Archive pour la catégorie 'FESTE DEL SIGNORE : PASQUA'

La Settimana Santa è seguire una Persona

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La Settimana Santa è seguire una Persona

di Nicola Bux

Tratto da La Bussola Quotidiana il 15 aprile 2011

La liturgia della Settimana Santa, e nello stesso tempo la vita cristiana, vuol dire seguire Cristo nel suo culmine, l’offerta di sé al padre Onnipotente per salvare l’umanità dal peccato.
Seguire i riti della Settimana Santa vuol dire seguire le orme di Cristo. Non si possono seguire i riti e nello stesso tempo non vivere quello che Cristo stesso è, cioè seguire la sua persona.
La Settimana santa, che è chiamata così perché è il cuore di tutto l’anno, vuol dire che Gesù non è un’idea ma è una persona da seguire. E il fatto che noi scorriamo attraverso la liturgia i momenti drammatici, conclusivi della vicenda terrena di Gesù, vuol dire che per ottenere da Cristo la vita bisogna seguirne le orme ed essere così guariti, come dice san Pietro: “Egli ci ha dato l’esempio perché ne seguiamo le orme”. Non è soltanto un messaggio o uno sguardo esteriore ma significa guardare Cristo e unirsi a lui nella medesima offerta totale nel sacrificio di sé.
Questo comincia già con la Domenica di Passione, chiamata comunemente delle Palme, ma che è domenica di Passione perché è il primo termine del binomio, il secondo è la domenica pasquale. La domenica di Passione sta alla domenica di Pasqua come la morte di Cristo sta alla sua Glorificazione. Sin dall’antichità il racconto della Passione ha impressionato profondamente la comunità cristiana e viene considerato un unicum che non si può frazionare. Viene proposto già alla domenica perché la domenica della Passione è la domenica che introduce Cristo non solo in Gerusalemme, ma anche nel Sacrificio. Nella liturgia bizantina l’ingresso in Gerusalemme viene evocato al momento dell’offertorio, quando si portano i doni del pane e del vino per l’eucarestia; si fa una processione che nel simbolismo orientale sta ad indicare l’ingresso di Cristo in Gerusalemme, perché Cristo è entrato a Gerusalemme per dare compimento al suo sacrificio.
E’ anche il senso del trionfo delle palme, perché la palma vuol dire vittoria: la vittoria è quella del martirio, i martiri vengono rappresentati in genere con la palma. Cristo è il martire per eccellenza, entra nel santuario per dare testimonianza dell’offerta totale di sé, è l’immolazione sacrificale per i peccati del mondo.
Giustamente quindi la Chiesa ha trattenuto nella domenica – e non solo il venerdì – che precede la Resurrezione la meditazione sulla Passione di Cristo, che così è davanti allo sguardo di tutta la Chiesa. La Passione del Signore, dice la preghiera di colletta della scorsa domenica, deve portare a vivere e agire secondo la carità che spinse il figlio di Dio a dare la vita per noi. Quindi guardare a Cristo significa proprio questo: vivere e agire in quella carità che lo spinse a dare la vita per noi. Per fare questo c’è bisogno del suo aiuto, della sua grazia. Anche la colletta delle Palme ha un significato simile: si prega il Signore onnipotente che avendoci dato come modello Cristo nostro salvatore che si è fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce, noi possiamo sempre aver presente l’insegnamento della sua Passione per partecipare alla gloria della Resurrezione. Qui si dimostra la natura esemplare della Passione di Cristo, ma non solo. Non è solo un esempio da seguire ma anche una grazia da ricevere, perché attraverso la sua Passione, la sua efficacia, noi siamo fatti partecipi della gloria, della Resurrezione.
Ancora una volta, come dice il Papa nel libro “Gesù di Nazaret”, si rivela che l’onnipotenza di Dio, il suo essere vicino al mondo, il suo salvare il mondo, non passa attraverso i criteri mondani o la potenza o la forza del mondo, ma attraverso quella debolezza, quella discrezione, quella vicinanza che è propria di un essere che è libero e ci ha creati liberi, che vuole vincere convincendoci con il suo amore.
Questo è il senso della apertura della Domenica delle Palme e della Settimana Santa, che possiamo descrivere come una grande sinfonia, usando un linguaggio musicale. Si passa dalla gioia dell’ingresso in Gerusalemme alla tristezza della Passione per poi tornare, dopo la gioia della mistica cena, all’angoscia del Getsemani, poi ancora al dramma che sfiora quasi la tragedia del Venerdì Santo, la morte di Cristo che sarebbe una tragedia se Cristo non fosse resuscitato; e quindi poi alla speranza, l’attesa del sabato e alla gioia prorompente, ma tutta profonda e interiore, della Domenica di Resurrezione.
Il triduo pasquale richiama i tre giorni promessi da Cristo, in cui avrebbe sofferto, sarebbe stato crocifisso, sepolto, però al terzo giorno sarebbe resuscitato. Il triduo, il terzo giorno visto come il giorno creato dal Signore, terzo giorno che coincide con l’ottavo della Creazione: il primo giorno dopo il sabato, ovvero dopo i sette giorni della Creazione, l’ottavo è la nuova Creazione.
All’interno di questo grande affresco si colloca il triduo pasquale che ha un anticipo il Giovedì santo, perché il triduo pasquale strettamente inteso è venerdì, sabato e domenica. Però nella liturgia latina c’è un inizio il giovedì sera con la commemorazione della Cena del Signore, per cui i tre giorni vanno dal vespro del giovedì fino al vespro della domenica. E’ l’unico momento dell’anno in cui si celebra una messa per commemorare la Cena del Signore, perché – contrariamnete a quanto molti credono – la messa non commemora l’ultima cena. La messa è la ripresentazione del sacrificio di Cristo sulla croce e quindi la cena di Cristo, l’ultima cena, in realtà non è più celebrata perché i gesti che Gesù ha compiuto in quella cena sono stati trasfigurati nell’offerta del suo corpo e del suo sangue sulla Croce.
Una nota va dedicata alla lavanda dei piedi, che si ricorda nella messa del Giovedì santo. Solo Giovanni parla della lavanda dei piedi, con cui vuole sottolineare che quanto Cristo ha fatto e ha detto, cioè l’eucarestia ovvero l’offerta di sé, ha un simbolo nel gesto della purificazione compiuta. E’ un servizio che egli fa perché vuole indicare che l’eucarestia è un culto che implica un servizio, l’eucarestia deve essere obbedita, non può essere creata, inventata, manipolata. Bisogna obbedire. Siamo in un’epoca di grande anarchia liturgica, invece proprio la lavanda dei piedi è un atto sacro che è tranquillamente speculare a quello della consacrazione del pane e del vino. Gesù ha voluto dire: guardate che dovete lasciarvi lavare i piedi da me, dovete lasciarvi fare da me, non dovete mettere voi davanti a me. Lo ha detto chiaramente quando Pietro gli disse che giammai si sarebbe fatto lavare i piedi, e sappiamo come Gesù gli ha risposto. Aldilà di riduzionismi di natura caritatevole o sociologica, la lavanda dei piedi ha un profondo significato sacramentale, richiama che il sacramento dell’eucarestia è il sacramento dell’obbedienza dell’uomo a Dio perché Cristo ha obbedito al padre facendosi – come lui dice – battezzare con un battesimo di sangue. Battesimo che a nessuno è dato di poter ricevere se non lo vuole, se non lo decide lui, il Signore. E quindi ogni sacramento non è un bene disponibile, nemmeno da parte della Chiesa. La Chiesa non dispone dei sacramenti, li amministra. Tantomeno un prete o un laico può immaginare di manipolare i sacramenti. Egli deve servirli – servire la messa, si diceva una volta – deve servirli come Cristo ha servito i discepoli.
Poi il Venerdì santo è dedicato tutta alla Passione di Cristo, non c’è nemmeno la messa. Già la messa del Giovedì santo si celebra solo in Occidente, ma si è introdotta come un momento commemorativo, mentre la vera grande messa è quella della veglia pasquale, l’unica messa che ricorda tutto il mistero pasquale: dall’eucarestia alla morte sulla croce, alla sepoltura, alla Resurrezione. Il Venerdì santo non c’è messa ma è tutto dedicato alla commemorazione liturgica attraverso le preghiere, il centro è l’adorazione della Croce dopo aver meditato sulla Passione secondo San Giovanni.
Il Sabato santo è un giorno senza alcuna liturgia perché dedicato alla meditazione e all’attesa. Meditazione su Cristo sepolto e attesa della sua Resurrezione. E’ il giorno del silenzio dove Dio parola tace. Ma parla attraverso il figlio che è sceso fino nel profondo della terra per mostrare la sua condivisione con la condizione umana. Morto e sepolto. Ed è proprio colui che parola eterna si è incarnato, venuto nella nostra carne, sceso in terra, che è sceso anche sotto terra, “agli inferi” come dice il Credo apostolico. Cioè è sceso laddove secondo la tradizione ebraica c’erano le ombre dei morti, coloro che l’avevano preceduto ma non erano entrati in Paradiso perché il Paradiso era serrato dopo la cacciata di Adamo. Cristo, morendo, ha riaperto il Paradiso ed è sceso agli inferi: ha preso per mano i progenitori Adamo ed Eva, e poi tutti i patriarchi e tutti i giusti che, pur essendo stati giusti, non avevano potuto entrare nel Paradiso perché chiuso, Paradiso che invece la morte di Cristo ha riaperto.
Cristo scende fino agli inferi, un mistero poco conosciuto anche perché non ha una sua rappresentazione liturgica; ce l’ha iconografica ma non liturgica. Il Sabato santo è la discesa dell’anima di Cristo fino agli inferi, mentre il corpo rimane sepolto in attesa del ricongiungimento anima, corpo e spirito per risorgere. Questo viene celebrato nella notte di Pasqua quando tanta gente (celebrare vuol dire numerosi) accorre per ricordare, per vivere l’avvenimento che certamente è avvenuto nella storia, come ricorda Benedetto XVI, ma che ha superato la storia. La resurrezione di Cristo è un avvenimento storico ma nello stesso tempo ha superato la storia, ha inaugurato una nuova storia, la storia di Dio aperta al compimento futuro. E quindi viene celebrata la veglia attraverso alcuni elementi fondamentali anche per la stessa natura: il fuoco, la luce, l’acqua, il vino, il pane, l’olio: tutti i sacramenti entrano in gioco la notte di Pasqua per indicare che Cristo ha fatto nuove tutte le cose. Attraverso il rinnovamento delle cose, anche quelle materiali, fa passare la potenza della sua resurrezione.
Dall’efficacia della Croce alla potenza della Resurrezione nella notte della domenica. Efficacia e potenza, sono due termini piuttosto dimenticati oggi perché nella pastorale e nella catechesi ormai Cristo è ridotto a un’idea, a un progetto, addirittura a un sogno, come si può leggere in tanti titoli, anche ecclesiastici. Ma Cristo non è un progetto e neanche un sogno, Cristo è una persona, un fatto presente con il quale noi siamo chiamati a vivere. Non solo a condividere un’idea o seguire un esempio, ma vivere per ricevere una vita, che noi chiamiamo con una parola tradizionale: Grazia, cioè una vita donata gratis. A motivo dell’offerta sacrificale Cristo ha reso efficace ogni offerta, ogni pur minima azione umana, e quindi da questa efficacia si passa alla potenza della Resurrezione perché se Cristo non fosse risorto la nostra fede non esisterebbe, come ricorda l’apostolo Paolo.
Quindi il prorompere del fuoco all’inizio della veglia indica proprio questa potenza divina che dalla Creazione passa attraverso la liberazione di Israele dall’Egitto, giunge fino alla Resurrezione e alla Pentecoste, il fuoco dello Spirito Santo. E poi naturalmente tutto è meditato con quella trilogia di lettura-salmo-preghiera che caratterizza la liturgia della Parola, la lunga liturgia della Parola della notte pasquale. Si passa quindi all’acqua – terza parte della veglia – che distrugge il peccato e regala una vita che salva, che rigenera. E dalla rigenerazione del Battesimo si passa al quarto momento della veglia che è l’Eucarestia, il Signore risorto che con le sue cicatrici si mostra spezzando il pane e consacrando il vino. E quindi tutti sono riconciliati e tutti sono veramente gioiosi, quella gioia che l’exultet, questo celebre inno che apre la veglia pasquale, fa risalire al cielo, agli angeli e a tutte le schiere degli angeli per la Resurrezione che viene partecipata anche ai mortali. In un certo senso in questa unione di angeli e uomini si riprende anche il tema della notte di Natale, il Gloria in excelsis deo.
Ecco così che si arriva alla domenica di Pasqua che vede le donne di primo mattino andare al sepolcro, trovarlo vuoto, non poter compiere, pur premurose, quell’atto di compassione che non avevano potuto fare per l’imminenza della festa il venerdì al tramonto. Ma quella premura questa volta è stata preceduta da un’altra premura sorprendente, quella del Padre onnipotente che ha visto il sacrificio del Figlio e gli ha restituita una vita più bella e più grande, come dice Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor Hominis: la Resurrezione non è il ritorno alla vita precedente, ma è una vita più grande, una vita che nasce dall’amore. Così la ragione eterna, il logos eterno coincide con l’amore indistruttibile, perché Dio è il logos, è il vero, è parola, è ragione, perché Dio è essenzialmente amore.
E così si chiude con il vespro di Pasqua il triduo, che poi ovviamente riecheggia per ben otto giorni nell’ottava di Pasqua e poi per 50 giorni fino alla Pentecoste, come se fosse – dice Sant’Agostino – una sola grande domenica
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Venerdì Santo: Buona notizia per i peccatori (Enzo Bianchi)

dal sito:

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31/03/2009

Venerdì Santo: Buona notizia per i peccatori

ENZO BIANCHI

Giorno severo è il Venerdì santo per i cristiani, ricorrenza percepita come l’”antifesta”, giorno ancora capace di isolare tragicamente la passione e la morte di Gesù rispetto alla sua risurrezione. Quando i cristiani vanno al loro Signore, sempre sono ricondotti all’unico evento della passione-morte-risurrezione, ma oggi è la passione culminata nella morte che è meditata, pensata, celebrata: è la croce che domina con la sua ombra la liturgia e che con il suo imporsi rimanda alla risurrezione solo come speranza, come attesa. Singolarità della fede cristiana l’avere come annuncio centrale il Signore crocifisso e individuare nella crocifissione di Gesù di Nazaret il racconto più epifanico di Dio. Cosa ricordano oggi i cristiani?
Ricordano che il venerdì 7 aprile dell’anno 30 della nostra era a Gerusalemme, città santa e cuore della fede ebraica, Gesù di Nazaret – un rabbi e profeta della Galilea che aveva destato attorno a sé un movimento e che trascinava dietro di sé una piccola comunità itinerante composta di una dozzina di uomini e alcune donne – viene arrestato, condannato e messo a morte mediante il supplizio della crocifissione. Storicamente si può dire che Gesù è stato arrestato su iniziativa di alcuni capi dei sacerdoti, la ierocrazia di Gerusalemme, a motivo di gesti compiuti e parole pronunciate: alcuni tratti messianici del suo agire, l’appassionata cacciata dei venditori dal tempio, la polemica profetica contro gli uomini religiosi, in particolare i sadducei.
Catturato di notte nella valle del Cedron da un pugno di guardie del tempio, fu trascinato presso il Gran Sacerdote alla presenza del quale avvenne un confronto che permise di formulare accuse precise da presentare al governatore romano, l’unico cui spettava il potere di emettere una condanna capitale e di disporne l’esecuzione. Va detto chiaramente che non ci fu un autentico processo formale e che la parte del sinedrio, riunitasi nella notte, quasi certamente non era in grado di deliberare in situazione legale. Gesù viene comunque consegnato a Pilato, il quale, con alcune sedute e procedimenti che paiono un vero e proprio processo, decide di condannarlo con altri malfattori, dopo averlo fatto flagellare. Misura di sicurezza, tentativo di compiacere il gruppo sacerdotale che glielo aveva consegnato, odio verso chiunque tra i giudei apparisse portatore di un messaggio non omogeneo all’ideologia imperiale? Probabilmente tutte queste ragioni insieme portarono Pilato a decidere per la condanna di quel galileo. Certo Gesù muore in croce, subendo quello che per i romani era un “supplizio crudelissimo e orribile” (Cicerone) e per gli ebrei era, come l’impiccagione, segno di scomunica per l’empio, maledizione del bestemmiatore, come recita la Torah: “Maledetto chiunque è appeso al legno” (Deuteronomio 21,23; cf. Gal 3,13).
Gesù muore nell’infamia della sua nudità, appeso a mezz’aria perché né il cielo né la terra lo vogliono, muore nella vergogna di chi è condannato dal magistero ufficiale della sua religione e dall’autorità civile perché nocivo al bene comune della polis! Gesù, a differenza del Battista, non muore come martire, bensì come scomunicato e maledetto, come ama dire Paolo che si vanta di predicare Gesù crocifisso, scandalo per gli uomini religiosi e follia per i saggi del mondo greco.
La croce, sì la croce è il segno di questa morte nell’infamia di Gesù – “annoverato tra i malfattori”, si compiacciono di annotare gli evangelisti – è il racconto della sua solidarietà con i peccatori, del suo abbassamento fino alla condizione dello schiavo umiliato, “fino alla morte e alla morte di croce”, come testifica Paolo. La croce non deve tuttavia prevalere sul Crocifisso! Non è la croce, infatti, a far grande chi vi è appeso, ma è proprio Gesù che riscatta e dà senso alla croce, in modo che tutti gli uomini che conoscono questa situazione di sofferenza e di vergogna, di maledizione e di annientamento possano trovare Gesù accanto a loro. Quello di ogni croce è un enigma, che Gesù rende mistero: in un mondo ingiusto, il giusto può soltanto essere rifiutato, osteggiato, condannato. E’ una necessitas humana, e Gesù – proprio perché ha voluto “restare giusto”, solidale con le vittime, gli agnelli – ha dovuto conoscere quest’urto dell’ingiustizia del mondo contro di lui. Ma chi sa leggere così la passione e la morte di Gesù è obbligato a comprenderla come una vicenda di gloria per Gesù: gloria di chi ha speso la sua vita per gli uomini, gloria di chi ha amato fino alla fine, gloria di chi muore condannato per aver cercato di narrare che Dio è misericordia, amore. Se c’è un luogo in cui Gesù ha reso Dio “buona notizia”, se lo ha “evangelizzato”, è proprio la croce: buona notizia per tutti i peccatori!
Oggi, Venerdì santo, i cristiani raccolgono nell’immagine del crocifisso, agnello innocente, tutte le vittime della storia, gli agnelli uccisi dai lupi: i cristiani in questo giorno sono chiamati a imparare a sostenere lo scandalo della croce senza rovesciare le colpe sull’altro, sicuri che dalla croce di ogni giusto si evidenzia una ragione per cui vale la pena dare la vita. Perché solo chi ha una ragione per cui vale la pena dare la vita, ha anche una ragione per cui vale la pena vivere.

ENZO BIANCHI
Dare senso al tempo

SANTA MESSA VESPERTINA IN «CENA DOMINI» – OMELIA DI PAOLO VI (1976)

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 http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1976/documents/hf_p-vi_hom_19760415_it.html
   
 SANTA MESSA VESPERTINA IN «CENA DOMINI»

OMELIA DI PAOLO VI

Giovedì Santo, 15 aprile 1976

Comunione è la parola che viene alle labbra, se esse devono rompere il silenzio dei cuori compresi dei misteri che stiamo celebrando. Ripensiamo, anzi riviviamo l’ora dell’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli; un’ora già grave per il suo significato commemorativo, tale da formare la coscienza religiosa e storica del Popolo ebraico, che rievocava, immolando l’agnello, l’esodo avventuroso dalla schiavitù verso una patria da riconquistare e da possedere nella fedeltà al proprio religioso destino, per secoli.
Comunione era l’atmosfera nuova nella quale quella cena pasquale era celebrata: un’atmosfera affettiva intensa e carica di quei sentimenti che superano lo stile della conversazione consueta, per quanto il linguaggio del Maestro mirasse sempre a condurre la comprensione dei suoi discepoli oltre i margini dell’esperienza sensibile e ad invitarla a respirare in una zona superiore di mistero e di trascendente scoperta di verità recondita e di divina realtà. Ma quella sera il livello sentimentale e spirituale è subito così alto da rendere più che mai difficile ai discepoli commensali interloquire a proposito. Ascoltiamo intanto gli accenti estremamente cordiali, che sono in chiave d’apertura dell’effusione discorsiva del Maestro. «Quando fu l’ora, scrive l’evangelista S. Luca, Egli prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: ho desiderato ardentemente di mangiare questa pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio» (Luc. 22, 15). La cena assume un carattere testamentario: Gesti stesso la definisce l’epilogo della sua vita terrena; Egli dà al convito un carattere conclusivo. Scrive l’Evangelista Giovanni, il prediletto iniziato ai segreti del cuore del Signore: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo ch’era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo d’aver amato i suoi ch’erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Io. 13, 1). Commenta S. Agostino: «Fino alla morte lo portò l’amore» (S. AUGUSTINI In Io. tract. 55, 2: PL 35, 1786); e parimente l’esegesi moderna: «Gesù, che ha sempre amato i suoi, adesso dimostra il suo amore sino in fine, non solo cronologicamente sino alla fine della sua vita, ma molto più intensivamente sino al fine raggiungibile, sino all’estremo limite possibile dell’amore stesso» (G. RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, 541).
Il grado d’intensità affettiva prodotto dalle parole e dagli atti di Gesù in quel convito rituale, già di per sé atto a svegliare negli animi una forte e comunicativa emozione, cresce durante lo svolgimento della veglia conviviale in scala ascendente: dall’annuncio tanto temuto dai discepoli della prossima morte cruenta del Maestro (Cfr. Io. 11, 16; 12, 24; etc.), ora apertamente asserito, alla scena inattesa e imbarazzante della lavanda dei piedi, compiuta da Gesù dopo la prima parte della cena (Io. 13, 2-17), e poi all’accenno patetico e ormai aperto al tradimento imminente; e quindi, partito dalla mensa il traditore indiziato (Ibid. 13, 26 ss.), un momento di supremo congedo: «Figlioli (così chiama i discepoli! ), ancora per poco sono con voi . . . Io vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come (come: notate il paragone, notate la misura!), come Io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri» (Ibid. 13, 33-35). Anche qui un rapporto, una comunione rimane, nel costume informatore d’una società compaginata dall’amore. Noi giungiamo così al momento della suprema e misteriosa sorpresa. Riascoltiamo le rivelatrici parole: «Mentre essi cenavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro dicendo: bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati» (Matth. 26, 26-28).
Miracolo! Mistero di fede! Noi crediamo al prodigio compiuto! Noi crediamo, come dice il Concilio Tridentino, che Egli, Cristo, «celebrata la Pasqua antica . . . . istituì una nuova Pasqua, immolando se stesso, conferendone alla Chiesa il potere mediante i Sacerdoti, sotto segni visibili, in memoria del suo transito da questo mondo al Padre» (DENZ-SCHÖN., 1741).
Se così è, ed è così, il mistero si irradia davanti a noi, finché avremo capacità di contemplarlo, in un’epifania di comunione.
Comunione con Cristo, Sacerdote e vittima d’un Sacrificio consumato in modo cruento sulla croce, incruento nella Messa, vertice della nostra vita religiosa, dove Egli, mediante la sua parola sacramentale ridotti a semplici segni sensibili il pane ed il vino per convertirne la sostanza nella sua carne e nel suo sangue, offre se stesso, Agnello immolato in olocausto, ristabilendo una comunione di grazia fra gli uomini vivi e defunti, con Dio Padre onnipotente e misericordioso (Cfr. DENZ- SCHÖN., 1743; 3847). Comunione ontologica, teologica, vitale.
Comunione ancora con Cristo, personale, mistica, interiore; comunione bipolare della nostra umile e caduca vita umana e mortale con la Vita stessa di Cristo, ch’è Lui stesso Vita per definizione (Io. 14, 6), e che ha detto di Sé: «Io sono il Pane della Vita» (Ibid. 6, 35-49 et 51), così che risuonano nella nostra profonda coscienza le parole della comunione più intima, coesistenziale: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal. 2, 20). Chi può mai misurare la fecondità di questa comunione interiore, che ha Cristo maestro, lo ha via, verità e vita (Io. 14, 6), lo ha come linfa d’un albero ai suoi tralci fiorenti e fruttiferi? (Ibid. 15, 1 ss.)
Comunione inoltre d’ineffabile efficacia sociale, principio cioè valido per cementare nell’unità soprannaturale ma altresì ecclesiale e comunitaria del Corpo mistico di Cristo quanti del pane eucaristico si alimentano. Lo insegna ancora S. Paolo: «Il calice della benedizione che noi consacriamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo; tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor. 10, 16-17).
Comunione allora nello spazio della terra e nella dimensione dell’umanità credente e partecipante al divino banchetto, dovunque sia regolarmente celebrato: tutti vi sono invitati dal Signore stesso: compelle intrare, spingili ad entrare! c’insegna la parabola evangelica (Luc. 15, 23). Il fatto stesso che Cristo ha reso possibile, mediante il ministero dei sacerdoti, di moltiplicare questo benedetto pane eucaristico, ch’è Lui stesso, l’Emmanuele, il Dio con noi che accompagna gli uomini per tutti i loro sentieri, e tutti chiama con voce pentecostale alla sua unica Chiesa, non rende forse evidente alla più semplice osservazione la sua divina intenzione di comunione universale? Ut omnes unum sint, perché tutti siano una cosa sola! così pregò Cristo in quella notte profetica, dopo l’ultima cena.
E non si aggiunge forse a questa un’altra comunione, quella nel tempo, quella della permanenza di Gesù Cristo con noi, quella della tradizione vivente nei secoli, comunione coerente, fedele, vittoriosa del tempo che passa divorante, perché questo miracolo eucaristico è destinato, come scrive S. Paolo, a durare donec veniat, finché Egli, Cristo, ritorni (1 Cor. 11, 26), il giorno finale della parusia? E proprio così aveva dichiarato Cristo stesso, come ce lo dicono le ultime parole del suo Vangelo: «Ecco Io sono con voi ogni giorno fino alla fine del mondo» (Matth. 28, 20).
A questo punto la nostra meditazione, che indaga sulla comunione polivalente, risultante dal mistero eucaristico, diventa curiosa di calcoli e di statistiche. Se Cristo è il centro, nel sacramento del suo sacrificio, che attrae tutti a Sé (Cfr. Io. 12, 32), viene spontanea la domanda: sono davvero tutti affascinati ed attratti a questa comunione con Lui? Quanti siamo noi compaginati nell’unità di cui Egli ci lasciò la sua testamentaria aspirazione? (Ibid. 17) E siamo veramente in quell’unità di fede, di amore e di vita ch’è nel desiderio sovrano e misericordioso di Gesù, disposti a fare dell’unità interiore della Chiesa e nella Chiesa la nostra aspirazione costitutiva, il nostro programma di vita ecclesiale? è davvero e sempre soffio di Spirito Santo quello che spesso con spinta centrifuga e ambizione individualista rallenta e talora infrange i vincoli della nostra benedetta comunione nel corpo visibile e mistico di Cristo? Non è questo il giorno, il momento di lasciar cadere ogni egoistica riserva alla riconciliazione fraterna, al perdono reciproco, all’unità dell’umile amore? Possiamo noi far giungere ai figli lontani un affettuoso richiamo per il loro ritorno alla mensa spirituale comune? Quale fervore missionario nasce in noi dalla celebrazione di questo Giovedì santo! quale spirito fraterno, quale zelo pastorale, quale proposito d’apostolato! quale speranza di comunione cristiana!
E non avremo noi, in questa sera beata, un pensiero, un saluto, una preghiera ecumenica per tanti fratelli cristiani tuttora da noi separati?
E per tutti gli uomini sofferenti o affamati di verità, di giustizia e di pace, ma con gli occhi annebbiati nella loro insoddisfattta ricerca, non potremo noi ricordare, almeno nella preghiera interiore, l’invito sempre loro rivolto da Colui che solo li può esaudire: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò»? (Matth. 11, 28) La Chiesa è una comunione!

Così sia, così sia, con la nostra cordiale Benedizione.                        

Giovedì Santo: Una vita data liberamente e per amore (Enzo Bianchi)

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31/03/2009

Giovedì Santo: Una vita data liberamente e per amore

ENZO BIANCHI

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Con il tramonto del giovedì santo ha inizio il triduo pasquale, quei giorni “santi”, distinti dagli altri, in cui noi cristiani meditiamo, celebriamo, riviviamo il mistero centrale della nostra fede: Gesù entra nella sua passione, conosce la morte e la sepoltura e il terzo giorno è risuscitato dal Padre nella forza di vita che è lo Spirito santo. Ma questo evento della passione di Gesù era dovuto al caso o a un destino che incombeva su Gesù? Perché Gesù ha conosciuto una condanna, la tortura e la morte violenta? Sono domande cui si deve dare una risposta se si vuole cogliere e conoscere in profondità il senso della passione. Ma sono gli stessi Vangeli che vogliono fornirci questa risposta testimoniando gli eventi di quei giorni pasquali dell’anno 30 della nostra era. Infatti Gesù, proprio per manifestare ai discepoli che entrava nella passione assumendola come un atto, non costretto dal fato e neppure per la casualità di eventi a lui sfavorevoli, anticipa con un mimo, con un gesto simbolico quello che gli sta per succedere e ne svela così il significato. Nella libertà, dunque, Gesù accetta quella fine che va profilandosi: avrebbe potuto fuggire, avrebbe potuto evitare di affrontare quella prova e, certo, ha chiesto al Padre se non fosse possibile questo, ma se Gesù voleva dimorare nella giustizia, se voleva collocarsi dalla parte dei giusti che in un mondo ingiusto sono sempre osteggiati e perseguitati, se voleva restare nella solidarietà con le vittime, gli agnelli della storia, allora doveva accettare quella condanna e quella morte. Sì, liberamente l’ha accettata perché fosse fatta la volontà del Padre: non che il Padre volesse la sua morte, ma la volontà del Padre chiedeva che Gesù restasse nella giustizia, nella carità, nella solidarietà con le vittime.
Ma questa libertà di Gesù era nutrita e accompagnata anche dall’amore: amore per il Padre, certo, ma anche per la verità e la giustizia, amore per noi uomini. Sì, proprio perché fosse manifesto che Gesù deponeva la sua vita liberamente e per amore – non costretto dal destino né da circostanze fortuite – Gesù anticipa con il segno quello che sta per accadergli. A tavola con i suoi discepoli, Gesù compie sul pane e sul vino delle azioni accompagnate dalle sue parole: il suo corpo è spezzato e dato per gli uomini, il suo sangue è versato e dato per tutti. E il segno della sua morte imminente, il sacramento del rendimento di grazie è l’eucaristia che i cristiani dovranno celebrare in memoria di Gesù per essere essi pure coinvolti in quel gesto che è dare la vita per i fratelli, per gli altri: alla fine di quell’azione Gesù esclama “Fate questo in memoria di me!”. Fino al suo ritorno, per tutto il tempo in cui i cristiani vivono nel mondo tra la morte-risurrezione di Gesù e la sua venuta nella gloria, è nella celebrazione di quel gesto del loro Maestro e Signore che i cristiani saranno plasmati come discepoli, parteciperanno alla vita stessa di Cristo, conosceranno che lui, il Signore, è con loro fino alla fine della storia.
Il giovedì santo non può dunque non celebrare questo evento anticipatore della passione di Gesù, narrazione del suo esodo da questo mondo al Padre. Ma la chiesa, significativamente, nella liturgia del giovedì santo sera, oltre a ricordare e vivere questo gesto del suo Signore come in ogni eucaristia, vive e ripete anche un altro gesto di Gesù, quello della lavanda dei piedi. Anche il quarto Vangelo, infatti, ricorda “l’ultima cena di Gesù con i suoi”, quella cena in cui fu svelato il traditore e annunciato il rinnegamento di Pietro e la fuga di tutti gli altri discepoli, quella cena vissuta in occasione dell’ultima pasqua di Gesù a Gerusalemme prima della sua morte. Però, anziché narrare il segno del pane e del vino, Giovanni narra il segno della lavanda! Perché un’azione “altra”, un segno “altro”? Eppure anche il quarto evangelista conosce il racconto dell’eucaristia, la chiesa ormai da decenni celebra questo sacramento. Perché allora la memoria di quest’altro segno? Possiamo ritenere molto probabile che questa scelta del quarto Vangelo sia motivata da un’urgenza avvertita nella chiesa alla fine del I secolo: la celebrazione eucaristica non può essere un rito disgiunto da una prassi coerente di agape, di amore e servizio ai fratelli, poiché proprio questo è il suo significato: dare la vita per i fratelli!
L’evangelista vuole così riattualizzare il messaggio dell’eucaristia ricordando che o essa è servizio reciproco, dono della vita per l’altro, amore fino all’estremo, oppure è solo un rito che appartiene alla “scena” di questo mondo. Potremmo dire che l’intenzione di Giovanni è che il sacramento dell’altare sia letto e vissuto sempre come sacramento del fratello: celebrazione eucaristica con il pane spezzato e il vino offerto e servizio concreto, quotidiano al fratello si richiamano reciprocamente come due facce della partecipazione al mistero pasquale di Cristo. Ecco allora il gesto di Gesù narrato lentamente, quasi al rallentatore, affinché resti ben impresso nella mente del discepolo di ogni tempo: Gesù depone la veste, prende un asciugamano, se lo cinge ai fianchi, verso l’acqua nel catino, lava i piedi, li asciuga, riprende la veste… Sono verbi di azione che rendono plasticamente l’evento della lavanda. E’ un gesto che Gesù compie in piena consapevolezza: Gesù, il Kyrios, il Signore, lava i piedi ai discepoli. Gesto anomalo, gesto paradossale che capovolge i ruoli, gesto scandaloso, come testimonia la reazione di Pietro! Eppure, proprio così Gesù racconta, “evangelizza” Dio, nel senso che rende Dio “buona notizia” per noi.
Due azioni diverse, due mimi sacramentali, due segni che narrano la stessa realtà: Gesù offre la sua vita e, liberamente e per amore, va verso la propria morte facendosi schiavo. Per questo, come al gesto eucaristico, così anche al gesto della lavanda fa seguito il comando: “Come io ho lavato i piedi a voi, così fate anche voi”. E la chiesa, se vuole essere chiesa del Signore, così deve fare in obbedienza al suo mandato: spezzare il pane, offrire il vino, lavare i piedi nell’assemblea dei credenti e nella storia degli uomini.

ENZO BIANCHI
Dare senso al tempo

Pasqua 1971 – Paolo VI (Messaggio Urbi et Orbi)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/messages/urbi_et_orbi/documents/hf_p-vi_mes_19710411_easter-urbi_it.html

MESSAGGIO URBI ET ORBI DI SUA SANTITÀ PAOLO VI

Domenica di Pasqua, 4 aprile 1971

Fratelli e Figli!

che attendete dalle nostre labbra il messaggio pasquale!

Ascoltate: quando Noi, docili al Nostro ministero apostolico, vi parliamo da questa tribuna e guardiamo il panorama del mondo, abbiamo l’impressione d’avere dinanzi la visione d’un mare agitato, e minaccioso di più gravi tempeste. Che cosa l’uomo prepara a se stesso e alla ventura generazione con la troppo frequente e flagrante infedeltà ai sommi principi di solidarietà, di giustizia e di pace, che, edotto dalle terribili esperienze sofferte, egli stesso ha proclamati per la presente e per la futura civiltà? Non vediamo noi nuove guerre e sintomi di altre più paurose, armamenti terrorizzanti, rivoluzioni ricorrenti, lotte sociali istituzionalizzate, contestazioni endemiche, progressiva decadenza morale, insufficiente ricorso professionale e burocratico ai surrogati dell’amore verace, oblio cieco e superbo della religione insopprimibile? La Chiesa stessa non è qua e là percorsa da correnti dottrinali e disciplinari perturbatrici, che indarno si vorrebbero attribuire al soffio autentico dello Spirito vivificante?
Nello stesso tempo noi avvertiamo nell’umanità un bisogno doloroso e, in un certo senso, profetico di speranza, come del respiro per la vita. Senza speranza non si vive. L’attività dell’uomo è maggiormente condizionata dall’attesa del futuro, che dal possesso del presente. L’uomo ha bisogno di finalismo, d’incoraggiamento, di pregustamento di gioia futura. L’entusiasmo, ch’è la molla dell’azione e del rischio, non può sorgere che da speranza forte e serena. Ha bisogno l’uomo d’ottimismo sincero, non illusorio.
Ebbene, uomini amici che ci ascoltate: noi siamo in grado oggi di rivolgere a voi un messaggio di speranza. La causa dell’uomo, non solo non è perduta, ma è in sicuro vantaggio. Le grandi idee, che formano i fari del mondo moderno, non si spegneranno. L’unità del mondo si farà. La dignità della persona umana sarà, non soltanto formalmente, ma realmente riconosciuta. L’intangibilità della vita, dal seno materno all’ultima vecchiaia, avrà comune ed effettivo suffragio. Le indebite disuguaglianze sociali saranno colmate. I rapporti fra i Popoli saranno pacifici, ragionevoli e fraterni. Non l’egoismo, non la prepotenza, non l’indigenza, non la licenza dei costumi, non la ignoranza, non le tante deficienze che ancora caratterizzano e affliggono la società contemporanea, impediranno d’instaurare un vero ordine umano, un bene comune, una civiltà nuova. Non potrà certamente essere abolita la debolezza umana, non l’usura delle mete raggiunte, non il dolore, non il sacrificio, non la morte temporale; ma ogni umana miseria potrà avere assistenza e conforto; anzi conoscerà quel supervalore che il nostro segreto può conferire ad ogni umana decadenza. La speranza non si spegnerà; appunto per la virtù di questo segreto, che oggi per nessuno che ci ascolta è tale. Voi lo intendete: è il segreto, anzi è l’annuncio pasquale.
Ogni speranza si fonda sopra una certezza, sopra una verità, che nel dramma umano non può essere soltanto sperimentale e scientifica. Si fonda la vera speranza, che deve sorreggere l’intrepido cammino dell’uomo, sopra la fede. La quale appunto, nel linguaggio biblico, «è fondamento delle cose sperate» (Hebr. 11, 1); e nella realtà storica è l’avvenimento, è Colui, che oggi noi celebriamo: Gesù risorto!
Non è sogno, non è utopia, non è mito; è realismo evangelico.
E su questo realismo noi credenti fondiamo la nostra concezione della vita, della storia, della civiltà stessa terrena, che la nostra speranza trascende, ma nello stesso tempo spinge alle sue ardite e fidenti conquiste.
Non è questo il momento, nel quale Noi vi dobbiamo spiegare le valide ragioni di questo paradosso, come cioè noi, uomini della speranza trascendente ed eterna, possiamo anche sostenere, e con quale vigore!, le speranze dell’orizzonte temporale e presente: ne ha sapientemente e distesamente parlato il Concilio (Cfr. Gaudium et Spes). Ma è questo il momento in cui la nostra voce si fa eco di quella del vincitore, Cristo Signore: «Abbiate fiducia, Io ho vinto il mondo» (Io. 16, 33), e di quella dell’interprete evangelista: «Questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede» (Io. 5, 4); intendendo qui per mondo tutto ciò che di caduco e di perverso ha la scena naturale dell’umana esistenza.
Noi guardiamo ancora da questo podio, vogliamo dire dall’altezza apostolica del nostro umile ministero, il panorama che si apre al nostro sguardo, e vediamo voi, uomini che lavorate e soffrite, voi che tendete ogni sforzo per guidare la società verso la giustizia e la pace, voi giovani avidi di autenticità e di dedizione, voi innumerevoli schiere di gente buona ed onesta, che dà senso, in silenzio, con la preghiera e con l’opera, con la fedeltà e con il sacrificio alla propria giornata nel tempo, voi sofferenti e disillusi d’un benessere ormai tramontato, e soprattutto voi, credenti con noi nel Cristo risorto e a Lui consacrati; e allora il nostro animo si riempie di gaudio e di speranza, e a tutti annuncia: «Siate felici nel Signore, sempre; ancora vi ripeto, siate felici!» (Phil. 4, 4). Cristo è risorto! Alleluia!

Venerdì Santo : Buona notizia per i peccatori – Enzo Bianchi

dal sito:

http://www.smsd.it/pls/smsd/consultazione.mostra_pagina?rifi=guest&rifp=guest&id_pagina=580

Venerdì Santo  

Buona notizia per i peccatori – Enzo Bianchi

Giorno severo è il Venerdì santo per i cristiani, ricorrenza percepita come l’”antifesta”, giorno ancora capace di isolare tragicamente la passione e la morte di Gesù rispetto alla sua resurrezione. Quando i cristiani vanno al loro Signore, sempre sono ricondotti all’unico evento della passione-morte-resurrezione, ma in questo giorno è la passione culminata nella morte che è meditata, pensata, celebrata: è la croce che domina con la sua ombra la liturgia e che con il suo imporsi rimanda alla resurrezione solo come speranza, come attesa. Singolarità della fede cristiana l’avere come annuncio centrale il Signore crocifisso e individuare nella crocifissione di Gesù di Nazaret il racconto più epifanico di Dio. Cosa ricordano i cristiani ogni venerdì santo?
Ricordano che il venerdì 7 aprile dell’anno 30 della nostra era a Gerusalemme, città santa e cuore della fede ebraica, Gesù di Nazaret – un rabbi e profeta della Galilea che aveva destato attorno a sé un movimento e che trascinava dietro di sé una piccola comunità itinerante composta di una dozzina di uomini e alcune donne – viene arrestato, condannato e messo a morte mediante il supplizio della crocifissione.
Storicamente si può dire che Gesù è stato arrestato su iniziativa di alcuni capi dei sacerdoti, la ierocrazia di Gerusalemme, a motivo di gesti compiuti e parole pronunciate: alcuni tratti messianici del suo agire, l’appassionata cacciata dei venditori dal tempio, la polemica profetica contro gli uomini religiosi, in particolare i sadducei. Catturato di notte nella valle del Cedron da un pugno di guardie del tempio, fu trascinato presso il Gran Sacerdote alla presenza del quale avvenne un confronto che permise di formulare accuse precise da presentare al governatore romano, l’unico cui spettava il potere di emettere una condanna capitale e di disporne l’esecuzione. Va detto chiaramente che non ci fu un autentico processo formale e che la parte del sinedrio, riunitasi nella notte, quasi certamente non era in grado di deliberare in situazione legale. Gesù viene comunque consegnato a Pilato, il quale, con alcune sedute e procedimenti che paiono un vero e proprio processo, decide di condannarlo con altri malfattori, dopo averlo fatto flagellare. Misura di sicurezza, tentativo di compiacere il gruppo sacerdotale che glielo aveva consegnato, odio verso chiunque tra i giudei apparisse portatore di un messaggio non omogeneo all’ideologia imperiale? Probabilmente tutte queste ragioni insieme portarono Pilato a decidere per la condanna di quel galileo. Certo Gesù muore in croce, subendo quello che per i romani era un “supplizio crudelissimo e orribile” (Cicerone) e per gli ebrei era, come l’impiccagione, segno di scomunica per l’empio, maledizione del bestemmiatore, come recita la Torah: “Maledetto chiunque è appeso al legno” (Dt 21,23; cf. Gal 3,13).
Gesù muore nell’infamia della sua nudità, appeso a mezz’aria perché né il cielo né la terra lo vogliono, muore nella vergogna di chi è condannato dal magistero ufficiale della sua religione e dall’autorità civile perché nocivo al bene comune della pòlis! Gesù, a differenza del Battista, non muore come martire, bensì come scomunicato e maledetto, come ama dire Paolo che si vanta di predicare Gesù crocifisso, scandalo per gli uomini religiosi e follia per i saggi del mondo greco.
La croce, sì la croce è il segno di questa morte nell’infamia di Gesù – “annoverato tra i malfattori”, si compiacciono di annotare gli evangelisti – è il racconto della sua solidarietà con i peccatori, del suo abbassamento fino alla condizione dello schiavo umiliato, “fino alla morte e alla morte di croce”, come testifica Paolo. La croce non deve tuttavia prevalere sul Crocifisso! Non è la croce, infatti, a far grande chi vi è appeso, ma è proprio Gesù che riscatta e dà senso alla croce, in modo che tutti gli uomini che conoscono questa situazione di sofferenza e di vergogna, di ma¬ledizione e di annientamento possano trovare Gesù accanto a loro.
Quello di ogni croce è un enigma, che Gesù rende mistero: in un mondo ingiusto, il giusto può soltanto essere rifiutato, osteggiato, condannato. E una necessitas humana, e Gesù – proprio perché ha voluto “restare giusto”, solidale con le vittime, gli agnelli – ha dovuto conoscere quest’urto dell’ingiustizia del mondo contro di lui. Ma chi sa leggere così la passione e la morte di Gesù è obbligato a comprenderla come una vicenda di gloria per Gesù: gloria di chi ha speso la sua vita per gli uomini, gloria di chi ha amato fino alla fine, gloria di chi muore condannato per aver cercato di narrare che Dio è misericordia, amore. Se c’è un luogo in cui Gesù ha reso Dio “buona notizia”, se lo ha “evangelizzato”, e proprio la croce: buona notizia per tutti i peccatori!
Al venerdì santo i cristiani raccolgono nell’immagine del crocifisso, agnello innocente, tutte le vittime della storia, gli agnelli uccisi dai lupi: i cristiani in questo giorno sono chiamati a imparare a sostenere lo scandalo della croce senza rovesciare le colpe sull’altro, sicuri che dalla croce di ogni giusto si evidenzia una ragione per cui vale la pena dare la vita. Perché solo chi ha una ragione per cui vale la pena dare la vita, ha anche una ragione per cui vale la pena vivere.

 Enzo Bianchi 

Publié dans:FESTE DEL SIGNORE : PASQUA |on 6 avril, 2011 |Pas de commentaires »
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