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EPIFANIA DEL SIGNORE GESÙ: « ABBIAMO VISTO LA SUA STELLA E SIAMO VENUTI PER ADORARLO »

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6 GENNAIO 2015 | EPIFANIA DEL SIGNORE GESÙ – ANNO B | APPUNTI PER LA LECTIO

« ABBIAMO VISTO LA SUA STELLA E SIAMO VENUTI PER ADORARLO »

Si potrebbe dire che, in un certo senso, la festa dell’Epifania è un secondo Natale. Con questa differenza, però: mentre il Natale accentua di più l’aspetto dell’abbassamento e del misconoscimento del mistero della nascita del Signore, l’Epifania vuol esserne la proclamazione al cospetto del mondo, rappresentato qui dai « magi », che vengono « dall’oriente » (Mt 2,1) proprio alla sua ricerca.
Cosicché Gesù non è soltanto per gli « Ebrei » che, ad eccezione dei « pastori » di cui ci parla san Luca (2,8-20), non sembrano neppure essersi accorti di lui, ma anche per i « pagani » che, con i primi, sono ormai chiamati a « formare lo stesso corpo », come ci ricorderà tra poco san Paolo (Ef 3,6). Gesù è veramente il « cuore » del mondo e tutti gli uomini, senza differenza di razza, di lingua e di cultura, possono finalmente trovare in lui la salvezza.
In questo senso, l’Epifania dilata e approfondisce la portata teologica del Natale: quel piccolo fanciullo, che i pastori e i magi « adorano », riconoscendolo come Figlio di Dio, è l’atteso non solo di Israele ma di « tutte le genti ». La luminosità e la festosità, di cui la Liturgia odierna è carica, più di quella stessa di Natale, è il riflesso di questa dilatazione del mistero della salvezza, che i « magi » portano come a spalla per il mondo, quale « primizia » delle nazioni.
« Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce »
Proprio su questo « universalismo » della salvezza si intrattiene, con commozione e lirismo insieme, la prima lettura in cui il Terzo-Isaia preannuncia lo splendore della futura Gerusalemme, che diventa come un faro nella notte, polo di attrazione non solo degli Ebrei che ritornano dal loro forzato esilio, ma anche di tutti i popoli.
« Alzati, rivèstiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te… Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere… Le ricchezze del mare si riverseranno su di te… Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso, e proclamando le glorie del Signore » (Is 60,1-6).
I tesori del « mare » vengono dall’ovest, con le navi fenicie o greche; le ricchezze dell’Oriente e dell’Egitto vengono invece con le carovane attraverso i deserti della Siria e del Sinai. Madian, Efa e Saba sono appunto popoli della penisola arabica. Le allusioni alle ricchezze dell’Oriente e la prospettiva « universalistica » di tutto il brano hanno indotto la Liturgia ad applicare questo brano al mistero dell’Epifania.
Ma al di là di questo, è soprattutto il tono di « luminosità » che domina tutto il brano a richiamare la Epifania, che nella Chiesa di Oriente viene detta appunto « festa dei santi lumi ». La « stella », infatti, farà da protagonista a tutto il racconto dei magi. Più che essere una indicatrice del viaggio, essa appare una calamita che attira irresistibilmente questi misteriosi personaggi.
La « luce » di Cristo « splendente sul volto della Chiesa »
Nell’applicazione che la Liturgia fa del brano di Isaia alla festa dell’Epifania, indubbiamente al centro non sta più Gerusalemme, ma Gesù in quanto « luce » e, se mai, Betlemme, « infima » fra le città di Giuda, diventata luminosa solo perché in essa è nata la « luce del mondo », come di fatto egli si chiamerà nel Vangelo. Perciò la polarizzazione avviene tutta intorno a lui, che però riflette la sua luce su quelli che a lui si avvicinano, e sulle aggregazioni o istituzioni che vogliono ispirarsi al suo messaggio.
In questo senso è chiaro che la « nuova » Gerusalemme, che dovrebbe effondere sino alle estremità della terra la luce di Cristo, è la Chiesa. È esattamente quanto leggiamo all’inizio della Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano II sulla Chiesa: « Essendo Cristo la luce delle genti, questo sacro Concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera con la luce di lui, splendente sul volto della Chiesa, illuminare tutti gli uomini, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cf Mc 16,15) ».
È qui richiamato il compito fondamentale della Chiesa, che è quello di essere la « epifania » di Cristo al mondo con l’annuncio del Vangelo e la trasparenza della vita dei suoi membri.
« Questo mistero non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni »
È quanto ci richiama la seconda lettura, in cui san Paolo, dopo aver illustrato il disegno « misterioso » della salvezza, da sempre presente al pensiero di Dio (Ef 1,3-14) e consistente nella « ricapitolazione » di tutte le cose « in Cristo » (v. 10), con l’abbattimento del « muro di separazione » (2,14) che c’era fra Ebrei e Gentili, presenta se stesso come « ministro » dell’annuncio di questo « mistero ».
« Penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio a me affidato a vostro beneficio: come per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero…: che i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa per mezzo del Vangelo » (Ef 3,2-3.6).
È dunque per mezzo dell’irradiazione del « Vangelo », dall’apostolo annunciato a tutte le genti, che la « epifania » del Signore si dilata sempre più e si estende anche ai pagani, i quali sono ormai « chiamati, in Cristo Gesù », a formare uno « stesso corpo » con gli Ebrei e a « partecipare » della stessa « promessa » salvifica.
I « magi », rappresentanti dell’immenso mondo pagano, sono entrati di pieno diritto nella Chiesa, mentre gli Ebrei purtroppo sono rimasti alla porta, proprio come i sommi sacerdoti e gli scribi di Gerusalemme che seppero indicare Betlemme come luogo della nascita del Messia, ma loro non si mossero per andare a rendergli omaggio.
Mentre Gesù « si manifesta » ad alcuni, sembra « nascondersi » ad altri! Nella luminosità della festa odierna non si dimentichi, perciò, la parte di dramma e di tensione che essa porta con sé.
« Nato Gesù a Betlemme, alcuni magi giunsero da oriente »
E così siamo arrivati al racconto di Matteo (2,1-12), che dà il senso di fondo alla Liturgia odierna.
Siamo indubbiamente davanti ad una storia, che ha troppo di prodigioso per essere vera in tutti i suoi dettagli. D’altra parte, stupisce che Luca la ignori del tutto, data la almeno apparente clamorosità del fatto secondo la presentazione che ne fa Matteo; il quale, poi, non sembra avere molte informazioni circa l’identità di questi personaggi, che chiama genericamente « magi », circa la loro provenienza, salvo il dirci che vengono « da oriente » (v. 1).
Appartenevano alla casta sacerdotale, nota con questo nome, nel regno dei Medi e che durante la conquista persiana abbracciarono la dottrina di Zarathustra, secondo le informazioni che ci fornisce lo storico greco Erodoto? Oppure erano sapienti babilonesi, dediti allo studio dell’astronomia e dell’astrologia, come sembra più probabile da tutto il contesto? Quanti erano? Da quale paese venivano?
San Matteo non sa dirci nulla al riguardo. Eppure è interessatissimo alla loro storia, che per lui diventa « esemplare » per dirci il diverso atteggiamento che gli uomini talvolta assumono davanti a Cristo: i vicini, cioè gli Ebrei, lo ignorano, addirittura gli tendono insidie come Erode; mentre i lontani, cioè i pagani, sospinti dalla « luce » della fede, lo cercano, lo riconoscono, pur sotto il segno della povertà e della umiltà. « Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra » (vv. 11-12).
« Da Giacobbe spunterà una stella »
È indubbio perciò che l’interesse « teologico » ha avuto il sopravvento su quello storico, che certamente rimane, anche se non riusciamo a ricostruire la vera entità del fatto. Del resto, anche il preciso riferimento a Erode il Grande, che fu re della Palestina, pur sotto il severo controllo di Roma, dal 37 al 4 a.C., depone in favore di una certa veridicità dell’episodio. In ultima analisi, saremmo davanti a quello che gli studiosi chiamano « racconto midrashico », dove storia, poesia, teologia, interesse parenetico si mescolano per trasmettere un messaggio di « fede », più che un racconto cronachistico.
Naturalmente il problema della consistenza storica del fatto afferra anche la « stella », che in realtà è la protagonista di tutto il racconto: è lei che guida i magi fino a Gerusalemme, poi scompare, poi riappare fino a fermarsi precisamente « sopra il luogo dove si trovava il bambino » (v. 9). Antichi scrittori ecclesiastici, come Origene, pensarono ad una cometa; scienziati moderni, dopo Keplero, ricordano la congiunzione di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci avvenuta esattamente il 7 a.C.A nostro parere, si tratta di una « stella » simbolo, che vuole significare due cose; la prima è che solo la « luce » interiore della fede guida a Cristo: non si può né conoscere né incontrare davvero Gesù se il Padre, come ci dice san Giovanni, « non ci attira » verso di lui (Gv 6,44). La seconda è che l’evangelista vede realizzato finalmente il famoso oracolo di Balaam, che preannunciava il Messia sotto il segno della « stella »: « Io lo vedo, ma non ora; io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele » (Nm 24,17).
In Gesù di Nazaret si realizzano dunque le promesse dell’Antico Testamento e la sua « luce » ormai s’irradia sul mondo, perché nella fede egli viene accettato anche dai pagani.
« Al vedere la stella provarono una grandissima gioia »
È significativa l’espressione con cui l’evangelista commenta il ritrovamento, da parte dei magi, della stella, che si era occultata al loro arrivo a Gerusalemme: « Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia » (v. 10). È un tratto analogo al racconto della nascita in Luca 2,10 e a quelli della risurrezione. Esso sta a dire la sorpresa dell’uomo davanti a qualcosa di inaspettato e che dà senso finalmente alla propria vita o ai propri sforzi.
Normalmente la « gioia » non è offerta a poco prezzo: essa è sempre frutto di grande fatica e viene al termine di lunghe lotte, e talvolta anche di delusioni. La storia dei magi sta a dimostrare quello che veniamo dicendo. Ogni esperienza autentica di fede non è mai un incontro facile con Cristo: egli si mostra e poi scompare e poi si fa ritrovare, proprio perché il suo « mistero » sta sempre « oltre », ed anche perché l’uomo non si illuda che il trovare Cristo sia facile.
Perciò la luminosità, in cui viene immersa la festa dell’Epifania, non ci tragga in inganno: Cristo è « luminoso », ma solo per chi ha il coraggio di percorrere un lungo e faticoso, talvolta deludente, itinerario per trovarlo: proprio come è accaduto ai magi.
« Avvertiti in sogno, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese »
I quali, perché docili all’ispirazione di Dio, diventano a loro volta diffusori di luce. È quanto possiamo intravedere nel versetto, con cui l’evangelista conclude il suo racconto: « Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese » (v. 12).
« Ritornare da Erode » significava non soltanto fornire pretesto al tiranno per uccidere Cristo, ma soprattutto ripiombare nelle tenebre: a Gerusalemme infatti era scomparsa la stella! Dove c’è ambizione, lotta per il potere, presuntuosità culturale, sicurezza di sé e delle proprie idee, strumentalizzazione della « parola di Dio », acquiescenza a ciò che è abitudinario, non può entrare la « luce » di Cristo. Qualora vi entrasse, infatti, farebbe crollare tutto, perché svelerebbe i « pensieri dei cuori ».
Nell’Oriente, invece, che è « il loro paese », possono diffondere la « luce » di cui ormai è invaso il loro cuore. È interessante questo muoversi da « Oriente » per ritornare a « Oriente »: è la « luce » che diventa sempre più intensa!
Anche per noi cristiani deve realizzarsi questo andare di « luce in luce ». E questo in una doppia maniera: facendoci illuminare sempre più profondamente da Cristo, in modo che la nostra vita diventi come la sua « trasparenza »; e aspirando verso la « rivelazione » definitiva del Cristo nella « gloria » eterna.
È quanto ci fa supplicare la mirabile colletta, con cui si apre la Liturgia odierna: « O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria ».

Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola.

TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE (A) – LETTURE DELLA MESSA E COMMENTO

http://www.cathomedia.it/liturgia/il_messalino/messalino.asp

TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE (A)

FESTA DEL SIGNORE

Quando questa festa ricorre in domenica, si proclamano le tre letture qui indicate; se la festa ricorre in settimana si sceglie come prima lettura una delle due che precedono il Vangelo; il Salmo Responsoriale è sempre lo stesso.
Prima Lettura
Dal libro del profeta Daniele (7,9-10.13-14)
Io continuavo a guardare,
quand’ecco furono collocati troni
e un vegliardo si assise.
La sua veste era candida come la neve
e i capelli del suo capo erano candidi come la lana;
il suo trono era come vampe di fuoco
con le ruote come fuoco ardente.
Un fiume di fuoco scendeva dinanzi a lui,
mille migliaia lo servivano
e diecimila miriadi lo assistevano.
La corte sedette e i libri furono aperti.
Guardando ancora nelle visioni notturne,
ecco apparire, sulle nubi del cielo,
uno, simile ad un figlio di uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui,
che gli diede potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano;
il suo potere è un potere eterno,
che non tramonta mai, e il suo regno è tale
che non sarà mai distrutto.

* Il libro di Daniele racchiude l’ultima pagina della storia di questo mondo. Il profeta Daniele mostra che il Cristo in gloria rivelerà in tutto il suo splendore il compimento della creazione e della redenzione, rivelerà la risurrezione dei morti e la regalità universale del Crocifisso.
Salmo Responsoriale (dal Salmo 96)
Splende sul suo volto la gloria del Padre.

Il Signore regna, esulti la terra,
gioiscano le isole tutte.
Nubi e tenebre lo avvolgono,
giustizia e diritto sono la base del suo trono.

I monti fondono come cera davanti al Signore,
davanti al Signore di tutta la terra.
I cieli annunziano la sua giustizia
e tutti i popoli contemplano la sua gloria.

Tu sei, Signore,
l’Altissimo su tutta la terra,
tu sei eccelso sopra tutti gli déi.

Seconda lettura (o Prima lettura opzionale in settimana)
Dalla seconda lettera di San Pietro Apostolo (1,16-19)
Carissimi, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza.
Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto».
Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E così abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori.

* La trasfigurazione è il preludio alla venuta gloriosa del Signore Gesù, è una proiezione anticipata della Parusìa. La storicità di essa garantisce la certezza del ritorno trionfale del Cristo alla fine del mondo. E S .Pietro afferma: «Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte».
Canto al Vangelo
Alleluia, alleluia.

Dalla nube luminosa si udì la voce del Padre:
«Questi è il mio Figlio prediletto: ascoltatelo».

Alleluia.

Vangelo
† Dal vangelo secondo Matteo (17,1-9)
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
Pietro prese allora la parola e disse a Gesù: «Signore, è bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Egli stava ancora parlando quando una nuvola luminosa li avvolse con la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo».
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò e, toccatili, disse: «Alzatevi e non temete». Sollevando gli occhi non videro più nessuno, se non Gesù solo.
E mentre discendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, finché il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

* La narrazione fa una sintesi della storia della salvezza: il Sinai e Mosè, Elia e il profetismo; ma tutto è centrato su Gesù («discorrevano con Gesù»). «Maestro, è bello per noi stare qui». La luce che rende le vesti splendenti è la gloria di Dio; la nube è la presenza, la « shekinàh » di Dio; la voce è la Parola del Padre che dal Fiat della Genesi aveva annunciato con sempre maggior precisione la gloria futura di un uomo misterioso che sarebbe stato figlio di Davide, figlio della Vergine Maria, figlio dell’uomo, figlio di Dio: «Gesù solo con loro».
SPUNTI DI RIFLESSIONE
Bagliore di una luce lontana
Gesù si trasfigura su un monte. Il suo abito e il suo volto si mutano completamente; sfolgorano di vivissima luce. Tutto viene irradiato dallo splendore della gloria divina. Mosè ed Elia che gli compaiono vicini rappresentano la Legge e i Profeti. È un lampo, una fugace, fugacissima manifestazione del Regno di Dio nella sua gloria. L’Antica e la Nuova Alleanza partecipano alla gloria di Cristo. Ogni tenebra diventa luce, ogni sofferenza si muta in gloria. Ma al momento presente non c’è ancora uno stato permanente di gloria. C’è solo la preparazione attraverso la sofferenza e la croce. Solo dopo la risurrezione diventerà duratura. Adesso è solo come l’antifona di un salmo, è come il bagliore di una luce lontana, è una pausa di respiro nel cammino verso la morte, un barlume di ciò che sfolgorerà nell’aldilà. È appena un murmure. Gli apostoli, presenti alla trasfigurazione, ne rimangono talmente stupiti che Pietro propone di allestire delle tende per prolungare la visione e il soggiorno e rendere duraturo ciò che è transitorio. Ma una nube nasconde il Signore e i due testimoni dell’altro mondo. La nube significa (oltre all’indicazione della presenza di Dio) il buio che resta ancora da attraversare; nel mistero di Dio si entra solo con la morte. La trasfigurazione, nella sua realtà, appartiene alla vita futura; la fede introduce in questa gloria. Proprio in quel momento, risuona la voce del Padre Celeste: «Questi è il mio Figlio diletto e unico, ascoltatelo».
L’episodio della trasfigurazione si chiude con una frase molto semplice: « … non videro più nessuno, se non Gesù solo». La luce si è spenta, lo splendore è sbiadito, la voce si è andata perdendo a poco a poco. Silenzio. Solitudine. Pace. Solo la fede parla di Gesù, e fa comprendere quale splendore abiti in lui e verso quale gloria egli si diriga. Gli apostoli silenziosi conservano il segreto per sé. In questa scena si mescolano luce e tenebre, gloria e passione, vita eterna e morte temporanea, meta e via.
LA PAROLA PER ME OGGI
Molti tra noi non sanno più sopportare né il silenzio né la solitudine, mentre la voce di Dio è così sottile che non possiamo udirla che nel silenzio. In questa giornata, festa della Trasfigurazione del Signore, voglio prepararmi ad un incontro cuore a cuore con Gesù-Parola e Eucaristia, nella solitudine e nel silenzio.
LA PAROLA SI FA PREGHIERA
Padre, la potenza del tuo Spirito spezzi la nostra sufficienza, perché diventiamo capaci di vedere e accettare il volto dell’Amore da sempre chinato sul mondo, il volto del tuo Figlio che oggi si rivela a noi nel suo splendore, non più velato. Insegnaci ad ascoltare la sua Parola perché i nostri volti ne siano illuminati e divengano liberi e fraterni, splendenti di luce e di riconoscenza.

OMELIA (06-08-2014) – TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/32164.html

OMELIA (06-08-2014) – TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

QUANDO UNA NUBE LUMINOSA LI COPRÌ CON LA SUA OMBRA

Movimento Apostolico – rito romano

Gesù non è solo Colui che è venuto per dare alla verità e di conseguenza alla fede il sommo splendore, la somma perfezione, la luce più piena senza alcuna ombra, neanche quanto quella di un granello di senape. È anche colui che sempre in ogni momento è creatore e sostegno, fonte e aiuto, sorgente e soccorso della fede. Non basta dare la più pura verità della fede perché l’altro all’istante si apra ad essa. Perché la fede attecchisca in un cuore occorrono lunghi e ininterrotti sforzi di sapienza, saggezza, intelligenza nello Spirito Santo. Sono necessari altresì preghiera, parola sempre vigile e attenta, esemplarità perfetta, infinita pazienza, amore illimitato, impegno sempre nuovo, in modo che nulla venga tralasciato di tutto ciò che è utile, vitale perché la vera fede nasca, si irrobustisca, produca frutti di altra fede per i fratelli.
La prima regola perché la fede venga data e aiutata nel suo divenire storico è una fede forte, una verità indistruttibile, un convincimento frutto in noi di profonda sapienza, saggezza, che la verità della nostra vita è la sola verità che dovrà essere data al fratello perché sia in lui trasformata in fede. È il cristiano il soggetto che dona la fede ma anche l’oggetto della fede. È la sua nuova verità, nella quale è stato inserito dall’amore del Padre, dalla grazia di Cristo Gesù, dalla comunione dello Spirito Santo. Se il cristiano, come Cristo Gesù, non è insieme soggetto donante e oggetto donato della verità della fede, mai da lui potrà trasmettersi fede vera. Potrà anche trasmettere delle verità altissime su Dio e sul mistero celeste, mai però potrà nascere la vera fede in un cuore, mai la fede nascente o già nata potrà essere aiutata nel suo divenire storico. È il cristiano il vero seme della fede per ogni suo fratello.
Questa verità va gridata ai quattro venti ogni giorno con voce sempre più forte, specie ai nostri giorni nei quali da tutti viene invocata l’esigenza di una nuova evangelizzazione. Non si può evangelizzare senza il soggetto evangelizzante e questo soggetto è il cristiano divenuto verità piena in Gesù Signore che si dona come verità di fede al mondo nel quale lui è chiamato a vivere. Se il cristiano non imita Cristo Signore, che è insieme parola della fede e verità piena di essa, mai potrà divenire strumento di vera fede per i suoi fratelli. Lui non è nella sua natura verità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Non essendo verità, mai potrà aiutare la verità sulla quale poggia ogni fede. La fede senza verità è purissima illusione, inganno della mente e del cuore.
Oggi Gesù mostra ai discepoli la sua verità. Lui è di origine divina. È persona celeste. Ciò che i discepoli vedono è un corpo nel quale vive tutta la potenza, l’onnipotenza di luce di verità, carità, giustizia, misericordia del Padre. Mosè ed Elia sono accanto a Gesù per attestare che tutto l’Antico Testamento è con Gesù. La verità antica è con Gesù e per Lui. Anche il Padre dei Cieli interviene e dall’alto grida che Gesù è il Figlio suo, il suo amato. In Lui ha posto il suo compiacimento. Lui cioè è il suo Messia e loro i discepoli devono ascoltare la sua voce, convincendosi che quanto Gesù dice è purissima verità. Il cristiano che va nel mondo a creare la fede nei cuori, deve essere attestato da Dio nella sua verità. Se lui è vero, sempre il Signore attesterà per lui. Se invece è falso, mai il Signore potrà attestare e per lui nessuna fede nascerà mai.
Vergine Maria, Madre della Redenzione, Angeli, Santi, fateci purissima verità di fede.

 

A CINQUANT’ANNI DALL’ENCICLICA HAURIETIS AQUAS DI PAPA PIO XII. UNA MEDITAZIONE DEL CARDINALE CARLO MARIA MARTINI – 2006

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A CINQUANT’ANNI DALL’ENCICLICA HAURIETIS AQUAS DI PAPA PIO XII. UNA MEDITAZIONE DEL CARDINALE CARLO MARIA MARTINI – 2006

La devozione al Sacro Cuore di Gesù
Lo scorso 15 maggio papa Benedetto XVI ha inviato al generale della Compagnia di Gesù una lettera in occasione dei cinquant’anni dell’enciclica Haurietis aquas. Pio XII a sua volta aveva scritto quell’enciclica per celebrare e ricordare a tutti il primo centenario dell’estensione all’intera Chiesa della festa del Sacro Cuore di Gesù. In questo modo, approfittando della concatenazione degli anniversari, il Papa ha voluto riallacciarsi al filo ininterrotto di quella devozione che da secoli accompagna e conforta tanti cristiani nel loro cammino. In questa occasione abbiamo chiesto alcune riflessioni al cardinale Martini, ed egli ci ha inviato il testo che segue.

del cardinale Carlo Maria Martini sj
Apparizione del Sacro Cuore a santa Margherita Maria Alacoque, mosaico di Carlo Muccioli, Basilica di San Pietro, Città del Vaticano
Apparizione del Sacro Cuore a santa Margherita Maria Alacoque, mosaico di Carlo Muccioli, Basilica di San Pietro, Città del Vaticano
Ricordo molto bene il tempo in cui uscì l’enciclica Haurietis aquas in gaudio. Io ero allora studente di Sacra Scrittura e membro della comunità del Pontificio Istituto Biblico, dov’era professore l’illustre biblista padre Agostino Bea, poi fatto cardinale da papa Giovanni XXIII. Padre Bea era uno stretto collaboratore di papa Pio XII, e si diceva nella comunità, penso con buone ragioni, che egli avesse contribuito a preparare questo documento. Certamente colpiva l’impostazione biblica di tutto il testo, a partire dal titolo, che è una citazione dal libro di Isaia (12, 3). Perciò l’enciclica (che portava la data del 15 maggio 1956) fu letta con molta attenzione dalla comunità dell’Istituto Biblico, che ne apprezzava in particolare il fondamento sui testi della Scrittura. Nel passato invece tale devozione, che di per sé ha una lunga storia nella Chiesa, si era sviluppata tra il popolo a partire soprattutto da cosiddette “rivelazioni” di tipo privato, come quelle a santa Margherita Maria nel secolo XVII. La percezione di come in essa venisse sintetizzato concretamente il messaggio biblico dell’amore di Dio era qualcosa che ci riavvicinava a questa devozione tradizionale, che nel passato recente era stata molto sentita soprattutto nella Compagnia di Gesù, in particolare nella sua lotta contro il rigorismo giansenista.
Il fatto che papa Benedetto abbia voluto scrivere una lettera per ricordare questa enciclica proprio al superiore generale della Compagnia di Gesù si deve certamente anche al fatto che i Gesuiti si consideravano particolarmente responsabili della diffusione di questa devozione nella Chiesa. Ciò veniva anche affermato da santa Margherita Maria, secondo la quale questo incarico era stato voluto dallo stesso Signore che si manifestava a lei.
Fu così che la devozione al Sacro Cuore mi fu presentata nel noviziato dei Gesuiti, negli anni Quaranta del secolo passato. Ciò mi portava a riflettere sul modo con cui fosse possibile vivere questa devozione e d’altra parte lasciarsi ispirare nella propria vita spirituale dalla ricchezza e dalla meravigliosa varietà della parola di Dio contenuta nelle Scritture.
Benedetto XVI con il cardinale Carlo Maria Martini
Benedetto XVI con il cardinale Carlo Maria Martini
E questa domanda si poneva con tanta più insistenza in quanto anche il mio personale cammino cristiano si era imbattuto in qualche modo fin dalla fanciullezza con questa devozione. Essa mi era stata instillata da mia madre con la pratica dei primi venerdì del mese. In questo giorno la mamma ci faceva alzare presto per andare alla messa nella chiesa parrocchiale e fare la comunione. C’era la promessa che chi si fosse confessato e avesse fatto la comunione per nove primi venerdì del mese di seguito (non era permesso saltarne uno!) poteva essere certo di ottenere la grazia della perseveranza finale. Questa promessa era molto importante per mia madre. Ricordo che per noi ragazzi c’era anche un altro motivo per recarsi così presto alla messa. Infatti si prendeva allora la colazione in un bar con una buona brioche.
Una volta fatta la comunione per nove primi venerdì di seguito, era opportuno ripetere la serie, per essere sicuri di ottenere la grazia desiderata. Ne venne poi anche l’abitudine di dedicare questo giorno al Sacro Cuore di Gesù, abitudine che poi da mensile era divenuta settimanale: ogni venerdì dell’anno era dedicato in qualche modo al Cuore di Cristo.
Così era nel mio ricordo la devozione di allora. Essa era concentrata soprattutto sull’onore e sulla riparazione al Cuore di Gesù, visto un po’ in sé stesso, quasi separato dal resto del corpo del Signore. Alcune immagini riproducevano infatti soltanto il Cuore del Signore, coronato di spine e trafitto dalla lancia.
Uno dei meriti dell’enciclica Haurietis aquas era proprio di aiutare a porre tutti questi elementi nel loro contesto biblico e soprattutto di mettere in risalto il significato profondo di tale devozione, cioè l’amore di Dio, che dall’eternità ama il mondo e ha dato per esso il suo Figlio (Gv 3, 16; cfr. Rm 8, 32, ecc.).
Così il culto del Cuore di Gesù è cresciuto in me col passare del tempo. Forse si è un po’ affievolito per quanto riguarda il suo simbolo specifico, cioè il cuore di Gesù. È diventato, per me e per tanti altri nella Chiesa, una devozione verso l’intimo della persona di Gesù, verso la sua coscienza profonda, la sua scelta di dedizione totale a noi e al Padre. In questo senso il cuore viene considerato biblicamente come il centro della persona e il luogo delle sue decisioni. È così che vedo come questa devozione ci aiuta ancora oggi a contemplare ciò che è essenziale nella vita cristiana, cioè la carità. Comprendo anche meglio come essa è in stretta relazione con la Compagnia di Gesù, la quale è generata spiritualmente dagli Esercizi di sant’Ignazio di Loyola. Infatti gli Esercizi sono un invito a contemplare a lungo Gesù nei misteri della sua vita, morte e resurrezione, per poterlo conoscere, amare e seguire.
Alcuni episodi della vita di Gesù tratti dalla Maestà di Duccio di Buoninsegna, Museo dell’Opera, Siena; qui sopra, l’ultima cena, particolare
Alcuni episodi della vita di Gesù tratti dalla Maestà di Duccio di Buoninsegna, Museo dell’Opera, Siena; qui sopra, l’ultima cena, particolare
Grande merito di questa devozione è stato dunque quello di avere portato l’attenzione sulla centralità dell’amore di Dio come chiave della storia della salvezza. Ma per cogliere questo era necessario imparare a leggere le Scritture, a interpretarle in maniera unitaria, come una rivelazione dell’amore di Dio verso l’umanità. L’enciclica Haurietis aquas segnò un momento decisivo di questo cammino.
Come si è avuto e si avrà ancora in futuro uno sviluppo positivo dei semi lanciati dall’enciclica nel terreno della Chiesa? Penso che un momento fondamentale è stato quello del Concilio Vaticano II, nella sua costituzione Dei Verbum. Essa ha esortato l’intero popolo di Dio a una familiarità orante con le Scritture. Di qui anche le diverse “devozioni” ricevono approfondimento e nutrimento solido.
Il punto di arrivo odierno lo potremmo vedere nella enciclica di papa Benedetto XVI Deus caritas est. Egli scrive: «Nella storia d’amore che la Bibbia ci racconta, Dio ci viene incontro, cerca di conquistarci – fino all’Ultima Cena, fino al Cuore trafitto sulla croce, fino alle apparizioni del Risorto…»; e conclude dicendo: «Allora cresce l’abbandono in Dio e Dio diventa la nostra gioia (cfr. Sal 73 [72], 23-28)». Si tratta perciò di leggere con sempre maggiore intelligenza spirituale le Sacre Scritture, tenendo desta l’attenzione a ciò che sta alla radice di tutta la storia di salvezza, cioè l’amore di Dio per l’umanità e il comandamento dell’amore del prossimo, sintesi di tutta la Legge e dei Profeti (cfr. Mt 7,12).
In questo modo saranno messe a tacere anche oggi quelle che sono state lungo i secoli le obiezioni al culto del Sacro Cuore, che lo accusavano di intimismo o di fomentare un atteggiamento passivo, a scapito del servizio del prossimo. Pio XII ricordava e confutava queste difficoltà, che non sono scomparse neppure ai nostri tempi, se Benedetto XVI può scrivere nella sua enciclica: «È venuto il momento di riaffermare l’importanza della preghiera di fronte all’attivismo e all’incombente secolarismo di molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo» (n. 37).
Un altro merito dell’enciclica Haurietis aquas consisteva nel sottolineare l’importanza dell’umanità di Gesù. In questo riprendeva le riflessioni dei Padri della Chiesa sul mistero dell’Incarnazione, insistendo sul fatto che il cuore di Gesù «dovette indubbiamente palpitare d’amore e d’ogni altro affetto sensibile» (cfr. nn. 21-28). Perciò l’enciclica aiuta a difendersi da un falso misticismo che tenderebbe a superare l’umanità di Cristo per avvicinarsi in maniera in qualche modo diretta al mistero ineffabile di Dio. Come hanno sostenuto non solo i Padri della Chiesa, ma anche i grandi santi come santa Teresa d’Avila e sant’Ignazio di Loyola, l’umanità di Gesù rimane un passaggio ineliminabile per comprendere il mistero di Dio. Non si tratta quindi di venerare soltanto il Cuore di Gesù come simbolo concreto dell’amore di Dio per noi, ma di contemplare la pienezza cosmica della figura di Cristo: «Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui… perché piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza» (Col 1, 17.19).
Crocifissione, particolare
Crocifissione, particolare
La devozione al Sacro Cuore ci ricorda anche come Gesù abbia donato sé stesso “con tutto il cuore”, cioè volentieri e con entusiasmo. Ci viene dunque detto che il bene va fatto con gioia, perché «vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20, 35) e «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9, 7). Ciò tuttavia non deriva da un semplice proposito umano ma è una grazia che Cristo stesso ci ottiene, è un dono dello Spirito Santo che rende facile ogni cosa e ci sostiene nel cammino quotidiano, anche nelle prove e nelle difficoltà.
Infine vorrei far menzione di quello che è chiamato Apostolato della preghiera, che è nato nel secolo XIX, a opera di padri gesuiti, in stretta connessione con la devozione al Sacro Cuore. Ritengo che esso metta a disposizione di tutti i fedeli, con l’offerta quotidiana della giornata in unione con l’offerta eucaristica che Gesù fa di sé, uno strumento molto semplice per mettere in pratica quanto dice san Paolo nell’inizio della seconda parte della Lettera ai Romani, dando una sintesi pratica della vita cristiana: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12, 1).
Tante persone semplici possono trovare nell’apostolato della preghiera un aiuto per vivere il cristianesimo in maniera autentica. Esso ci ricorda anche l’importanza della vita interiore e della preghiera. A Gerusalemme si sente in maniera particolare come la preghiera, e in particolare l’intercessione, costituisca una priorità. Non naturalmente soltanto la povera preghiera di ciascun singolo, ma una preghiera unita all’intercessione di tutta la Chiesa, la quale a sua volta non è che un riflesso dell’intercessione di Gesù per tutta l’umanità.
Quest’intercessione si eleva senza interruzione da parte di Gesù al Padre per la pace tra gli uomini e per la vittoria dell’amore sull’odio e sulla violenza. Abbiamo tanto bisogno di questo ai nostri giorni, soprattutto in questa “città della preghiera” e “città della sofferenza” che è Gerusalemme.

LAUDA SION SALVATOREM – COMMENTO

http://www.centrostudilauretani.it/internal.asp?idcat=75&idart=398

LAUDA SION SALVATOREM – COMMENTO

( link al teso italiano – latino:
http://it.wikipedia.org/wiki/Lauda_Sion_Salvatorem )

2 agosto 2011

Commento all’Inno Lauda Sion Salvatorem

VI Festival Organistico Lauretano – Loreto nel mondo
2 agosto 2011 ore 21. 15
Pontificia Basilica della Santa Casa
di
S.E. Mons. Giovanni Tonucci
Arcivescovo Delegato Pontificio di Loreto
Presidente Centro Studi Lauretani

Come già annunciato in occasione del primo concerto del Festival Organistico di quest’anno, il programma di ogni sera prevede l’esecuzione di almeno una melodia ispirata a famosi testi, usati nella celebrazione liturgica e che hanno come tema l’Eucaristia. Facciamo questo per preparare la nostra partecipazione al Congresso Eucaristico Nazionale, che si celebrerà in Ancona nel prossimo mese di settembre.
Questa sera analizziamo la sequenza che, dal primo verso, è intitolata: “Lauda Sion Salvatorem” ovvero “Loda, Sion, il Salvatore”. “Sion” è il nome della montagna sulla quale è costruita Gerusalemme e quindi si riferisce propriamente alla città stessa.
Il termine “Sequenza” indica un inno che, nella liturgia eucaristica, è recitato, o preferibilmente cantato, dopo la seconda lettura, prima del canto al Vangelo. Nelle antiche tradizioni liturgiche se ne conoscevano molte, ma solo cinque sono state conservate nel Messale Romano composto dopo il Concilio di Trento e pubblicato nel 1570. Tanto per chiarire le idee, in quell’occasione fu eseguita un’opera di unificazione molto radicale, che fece scomparire una enorme quantità di testi appartenenti a diverse e venerabili tradizioni liturgiche. È pertanto del tutto infondata l’idea che il Messale di San Pio V, così detto dal nome del Papa che lo promulgò, racchiudesse in sé l’originale tradizione liturgica della Chiesa. Di fatto, esso espresse la volontà di uniformare i modi di celebrare e, a questo scopo, mise da parte – o forse potrei dire: tolse di mezzo – molte espressioni della fede antica, che nel tempo erano state create all’interno di tante comunità cristiane. Molti di questi testi sono stati ricuperati attraverso gli studi che, dall’inizio del secolo XX, hanno preparato la riforma liturgica e che sono poi confluiti nella formulazione del Messale Romano promulgato da Papa Paolo VI nel 1970.
Le cinque sequenze conservate nel Messale Tridentino ed anche nel Messale del Vaticano II sono: il “Victimae Pascalis” di Pasqua; il “Veni Sancte Spiritus” di Pentecoste; il “Lauda Sion” del Corpus Domini; lo “Stabat Mater” dell’Addolorata, il 15 settembre; e infine il “Dies Irae” della Commemorazione dei defunti , il 2 novembre.
Come altri importanti testi dal contenuto eucaristico, anche il “Lauda Sion Salvatorem” è opera di San Tommaso d’Aquino, la cui paternità è testimoniata da autori suoi contemporanei. Nel XVII secolo, qualche Gesuita volle mettere in dubbio l’attribuzione all’Aquinate, che apparteneva all’Ordine dei Domenicani, senza però solide ragioni. In quel secolo, i Gesuiti hanno avuto parecchi problemi e molte dispute a diversi livelli, non poche proprio con i Domenicani. In questo caso, almeno, si direbbe che hanno loro stessi creato problemi, senza ragioni sufficienti.
La struttura del testo è variata: esso è composto di 24 strofe, le prime 18 delle quali hanno 3 versi – 2 ottonari e 1 settenario; le 4 strofe seguenti – quindi dalla 19ª alla 22ª – hanno 4 versi – 3 ottonari e 1 settenario; le 2 ultime hanno 5 versi – 4 ottonari e 1 settenario.
Nei contenuti, la sequenza esamina, con espressioni poetiche, l’intera teologia eucaristica e la espone in maniera dettagliata, soffermandosi su alcuni particolari, per sottolineare il dogma della transustanziazione, che proprio attraverso la riflessione teologica di quei decenni aveva ricevuto una precisa definizione, con termini non facili ma molto appropriati.
Data la lunghezza del testo, sarebbe impossibile spiegare verso per verso l’intera sequenza. Per facilitare la comprensione ne riassumo i contenuti, sottolineandone solo alcuni. Notiamo, innanzitutto, che, forse per la destinazione del brano, che doveva essere cantato nel Giovedì Santo e nel Corpus Domini, l’accento è posto soprattutto sul ricordo dell’ultima cena, e si sottolinea quindi l’aspetto conviviale del sacramento, più che quello sacrificale, nel ricordo del Calvario.
Le prime strofe esortano i fedeli a lodare Cristo Salvatore. Subito dopo, si propone il tema del canto: ricordare l’ultima cena, durante la quale Gesù diede ai suoi dodici apostoli il pane che dà la vita. Una strofa molto bella è quella che segue: “Sit laus plena, sit sonora,/ sit iucunda, sit decora/ mentis iubilatio – La lode sia piena, sia risonante, il giubilo della mente sia lieto, sia appropriato”.
Dopo questo inizio, l’autore ricorda l’oggetto della festa: l’istituzione della Pasqua della nuova alleanza, in cui la nuova mensa pone fine all’antica e la realtà del nuovo convito, come una luce piena, allontana la notte del passato.
E qui comincia una parte didattica, nella quale San Tommaso presenta i vari aspetti della dottrina eucaristica, componendo quasi un riassunto di catechesi, a uso dei fedeli che, cantando la sequenza, potevano memorizzare le diverse affermazioni: il pane si cambia veramente in carne, il vino in sangue, anche se l’aspetto esterno rimane lo stesso e richiede da parte nostra un assenso di fede, al di là di quello che possiamo verificare attraverso i sensi. Pur nella divisione dei segni – carne e sangue – Cristo resta intero sotto ciascuna specie. Lo stesso Gesù non viene spezzato né diviso da chi lo riceve e rimane sempre intero. Questa annotazione sarebbe stata utile per qualche anima pia che raccomandava che, nel ricevere la comunione, non si masticasse il pane consacrato, “per non fare male a Gesù”. L’episodio è vero e ne sono testimone, e dimostra una buona ignoranza dell’insegnamento della Chiesa sull’Eucaristia, al punto di basarsi su una convinzione oggettivamente eretica.
San Tommaso insiste con la sua catechesi: “Sumit unus, sumunt mille:/ quantum isti, tantum ille:/ nec sumptus consumitur – Lo riceve uno, lo ricevono mille. Tanto per questi quanto per quelli: ricevuto non si consuma”.
Molto attuale è la parte che segue, nella quale Tommaso si sofferma su un aspetto delicato: nell’Eucaristia, Cristo non si può difendere e può essere ricevuto da chiunque, anche da chi si trova in stato di peccato grave. Abbiamo personalmente la responsabilità, nella nostra coscienza, di non compiere superficialmente un gesto che rischia di essere ridotto ad una manifestazione di simpatia – come accade purtroppo spesso in occasione di funerali e di matrimoni, in cui alcuni fanno la comunione come gesto di partecipazione alla gioia o al dolore dei diretti interessati: “Sumunt boni, sumunt mali:/ sorte tamen inaequali,/ vitae vel interitus – Lo ricevono i buoni, lo ricevono i cattivi ma con sorte diversa: di vita o di morte”. Facendo eco a quello che scrive San Paolo, il teologo specifica: “È morte per i cattivi, vita per i buoni: vedi quale diverso risultato dalla stessa comunione”. Il richiamo è importante, per farci capire la differenza tra un incontro di amore con Cristo e la violazione offensiva della sua donazione, che diventa un sacrilegio, e quindi un peccato ancora più grave.
La parte finale della sequenza torna ad essere una contemplazione poetica dell’Eucaristia, con una strofa famosa: “Ecce panis angelorum,/ factus cibus viatorum:/ vere panis filiorum,/ non mittendus canibus – Ecco il pane degli angeli, fatto cibo dei pellegrini: vero pane dei figli, da non gettare ai cani”. Ricordo che un sacerdote professore di latino, leggendo quest’ultimo verso commentava: “E con questa allusione ai cani, la poesia va a farsi benedire”.
Ma dopo questa calata di tono, lo stile torna alto, nel ricordo delle figure bibliche del sacrificio di Cristo: “In figuris praesignatur,/ cum Isaac immolatur:/ Agnus paschae deputatur, / datur manna patribus – Con i simboli è annunziato, con Isacco dato a morte, nell’agnello della pasqua, nella manna data ai padri”.
Le ultime due strofe sono formate da cinque versi, e sono una preghiera rivolta a Cristo, buon pastore: “Bone pastor, panis vere,/ Jesu, nostri miserere:/ tu nos pasce, nos tuere:/ tu nos bona fac videre / in terra viventium./ Tu qui cuncta scis et vales,/ qui nos pascis hic mortales,/ tuos ibi commensales,/ cohaeredes et sodales,/ fac sanctorum civium. Amen. Alleluia – Buon pastore, vero pane, o Gesù, pietà di noi: nutrici e difendici, portaci ai beni eterni nella terra dei viventi. Tu che tutto sai e puoi, che ci nutri sulla terra, conduci i tuoi fratelli alla tavola del cielo nella gioia dei tuoi santi. Amen. Alleluia”.
Come vedete, è un testo complesso ma ricco, ed è comprensibile che esso abbia ispirato tanti compositori i quali, in epoche e con stili diversi, ne hanno offerto la loro interpretazione musicale. Oggi siamo invitati ad ascoltare la composizione di Dénis Bédard “Communion sur Lauda Sion”, destinato per accompagnare il momento della comunione nella Messa. Ci affidiamo alla maestria del concertista Olivier Vernet e ci auguriamo un buon ascolto.

 

LAUDA SION SALVATOREM – COMMENTO

( link al teso italiano – latino:
http://it.wikipedia.org/wiki/Lauda_Sion_Salvatorem )

2 agosto 2011

Commento all’Inno Lauda Sion Salvatorem

VI Festival Organistico Lauretano – Loreto nel mondo
2 agosto 2011 ore 21. 15
Pontificia Basilica della Santa Casa
di
S.E. Mons. Giovanni Tonucci
Arcivescovo Delegato Pontificio di Loreto
Presidente Centro Studi Lauretani

Come già annunciato in occasione del primo concerto del Festival Organistico di quest’anno, il programma di ogni sera prevede l’esecuzione di almeno una melodia ispirata a famosi testi, usati nella celebrazione liturgica e che hanno come tema l’Eucaristia. Facciamo questo per preparare la nostra partecipazione al Congresso Eucaristico Nazionale, che si celebrerà in Ancona nel prossimo mese di settembre.
Questa sera analizziamo la sequenza che, dal primo verso, è intitolata: “Lauda Sion Salvatorem” ovvero “Loda, Sion, il Salvatore”. “Sion” è il nome della montagna sulla quale è costruita Gerusalemme e quindi si riferisce propriamente alla città stessa.
Il termine “Sequenza” indica un inno che, nella liturgia eucaristica, è recitato, o preferibilmente cantato, dopo la seconda lettura, prima del canto al Vangelo. Nelle antiche tradizioni liturgiche se ne conoscevano molte, ma solo cinque sono state conservate nel Messale Romano composto dopo il Concilio di Trento e pubblicato nel 1570. Tanto per chiarire le idee, in quell’occasione fu eseguita un’opera di unificazione molto radicale, che fece scomparire una enorme quantità di testi appartenenti a diverse e venerabili tradizioni liturgiche. È pertanto del tutto infondata l’idea che il Messale di San Pio V, così detto dal nome del Papa che lo promulgò, racchiudesse in sé l’originale tradizione liturgica della Chiesa. Di fatto, esso espresse la volontà di uniformare i modi di celebrare e, a questo scopo, mise da parte – o forse potrei dire: tolse di mezzo – molte espressioni della fede antica, che nel tempo erano state create all’interno di tante comunità cristiane. Molti di questi testi sono stati ricuperati attraverso gli studi che, dall’inizio del secolo XX, hanno preparato la riforma liturgica e che sono poi confluiti nella formulazione del Messale Romano promulgato da Papa Paolo VI nel 1970.
Le cinque sequenze conservate nel Messale Tridentino ed anche nel Messale del Vaticano II sono: il “Victimae Pascalis” di Pasqua; il “Veni Sancte Spiritus” di Pentecoste; il “Lauda Sion” del Corpus Domini; lo “Stabat Mater” dell’Addolorata, il 15 settembre; e infine il “Dies Irae” della Commemorazione dei defunti , il 2 novembre.
Come altri importanti testi dal contenuto eucaristico, anche il “Lauda Sion Salvatorem” è opera di San Tommaso d’Aquino, la cui paternità è testimoniata da autori suoi contemporanei. Nel XVII secolo, qualche Gesuita volle mettere in dubbio l’attribuzione all’Aquinate, che apparteneva all’Ordine dei Domenicani, senza però solide ragioni. In quel secolo, i Gesuiti hanno avuto parecchi problemi e molte dispute a diversi livelli, non poche proprio con i Domenicani. In questo caso, almeno, si direbbe che hanno loro stessi creato problemi, senza ragioni sufficienti.
La struttura del testo è variata: esso è composto di 24 strofe, le prime 18 delle quali hanno 3 versi – 2 ottonari e 1 settenario; le 4 strofe seguenti – quindi dalla 19ª alla 22ª – hanno 4 versi – 3 ottonari e 1 settenario; le 2 ultime hanno 5 versi – 4 ottonari e 1 settenario.
Nei contenuti, la sequenza esamina, con espressioni poetiche, l’intera teologia eucaristica e la espone in maniera dettagliata, soffermandosi su alcuni particolari, per sottolineare il dogma della transustanziazione, che proprio attraverso la riflessione teologica di quei decenni aveva ricevuto una precisa definizione, con termini non facili ma molto appropriati.
Data la lunghezza del testo, sarebbe impossibile spiegare verso per verso l’intera sequenza. Per facilitare la comprensione ne riassumo i contenuti, sottolineandone solo alcuni. Notiamo, innanzitutto, che, forse per la destinazione del brano, che doveva essere cantato nel Giovedì Santo e nel Corpus Domini, l’accento è posto soprattutto sul ricordo dell’ultima cena, e si sottolinea quindi l’aspetto conviviale del sacramento, più che quello sacrificale, nel ricordo del Calvario.
Le prime strofe esortano i fedeli a lodare Cristo Salvatore. Subito dopo, si propone il tema del canto: ricordare l’ultima cena, durante la quale Gesù diede ai suoi dodici apostoli il pane che dà la vita. Una strofa molto bella è quella che segue: “Sit laus plena, sit sonora,/ sit iucunda, sit decora/ mentis iubilatio – La lode sia piena, sia risonante, il giubilo della mente sia lieto, sia appropriato”.
Dopo questo inizio, l’autore ricorda l’oggetto della festa: l’istituzione della Pasqua della nuova alleanza, in cui la nuova mensa pone fine all’antica e la realtà del nuovo convito, come una luce piena, allontana la notte del passato.
E qui comincia una parte didattica, nella quale San Tommaso presenta i vari aspetti della dottrina eucaristica, componendo quasi un riassunto di catechesi, a uso dei fedeli che, cantando la sequenza, potevano memorizzare le diverse affermazioni: il pane si cambia veramente in carne, il vino in sangue, anche se l’aspetto esterno rimane lo stesso e richiede da parte nostra un assenso di fede, al di là di quello che possiamo verificare attraverso i sensi. Pur nella divisione dei segni – carne e sangue – Cristo resta intero sotto ciascuna specie. Lo stesso Gesù non viene spezzato né diviso da chi lo riceve e rimane sempre intero. Questa annotazione sarebbe stata utile per qualche anima pia che raccomandava che, nel ricevere la comunione, non si masticasse il pane consacrato, “per non fare male a Gesù”. L’episodio è vero e ne sono testimone, e dimostra una buona ignoranza dell’insegnamento della Chiesa sull’Eucaristia, al punto di basarsi su una convinzione oggettivamente eretica.
San Tommaso insiste con la sua catechesi: “Sumit unus, sumunt mille:/ quantum isti, tantum ille:/ nec sumptus consumitur – Lo riceve uno, lo ricevono mille. Tanto per questi quanto per quelli: ricevuto non si consuma”.
Molto attuale è la parte che segue, nella quale Tommaso si sofferma su un aspetto delicato: nell’Eucaristia, Cristo non si può difendere e può essere ricevuto da chiunque, anche da chi si trova in stato di peccato grave. Abbiamo personalmente la responsabilità, nella nostra coscienza, di non compiere superficialmente un gesto che rischia di essere ridotto ad una manifestazione di simpatia – come accade purtroppo spesso in occasione di funerali e di matrimoni, in cui alcuni fanno la comunione come gesto di partecipazione alla gioia o al dolore dei diretti interessati: “Sumunt boni, sumunt mali:/ sorte tamen inaequali,/ vitae vel interitus – Lo ricevono i buoni, lo ricevono i cattivi ma con sorte diversa: di vita o di morte”. Facendo eco a quello che scrive San Paolo, il teologo specifica: “È morte per i cattivi, vita per i buoni: vedi quale diverso risultato dalla stessa comunione”. Il richiamo è importante, per farci capire la differenza tra un incontro di amore con Cristo e la violazione offensiva della sua donazione, che diventa un sacrilegio, e quindi un peccato ancora più grave.
La parte finale della sequenza torna ad essere una contemplazione poetica dell’Eucaristia, con una strofa famosa: “Ecce panis angelorum,/ factus cibus viatorum:/ vere panis filiorum,/ non mittendus canibus – Ecco il pane degli angeli, fatto cibo dei pellegrini: vero pane dei figli, da non gettare ai cani”. Ricordo che un sacerdote professore di latino, leggendo quest’ultimo verso commentava: “E con questa allusione ai cani, la poesia va a farsi benedire”.
Ma dopo questa calata di tono, lo stile torna alto, nel ricordo delle figure bibliche del sacrificio di Cristo: “In figuris praesignatur,/ cum Isaac immolatur:/ Agnus paschae deputatur, / datur manna patribus – Con i simboli è annunziato, con Isacco dato a morte, nell’agnello della pasqua, nella manna data ai padri”.
Le ultime due strofe sono formate da cinque versi, e sono una preghiera rivolta a Cristo, buon pastore: “Bone pastor, panis vere,/ Jesu, nostri miserere:/ tu nos pasce, nos tuere:/ tu nos bona fac videre / in terra viventium./ Tu qui cuncta scis et vales,/ qui nos pascis hic mortales,/ tuos ibi commensales,/ cohaeredes et sodales,/ fac sanctorum civium. Amen. Alleluia – Buon pastore, vero pane, o Gesù, pietà di noi: nutrici e difendici, portaci ai beni eterni nella terra dei viventi. Tu che tutto sai e puoi, che ci nutri sulla terra, conduci i tuoi fratelli alla tavola del cielo nella gioia dei tuoi santi. Amen. Alleluia”.
Come vedete, è un testo complesso ma ricco, ed è comprensibile che esso abbia ispirato tanti compositori i quali, in epoche e con stili diversi, ne hanno offerto la loro interpretazione musicale. Oggi siamo invitati ad ascoltare la composizione di Dénis Bédard “Communion sur Lauda Sion”, destinato per accompagnare il momento della comunione nella Messa. Ci affidiamo alla maestria del concertista Olivier Vernet e ci auguriamo un buon ascolto.

SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DEL CORPUS DOMINI – OMELIA PAPA BENEDETTO 2012

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20120607_corpus-domini_it.html

SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DEL CORPUS DOMINI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica di San Giovanni in Laterano

Giovedì, 7 giugno 2012

Cari fratelli e sorelle!

Questa sera vorrei meditare con voi su due aspetti, tra loro connessi, del Mistero eucaristico: il culto dell’Eucaristia e la sua sacralità. E’ importante riprenderli in considerazione per preservarli da visioni non complete del Mistero stesso, come quelle che si sono riscontrate nel recente passato.
Anzitutto, una riflessione sul valore del culto eucaristico, in particolare dell’adorazione del Santissimo Sacramento. E’ l’esperienza che anche questa sera noi vivremo dopo la Messa, prima della processione, durante il suo svolgimento e al suo termine. Una interpretazione unilaterale del Concilio Vaticano II aveva penalizzato questa dimensione, restringendo in pratica l’Eucaristia al momento celebrativo. In effetti, è stato molto importante riconoscere la centralità della celebrazione, in cui il Signore convoca il suo popolo, lo raduna intorno alla duplice mensa della Parola e del Pane di vita, lo nutre e lo unisce a Sé nell’offerta del Sacrificio. Questa valorizzazione dell’assemblea liturgica, in cui il Signore opera e realizza il suo mistero di comunione, rimane ovviamente valida, ma essa va ricollocata nel giusto equilibrio. In effetti – come spesso avviene – per sottolineare un aspetto si finisce per sacrificarne un altro. In questo caso, l’accentuazione giusta posta sulla celebrazione dell’Eucaristia è andata a scapito dell’adorazione, come atto di fede e di preghiera rivolto al Signore Gesù, realmente presente nel Sacramento dell’altare. Questo sbilanciamento ha avuto ripercussioni anche sulla vita spirituale dei fedeli. Infatti, concentrando tutto il rapporto con Gesù Eucaristia nel solo momento della Santa Messa, si rischia di svuotare della sua presenza il resto del tempo e dello spazio esistenziali. E così si percepisce meno il senso della presenza costante di Gesù in mezzo a noi e con noi, una presenza concreta, vicina, tra le nostre case, come «Cuore pulsante» della città, del paese, del territorio con le sue varie espressioni e attività. Il Sacramento della Carità di Cristo deve permeare tutta la vita quotidiana.
In realtà, è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero in concorrenza l’una con l’altra. E’ proprio il contrario: il culto del Santissimo Sacramento costituisce come l’«ambiente» spirituale entro il quale la comunità può celebrare bene e in verità l’Eucaristia. Solo se è preceduta, accompagnata e seguita da questo atteggiamento interiore di fede e di adorazione, l’azione liturgica può esprimere il suo pieno significato e valore. L’incontro con Gesù nella Santa Messa si attua veramente e pienamente quando la comunità è in grado di riconoscere che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci attende, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi, con la sua presenza discreta e silenziosa, e ci accompagna con la sua intercessione, continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre.
A questo proposito, mi piace sottolineare l’esperienza che vivremo anche stasera insieme. Nel momento dell’adorazione, noi siamo tutti sullo stesso piano, in ginocchio davanti al Sacramento dell’Amore. Il sacerdozio comune e quello ministeriale si trovano accomunati nel culto eucaristico. E’ un’esperienza molto bella e significativa, che abbiamo vissuto diverse volte nella Basilica di San Pietro, e anche nelle indimenticabili veglie con i giovani – ricordo ad esempio quelle di Colonia, Londra, Zagabria, Madrid. E’ evidente a tutti che questi momenti di veglia eucaristica preparano la celebrazione della Santa Messa, preparano i cuori all’incontro, così che questo risulta anche più fruttuoso. Stare tutti in silenzio prolungato davanti al Signore presente nel suo Sacramento, è una delle esperienze più autentiche del nostro essere Chiesa, che si accompagna in modo complementare con quella di celebrare l’Eucaristia, ascoltando la Parola di Dio, cantando, accostandosi insieme alla mensa del Pane di vita. Comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale. E purtroppo, se manca questa dimensione, anche la stessa comunione sacramentale può diventare, da parte nostra, un gesto superficiale. Invece, nella vera comunione, preparata dal colloquio della preghiera e della vita, noi possiamo dire al Signore parole di confidenza, come quelle risuonate poco fa nel Salmo responsoriale: «Io sono tuo servo, figlio della tua schiava: / tu hai spezzato le mie catene. / A te offrirò un sacrificio di ringraziamento / e invocherò il nome del Signore» (Sal 115,16-17).
Ora vorrei passare brevemente al secondo aspetto: la sacralità dell’Eucaristia. Anche qui abbiamo risentito nel passato recente di un certo fraintendimento del messaggio autentico della Sacra Scrittura. La novità cristiana riguardo al culto è stata influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. E’ vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella sua persona, nella sua vita, nel suo mistero pasquale. E tuttavia da questa novità fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo, Amore divino incarnato. La Lettera agli Ebrei, che abbiamo ascoltato questa sera nella seconda Lettura, ci parla proprio della novità del sacerdozio di Cristo, «sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), ma non dice che il sacerdozio sia finito. Cristo «è mediatore di un’alleanza nuova» (Eb 9,15), stabilita nel suo sangue, che purifica «la nostra coscienza dalle opere di morte» (Eb 9,14). Egli non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio (cfr Ap 21,22). Grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente! Non basta l’osservanza rituale, ma si richiede la purificazione del cuore e il coinvolgimento della vita.
Mi piace anche sottolineare che il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe «appiattito», e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita. Oppure pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli. Dio, nostro Padre, non ha fatto così con l’umanità: ha mandato il suo Figlio nel mondo non per abolire, ma per dare il compimento anche al sacro. Al culmine di questa missione, nell’Ultima Cena, Gesù istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, il Memoriale del suo Sacrificio pasquale. Così facendo Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso. Con questa fede, cari fratelli e sorelle, noi celebriamo oggi e ogni giorno il Mistero eucaristico e lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo. Amen.

GIOVANNI PAOLO II E IL CORPUS DOMINI

http://www.comunitanext.org/2012/06/giovanni-paolo-iie-il-corpus-domini/

GIOVANNI PAOLO II E IL CORPUS DOMINI

di don Mariusz Frukacz

6 giugno 2012

CZESTOCHOWA, (ZENIT.org)- Un giorno alla Solennità del Corpus Domini, una ricorrenza cui il beato Giovanni Paolo II era molto legato. Sull’argomento Zenit ha intervistato monsignor Stanislaw Nowak, arcivescovo di Czestochowa.
Eccellenza, come ricorda il giorno in cui Giovanni Paolo II ha rinnovato la tradizione della processione del Corpus Domini a Roma?
Mons. Stanislaw Nowak: Ricordo sempre quanto si parlava a Cracovia dei primi giorni del pontificato di Giovanni Paolo II e di quanto succedeva a Roma dopo l’elezione del cardinale Wojtyla sul Trono di San Pietro.
Soprattutto ricordo che si parlava tanto del fatto che Giovanni Paolo II avrebbe rinnovato la processione del Corpus Domini a Roma. Si diceva che il Santo Padre aveva voluto compiere questo gesto perché amava infinitamente questa processione, di cui era molto coinvolto anche in quanto vescovo di Cracovia.
Va detto, infatti, che, già come vescovo di Cracovia, Karol Wojtyla attribuiva una grande importanza nella processione Corpus Domini in quanto “professione di fede in Dio sulla strada”, al centro della città. Aveva sofferto molto quando, ai tempi del comunismo, fu interrotta la grande tradizione di Cracovia – risalente a prima della seconda guerra mondiale – di svolgere la processione eucaristica fino alla piazza principale della città.
Il grande arcivescovo di Cracovia suo predecessore, Adam Sapieha, aveva guidato questa processione fino alla piazza principale, attraversando con il Santissimo Sacramento le strade della centro storico. Durante la dura era comunista, purtroppo, non fu possibile organizzare tutto questo: la processione aveva luogo soltanto sulla collina del castello di Wawel ed era vietato andare per le strade della città.
Da cardinale, quindi, Karol Wojtyla lottò tanto per riportare la processione del Corpus Domini per le strade.
Perché, dunque, la processione del Corpus Domini sulle strade della città è stata così importante per il cardinale Wojtyla?
Mons. Stanislaw Nowak: In Polonia esisteva la grande tradizione dei quattro altari durante la processione pubblica del Corpus Domini e come cardinale di Cracovia, il beato Wojtyla ha predicato la parola di Dio con grande attualità in ciascuno dei quattro altari.
Egli parlò di libertà, chiedendo il rispetto da parte dello Stato per le tradizioni cattoliche e del ripristino della Facoltà di Teologia a Cracovia. La processione del Corpus Domini, quindi, all’epoca di Wojtyla era, da un lato, una grande confessione di fede e, dall’altro, un richiamo alle autorità dello Stato a ristabilire la giustizia in Polonia.
Alla luce di questo, possiamo dire che esiste una relazione interessante fra il rinnovamento della processione del Corpus Domini a Roma e quella di Cracovia. Quando l’allora cardinale Karol Wojtyla fu eletto Papa, rinnovando e celebrando la prima processione a Roma, allo stesso tempo le autorità comuniste diedero il permesso cha la processione del Corpus Domini tornasse nella piazza principale di Cracovia. E questo, per noi polacchi fu una grande gioia.
*Mons. Stanislaw Nowak è nato l’11 luglio 1935 in Jeziorzany. Ordinato sacerdote il 22 giugno 1958 dall’Arcivescovo di Cracovia Eugeniusz Baziak, iniziò il ministero pastorale nell’Arcidiocesi di Cracovia – come un vicario – in Choczni vicino a Wadowice, in Ludzmierz e Rogoznik Podhale.
Negli anni 1963-1979 è stato il padre spirituale del Seminario di Cracovia e, allo stesso tempo, ha proseguito gli studi specializzati in teologia negli anni dal 1967 al 1971 presso l’Istituto Cattolico di Parigi.
Dal 1971 è stato, poi, docente alla cattedra di Teologia della vita interiore della Pontificia Facoltà di Teologia a Cracovia e, dal 1981, alla Facoltà di Teologia della Pontificia Accademia di Teologia. Nei anni 1984-1992 mons. Nowak è stato il quarto ordinario vescovo della diocesi di Czestochowa e, dal 1992 è il primo Metropolita di Czestochowa.
Durante i miei studi a Roma ho potuto partecipare per tre volte alla processione del Corpus Domini, guidata da Giovanni Paolo II, negli anni 2001-2003, dunque nell’ultimo periodo del suo grande Pontificato.
Il Santo Padre era già un uomo che aveva patito molte sofferenze; allo stesso tempo, però, era un uomo di straordinaria forza spirituale, e per questo posso dire che, durante la processione del Corpus Domini, il beato Wojtyla ha dato una grande testimonianza dell’amore di Cristo presente nel Santissimo Sacramento.
Ricordo che una volta andai molto vicino al Santo Padre e avvertii subito la sua grande fede e il profondo amore che da lui traspariva. Quando guardò Cristo fu davvero un’emozione unica, perché amava veramente Cristo: lo ha portato con sé fino alla fine, con la Sua croce, quando, nonostante la sofferenza, guidò la processione del Corpus Domini.
Questa processione, infatti, è stata per me un’esperienza profonda, una lezione di fede, di amore e di umiltà. Credo che quando Giovanni Paolo II ha seguito Cristo per le strade della Città Eterna, dalla Basilica di San Giovanni in Laterano fino alla Basilica di Santa Maria Maggiore, ha insegnato a tutti a rivolgere il nostro sguardo a Cristo, imparando quindi a guardare con amore, ma anche con umiltà e pace, dentro il cuore di ogni persona che incontriamo sul cammino della nostra vita.
La solennità del Corpus Domini risale al 1264, per volontà di Papa Urbano IV che istituì la festa «affinché il popolo cristiano riscoprisse il valore del mistero eucaristico». A distanza di più di 700 anni la tradizione continua ininterrotta: Benedetto XVI, infatti, presiederà, questo giovedì, la Santa Messa sul sagrato di San Giovanni in Laterano, per poi guidare la processione del Corpo di Cristo fino alla basilica di Santa Maria Maggiore.
“Un momento importante per la fede dei cristiani e per la vita ecclesiale della Diocesi di Roma” ha dichiarato il cardinale Vicario, Agostino Vallini. Soprattutto un’occasione “per ringraziare il Signore del dono inestimabile dell’Eucaristia, per testimoniare pubblicamente la nostra fede e l’unità della Chiesa di Roma intorno al suo Vescovo”.
In vista di tale evento, ZENIT ha incontrato padre Giuseppe Midili, O.Carm., direttore dell’Ufficio Liturgico del Vicariato di Roma, che ci ha raccontato la storia e il significato di questa festa in cui “la Chiesa si manifesta come Corpo unico e unitario”.
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Il Corpus Domini celebra l’Eucarestia, fulcro della fede cristiana. Qual è il significato di questa solennità?
Padre Midili: Eucaristia significa rendimento di grazie. Ogni giorno – specialmente la domenica – la Chiesa si raduna per celebrare i santi misteri e rendere grazie al Padre per il dono del Figlio, che ha offerto la sua vita in sacrificio per noi e ci ha meritato la salvezza. La solennità del Corpo e del Sangue del Signore è l’occasione liturgica di un ringraziamento speciale. La comunità cristiana si raduna per prendere coscienza che solo nell’Eucaristia trova il culmine e la fonte di tutta la sua vita. Ogni atto di fede, ogni forma di pietà, di devozione, ogni forma di autentica carità non può prescindere mai da questo sacramento, che è costitutivo del cristiano.
A quando risale la nascita di tale ricorrenza?
Padre Midili: La solennità del Corpo e del Sangue del Signore fu istituita nel 1264 da papa Urbano IV, perché il popolo cristiano potesse partecipare con speciale devozione alla Santa Messa e alla processione e così testimoniasse la fede in Gesù, che ha voluto rimanere presente sotto le specie del pane e del vino consacrati. Nel corso dei secoli questa solennità ha costituito il punto più alto di devozione eucaristica, perché ha unito l’adorazione devota a quell’evento originante imprescindibile che è la celebrazione della Messa.
La celebrazione del Corpus Domini a san Giovanni in Laterano è entrata nella tradizione della diocesi di Roma grazie a Giovanni Paolo II. Perché il beato Papa ha voluto dargli una così grande
importanza?
Padre Midili: Sin dall’anno 1979 Papa Giovanni Paolo II volle che a Roma la solennità del Corpo e Sangue del Signore si celebrasse il giovedì, perché proprio il giovedì santo Gesù radunò i suoi discepoli e durante la cena istituì il nuovo ed eterno sacrificio, il convito nuziale dell’amore. Mentre nella sera del giovedì santo si rivive il mistero di Cristo che si offre nel pane spezzato e nel vino versato, nella ricorrenza del Corpus Domini questo stesso mistero viene proposto all’adorazione e alla meditazione del Popolo di Dio.
Il Papa volle celebrare nella Cattedrale di Roma, insieme con tutti i sacerdoti e i fedeli della città, perché l’Eucaristia è mistero di comunione con Dio, ma anche tra le persone. La migliore immagine di Chiesa, infatti, è quella che si costituisce intorno al Vescovo, per celebrare i divini misteri, mangiare e bere del Corpo e Sangue del Signore, rendere grazie e così testimoniare la comunione e l’amore che Gesù ha insegnato.
Qual è il senso di celebrare questa festa nella piazza antistante la Basilica di San Giovanni?
Padre Midili: Piazza S. Giovanni è allo stesso tempo il sagrato della Basilica Cattedrale di Roma, ma è anche il luogo delle manifestazioni pubbliche per la città e per l’Italia; spesso è teatro di concerti, di eventi politici e purtroppo anche di scontri; è l’agorà degli antichi. È diventata un simbolo del nostro paese, è un sagrato-piazza.
Celebrare la Santa Messa in un luogo così significativo nel giorno della festa dell’Eucaristia ribadisce che Gesù è in mezzo al suo popolo in ogni momento della vita. Con la sua presenza egli santifica la quotidianità, vede e risana la sofferenza, è per tutti un segno di speranza. Gesù non è lontano da noi e dalla nostra vita, ma è sempre presente, si è fatto vicino. Possiamo incontrarlo nell’Eucaristia celebrata e nel pane consacrato. Egli ci viene incontro.
Il Corpus Domini è un momento fondamentale per il popolo cristiano. Soprattutto la processione, guidata dal Santo Padre, è un evento di grande impatto la cui idea centrale è che “Cristo cammina in mezzo a noi”….
Padre Midili: La Santa Messa e la processione nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore sono un unico evento, che manifesta la Chiesa come Chiesa. É la festa della comunità radunata. I credenti si ritrovano insieme per celebrare il sacrificio di Cristo e nella celebrazione rendono grazie a Dio per tutto quello che hanno ricevuto. La migliore immagine di Chiesa è quella che si raduna intorno al suo Vescovo per celebrare i santi misteri, mangiare e bere del Corpo e del Sangue del Signore, rendere grazie e così testimoniare la comunione e l’amore che Gesù ci ha insegnato.
L’adorazione è prosecuzione dell’Eucaristia celebrata, testimonianza d’amore e di fede verso Gesù, prolungamento del ringraziamento dopo ogni S. Comunione. La processione è cammino di sequela. Ancora una volta la Chiesa si identifica con il popolo in cammino, che segue il suo maestro. Si ripete l’esperienza dei discepoli di Emmaus, che percorrono un tratto di strada con Gesù e lo ascoltano mentre li istruisce. Nella processione eucaristica la comunità cammina con Gesù, ma non lo riconosce più mentre spezza il pane. Noi riconosciamo il Maestro presente in quel pane.

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