Archive pour la catégorie 'FESTE DI SAN PIETRO E PAOLO'

Pietro ha superato il sole e Paolo la luna (O.R. 29 giugno 2011)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/148q01.pdf

(OSSERVATORE ROMANO, 29 GIUGNO 2011)

Pietro ha superato il sole e Paolo la luna

«Santi Pietro e Paolo», icona del XVIII secolo (Siria)

vedere l’immagine sul PDF:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/148q01.pdf

di MANUEL NIN

La festa degli apostoli Pietro e Paolo il 29 giugno è celebrata in tutte le Chiese cristiane di oriente e occidente, e in alcune tradizioni orientali è preceduta da un periodo di digiuno (quaresima) dalla durata variabile. Nelle tradizioni liturgiche orientali il giorno successivo sono poi celebrati i dodici apostoli, discepoli del Signore, testimoni della sua risurrezione e predicatori del suo Vangelo nel mondo intero. La tradizione patristica e liturgica siro-occidentale molto spesso congiunge i due apostoli. Così Efrem il Siro, benché nutra una particolare stima per Pietro, li contempla quasi sempre in modo unico. In uno dei suoi inni sulla crocifissione di Cristo infatti egli afferma: «Che l’oriente offra a Cristo una corona con i suoi fiori: Noè, Sem, l’illustre Abramo, i magi benedetti e la stella. L’o ccidente offra due corone sfavillanti, il cui profumo si è diffuso ovunque. L’occidente nel quale tramontò la coppia di astri, i due apostoli sepolti che vi fanno sfavillare raggi mai tramontati. Ecco Simone ha superato il sole e l’Apostolo ha eclissato la luna».Nell’ufficiatura vespertina sirooccidentale troviamo un sedro — composizione liturgica anonima in prosa poetica sulla festa — che costituisce una lode a Pietro e Paolo.

Sin dall’inizio, dà a Pietro il titolo di «capo degli apostoli» e a Paolo quello di «vaso di elezione» (Atti degli apostoli, 9, 15); quindi li paragona a «colonne forti» su cui la Chiesa viene edificata: «A te la lode, Cristo Dio nostro, il cui regno si espande nel cielo e nella terra, che hai innalzato nella tua Chiesa due colonne forti e magnifiche, Pietro il capo degli apostoli e Paolo vaso di elezione, e hai dato loro il tuo aiuto affinché ti imitino nel dare la propria vita per le loro pecore spirituali». Il testo sottolinea come la scelta degli apostoli da parte di Cristo è per loro un dono di sapienza, un passaggio, quasi una conversione, dall’ignoranza alla conoscenza. Il sedro descrive poi la santità di Pietro, primo nella confessione della fede, esempio di pentimento dopo il tradimento: «Tra i tuoi discepoli tu hai collocato un fondamento e un capo: Pietro, sublime nella perfezione. A lui tu hai rivelato per primo i divini insegnamenti e i misteri, e lo hai costituito modello ed esempio dei peccatori che si pentono. Essendo il capo e primo dei suoi fratelli l’hai mandato a Roma, la grande capitale». Viene poi la descrizione del persecutore diventato

apostolo: «Poi ti sei apparso a Paolo che perseguitava i discepoli, l’hai illuminato nel cammino e ne hai fatto un vaso di elezione, riempiendolo di rivelazioni sublimi ed elevate, e hai insegnato a lui i tuoi divini misteri. Ha percorso tutte le strade della terra volando come aquila del volo rapido, e ha riempito il mondo con l’annuncio di vita: ha ammonito re e principi, incoraggiato i deboli e alla fine ha chinato la testa al taglio della spada e ricevuto la corona del martirio assieme a Pietro, capo degli apostoli». Seguono dodici invocazioni che iniziano tutte con la stessa formula: «Pace a voi apostoli Pietro e Paolo, coltivatori e agricoltori zelanti che avete sradicato dalla terra le erbe delle dottrine sbagliate e le spine dell’errore. Pace a voi, Pietro e Paolo, pescatori abili, perché nelle reti del Vangelo avete salvato le anime degli uomini». Cinque altre invocazioni contemplano Pietro e Paolo nel loro ruolo di apostoli, garanti della professione di fede, predicatori della verità della croce di Cristo, annunciatori della fede da Gerusalemme sino ai confini del mondo: «Pace a voi, illustri apo-eserciti del re celeste e garanti dei tesori della sua divinità. Pace a voi, Pietro e Paolo, apostoli scelti, capi che avete fatto ammutolire l’empietà dei re pagani con la testimonianza della verità e dell’autenticità della croce. Pace a voi, Pietro e Paolo, apostoli benedetti, vero oro puro, perché i raggi del vostro insegnamento risplendono per tutta la terra e la illuminano. Pace a voi, Pietro e Paolo, grandi apostoli, predicatori della vera fede che da Gerusalemme avete portato la buona novella a tutto il mondo». Una delle invocazioni ancora li paragona a un grappolo d’uva pressato, con un riferimento al martirio, e il cui vino è annuncio del Vangelo: «Pace a voi, Pietro e Paolo, apostoli virtuosi, grappoli mistici, pressati dagli empi ma il cui vino ha annunciato per tutta la terra il vero Dio, e tutti gli uomini lo hanno adorato». L’ultima invocazione riprende l’immagine di Pietro e Paolo come colonne della Chiesa edificata su di loro: «Pace a voi, Pietro e Paolo, colonne e fondamento della santa Chiesa, perché contro di essa non può niente la forza dell’inferno». 

Giovanni Polo II – Solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo: 1. « Il Signore mi è stato vicino e mi ha dato forza » (2 Tm 4,17).

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/2003/documents/hf_jp-ii_hom_20030629_sts-peter-paul_it.html 

CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Sagrato della Basilica Vaticana
Domenica, 29 giugno 2003

1. « Il Signore mi è stato vicino e mi ha dato forza » (2 Tm 4,17).

Così san Paolo descrive a Timoteo l’esperienza vissuta durante la prigionia romana. Queste parole, tuttavia, si possono riferire all’intera vicenda missionaria dell’Apostolo delle genti, come pure a quella di san Pietro. Lo attesta, nell’odierna liturgia, il brano degli Atti degli Apostoli, che presenta la prodigiosa liberazione di Pietro dal carcere di Erode e da una probabile condanna a morte.
La prima e la seconda Lettura, dunque, mettono in luce il disegno provvidenziale di Dio su questi due Apostoli. Sarà il Signore stesso a condurli al compimento della loro missione, compimento che avrà luogo proprio qui a Roma, dove questi suoi eletti daranno la vita per Lui, fecondando con il loro sangue la Chiesa.
2. « E sono diventati gli amici di Dio » (Antifona d’inizio). Amici di Dio! Il termine ‘amici’ è quanto mai eloquente, se pensiamo che uscì dalla bocca di Gesù durante l’Ultima Cena: « Non vi chiamo più servi – disse – … ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi » (Gv 15,15).
Pietro e Paolo sono ‘amici di Dio’ a titolo singolare, perché hanno bevuto il calice del Signore. Ad entrambi Gesù ha cambiato il nome, nel momento in cui li ha chiamati al suo servizio: a Simone ha dato quello di Cefa, cioè ‘roccia’, da cui Pietro; a Saulo il nome di Paolo, che significa ‘piccolo’. Il Prefazio odierno li pone in parallelo: « Pietro, che per primo confessò la fede nel Cristo, / Paolo, che illuminò le profondità del mistero; / il pescatore di Galilea, / che costituì la prima comunità con i giusti d’Israele, / il maestro e dottore, che annunziò la salvezza a tutte le genti ».
3. « Benedetto il Signore che libera i suoi amici » (Sal. resp.). Se pensiamo alla vocazione e alla storia personale di entrambi gli apostoli Pietro e Paolo, notiamo come la carica apostolica e missionaria sia stata proporzionale alla profondità della loro conversione. Provati dall’esperienza amara della miseria umana sono stati liberati dal Signore.
Grazie all’umiliazione del rinnegamento e al pianto dirotto che lo purificò interiormente, Simone divenne Pietro, cioè la ‘roccia’: rinsaldato dalla forza dello Spirito, egli per tre volte dichiarò a Gesù il suo amore, ricevendone il mandato di pascerne il gregge (cfr Gv 21,15-17).
Analoga fu l’esperienza di Saulo: quel Signore, che lui perseguitava (cfr At 9,5), « lo chiamò con la sua grazia » (Gal 1,15) folgorandolo sulla via di Damasco. Lo liberò così dai suoi pregiudizi, trasformandolo radicalmente, e ne fece « uno strumento eletto » per portare il suo nome a tutte le genti (cfr At 9,15).
Entrambi divennero in tal modo « amici del Signore ».
4. Carissimi e venerati Confratelli Arcivescovi Metropoliti, venuti per ricevere il Pallio, diverse sono le vicende personali di ciascuno, ma tutti siete stati annoverati da Cristo nel numero dei suoi ‘amici’.
Mentre mi accingo ad imporvi questa tradizionale insegna liturgica, che indosserete nelle solenni celebrazioni in segno di comunione con la Sede Apostolica, vi invito a considerarla sempre quale memoria della sublime amicizia di Cristo, che abbiamo l’onore e la gioia di condividere. Nel nome del Signore, fatevi, a vostra volta, ‘amici’ di quanti Iddio vi ha affidato.
Le vostre Sedi episcopali si trovano in diverse zone della Terra: imitando il Buon Pastore, siate vigili e premurosi per ogni vostra Comunità. A loro portate anche il mio cordiale saluto, insieme con l’assicurazione che il Papa prega per tutti, e specialmente per quanti sono sottoposti a dure prove e incontrano maggiori difficoltà.
5. La gioia dell’odierna festa è resa più intensa dalla presenza della delegazione inviata anche quest’anno da Sua Santità Bartolomeo I, Patriarca ecumenico. Essa è presieduta dal venerato Fratello l’Arcivescovo d’America, Dimitrios. Benvenuti, cari e venerati Fratelli! Vi saluto nel nome del Signore e vi chiedo di trasmettere il mio abbraccio di pace all’amato Fratello in Cristo, il Patriarca Bartolomeo.
Lo scambio reciproco di delegazioni, per la festa di sant’Andrea a Costantinopoli e per quella dei santi Pietro e Paolo a Roma, è diventata, col trascorrere del tempo, un segno eloquente del nostro impegno teso a raggiungere la piena unità .
Il Signore, che conosce le nostre debolezze ed esitazioni, ci promette il suo aiuto per superare gli ostacoli che impediscono la concelebrazione dell’unica Eucaristia. Per questo, venerati Fratelli, accogliervi e avervi a fianco in questo solenne incontro liturgico rende più salda la speranza e dà forma concreta a quell’anelito che ci spinge verso la piena comunione.
6. « Con diversi doni hanno edificato l’unica Chiesa » (Prefazio). Quest’affermazione, riferita agli apostoli Pietro e Paolo, sembra mettere in evidenza proprio l’impegno di ricercare con ogni sforzo l’unità, rispondendo all’invito, più volte ripetuto da Gesù nel Cenacolo, « ut unum sint! ».
Quale Vescovo di Roma e Successore di Pietro, rinnovo oggi, nella suggestiva cornice di questa festa, la mia piena disponibilità a porre la mia persona al servizio della comunione tra tutti i discepoli di Cristo. Aiutatemi, carissimi Fratelli e Sorelle, con il sostegno incessante della vostra preghiera. Invocate per me la celeste intercessione di Maria, Madre della Chiesa, e dei santi Apostoli Pietro e Paolo.
Iddio ci conceda di compiere la missione che ci ha affidato, in piena fedeltà sino all’ultimo giorno, per formare nel vincolo della sua carità un cuor solo e un’anima sola (cfr Orazione dopo la Comunione). Amen!

OMELIA DI PAOLO VI: SOLENNITÀ DEI SS. APOSTOLI PIETRO E PAOLO (1977)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1977/documents/hf_p-vi_hom_19770629_it.html

SOLENNITÀ DEI SS. APOSTOLI PIETRO E PAOLO

OMELIA DI PAOLO VI

Mercoledì, 29 giugno 1977

Sospendiamo un momento il rito, com’è saggiamente prescritto, per meditarne, per penetrarne, con qualche pensiero, con una vigilante preghiera, il senso.
Il rito che cosa ci presenta? Ci presenta due personaggi, i due apostoli Pietro e Paolo, ai quali Roma fa risalire le proprie origini cristiane, la propria fede religiosa. Essi sono testimoni; possiamo ad entrambi riferire, sebbene a titolo personale differente, le parole del Signore al gruppo degli apostoli, prima della sua ascensione: «voi mi sarete testimoni …» (Act. 1, 8). A loro è conferita una missione specifica, quella di diffondere un messaggio, quello evangelico, una Parola; una dottrina, una Verità, che «lo Spirito di Verità» direttamente loro insegnerà (Io. 16, 13), con il potere simultaneo di promulgare certi riti, i sacramenti, comunicativi di effetti soprannaturali.
Noi, oggi, solennemente li ricordiamo; e tutto quanto qui è offerto alla nostra immediata sensibilità ci stimola a celebrarne con carattere festivo la memoria storica, veneranda, gloriosa; è la loro festa che noi vogliamo esaltare; e tutto ce ne offre motivo: il ritmo annuale del tempo, che ci ricorda essere questo giorno benedetto legato alla ricorrenza della memoria apostolica, e la nostra presenza nelle basiliche monumentali erette sulle tombe degli Apostoli stessi ravviva così il nostro pensiero sulle loro sante figure che ci è spontaneo ripensare quasi vive fra noi; e poi la storia plurisecolare che fa capo a questi due annunziatori del Vangelo nell’Urbe ci sembra assumere quasi una reale attualità davanti ai nostri occhi lieti e stupiti di contemplarne il panorama; e la pietà infine, donde scaturisce sulle labbra di tutti una qualche orazione per ottenere l’intercessione dei Santi Apostoli, accresce, fino a riempirne i nostri animi, la fiducia della nostra conversazione con loro, S. Pietro e S. Paolo.
Tutto questo è vero, e sta bene. È festa la nostra, e il gaudio festivo non solo ne caratterizza la liturgia, ma lo spirito di chi la vive e la esprime. Lasciamo perciò che questo nostro sforzo di attenzione si risolva innanzi tutto in un sentimento di interiore sicurezza. O, per meglio dire, di fede. Siamo circondati da segni, da stimoli, che valgono a svegliarla, a confortarla. La religione qui assume un accento di gioiosa certezza, che viene a noi propizia nella solitudine spirituale, propria del nostro secolo, nell’assuefazione alla mentalità vacillante e desolante del malinteso soggettivismo, pluralismo lo chiamano, in fatto di religione, il quale concede a ciascuno di pensare alla fede come meglio piace al proprio arbitrio critico, o meglio alla propria fantasia affrancata dall’inequivocabile precisione del dogma cattolico. Qui la fede, riportata alle sue sorgenti apostoliche e all’autorità magistrale che la professa, la difende e la insegna, riacquista la sua obiettiva consistenza, garantita dalla parola originaria di Cristo: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Luc. 10, 16). La personalità del fedele, che accetta, che crede e che cerca di conformare la vita alla propria fede, attinta alla sorgente della Verità trascendente (Gal. 2, 16; 3, 11) si ricompone e diventa forte; forte per asserire, per diffondere questo stupendo complesso di verità, che appunto è la chiave d’interpretazione, di spiegazione superiore del mondo e del destino umano; è l’irradiazione missionaria della fede, è la ragione del programma apostolico della Chiesa. Noi conosciamo il carattere specialissimo dei poteri di evangelizzazione conferiti da Cristo ai suoi discepoli, tra i quali dodici, ch’Egli insignì del titolo di apostoli (Luc. 6, 13), con particolare riguardo a Pietro, pastore dei pastori (Io. 21, 17; Luc. 22, 32; Act. 1, 15; etc.), e con singolare autorità anche a Paolo, come egli scrive di sé: «positus sum ego praedicator et apostolus . . . doctor gentium in fide et veritate» (1 Tim. 2, 7; Rom. 15, 16; cfr. JOURNET, L’Eglise du Verbe Incarné, I, 180 ss.).
Noi conosciamo come non solo il nome, ma il ministero altresì dei due massimi Apostoli sia legato a Roma (confronta la lettera di S. Paolo ai Romani e la sua prigionia a Roma – Act. 28), e come la controversia circa la tomba di S. Pietro sia felicemente conclusa per rivendicarne la sede e la storia precisamente nelle fondamenta della basilica, che appunto ci accoglie dove il Principe degli Apostoli ebbe la sua sepoltura e il suo michelangiolesco mausoleo.
E certamente è a tutti noto come la storia della religione cattolica cioè della Chiesa abbia in questa Basilica il suo centro locale e spirituale. Noi possiamo qui ripetere con sempre commovente convinzione e quasi con sensibile conferma la parola di S. Ambrogio: «ubi Petrus, ibi Ecclesia». La ripeteremo questa riassuntiva parola per ritrovare nella memoria apostolica la virtù di cui oggi ha bisogno la Chiesa che vive e che soffre. La promessa che Gesù Cristo stesso ebbe per i suoi due Apostoli di predilezione: «Io ho pregato per Te», Pietro (Luc. 22, 32); e a riguardo di Paolo: «costui è per me uno strumento eletto per portare davanti ai popoli, ai re, e ai figli d’Israele il mio nome . . .» (Act. 9, 15), ancora fa garanzia anche per noi, bisognosi come siamo di fortezza, nella fede, nell’unità, nella carità. È promessa, è conforto per noi che dagli Apostoli deriviamo la natura e l’urgenza del nostro mandato apostolico; è invito, è messaggio che non dobbiamo portare al nostro tempo, ai nostri fratelli, predisposti forse dallo stesso spirito di vertigine che li travolge ad arrendersi alla nostra fortuna apostolica.

Così sia, così sia, con la nostra Benedizione!

Filippesi 2,17-30 (l’ho diviso in due parti, seguito sotto)

dal sito:  

http://www.parrocchiadibazzano.it/catechesi/scuolabiblica/filippesi2-4.pdf

Filippesi 2,17-30

17-18 « Anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, gioisco e me ne rallegro con tutti voi. Allo stesso modo anche voi gioite e rallegratevi con me ».

« Anche se io ». Più che di una ipotesi si tratta di una luce profetica. E in tutti i casi coglie una verità sostanziale: l’apostolo è « versato/effuso/sparso », in un certo senso « perduto ». E’ il mistero della piccolezza, della croce, del seme caduto per terra: porta frutto soltanto se muore. Andando alla tipologia sacrificale dell’Antico Testamento, certamente è più importante l’offerta sacrificale (agnello/vita della comunità) che la libagione (olio/apostolo), ma l’offerta è « gradita a Dio » quando c’è la libagione, cioè quel piccolo dono che fa sì che l’offerta, la liturgia sia completa e perfetta. « Sacrificio della vostra fede ». Non significa che credere, aver fede (cioè la vita secondo il vangelo) è sacrificio, è cosa faticosa (anche questo), ma che la fede è un « sacrificio », è una « offerta ». In realtà, l’apostolo chiama questo atteggiamento: liturgia, « liturgia della vostra fede »! Nella lettera ai Romani specifica la sostanza del sacrificio proponendoci il « culto secondo lo Spirito »e dice: « Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rm 12,1ss). Si tratta, nella novità iniziata da Cristo stesso (Ebrei 10,5ss), di offrire [« mettere a disposizione » (parastese) di Dio] i nostri corpi (vita). Questo cosa significa in pratica? Significa non conformarsi alla mentalità di questo secolo, ma trasformarsi in un rinnovamento della mente per discernere la volontà di Dio. E la volontà di Dio mira a questo: fare ciò che è buono (tante cose o opere sono buone!), a lui gradito (è qualcosa di più!), perfetto (è la perfezione/completezza dell’amore: siate perfetti/misericordiosi come il Padre vostro celeste). La « sostanza » quindi del sacrificio è una vita secondo il vangelo. L’apostolo, coadiuvando con il dono della sua vita la pienezza del sacrificio/amore che la comunità è richiesta di vivere, si rallegra e chiede che la comunità si rallegri con lui. « Dio ama chi dona con gioia » (2 Cor 9,7). Tutto questo ha il suo inizio e il suo compimento nella Messa. Nell’offerta del corpo di Cristo, noi che siamo il suo corpo, siamo offerti con lui. E non possiamo non esserlo. Non si tratta infatti di un gesto di generosità o di scelta eroica, ma semplicemente di verità e di autenticità: con Cristo io sono quel corpo (già) offerto. La nostra stessa morte nel Signore (verrà come verrà) è già inclusa come »offerta » nel Battesimo e nella Eucaristia.

19-24 « Ho speranza nel Signore Gesù di potervi inviare presto Timoteo, per esser anch’io confortato nel ricevere vostre notizie. Infatti, non ho nessuno d’animo uguale al suo e che sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre, perché tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. Ma voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il vangelo con me, come un figlio serve il padre. Spero quindi di mandarvelo presto, non appena avrò visto chiaro nella mia situazione. Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò anch’io di persona » . Più volte Paolo sottolinea i legami tra lui e la comunità e il bisogno di sapere come vanno le cose nel Signore. Il conforto di Paolo è uno « star bene d’animo », un poter respirare (eupsicho). E’ tale il suo legame con la comunità che egli sta bene solo quando sa in quale modo la comunità cammina. Sembra quasi una simbiosi, un respirare assieme. « Ora viviamo, se rimanete saldi nel Signore » (1 Tes 3,8). Per questo manda Timoteo, perché questi condivide i sentimenti e gli atteggiamenti di Paolo, cioè prende sinceramente a cuore ciò che riguarda i Filippesi. Non tutti fanno così. Tutti cercano i propri interessi (le proprie cose) e non quelli di Cristo. Forse si riferisce al fatto che tutti cercano una propria salvezza, un « fare per sé » e costruiscono attorno a sé (e non a Cristo) una chiesa a loro immagine: costi quel che costi, anche la divisione nella comunità (vedi 2,3). Così facendo non dimostrano sollecitudine e amore per la comunità. E’ l’atteggiamento opposto a quello di Cristo, il quale si è abbassato…(2,5ss). Conoscete la prova da lui data. In che consiste? Ha servito il vangelo in una comunione profonda con me, da figlio a padre. Si è « approvati (si supera la prova) » solo se si vive nel servizio per il vangelo, in comunione filiale con la Chiesa, che l’apostolo rappresenta. Ma non sarà sufficiente mandare Timoteo, Paolo stesso andrà. Tutto però e nelle mani di Dio! (« ho fiducia nel Signore« ). 25-30 « Per il momento ho creduto necessario mandarvi Epafrodìto, questo nostro fratello che è anche mio compagno di lavoro e di lotta, vostro inviato per sovvenire alle mie necessità; lo mando perché aveva grande desiderio di rivedere voi tutti e si preoccupava perché eravate a conoscenza della sua malattia. È stato grave, infatti, e vicino alla morte. Ma Dio gli ha usato misericordia, e non a lui solo ma anche a me, perché non avessi dolore su dolore. L’ho mandato quindi con tanta premura perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più preoccupato. Accoglietelo dunque nel Signore con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui; perché ha rasentato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita, per sostituirvi nel servizio presso di me » Epafrodito (4,18) mandato dalla comunità di Filippi ad Efeso per recare una aiuto concreto (colletta) a Paolo, ora viene rimandato a Filippi. E’ chiamato: fratello (a motivo della stessa fede); compagno di lavoro (per la stessa opera della predicazione del vangelo); compagno d’armi (a motivo del soffrire per Cristo); apostolo vostro (mandato dalla comunità: è bello notare che è la comunità che manda); soccorritore (liturgo) delle mie necessità. Spesso l’aiuto al prossimo, specie ai poveri, è chiamato « liturgia ». In 2 Corinzi 9, 12 si parla di « servizio della liturgia » e si intende l’aiuto al fratello povero (di Gerusalemme). E’ un modo di dire inconsueto (per noi) ma molto illuminante: a ricordarci che la liturgia (che significa forse opera di popolo) si esprime a livello di rendimento di grazie (eucaristia) e a livello del suo riflesso in una vita fraterna. Colui che è « liturgo di Cristo Gesù esercitando il servizio sacro del vangelo di Dio » (Rm 15,16) lo è anche dei poveri. Quanti gradi di partecipazione, di comunione al vangelo si aprono per i discepoli del Signore! (1,5). Aveva grande desiderio di voi tutti ed era triste/mesto perché eravate a conoscenza della sua malattia. E’ stato infatti malato, vicino alla morte. Gioia e tristezza si comunicano e stanno assieme, poiché siamo un solo corpo. Ma Dio gli ha usato misericordia, e non solo a lui ma anche a me perché non avessi tristezza su tristezza. La salute e la malattia, la vita e la morte sono dentro alla misericordia di Dio: « Chi ci separerà dall’amore di Cristo? » (Rm 8,35). Lo mando con tanta premura perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più triste. Leggiamo Giovanni 16,22s: « Voi ora siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia ». Il vederci di nuovo dà gioia. Ma cosa significa « di nuovo »? Che ci vediamo una « seconda volta’, oppure anche un vedere « in modo nuovo e vero »? Accoglietelo dunque nel Signore con ogni gioia e abbiate grande stima verso persone come lui: ha rasentato la morte per l’opera (per compiere l’opera) di Cristo, avendo rischiato la vita per sostituirvi nel servizio presso di me. Secondo una immagine sportiva del tempo, Epafrodito viene paragonato ad un « lottatore dei giochi », a uno cioè che sa di avere come esito anche la morte! E questo lo ha fatto come apostolo dei Filippesi nel servizio (liturgia) di Paolo. Si è fatto vero rappresentante, inviato, apostolo della comunità. Ha supplito ciò che mancava al « vostro servizio verso di me », ha portato cioè a compimento il « vostro sevizio ». A questa luce, è utile rileggere Ebrei 13,7: « Ricordatevi dei vostri capi (vostre guide), i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l’esito del loro tenore di vita, imitatene la fede ». L’esito indica proprio un es-ito, una usc-ita. Il modo di vivere evangelico è un « es-ito », un qualcosa di diverso rispetto e che sfugge al modo di vivere terreno, un modo di viver che si attua nella conformità al vangelo, fino al vero es-ito che è il martirio o la morte per il Signore (vera novità). Di queste guide bisogna « ricordarsi », fare memoria. Come? Imitandone la fede.3,1-14

Per il resto, fratelli miei, state lieti nel Signore. A me non pesa e a voi è utile che vi scriva le stesse cose (1)

- Il « rallegratevi nel Signore » può sembrare un saluto, in realtà è un nuovo vigoroso avvio che avrà ancora un’altra ripresa verso la fine (4,4). La gioia « nel Signore » è la gioia che soltanto il Signore può dare e che si esperimenta nel « vedere » il Signore risorto (Gv 16,22s), nell’esperimentarlo comerisorto e vittorioso sulla potenza della morte. E’ quindi una gioia che nessuno ci potrà togliere, nemmeno la morte (elargitrice soltanto di amarezza!). Ma è anche la gioia che si esperimenta « nel Signore », vivendo cioè la vita nuova, semplicemente la vita cristiana. Si traduce nell’accoglierci come fratelli (2,29). ® La gioia! Il motivo della gioia sarà ulteriormente sviluppato al capitolo 4. – Scrivendo la lettera, Paolo, non fa esercizio letterario, ma fa opera di apostolo: annuncia il vangelo. Pertanto non gli è di peso « scrivere », perché scrivere è « predicare », cioè annunciare e custodire il vangelo. D’altra parte, per i Filippesi, accogliere la lettera (cioè la predicazione del vangelo) e sentire « queste cose » è utile, o meglio « dà certezza e sicurezza » (cfr. Lc 1,4). ® Quale rapporto c’è oggi tra la predicazione, la catechesi, la teologia ecc. e la Scrittura? « Queste cose ». Le ammonizioni precedenti? Certo, ma anche quanto Paolo sta per dire, e cioè: « Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere! Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne, sebbene io possa vantarmi anche nella carne. Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge » (2-6)

- Tre volte viene ripetuto: guardatevi, state attenti! L’ammonimento risuona spesso nella predicazione di Gesù e degli apostoli (At 20,28ss). Guardarsi da chi? Dai cani, dai cattivi operai, dalla mutilazione. Non si vuole indicare tre generi di persone, ma sempre le stesse: sono quei giudei che ricercano la salvezza nella circoncisione (qui chiamata « mutilazione ») e non nella fede in Cristo. Polemicamente Paolo dice: quando la circoncisione pretende di dare la salvezza allora diviene « mutilazione » e « taglia » dalla salvezza in Cristo. [Paolo infatti non ha nulla da obiettare alla circoncisione in quanto tale: lui era circonciso; è lui che fece circoncidere Timoteo (At 16,3)]. Il problema vero è « da dove » viene la salvezza. La sintesi più chiara la dona Pietro stesso: « Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati [noi giudei circoncisi] e nello stesso modo anche loro [pagani credenti in Gesù] » (At 15,11). ® Quand’è che siamo cattivi operai? – Siamo noi la circoncisione. Chi sono i circoncisi, cioè quelli che appartengono al popolo che Dio ha chiamato e salvato? Sono coloro (sia giudei già circoncisi, sia pagani credenti) che « rendono il culto mossi dallo Spirito ». La vita intera infatti deve farsi culto e venerazione a Dio, ma questo è possibile soltanto « nello Spirito di Dio », cioè avendo creduto e pertanto ricevuto lo Spirito di Dio. Il culto procede dalla fede in Cristo: « Credi a me donna… i veri adoratori adorano Dio in spirito e verità » (Gv 4,21ss). Sono coloro che « si gloriano in Cristo Gesù e non nella carne ». L’accostamento tra Cristo e carne fa capire la abissale sproporzione tra le due vie. Si tratta di due sistemi. Il sistema di Cristo è la via dell’abbassamento, della piccolezza, della obbedienza al Padre fino alla morte di croce. A questo movimento corrisponde l’esaltazione da parte di Dio (2,5-11). Il sistema della carne è la via di una vita che pretende di autosalvarsi, cioè di piacere a Dio con le proprie forze (« carne » qui significa la propria forza): è la via dell’orgoglio umano (etico e religioso). Il cristiano trova il suo « vanto » e quindi la sua sicurezza in Cristo, e vivendo in Cristo compie quelle opere buone che « Dio ha

preparato perché noi le facciamo ». Anzi noi stessi « siamo sua opera » (Ef 2,10). Le opere buone sono risposta ad un dono: l’amore di Dio manifestato a noi nella croce di Cristo. E’ nello Spirito che noi possiamo e dobbiamo operare. – Paolo, « nella carne » (sue prestazioni etiche e religiose), ha di che vantarsi. Infatti, quanto a popolo è ebreo; quanto alla Legge è fariseo; quanto allo zelo è persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dalla osservanza della Legge è irreprensibile. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. (7-11). – Il guadagno è un « prezzo aggiunto » all’opera compiuta. E Paolo poteva vantare un grandissimo guadagno « a motivo della carne ». – Ma ora, « attraverso (a motivo di) Cristo », quello stesso guadagno si fa « perdita »; anzi tutto viene considerato perdita « attraverso la sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore; attraverso lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura ». L’espressione « attraverso » vuole indicare non primariamente la scelta o la intenzione di Paolo, ma la scelta e la intenzione di Cristo. E’ come che dica: è lui che mi ha conosciuto ed è lui che mi ha acquistato, per questo ho considerato tutto come « perdita »…- Perché io guadagni Cristo. Non è in contrasto con quanto detto prima. Guadagnato da Cristo, io lo debbo guadagnare; trovato da Cristo, io lo debbo trovare. Dono e impegno, sempre!

- Per essere trovato in lui. Significa: essere e vivere in lui.

- Non con una mia giustizia, derivante dalla Legge. Quell’essere giusti secondo la Legge, dà diritto al guadagno. Infatti la giustizia è « mia » e quindi ho diritto al guadagno. [Quale guadagno? Si può guadagnare la salvezza con le opere della legge? Romani 3,20 dice di no!] – Ma con quella che viene dalla fede in Cristo. E’ Dio stesso che ci fa giusti. Ma in che modo? Mandando a noi suo Figlio, l’unico giusto. Dio mi fa giusto per la fede, l’affidamento a lui. – Per conoscere lui… Paolo spiega cosa significa « conoscenza del Signore ». Non è un fatto intellettuale, o devozionistico, o magico… – Ma è esperienza della « potenza della sua risurrezione ». La risurrezione di Gesù, col dono del suo Spirito, pone in noi la potenza della risurrezione, cioè della vita nuova di Cristo (Ef 1,19). – E’ l’esperienza, la comunione delle sue sofferenze che ci conformano alla sua morte… La fede dunque è quell’affidamento a Gesù, tale che la sua vita diviene la nostra vita, la sua giustizia diviene la nostra giustizia, la sua risurrezione diviene la nostra risurrezione ora, e quella dai morti nell’ultimo giorno. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù (12-14). – Tutta questa novità di vita non si è ancora compiuta definitivamente e io non sono maturo, perfetto: non sono giunto alla maturità di Cristo, che è maturità personale ed ecclesiale (Ef 4,11-16). Mi sforzo per raggiungere tale mèta o tale maturità in Cristo, poiché io stesso sono stato raggiunto, preso da e sotto Cristo. Ritorna sempre questo processo: sono stato preso e allora mi sforzo di prendere, sono stato trovato e allora cerco. In questo modo ciò che prendo, ciò che trovo, ciò che divento è frutto della fede che mi fa essere « in Cristo » e ottenere la sua giustizia. – Non ritengo di averla raggiunta. Una cosa sola (faccio): dimentico le cose del passato, (cioè la mia giustizia) e sono proteso alle cose che mi stanno davanti, (cioè la giustizia che viene da Dio). Corro verso la mèta, al premio che è la chiamata di lassù, di Dio in Cristo Gesù. Per noi, il « premio » non è qualcosa di diverso dalla chiamata. La chiamata infatti svela e dona tutto l’amore di Dio per noi. Occorre però uno « spirito di sapienza e di rivelazione per conoscere qual’ è la speranza della sua chiamata » (Ef 1,18).

FIL 2,17-30 – SEGUITO DELLA PARTE PRECEDENTE

FIL 2,17-30 – SEGUITO DELLA PARTE PRECEDENTE

3,15-4,9
15-16 Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. Intanto, dal punto a cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea.
I “perfetti/maturi” sono semplicemente i cristiani, in quanto uniti al Signore: è una perfezione dono e non conquista. Perfetto è il Padre (Mt 5,48). “Ciò che è perfetto” è la sua volontà (Rm 12,2).“Uomo perfetto” è la Chiesa, in quanto unita al suo Signore, in quanto “suo corpo” con tutti i doni distribuiti dallo Spirito, salda nella fede. Perfetto è l’uomo che vive “secondo la verità nella carità” cercando di crescere verso il Cristo che è “il capo”, cioè il principio della “perfezione” (Ef 4,9-16). E’ l’uomo “spirituale” (animato dallo Spirito) in contrapposizione con l’uomo “psichico/naturale” (1 Cor 2.6.14ss). Si tratta prima di tutto di una perfezione intesa come legame che il Signore stabilisce con noi. La cui risposta (perfezione) è una fede e una carità indissolubilmente unite. Ma la perfezione è anche un cammino mai compiuto: “Sarete perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). Essa comporta un “sentire/pensare/agire” conforme a quello che l’apostolo ha detto sopra. Se il sentire fosse diverso Dio “svelerà”, attraverso l’apostolo stesso, che il modo è sbagliato. 17-19 Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. Perché molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra.L’imitazione di cui parla Paolo è in ordine alla fede in Cristo che salva e agli atteggiamenti profondi che conseguono (1 Tes 1,6-7; 1 Cor 4,16). L’esempio che egli ha dato è l’aver giudicato tutto una perdita per “guadagnare” Cristo dal quale era stato guadagnato. All’incontrario, il suo dolore grande è che molti (sono alcuni suoi fratelli giudei) si comportano da nemici della croce di Cristo. Che significa? Significa che non affidano la loro salvezza alla croce (morte) di Cristo, ma alle loro opere: in particolare alla circoncisione. La loro fine è la perdizione (credono di salvarsi, ma per quella via non saranno salvati); il loro Dio è il ventre (le pratiche alimentari non possono prendere il posto di Dio); e la gloria o il vanto è nella loro “vergogna” (circoncisione). In una parola essi hanno un “sentire/pensare/agire” che li fa appartenere ancora alla terra, nonostante il loro volersi innalzare su di essa. 30-4,3 La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù delpotere che ha di sottomettere a sé tutte le cose. Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi! Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego te pure, mio fedele collaboratore, di aiutarle, poiché hanno combattuto per il vangelo insieme con me, con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita. Cos’è la nostra patria? E’ la nostra cittadinanza: il nostro relazionarci secondo uno statuto costitutivo acquisito che ci fa essere e vivere bene. Questo nuova cittadinanza (che è il vivere secondo il vangelo, vedi 1,27) è “nei cieli”, cioè in Dio: da lui (e non da noi) aspettiamo la salvezza. E’ detto infatti: “da lui aspettiamo anche un salvatore che è il Signore Gesù Cristo”. La salvezza è già donata in Cristo, ma si completerà con la trasformazione del corpo della nostra piccolezza ad immagine del corpo della gloria di lui, secondo l’energia che ha di sottomettere tutte le cose. E questo avverrà nell’ultimo giorno. L’itinerario del cristiano è quello di Cristo stesso. In questa linea si provi a rileggere 2,5-11.
La conclusione dell’apostolo è questa: state saldi così nel Signore! L’esortazione è inclusa tra due termini che qualificano i Filippesi e il rapporto che essi hanno con Paolo: amati e desiderati (da Dio certamente e per questo anche da Paolo). Gioia e corona: che i Filippesi vivano secondo il vangelo è la gioia dell’apostolo, ma anche il titolo che egli potrà presentare a Dio per avere la “corona”, cioè il trionfo con Cristo al suo ritorno (2,16). Esorto Evodia (buon viaggio!) e Sintiche (fortunata!). L’esortazione di Paolo è una “paraclesi”, cioè un ammonimento che fonda la sua forza nello Spirito (paraclito) e nella misericordia di Dio (Rm 12,1). Quanto è stato detto in generale, egli lo applica ai casi concreti: la sua sollecitudine è per ogni persona (questa è la vera correzione!). Forse le due donne non andavano d’accordo (non sarebbe una sorpresa!), ma è meglio intendere che esse stavano “deviando” dalla retta fede: non avevano “lo stesso “sentire/pensare/agire” che era in Paolo e che egli ha raccomandato più sopra. Era quel “pensare uno” che faceva fondamento sulla croce di Cristo (e non nelle opere) e che si manifestava nella umiltà/piccolezza (e non nell’arroganza del comando). Sizigo (compagno di gioco o collega) è pregato di aiutarle, o meglio, di accoglierle (di nuovo?); infatti hanno combattuto per il vangelo. Il combattere per il vangelo o per la fede è l’unica lotta ammessa (1 Tm 6,12; 2 Tm 4,7). E questa “lotta” dà il titolo di “vincitore” (Ap 3,5) per avere il proprio nome nel “libro della vita”. Per l’amore preveniente del Signore tutti siamo già scritti nel “libro della vita”, ma al giudizio finale saranno aperti “i libri” nei quali sono scritte le nostre azioni (Ap 20,12ss). Chi ha lottato e perseverato (ho conservato la fede) starà nel “libro della vita”, e “non sarà cancellato” (Ap 3,5). 4-7 Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù. “Rallegratevi” è un saluto del mondo greco e prepara il congedo. Paolo invece, aggiungendo “nel Signore sempre”, vuol dire che per i cristiani il congedo non c’è: essi saranno uniti nel Signore sempre (vedi anche il saluto di Gesù in Gv 14,27: pace). D’altra parte, “rallegratevi” è anche un ammonimento che segna tutta la lettera. Qui si dà anche la motivazione: il Signore è vicino (ilSignore è con voi, il Signore c’è, il Signore agisce…e il Signore verrà!). Il riflesso concreto dell’esserci del Signore deve apparire a tutti (anche non credenti). E “si manifesta” in due direzioni: verso gli uomini con la affabilità, la bontà, la disposizione benevola, il perdono; e il non angustiarsi (meglio: smettere di angustiarsi, non angustiarsi più). Ma i problemi restano! E allora “si manifesta” anche verso Dio con la nostra preghiera. Come? “Con eucaristia!”. La domanda non è mai provocante e grintosa, ma condita dal “rendimento di grazie” per aver già tutto ricevuto in Cristo. L’effetto di tutto questo è la “pace che viene da Dio” e che sorpassa quello che la ragione può pensare (cioè non è la pace degli uomini). Sarà questa pace di Dio a custodire veramente, profondamente, infallibilmente i cristiani (cuore e pensieri in Cristo Gesù). 8-9 In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi! “Questo pensate, questo attiri la vostra attenzione” (8) e “questo fate” (9). Qual è l’orizzonte del nostro “pensare”? E’ un orizzonte vasto, aperto, accogliente: è un vedere la Sapienza di Dio “riflessa” nella creazione e nella storia (Sap 7,22ss). Qual è l’orizzonte del nostro “fare”? E’ tutto quello che dice riferimento all’apostolo: “Quello che avete imparato, ricevuto, udito e visto in me”. Vale a dire il vangelo come l’apostolo l’ha trasmesso, ma anche come l’ha vissuto. E’ il concetto della “tradizione apostolica”: essa è normativa e ci chiede un “fare” conforme ad essa. E il Dio della pace sarà con voi. La pace è il bene sommo, o la somma di ogni bene che Dio ha promesso e realizzato. Chi permane nel vangelo permanendo nella tradizione apostolica esperimenterà il Dio che comunica la pace, cioè ogni bene, cioè Cristo stesso: egli che è la nostra pace (Ef 2,14).
10-13
Ho provato grande gioia nel Signore, perché finalmente avete fatto rifiorire i vostri sentimenti nei miei riguardi: in realtà li avevate anche prima, ma non ne avete avuta l’occasione. Non dico questo per bisogno, poiché ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione; ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. – Ho provato grande gioia.
La gioia è sempre “nel Signore”. Perché? a) il Signore risorto “è vicino” (4,5); b) “è con te” (Lc 1,28); c) è annunciato (1,18); d) è con noi nella nuova realtà della Chiesa, che è il suo corpo (Col 1,24). Sono la fede e la carità a generare e sostenere la gioia che non si consuma. In questo punto della lettera, il motivo concreto della gioia è il “vostro pensare per me”: un pensare che è “prendersi cura”, secondo i tempi e i momenti (15-16). – Non dico questo spinto dal bisogno. Paolo esperimenta una “mancanza-penuria” che lo mette in una situazione di “bisogno” oggettivo; ma questo non lo porta a giudicare i fratelli o la società, e nemmeno a pretendere aiuto da alcuno. Infatti, “ho imparato”! I veri e autentici atteggiamenti si “imparano” dalle molteplici situazioni della vita e così diventano un vero “sapere” (conoscere/esperimentare/divenire maturo). “Ho imparato” e quindi “so”. Che cosa? So essere “autarchico”, cioè non pretendo nulla dagli altri e mi accontento di quello che ho. C’è una autarchia orgogliosa e sprezzante che trae forza “da sé”; e c’è una autarchia evangelica che trae forza “da colui che dà forza”. – Accetto di (conosco, so ) essere ridotto alla piccolezza (in latino humiliari) e accetto di abbondare (avere più del necessario). Di fatto la vita ora ti toglie, ora ti dà. Sono allenato (iniziato) in ogni circostanza e in ogni modo: poter mangiare (è questa la “sazietà” di cui parla Paolo! Pensiamo che le folle furono “sazie” per aver mangiato… pane e pesce!) e stare senza, abbondare (avere il necessario) e mancare del necessario. Tutto posso in colui che mi dà forza. Paolo intende: a) rivendicare una grande “libertà” da condizionamenti, anzitutto nell’annuncio del vangelo; vuol dire che nessuna situazione lo ha trattenuto o lo tratterrà dall’annuncio. Chi dà forza infatti è il Signore e non gli uomini, o i beni, o le proprie capacità. b) dire inoltre che, non solo il ministero, ma la sua stessa vita (e la vita di ogni cristiano) riceve forza dal Signore. [Confrontare questo stile di vita con lo stoicismo e certe discipline attuali, specie orientali….]. 14-16 Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alla mia tribolazione. Ben sapete proprio voi, Filippesi, che all’inizio della predicazione del vangelo, quando partii dalla Macedonia, nessuna Chiesa aprì con me un conto di dare o di avere, se non voi soli; ed anche a Tessalonica mi avete inviato per due volte il necessario. Non è però il vostro dono che io ricerco, ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio. – Avete fatto bene tuttavia… Il problema vero è quello di prendersi cura del fratello nel momento della sua tribolazione. Paolo non “pretende”, ma i Filippesi hanno fatto bene ad “avere comunione con la tribolazione” di Paolo. E’ una comunione “continuata”: tre volte (quando partì dalla Macedonia e due volte a Tessalonica). -Nessuna chiesa mi aprì un conto di dare e avere. Come a dire, non ho contratto alcun debito pretendendo qualche aiuto. Notiamo anche il termine “chiesa (persone chiamate da)” applicato a piccole realtà sparse nelle varie parti del mondo! Non è il vostro dono che ricerco, ma il frutto che arricchisce il vostro credito. Il linguaggio è quello della economia: ogni investimento ha un frutto. I Filippesi aiutando Paolo hanno investito e così hanno arricchito il loro credito (davanti a Dio!). 18-20
Adesso ho il necessario e anche il superfluo; sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da Epafrodìto, che sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio. Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza in Cristo Gesù. Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen. – Ricevo tutto (ho tutto e… lascio ricevuta!) e abbondo. I doni ricevuti da Epafrodito sono un profumo piacevole (di soavità), un sacrificio gradito, che piace a Dio. Sono tre termini che hanno una valenza sacrificale e liturgica. L’espressione “sacrificio gradito a Dio” suppone che ci siano sacrifici che Dio non gradisce. Quando i sacrifici non sono espressione di un dono totale e sincero, ma nascondono la infedeltà, allora non sono graditi a Dio (Is 1,10ss; Am 5,21ss). Rm 12, 1 dice che i “nostri corpi” sono un sacrificio gradito. I Filippesi hanno offerto prima di tutto se stessi al Signore: i loro doni sono un segno della loro fede/amore. Leggere 2 Corinzi 8,1ss.
- Il mio Dio colmerà ogni vostra necessità.
Il dono che avete fatto a me, in definitiva è fatto a Dio (il “mio” Dio: il Dio che mi ha preso a servizio) ed egli verrà in soccorso a voi che avete bisogno, secondo la sua ricchezza con gloria in Cristo Gesù. La “risposta” di Dio è proporzionata a lui stesso, cioè è la gloria (pienezza di doni) che si ha in Cristo Gesù. C’è come uno scambio di “gloria” tra Dio e noi: Dio dà gloria (peso) a noi e noi gli diamo gloria (a tutto vantaggio nostro!). Questo avviene quando i cristiani “riempiono” l’apostolo, allora Dio “riempie” (glorifica) i cristiani. 21-23
Salutate ciascuno dei santi in Cristo Gesù. Vi salutano i fratelli che sono con me. Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare. La grazia del Signore Gesù Cristo sia con il vostro spirito. “Salutare” non è congedare, ma il modo col quale si continua a stare in comunione anche se distanti: è la manifestazione della unità e del rimanere insieme. E questa unità coglie quattro livelli. a) “Salutate ciascuno dei santi in Cristo”: è l’unità tra gli stessi membri della Chiesa di Filippi; b) “Vi salutano i fratelli che sono con me”: si tratta forse dei collaboratori, che all’inizio della lettera sono chiamati servi. E’ quindi l’unità con la Chiesa apostolica; c) “Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare”: è un’unità nuova, dilatata a chi è entrato nella Chiesa da situazioni diverse e un po’ singolari. Qui si tratta forse dei funzionari imperiali; d) c’è infine un ultimo livello: unità della Chiesa apostolica con noi che riceviamo, oggi, la lettera. Il “saluto” arriva … fino a noi! (Pensiamo anche al saluto che si fa nella Messa). Il saluto è per ciascuno: “il Signore è con te”. Per ciascuno che è “santo in Cristo Gesù”: la santità infatti è comunicata da Cristo Gesù e non è una acquisizione da parte nostra. Si è “santi” solo se si è “santi in Cristo”, cioè se egli ci sceglie e ci fa partecipi della sua santità (che è poi la sua natura divina). Ma qual’è il “contenuto” del saluto? E’ la grazia del Signore Gesù Cristo: il favore, la benevolenza, l’amore gratuito (charis) di Dio Padre manifestato nel Signore Gesù Cristo. Tale dono “è” (non “sia”) con il vostro spirito, cioè con voi nella profondità del vostro essere. La lettera termina come era iniziata (1,2).

29 giugno, San Pietro e Paolo apostoli – Dai Discorsi di san Gregorio Palamas.

dal sito:

http://www.certosini.info/lezion/Santi/29%20giugno%20san%20pietro%20e%20paolo.htm

29 giugno

SANTI PIETRO E PAOLO apostoli
 
Dai Discorsi di san Gregorio Palamas.
 
Homilia 28. PG 151,355-362.
 
Gli apostoli fanno brillare una luce che non conosce mutamento o declino sopra coloro che abitano nella regione delle tenebre, poi li rendono partecipi di questa luce, anzi suoi figli. Cosi ognuno di essi potrà splendere come un sole quando nella sua gloria si manifesterà il Verbo, uomo e Dio, luce sovressenziale.
Tutti questi astri, che oggi sorgono, rallegrano la Chiesa, perché le loro congiunzioni non producono nessuna eclissi, ma accendono una sovrabbondanza di luce. Cristo splende nella sua sfera eccelsa, senza gettare ombra su quelli che ruotano in regioni meno elevate. E tutti questi astri si muovono in piena luce, senza che vi sia alternanza fra il giorno e la notte, o i loro raggi differiscano per luminosità, dal momento che il loro splendore proviene da un’unica fonte.
2 Tutti coloro che fanno parte di Cristo, fonte perenne di luce eterna, hanno il medesimo fulgore e la sua gloriosa luminosità. La congiunzione di questi astri si manifesta cosi agli occhi dei fedeli attraverso un duplice sfavillio.
Satana, il primo ribelle, riuscì a far apostatare Adamo, il primo uomo, il progenitore dell’umanità. Quando dunque Satana vide Dio creare Pietro, il capostipite dei fedeli,
e dirgli: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa 1.( Mt 16,18 ), nella sua malvagità suicida, cercò di tentare Pietro come aveva tentato Adamo.
Colui che è il maligno per eccellenza sapeva che Pietro era dotato d’intelletto e incendiato d’amore per Cristo. Perciò non s’azzardò ad assalirlo di petto, ma con fare sornione lo aggredì di fianco, per spingerlo a violare il suo dovere.
3 Nell’ora della passione il Signore disse ai suoi discepoli:
 Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte2.( Mt 26,31 ). Pietro, incredulo non solo lo contraddice, ma si esalta sopra gli altri, affermando: Anche se tutti si scandalizzassero di te. io non mi scandalizzerò mai.3.( Mt 26,33 )
Dopo l’arresto di Gesù, Pietro, come punito per la sua presunzione, abbandona il Signore più degli altri. Ma più degli altri umiliato, egli avrebbe a suo tempo ritrovato un onore più grande.
Infatti il suo comportamento è ben differente da quello di Adamo. Questi, una volta tentato, era caduto vinto precipitando cosi nella morte, mentre Pietro, dopo essere stato atterrato, riesce a rialzarsi e trionfa sul tentatore.
In che modo Pietro fu vincitore? Rendendosi conto del suo stato, provandone un dolore cocente, effondendosi in lacrime di penitenza, assai preziose per espiare. Il salmo dice infatti: Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi, 4.( Sal 50,19 )
 perché il rincrescimento di avere offeso Dio opera una guarigione irreversibile. E chi semina una preghiera intrisa di pianto, meriterà il perdono intessuto di allegrezza.
4 Possiamo notare che Pietro espiò in modo adeguato il suo rinnegamento, non solo pentendosi e facendo penitenza, ma anche perché l’orgoglio che lo spingeva al protagonismo fu espulso radicalmente dalla sua anima.
Il Signore lo volle dimostrare a tutti quando il terzo giorno risuscitò dai morti, dopo la passione sofferta per noi nella sua carne. Nel vangelo infatti egli dice a Pietro, accennando agli apostoli: Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?5.( Gv 21,15 )
La risposta ci rivela un Pietro umile, davvero convertito. Al Getsemani, senza essere interpellato, si era spontaneamente messo sopra gli altri, dicendo: Anche se tutti si scandalizzassero di te. io non mi scandalizzerò mai.3.( Mt 26,33 )
 Ma dopo la risurrezione, quando Gesù gli domanda se lo ama più degli altri, Pietro risponde di si, sul fatto di amare, ma tralascia di far menzione del grado, limitandosi a dire: Certo, Signore, tu lo sai che ti amo!
5 Gesù disse a Simon Pietro:  »Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? ». Gli rispose: « Certo, Signore, tu lo sai che ti amo ».5.( Gv 21,15 )
Quando Gesù vede che Pietro gli ha conservato l’amore e ha acquistato l’umiltà, da compimento alla sua promessa e gli dice: Pasci i miei agnelli. 5.( Gv 21,15 )
In precedenza, quando il Signore aveva paragonato l’assemblea dei fedeli a una costruzione, aveva promesso a Pietro di costituirlo a fondamento, dicendo: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa 1.( Mt 16,18 ) Nel racconto evangelico della pesca miracolosa, Gesù aveva pure detto a Pietro: D’ora in poi sarai pescatore di uomini. 6.( Lc 5,10 )
 Infine, dopo la risurrezione, Gesù paragona i suoi discepoli ad un gregge e chiede a Pietro di esserne il pastore, affermando: Pasci i miei agnelli. 5.( Gv 21,15 )
Vedete, fratelli, come il Signore arde dal desiderio della nostra salvezza! Non cerca che il nostro amore, in modo da poterci guidare ai pascoli e all’ovile della salvezza. Desideriamo perciò anche noi la salvezza, obbediamo in parole e nei fatti a coloro che devono essere le nostre guide in questo cammino. Basterà che bussiamo alla porta della salvezza e subito si presenterà la guida designata dal nostro Salvatore. Nel suo amore eterno per gli uomini, il Signore stesso sembra non aspettare che la nostra richiesta, anzi la previene e si affretta a presentarci il capo che ci guiderà alla salvezza definitiva.
6 Davanti alla triplice interrogazione del Signore, Pietro è addolorato, perché pensa che Gesù non si fidi di lui.. E’ convinto di amare Gesù e che il Maestro lo sa meglio di lui. Con le spalle al muro e senza via d’uscita, Pietro dichiara il suo affetto e proclama l’onnipotenza del suo interlocutore, dicendo: Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo.7.( Gv 21,17 )
Dopo una simile confessione, Gesù costituisce Pietro pastore, anzi supremo pastore della sua Chiesa e gli promette la forza necessaria per resistere fino alla morte di croce, mentre per l’innanzi Pietro era crollato davanti alle parole di una servetta.
Gesù gli afferma: In verità. in verità ti dico: quando eri più giovane – non solo di corpo, ma spiritualmente – ti cingevi la veste da solo. e andavi dove volevi. ossia seguivi i tuoi impulsi e vivevi secondo i tuoi desideri naturali. Ma quando sarai vecchio – quando cioè sarai pervenuto anche alla maturità dello spirito – tenderai le tue mani. E queste ultime parole alludono alla morte di croce; il verbo tendere è alla forma attiva, per specificare che Pietro si lascerà crocifiggere di sua libera volontà.
7 Tenderai le tue mani,, e un altro ti cingerà la veste cioè ti fortificherà – e ti porterà dove tu non vuoi.8.( Gv 21,18 )
Il testo da un lato segnala che la nostra natura non vuole dissolversi nella morte per l’istinto congenito verso la vita, e d’altro canto il martirio di Pietro oltrepassa ampiamente le sue forze naturali. Il succo delle parole del Signore è questo: « A causa mia e rafforzato da me, tu sopporterai supplizi che normalmente la natura umana è incapace di assumere ».
Questo è Pietro e assai pochi lo conoscono sotto tale angolatura.
E Paolo, chi è? Chi potrà far conoscere la sua pazienza nel sopportare ogni cosa per Cristo, fino alla morte? La morte, Paolo l’affrontava ogni giorno, pur continuando a vivere. Rammentiamoci di quando ha scritto: Non sono più io che vivo. ma Cristo vive in me. 9.( Gal 2,20 )
Per amore di Cristo, egli considerava tutto come spazzatura, al punto da stimare il futuro come qualcosa di secondario nei confronti di quell’amore. Egli dice infatti: Io sono persuaso che ne morte ne vita, ne angeli ne principati, ne presente ne avvenire, ne potenze, ne altezza ne profondità, ne alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore. 10.( Rm 8,39 )
Pieno di zelo per Dio, Paolo non mirò che a infonderlo anche in noi.
8 Tra gli apostoli, Paolo non è inferiore per gloria al solo Pietro. Considera la sua umiltà quando esclama: lo sono l’infimo degli apostoli. e non sono degno neppure di,essere chiamato apostolo. 11.( 1 Cor 15,9 )
Se Paolo eguaglia Pietro per la fede, lo zelo, l’umiltà .e la carità, perché non ricevette in parte il medesimo premio da parte di Dio che giudica con giustizia e tutto pesa su un’esatta bilancia?
All’uno il Signore dice: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. In ordine all’altro, dichiara ad Anania: Egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli.12.( At 9.15 )Di che nome si tratta? Certamente di quello della Chiesa di Cristo di cui Pietro garantì la costruzione.
Vedete come Pietro e Paolo sono eguali in gloria, come la Chiesa di Cristo riposa sul fondamento di loro due? Ecco perché in questo giorno la Chiesa gli attribuisce una solennità comune, per cui oggi celebriamo una festa in loro onore. 
 

Benedetto XVI: il peggior nemico della Chiesa non è la persecuzione – Omelia per la solennità di Pietro e Paolo

dal sito:

http://www.zenit.org/article-23024?l=italian

Benedetto XVI: il peggior nemico della Chiesa non è la persecuzione

Omelia nella solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 30 giugno 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l’omelia pronunciata questo martedì dal Papa in occasione della solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Patroni di Roma, nell’Eucaristia solenne celebrata nella Basilica vaticana durante la quale è stato imposto il pallio ai nuovi Arcivescovi metropoliti di quest’anno.

* * *

Cari fratelli e sorelle!

I testi biblici di questa Liturgia eucaristica della solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo, nella loro grande ricchezza, mettono in risalto un tema che si potrebbe riassumere così: Dio è vicino ai suoi fedeli servitori e li libera da ogni male, e libera la Chiesa dalle potenze negative. E’ il tema della libertà della Chiesa, che presenta un aspetto storico e un altro più profondamente spirituale.

Questa tematica attraversa tutta l’odierna Liturgia della Parola. La prima e la seconda Lettura parlano, rispettivamente, di san Pietro e di san Paolo sottolineando proprio l’azione liberatrice di Dio nei loro confronti. Specialmente il testo degli Atti degli Apostoli descrive con abbondanza di particolari l’intervento dell’angelo del Signore, che scioglie Pietro dalle catene e lo conduce fuori dal carcere di Gerusalemme, dove lo aveva fatto rinchiudere, sotto stretta sorveglianza, il re Erode (cfr At 12,1-11). Paolo, invece, scrivendo a Timoteo quando ormai sente vicina la fine della vita terrena, ne fa un bilancio consuntivo da cui emerge che il Signore gli è stato sempre vicino, lo ha liberato da tanti pericoli e ancora lo libererà introducendolo nel suo Regno eterno (cfr 2 Tm 4, 6-8.17-18). Il tema è rafforzato dal Salmo responsoriale (Sal 33), e trova un particolare sviluppo anche nel brano evangelico della confessione di Pietro, là dove Cristo promette che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa (cfr Mt 16,18).

Osservando bene si nota, riguardo a questa tematica, una certa progressione. Nella prima Lettura viene narrato un episodio specifico che mostra l’intervento del Signore per liberare Pietro dalla prigione; nella seconda Paolo, sulla base della sua straordinaria esperienza apostolica, si dice convinto che il Signore, che già lo ha liberato « dalla bocca del leone », lo libererà « da ogni male » aprendogli le porte del Cielo; nel Vangelo invece non si parla più dei singoli Apostoli, ma della Chiesa nel suo insieme e della sua sicurezza rispetto alle forze del male, intese in senso ampio e profondo. In tal modo vediamo che la promessa di Gesù – « le potenze degli inferi non prevarranno » sulla Chiesa – comprende sì le esperienze storiche di persecuzione subite da Pietro e da Paolo e dagli altri testimoni del Vangelo, ma va oltre, volendo assicurare la protezione soprattutto contro le minacce di ordine spirituale; secondo quanto Paolo stesso scrive nella Lettera agli Efesini: « La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti » (Ef 6,12).

In effetti, se pensiamo ai due millenni di storia della Chiesa, possiamo osservare che – come aveva preannunciato il Signore Gesù (cfr Mt 10,16-33) – non sono mai mancate per i cristiani le prove, che in alcuni periodi e luoghi hanno assunto il carattere di vere e proprie persecuzioni. Queste, però, malgrado le sofferenze che provocano, non costituiscono il pericolo più grave per la Chiesa. Il danno maggiore, infatti, essa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, appannando la bellezza del suo volto. Questa realtà è attestata già dall’epistolario paolino. La Prima Lettera ai Corinzi, ad esempio, risponde proprio ad alcuni problemi di divisioni, di incoerenze, di infedeltà al Vangelo che minacciano seriamente la Chiesa. Ma anche la Seconda Lettera a Timoteo – di cui abbiamo ascoltato un brano – parla dei pericoli degli « ultimi tempi », identificandoli con atteggiamenti negativi che appartengono al mondo e che possono contagiare la comunità cristiana: egoismo, vanità, orgoglio, attaccamento al denaro, eccetera (cfr 3,1-5). La conclusione dell’Apostolo è rassicurante: gli uomini che operano il male – scrive – « non andranno molto lontano, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti » (3,9). Vi è dunque una garanzia di libertà assicurata da Dio alla Chiesa, libertà sia dai lacci materiali che cercano di impedirne o coartarne la missione, sia dai mali spirituali e morali, che possono intaccarne l’autenticità e la credibilità.

Il tema della libertà della Chiesa, garantita da Cristo a Pietro, ha anche una specifica attinenza con il rito dell’imposizione del Pallio, che oggi rinnoviamo per trentotto Arcivescovi Metropoliti, ai quali rivolgo il mio più cordiale saluto, estendendolo con affetto a quanti hanno voluto accompagnarli in questo pellegrinaggio. La comunione con Pietro e i suoi successori, infatti, è garanzia di libertà per i Pastori della Chiesa e per le stesse Comunità loro affidate. Lo è su entrambi i piani messi in luce nelle riflessioni precedenti. Sul piano storico, l’unione con la Sede Apostolica assicura alle Chiese particolari e alle Conferenze Episcopali la libertà rispetto a poteri locali, nazionali o sovranazionali, che possono in certi casi ostacolare la missione della Chiesa. Inoltre, e più essenzialmente, il ministero petrino è garanzia di libertà nel senso della piena adesione alla verità, all’autentica tradizione, così che il Popolo di Dio sia preservato da errori concernenti la fede e la morale. Il fatto dunque che, ogni anno, i nuovi Metropoliti vengano a Roma a ricevere il Pallio dalle mani del Papa va compreso nel suo significato proprio, come gesto di comunione, e il tema della libertà della Chiesa ce ne offre una chiave di lettura particolarmente importante. Questo appare evidente nel caso di Chiese segnate da persecuzioni, oppure sottoposte a ingerenze politiche o ad altre dure prove. Ma ciò non è meno rilevante nel caso di Comunità che patiscono l’influenza di dottrine fuorvianti, o di tendenze ideologiche e pratiche contrarie al Vangelo. Il Pallio dunque diventa, in questo senso, un pegno di libertà, analogamente al « giogo » di Gesù, che Egli invita a prendere, ciascuno sulle proprie spalle (cfr Mt 11,29-30). Come il comandamento di Cristo – pur esigente – è « dolce e leggero » e, invece di pesare su chi lo porta, lo solleva, così il vincolo con la Sede Apostolica – pur impegnativo – sostiene il Pastore e la porzione di Chiesa affidata alle sue cure, rendendoli più liberi e più forti.

Un’ultima indicazione vorrei trarre dalla Parola di Dio, in particolare dalla promessa di Cristo che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa. Queste parole possono avere anche una significativa valenza ecumenica, dal momento che, come accennavo poc’anzi, uno degli effetti tipici dell’azione del Maligno è proprio la divisione all’interno della Comunità ecclesiale. Le divisioni, infatti, sono sintomi della forza del peccato, che continua ad agire nei membri della Chiesa anche dopo la redenzione. Ma la parola di Cristo è chiara: « Non praevalebunt – non prevarranno » (Mt 16,18). L’unità della Chiesa è radicata nella sua unione con Cristo, e la causa della piena unità dei cristiani – sempre da ricercare e da rinnovare, di generazione in generazione – è pure sostenuta dalla sua preghiera e dalla sua promessa. Nella lotta contro lo spirito del male, Dio ci ha donato in Gesù l’ »Avvocato » difensore, e, dopo la sua Pasqua, « un altro Paraclito » (cfr Gv 14,16), lo Spirito Santo, che rimane con noi per sempre e conduce la Chiesa verso la pienezza della verità (cfr Gv 14,16; 16,13), che è anche la pienezza della carità e dell’unità. Con questi sentimenti di fiduciosa speranza, sono lieto di salutare la Delegazione del Patriarcato di Costantinopoli, che, secondo la bella consuetudine delle visite reciproche, partecipa alle celebrazioni dei Santi Patroni di Roma. Insieme rendiamo grazie a Dio per i progressi nelle relazioni ecumeniche tra cattolici ed ortodossi, e rinnoviamo l’impegno di corrispondere generosamente alla grazia di Dio, che ci conduce alla piena comunione.

Cari amici, saluto cordialmente ciascuno di voi: Signori Cardinali, Fratelli nell’Episcopato, Signori Ambasciatori e Autorità civili, in particolare il Sindaco di Roma, sacerdoti, religiosi e fedeli laici. Vi ringrazio per la vostra presenza. I santi Apostoli Pietro e Paolo vi ottengano di amare sempre più la santa Chiesa, corpo mistico di Cristo Signore e messaggera di unità e di pace per tutti gli uomini. Vi ottengano anche di offrire con letizia per la sua santità e la sua missione le fatiche e le sofferenze sopportate per la fedeltà al Vangelo. La Vergine Maria, Regina degli Apostoli e Madre della Chiesa, vegli sempre su di voi, in particolare sul ministero degli Arcivescovi Metropoliti. Col suo celeste aiuto possiate vivere e agire sempre in quella libertà, che Cristo ci ha guadagnato. Amen.

1234

Une Paroisse virtuelle en F... |
VIENS ECOUTE ET VOIS |
A TOI DE VOIR ... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | De Heilige Koran ... makkel...
| L'IsLaM pOuR tOuS
| islam01