Archive pour la catégorie 'ENCICLICHE (dalle)'

Giovanni Paolo II: «Neanch’io ti condanno»

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20100321

V Domenica di Quaresima – Anno C : Jn 8,1-11
Meditazione del giorno
Giovanni Paolo II
Enciclica « Dives in Misericordia », § 7 – Copyright © Libreria Editrice Vaticana

«Neanch’io ti condanno»

        La redenzione è l’ultima e definitiva rivelazione della santità di Dio, che è la pienezza assoluta della perfezione: pienezza della giustizia e dell’amore, poiché la giustizia si fonda sull’amore, da esso promana e ad esso tende. Nella passione e morte di Cristo – nel fatto che il Padre non risparmiò il suo Figlio, ma «lo trattò da peccato in nostro favore» – si esprime la giustizia assoluta, perché Cristo subisce la passione e la croce a causa dei peccati dell’umanità. Ciò è addirittura una «sovrabbondanza» della giustizia, perché i peccati dell’uomo vengono «compensati» dal sacrificio dell’Uomo-Dio.

        Tuttavia, tale giustizia, che è propriamente giustizia «su misura» di Dio, nasce tutta dall’amore: dall’amore del Padre e del Figlio, e fruttifica tutta nell’amore. Proprio per questo la giustizia divina rivelata nella croce di Cristo è «su misura» di Dio, perché nasce dall’amore e nell’amore si compie, generando frutti di salvezza. La dimensione divina della redenzione non si attua soltanto nel far giustizia del peccato, ma nel restituire all’amore quella forza creativa nell’uomo, grazie alla quale egli ha nuovamente accesso alla pienezza di vita e di santità che proviene da Dio. In tal modo, la redenzione porta in sé la rivelazione della misericordia nella sua pienezza.

        Il mistero pasquale è il vertice di questa rivelazione ed attuazione della misericordia, che è capace di giustificare l’uomo, di ristabilire la giustizia nel senso di quell’ordine salvifico che Dio dal principio aveva voluto nell’uomo e, mediante l’uomo, nel mondo.

Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Ecclesia de Eucharistia, 1: « Io sono il pane della vita »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090802

XVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B : Jn 6,24-35
Meditazione del giorno
Giovanni Paolo II
Lettera Enciclica Ecclesia de Eucharistia, 1

« Io sono il pane della vita »

La Chiesa vive dell’Eucaristia. Questa verità non esprime soltanto un’esperienza quotidiana di fede, ma racchiude in sintesi il nucleo del mistero della Chiesa. Con gioia essa sperimenta in molteplici forme il continuo avverarsi della promessa: « Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,20); ma nella sacra Eucaristia, per la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore, essa gioisce di questa presenza con un’intensità unica. Da quando, con la Pentecoste, la Chiesa, Popolo della Nuova Alleanza, ha cominciato il suo cammino pellegrinante verso la patria celeste, il Divin Sacramento ha continuato a scandire le sue giornate, riempiendole di fiduciosa speranza.

Giustamente il Concilio Vaticano II ha proclamato che il Sacrificio eucaristico è « fonte e apice di tutta la vita cristiana » (LG 11). « Infatti, nella santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che, mediante la sua carne vivificata dallo Spirito Santo e vivificante, dà vita agli uomini » (PO 5). Perciò lo sguardo della Chiesa è continuamente rivolto al suo Signore, presente nel Sacramento dell’Altare, nel quale essa scopre la piena manifestazione del suo immenso amore.

Papa Benedetto XVI, Spe Salvi: « A causa della loro incredulità »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090731

Venerdì della XVII settimana del Tempo Ordinario : Mt 13,54-58
Meditazione del giorno
Papa Benedetto XVI
Enciclica « Spe Salvi », 47 (© Libreria Editrice Vaticana)

« A causa della loro incredulità »

Alcuni teologi recenti sono dell’avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa « come attraverso il fuoco ». È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio.

Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l’amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia.

Papa Benedetto XVI, Spe Salvi 45-46: « A riva »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090730

Giovedì della XVII settimana del Tempo Ordinario : Mt 13,47-53
Meditazione del giorno
Papa Benedetto XVI
Enciclica « Spe Salvi », 45-46

« A riva »

Con la morte, la scelta di vita fatta dall’uomo diventa definitiva – questa sua vita sta davanti al Giudice. La sua scelta, che nel corso dell’intera vita ha preso forma, può avere caratteri diversi. Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all’amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l’odio e hanno calpestato in se stesse l’amore. È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno.

Dall’altra parte possono esserci persone purissime, che si sono lasciate interamente penetrare da Dio e di conseguenza sono totalmente aperte al prossimo – persone, delle quali la comunione con Dio orienta già fin d’ora l’intero essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai sono.

Secondo le nostre esperienze, tuttavia, né l’uno né l’altro è il caso normale dell’esistenza umana. Nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro essenza un’ultima apertura interiore per la verità, per l’amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male… Che cosa avviene di simili individui quando compaiono davanti al Giudice? Tutte le cose sporche che hanno accumulate nella loro vita diverranno forse di colpo irrilevanti?… San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, ci dà un’idea del differente impatto del giudizio di Dio sull’uomo a seconda delle sue condizioni… « Se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco » (3,12-15).

Un’Enciclica che guarda al futuro con il realismo della sapienza cristiana

dal sito:

http://www.zenit.org/article-18887?l=italian

Un’Enciclica che guarda al futuro con il realismo della sapienza cristiana

di Stefano Fontana*


ROMA, martedì, 7 luglio 2009 (ZENIT.org).- L’enciclica sociale Caritas in veritate di Benedetto XVI, presentata stamattina in Vaticano, trasforma la dottrina sociale della Chiesa nientemeno che nel rapporto tra la Chiesa e il Mondo, dato che essa tratta de “lo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità”, dilatando all’estremo il tema dello sviluppo della Populorum progressio di Paolo VI della quale ricorda il quarantesimo anniversario.

E’ quindi una grande enciclica di ampio respiro, perfettamente inserita nel pontificato di Benedetto XVI, che non solo ha fatto dei due termini carità e verità il cuore del suo magistero – essendo essi, secondo lui, il cuore stesso del cristianesimo – , ma ha anche posto nel modo più radicale il tema di “Dio nel mondo”, ossia se il cristianesimo sia solo utile o anche indispensabile alla costruzione di un vero sviluppo umano. Il papa pensa che sia indispensabile e in questa enciclica dice perché.

E’ un’enciclica coraggiosa, quindi, in quanto elimina ogni possibile perplessità sul ruolo pubblico della fede cristiana e sul fatto che da essa derivi una coerente visione della vita, in concorrenza con altre visioni. Il mondo, secondo la Caritas in veritate non è solo da accompagnare nel dialogo e mediante una carità senza verità, ma è da salvare mediante la carità nella verità. Per ottenere questo risultato il papa ha da un lato “riabilitato” Paolo VI e dall’altro ha indicato il punto di vista teologico dal quale la Chiesa deve considerare i fatti sociali. Si tratta di due puntualizzazioni dal grande valore strategico che il cardinale Martino e il vescovo Crepaldi, presentando stamattina l’enciclica in Sala stampa della Santa Sede, hanno astutamente ben evidenziato.

L’intero primo capitolo dell’enciclica è dedicato a Paolo VI, appunto per ricordare la sua Populorum progressio del 1967. Paolo VI non era incerto sul valore della dottrina sociale della Chiesa, come molti hanno detto e continuano a dire, e non ha per nulla ridimensionato l’importanza di una presenza pubblica del cristianesimo nella storia. Anzi, dice Benedetto XVI, egli ha gettato le basi del grande rilancio che di lì a poco avrebbe fatto Giovanni Paolo II. Viene così tolto di mezzo uno dei principali argomenti dei teologi che hanno contestato il presunto carattere ideologico della dottrina sociale della Chiesa. Essendo Paolo VI il papa del Concilio, va da sé che le precisazioni della nuova enciclica riguardano la valutazione di un intero periodo. Queste affermazioni del papa hanno la stessa importanza della condanna dell’ermeneutica della frattura circa il Vaticano II da lui fatta nel dicembre 2005. La Caritas in veritate, infatti, afferma che non esistono due dottrine sociali una preconciliare ed una postconciliare, ma un’unica dottrina sociale della Chiesa. Pio IX o Leone XIII non si erano sbagliati.

Quanto alla visione teologica da cui partire, il papa chiarisce che questa è la fede apostolica e non qualche problema sociologicamente inteso. Insomma la Chiesa non parte “dal mondo” ma dalla fede degli apostoli. Solo così essa può essere utile al mondo. Questa è la prospettiva centrale di tutta l’enciclica e spiega l’insieme delle valutazioni che vi sono contenute. Che lo sviluppo vero non possa tenere separati i temi della giustizia sociale da quelli del rispetto della vita e della famiglia; che non si possa lottare per la salvaguardia della natura dimenticando la superiorità della persona umana nel creato; che l’eugenetica è molto più preoccupante della diminuzione della biodiversità nell’ecosistema; che l’aborto e l’eutanasia corrodono il senso della legge e impediscono all’origine l’accoglienza dei più deboli, rappresentando una ferita alla comunità umana dalle enormi conseguenze di degrado; che l’economia abbia bisogno di gratuità e che questa non si deve aggiungere alla fine o a latere dell’attività economica ma deve essere elemento di solidarietà dall’interno dei processi economici, dato che ormai, tra l’altro, l’attività redistributiva dello Stato è pressoché impossibile. Queste ed altre valutazioni l’enciclica le trae dal Vangelo e mentre con il Vangelo illumina queste realtà – società, economia, politica – le restituisce anche a se stesse, all’autonomia della loro dignità, riscontrando impensate convergenze tra la visione cristiana e i bisogni autentici della società umana. Pensiamo, per esempio, all’economia: la globalizzazione impedisce di fatto agli Stati di organizzare la solidarietà “dopo” la produzione. Bisogna organizzare la solidarietà già dentro la produzione come cerca di fare per esempio, tra mille contraddizioni, il movimento della responsabilità sociale dell’impresa. Qui si incontrano i bisogni concreti dell’economia globalizzata di oggi e le indicazioni della fede cristiana secondo le quali l’economia è sempre un fatto umano e comunitario e quindi la dimensione etica non la riguarda solo “dopo” ma fin dall’inizio.

In questa enciclica per la prima volta vengono trattati in modo sistematico i temi della globalizzazione, del rispetto dell’ambiente, della bioetica e della sua centralità sociale, che nelle precedenti encicliche erano stati solo sfiorati. E’ un’enciclica che guarda decisamente al futuro con il coraggio del realismo della sapienza cristiana. Lo schema Nord-Sud è superato, dice Benedetto XVI, la responsabilità del sottosviluppo non è solo di alcuni ma di tanti, compresi i paesi emergenti e le élites di quelli poveri, talvolta anche le organizzazioni umanitarie e gli organismi internazionali sembrano più interessati al proprio benessere e a quello delle proprie burocrazie che non allo sviluppo dei poveri, il turismo sessuale è sostenuto non solo dai paesi da dove partono i “clienti, ma anche da quelli che lo ospitano, la corruzione la si ritrova in tutta la filiera degli aiuti umanitari, se i paesi occidentali sbagliano a proteggere eccessivamente la proprietà intellettuale specialmente per i farmaci nelle culture dei paesi arretrati ci sono superstizioni e visioni ancestrali che bloccano lo sviluppo, e così via. E’ un’enciclica che condanna le ideologie del passato ed anche quelle nuove: dall’ecologismo al terzomondismo. Essa affronta però soprattutto una ideologia, l’ideologia della tecnica, alla quale è dedicato l’intero capitolo sesto. Dopo il crollo delle ideologie politiche si è consolidata l’ideologia della tecnica, tanto più pericolosa in quanto si alimenta di una cultura relativista, alimentandola a sua volta.

Il punto di vista centrale dell’enciclica è stato riassunto dal vescovo Crepaldi, che l’ha presentata stamane in Vaticano, come la “prevalenza del ricevere sul fare”. E siamo così tornati al problema di fondo: senza Dio gli uomini sono frutto del caso e della necessità e nulla possono ricevere. Ma il mondo – il mercato come la comunità politica – ha bisogno di presupposti che esso stesso non si sa dare. La pretesa cristiana rimane sempre la stessa.

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*Stefano Fontana è Direttore dell’Osservatorio internazionale “Cardinale Van Thuân” sulla Dottrina sociale della Chiesa e consultore del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace

XXXII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO – MERCOLEDÌ 12 NOVEMBRE 2008

XXXII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

MERCOLEDÌ 12 NOVEMBRE 2008

SAN GIOSAFAT – Vescovo e martire (m)

 

MESSA DEL GIORNO

Prima Lettura Tt 3, 1-7
Carissimo, ricorda a tutti di esser sottomessi ai magistrati e alle autorità, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona, di non parlar male di nessuno, di evitare le contese, di esser mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini. Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda.
Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavàcro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna.

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dall’enciclica «Ecclesiam Dei» di Pio XI, papa (AAS 15 [1923] 573-582)

Versò il suo sangue per l’unità della Chiesa
La Chiesa di Dio, per ammirabile provvidenza, fu costituita in modo da riuscire nella pienezza dei tempi come un’immensa famiglia. Essa è destinata ad abbracciare l’universalità del genere umano e perciò, come sappiamo, fu resa divinamente manifesta per mezzo dell’unità ecumenica che è una delle sue note caratteristiche. Cristo, Signor nostro, non si appagò di affidare ai soli apostoli la missione che egli aveva ricevuto dal Padre, quando disse: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28,18-19). Ma volle pure che il collegio apostolico fosse perfettamente uno, con doppio e strettissimo vincolo. Il primo è quello interiore della fede e della carità, che è stata riversata nei cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfr. Rm 5,5). L’altro è quello esterno del governo di uno solo sopra tutti. A Pietro, infatti, fu affidato il primato sugli altri apostoli come a perpetuo principio e visibile fondamento di unità. Ma perché tale unità e concordia si perpetuasse, Iddio, sommamente provvido, la volle consacrare, per così dire, col sigillo della santità e, insieme, del martirio. Un onore così grande è toccato appunto a san Giosafat, arcivescovo di Polock, di rito slavo orientale, che a buon diritto va riconosciuto come gloria e sostegno degli Slavi orientali. Nessuno diede al loro nome una rinomanza maggiore, o provvide meglio alla loro salute di questo loro pastore ed apostolo, specialmente per aver egli versato il proprio sangue per l’unità della santa Chiesa. C’è di più. Sentendosi mosso da ispirazione divina a ristabilire dappertutto la santa unità, comprese che molto avrebbe giovato a ciò il ritenere nell’unione con la Chiesa cattolica il rito orientale slavo e l’istituto monastico basiliano. E parimenti, avendo anzitutto a cuore l’unione dei suoi concittadini con la cattedra di Pietro, cercava da ogni parte argomenti efficaci a promuoverla e a consolidarla, principalmente studiando quei libri liturgici che gli Orientali, e i dissidenti stessi, sono soliti usare secondo le prescrizioni dei santi padri. Premessa una così diligente preparazione, egli si accinse quindi a trattare, con forza e soavità insieme, la causa della restaurazione dell’unità, ottenendo frutti così copiosi da meritare dagli stessi avversari il titolo di «rapitore delle anime».

LODI

Lettura Breve 2 Cor 1, 3-5
Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Ges
ù
Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione.

sulla sapienza, dalla « Fides et Ratio » Lettera Enciclica, Giovanni Paolo II – 1998

sulla sapienza, stralcio dal libretto che ho a casa:

LETTERA ENCICLICA
FIDES ET RATIO
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
CIRCA I RAPPORTI
TRA FEDE E RAGIONE

CAPITOLO II

CREDO UT INTELLEGAM

« Acquista la sapienza, acquista l’intelligenza » (Pro 4, 5) 21-23 San Paolo

21. La conoscenza, per l’Antico Testamento, non si fonda soltanto su una attenta osservazione dell’uomo, del mondo e della storia, ma suppone anche un indispensabile rapporto con la fede e con i contenuti della Rivelazione. Qui si trovano le sfide che il popolo eletto ha dovuto affrontare e a cui ha dato risposta. Riflettendo su questa sua condizione, l’uomo biblico ha scoperto di non potersi comprendere se non come « essere in relazione »: con se stesso, con il popolo, con il mondo e con Dio. Questa apertura al mistero, che gli veniva dalla Rivelazione, è stata alla fine per lui la fonte di una vera conoscenza, che ha permesso alla sua ragione di immettersi in spazi di infinito, ricevendone possibilità di comprensione fino allora insperate. Lo sforzo della ricerca non era esente, per l’Autore sacro, dalla fatica derivante dallo scontro con i limiti della ragione. Lo si avverte, ad esempio, nelle parole con cui il Libro dei Proverbi denuncia la stanchezza dovuta al tentativo di comprendere i misteriosi disegni di Dio (cfr 30, 1-6). Tuttavia, malgrado la fatica, il credente non si arrende. La forza per continuare il suo cammino verso la verità gli viene dalla certezza che Dio lo ha creato come un « esploratore » (cfr Qo 1, 13), la cui missione è di non lasciare nulla di intentato nonostante il continuo ricatto del dubbio. Poggiando su Dio, egli resta proteso, sempre e dovunque, verso ciò che è bello, buono e vero.

22. San Paolo, nel primo capitolo della sua Lettera ai Romani, ci aiuta a meglio apprezzare quanto penetrante sia la riflessione dei Libri Sapienziali. Sviluppando un’argomentazione filosofica con linguaggio popolare, l’Apostolo esprime una profonda verità: attraverso il creato gli « occhi della mente » possono arrivare a conoscere Dio. Egli, infatti, mediante le creature fa intuire alla ragione la sua « potenza » e la sua « divinità » (cfr Rm 1, 20). Alla ragione dell’uomo, quindi, viene riconosciuta una capacità che sembra quasi superare gli stessi suoi limiti naturali: non solo essa non è confinata entro la conoscenza sensoriale, dal momento che può riflettervi sopra criticamente, ma argomentando sui dati dei sensi può anche raggiungere la causa che sta all’origine di ogni realtà sensibile. Con terminologia filosofica potremmo dire che, nell’importante testo paolino, viene affermata la capacità metafisica dell’uomo. Secondo l’Apostolo, nel progetto originario della creazione era prevista la capacità della ragione di oltrepassare agevolmente il dato sensibile per raggiungere l’origine stessa di tutto: il Creatore. A seguito della disobbedienza con la quale l’uomo scelse di porre se stesso in piena e assoluta autonomia rispetto a Colui che lo aveva creato, questa facilità di risalita a Dio creatore è venuta meno. Il Libro della Genesi descrive in maniera plastica questa condizione dell’uomo, quando narra che Dio lo pose nel giardino dell’Eden, al cui centro era situato « l’albero della conoscenza del bene e del male » (2, 17). Il simbolo è chiaro: l’uomo non era in grado di discernere e decidere da sé ciò che era bene e ciò che era male, ma doveva richiamarsi a un principio superiore. La cecità dell’orgoglio illuse i nostri progenitori di essere sovrani e autonomi, e di poter prescindere dalla conoscenza derivante da Dio. Nella loro originaria disobbedienza essi coinvolsero ogni uomo e ogni donna, procurando alla ragione ferite che da allora in poi ne avrebbero ostacolato il cammino verso la piena verità. Ormai la capacità umana di conoscere la verità era offuscata dall’avversione verso Colui che della verità è fonte e origine. E ancora l’Apostolo a rivelare quanto i pensieri degli uomini, a causa del peccato, fossero diventati « vani » e i ragionamenti distorti e orientati al falso (cfr Rm 1, 21-22). Gli occhi della mente non erano ormai più capaci di vedere con chiarezza: progressivamente la ragione è rimasta prigioniera di se stessa. La venuta di Cristo è stata l’evento di salvezza che ha redento la ragione dalla sua debolezza, liberandola dai ceppi in cui essa stessa s’era imprigionata.

23. Il rapporto del cristiano con la filosofia, pertanto, richiede un discernimento radicale. Nel Nuovo Testamento, soprattutto nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con grande chiarezza: la contrapposizione tra « la sapienza di questo mondo » e quella di Dio rivelata in Gesù Cristo. La profondità della sapienza rivelata spezza il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affatto in grado di esprimerla in maniera adeguata. L’inizio della prima Lettera ai Corinzi pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso è l’evento storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell’esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. « Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? » (1 Cor 1, 20), si domanda con enfasi l’Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più possibile la sola sapienza dell’uomo saggio, ma è richiesto un passaggio decisivo verso l’accoglienza di una novità radicale: « Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1 Cor 1, 27-28). La sapienza dell’uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita ad affermare: « Quando sono debole, è allora che sono forte » (2 Cor 12, 10). L’uomo non riesce a comprendere come la morte possa essere fonte di vita e di amore, ma Dio ha scelto per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza proprio ciò che la ragione considera « follia » e « scandalo ». Parlando il linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo raggiunge il culmine del suo insegnamento e del paradosso che vuole esprimere: « Dio ha scelto ciò che nel mondo [...] è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1 Cor 1, 28). Per esprimere la natura della gratuità dell’amore rivelato nella croce di Cristo, l’Apostolo non ha timore di usare il linguaggio più radicale che i filosofi impiegavano nelle loro riflessioni su Dio. La ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza è ciò che san Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di salvezza. La sapienza della Croce, dunque, supera ogni limite culturale che le si voglia imporre e obbliga ad aprirsi all’universalità della verità di cui è portatrice. Quale sfida viene posta alla nostra ragione e quale vantaggio essa ne ricava se vi si arrende! La filosofia, che già da sé è in grado di riconoscere l’incessante trascendersi dell’uomo verso la verità, aiutata dalla fede può aprirsi ad accogliere nella « follia » della Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbrigliandola nelle secche di un loro sistema. Il rapporto fede e filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell’oceano sconfinato della verità. Qui si mostra evidente il confine tra la ragione e la fede, ma diventa anche chiaro lo spazio in cui ambedue si possono incontrare.

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