nei momenti buoni come in quelli cattivi, ci dà coraggio e orienta il nostro agire » (n. 35). La signoria universale di Cristo si esercita in modo speciale sulla Chiesa. « Tutto infatti – si legge nella Lettera agli Efesini – [Dio] ha messo sotto i suoi piedi / e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, / la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose » (Ef 1,22-23). L’Epifania è la manifestazione del Signore, e di riflesso è la manifestazione della Chiesa, perché il Corpo non è separabile dal Capo. La prima lettura odierna, tratta dal cosiddetto Terzo Isaia, ci offre la prospettiva precisa per comprendere la realtà della Chiesa, quale mistero di luce riflessa: « Alzati, rivestiti di luce – dice il profeta rivolgendosi a Gerusalemme – perché viene la tua luce, / la gloria del Signore brilla sopra di te » (Is 60,1). La Chiesa è umanità illuminata, « battezzata » nella gloria di Dio, cioè nel suo amore, nella sua bellezza, nella sua signoria. La Chiesa sa che la propria umanità, con i suoi limiti e le sue miserie, pone in maggiore risalto l’opera dello Spirito Santo. Essa non può vantarsi di nulla se non nel suo Signore: non da lei proviene la luce, non è sua la gloria. Ma proprio questa è la sua gioia, che nessuno potrà toglierle: essere « segno e strumento » di Colui che è « lumen gentium », luce dei popoli (cfr Conc. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 1). Cari amici, in questo anno paolino, la festa dell’Epifania invita la Chiesa e, in essa, ogni comunità ed ogni singolo fedele, ad imitare, come fece l’Apostolo delle genti, il servizio che la stella rese ai Magi d’Oriente guidandoli fino a Gesù (cfr san Leone Magno, Disc. 3 per l’Epifania, 5: PL 54, 244). Che cos’è stata la vita di Paolo, dopo la sua conversione, se non una « corsa » per portare ai popoli la luce di Cristo e, viceversa, condurre i popoli a Cristo? La grazia di Dio ha fatto di Paolo una « stella » per le genti. Il suo ministero è esempio e stimolo per la Chiesa a riscoprirsi essenzialmente missionaria e a rinnovare l’impegno per l’annuncio del Vangelo, specialmente a quanti ancora non lo conoscono. Ma, guardando a san Paolo, non possiamo dimenticare che la sua predicazione era tutta nutrita delle Sacre Scritture. Perciò, nella prospettiva della recente Assemblea del Sinodo dei Vescovi, va riaffermato con forza che la Chiesa e i singoli cristiani possono essere luce, che guida a Cristo, solo se si nutrono assiduamente e intimamente della Parola di Dio. E’ la Parola che illumina, purifica, converte, non siamo certo noi. Della Parola di vita noi non siamo che servitori. Così Paolo concepiva se stesso e il suo ministero: un servizio al Vangelo. « Tutto io faccio per il Vangelo » – egli scrive (1 Cor 9,23). Così dovrebbe poter dire anche la Chiesa, ogni comunità ecclesiale, ogni Vescovo ed ogni presbitero: tutto io faccio per il Vangelo. Cari fratelli e sorelle, pregate per noi, Pastori della Chiesa, affinché, assimilando quotidianamente la Parola di Dio, possiamo trasmetterla fedelmente ai fratelli. Ma anche noi preghiamo per voi, fedeli tutti, perché ogni cristiano è chiamato per il Battesimo e la Confermazione ad annunciare Cristo luce del mondo, con la parola e la testimonianza della vita. Ci aiuti la Vergine Maria, Stella dell’evangelizzazione, a portare a compimento insieme questa missione, e interceda per noi dal cielo san Paolo, Apostolo delle genti. Amen.

 

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