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La corporeità nel pensiero e nell’arte dell’ebraismo: Tatuaggi sulla carne e nell’anima (O.R. 2010)

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/116q04a1.html

La corporeità nel pensiero e nell’arte dell’ebraismo

Tatuaggi sulla carne e nell’anima

(O.R. 2010)

Il 23 maggio si concluderà a Torino l’ostensione della Sindone. Continua invece fino al 1 ° agosto alla Venaria Reale la mostra – organizzata da Imago Veritatis e curata da Timothy Verdon – « Gesù. Il corpo, il volto nell’arte ». Dal catalogo (Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2010, pagine 336, euro 35) pubblichiamo quasi integralmente il saggio scritto dall’Ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede.

di Mordechay Lewy
La corporeità nell’ebraismo, in contrapposizione alla spiritualità nel cristianesimo, è stata per secoli oggetto di numerose polemiche, conclusesi, a volte, in maniera disastrosa per gli ebrei. Scrivendo questo mio saggio, non è mia intenzione rinfocolare il circolo di polemiche. Al contrario, vorrei far luce su alcuni aspetti che possano ridurre la polarizzazione creatasi nel corso dei secoli. Né il giudaismo né il cristianesimo hanno aderito sempre pienamente alla corporeità o alla spiritualità rispettivamente. Talora troviamo ebrei che elaborano la loro dottrina adottando la filosofia ellenistica, come, per esempio, Filone d’Alessandria, o persino concezioni aristoteliche della vita dopo la morte, come Maimonide. La Qabbalah ebraica ha sviluppato un concetto molto corporeo di Dio, compresa l’idea di reincarnazione dell’anima. La maggior parte dei cristiani hanno inteso Dio quale entità corporea adottando l’idea dell’incarnazione, del Verbo fattosi carne. L’idea della transustanziazione contribuì al culto del Corpus Christi stabilito nel 1264. L’arte cristiana divenne corporea nel momento in cui furono necessari dipinti più naturalistici per diffondere la nuova dottrina. Tuttavia, pur prendendo in prestito gli uni dagli altri, ebrei e cristiani rimasero fedeli ciascuno alla propria verità.
L’alleanza di Dio fu stipulata non soltanto con la nazione ebraica fisicamente presente nel Sinai, ma anche con le future generazioni. L’arca prima, e il tempio, in seguito, erano considerati la dimora di Dio. Dalla distruzione del Secondo tempio, la presenza divina fu dispersa tra il popolo ebraico; nel Talmud vi si fa riferimento col nome di Shekhina. Il testo scritto divenne lo strumento dell’onnipresenza del divino. Le offerte materiali furono sublimate in parole e nelle preghiere quotidiane. Questa idea di onnipresenza divina ben si addice al concetto ebraico di Dio invisibile, privo di corpo o corporeità.
Tra i sommari degli articoli di fede, i tredici principi scritti da Maimonide sono sempre stati oggetto di alta considerazione. I primi tre di essi sono pertinenti:  « Sia esaltato il Dio vivente e sia lodato. Egli esiste e la Sua esistenza non ha limiti di tempo »; « Egli è uno, e non vi è altro unico come la Sua unità. Inscrutabile e infinita è la Sua unità »; « Non ha forma corporea e non è un corpo. Niente può essere paragonato alla Sua santità. Dio è uno, è invisibile e onnipresente e non ha corporeità ».
I principi di Maimonide provocarono una frattura nel mondo rabbinico medievale. Uno dei suoi primi critici, vicino ai circoli cabalistici, fu Rabbi Moses ben Hasdai Taku, che non accettò l’interpretazione allegorica data da Maimonide del linguaggio antropomorfico con cui il testo biblico nel Pentateuco attribuisce a Dio delle voci. Per Rabbi Moses, la potenza di Dio è infinita ed Egli può « ridurre » se stesso, apparire inaspettatamente e allo stesso modo produrre dei suoni o rumori a proprio piacimento. La corrente principale dell’ebraismo continua a considerare Dio invisibile e onnipresente e non ha mai appoggiato idee di reincarnazione dell’anima (Gilgul Neshamot), anzi le ha completamente rigettate. All’emergere dell’impatto della Qabbalah tra il xii e il xiii secolo, l’idea della reincarnazione dell’anima divenne parte del misticismo ebraico.
Il diverso atteggiamento verso l’incarnazione nell’ebraismo e nel cristianesimo ha le proprie radici nella maniera di interpretare la creazione dell’umanità. Di estrema importanza per l’ebraismo era il concetto monista della creatura umana, per cui l’anima e il corpo furono creati come una unità. Il termine ebraico per anima, Nefesh, è quasi sinonimo di uomo e di vita. Essendo una cosa sola, l’uomo porta il proprio corpo nella sua relazione con Dio. Dall’altra parte, Dio conferma questa corporeità, includendo il corpo nella sua alleanza attraverso la circoncisione. Il dualismo ellenistico, tuttavia, ebbe un impatto anche su vari movimenti del giudaismo nel periodo del Secondo tempio. Filone d’Alessandria è considerato il suo principale esponente nella filosofia ebraica. Secondo il suo pensiero il corpo è quasi una prigione dell’anima. Nel Talmud un certo Antonino appare numerose volte mentre dialoga con un certo Rabbi Yehuda, chiaramente il riverito presidente del sinedrio. Ciò riflette una sorta di legittimazione degli scambi di vedute con la filosofia greca. È troppo domandarsi se Antonino rappresenti per caso un imperatore della dinastia degli Antonini, probabilmente persino Marco Aurelio stesso? Alcuni saggi ebrei si sentirono minacciati e si opposero all’impatto ellenistico.
Un pomo della discordia fu la questione della circoncisione. Nel Talmud alcuni saggi presentano la distinzione secondo la quale, dopo la morte, la creatura umana si scompone nelle sue tre parti. L’anima proviene da Dio, il quale (ri)prende ciò che gli appartiene. La sostanza bianca proviene dall’uomo, e di essa sono fatti il cervello e le ossa. La sostanza rossa proviene dalla donna, e di essa sono fatti la pelle, la carne e il sangue. Le parti che hanno origine dall’uomo e dalla donna, dopo la morte, si decompongono. La morte separa il corpo e l’anima temporaneamente sino alla resurrezione. Non v’è descrizione della resurrezione più suggestiva di quella della visione che Ezechiele ebbe delle ossa aride. Gli ebrei adottarono delle usanze funebri finalizzate proprio a predisporre il corpo umano alla resurrezione futura:  l’intero corpo deve essere sepolto lo stesso giorno, e la cremazione non è consentita. Deve essere mantenuta l’integrità del corpo, malgrado la decomposizione mortale, poiché con la resurrezione il corpo tornerà in vita.
Chi non ha visto, dopo ogni attentato suicida, ebrei ortodossi aggirarsi tra le vittime civili israeliane, per raccogliere qualsiasi resto di corpo umano, sparso ovunque, anche lontano dal sito dell’attentato terroristico? Tali sforzi sono giustificati, in effetti, solo se si crede nella resurrezione del corpo nella sua interezza. Ma probabilmente non avrebbero trovato d’accordo Maimonide, molto contestato dai saggi ebrei del suo tempo (1135-1204) e considerato perfino eretico da alcuni, solo perché aveva sostenuto la separazione dell’anima dal corpo dopo la morte.
Non v’è espressione corporea più forte della richiesta di Dio ad Abramo, e a tutta la sua discendenza, di praticare il rito della circoncisione (Brit Mila) sulla loro carne, come segno di alleanza. Un altro vincolo corporeo, ripetuto quotidianamente dagli ebrei osservanti, è quello di legare i filatteri (tefillin) sulla fronte (totafot) e al braccio sinistro, quello vicino al cuore (ot).
Questa è un’ulteriore espressione di corporeità, che comprende la proprietà collettiva di Dio di ciascun individuo ebreo come suo schiavo. Il corpo dell’ebreo maschio porta dei segni permanenti (circoncisione) e segni temporanei (i filatteri legati quotidianamente) quali segni mnemonici, per ricordare la benevolenza di Dio sin dall’esodo dall’Egitto. Ma può essere aggiunto anche un significato antropologico a quei segni corporali. Essi sembrano riflettere l’evoluzione da antichi modelli socio-legali della pratica di marchiare le proprietà. Le antiche culture orientali usavano marchiare la proprietà sui beni, sia che fossero oggetti sia che fossero corpi di animali o corpi umani. Lo stato di schiavitù permanente nelle culture della Mesopotamia era contraddistinto tramite tatuaggio piuttosto che con un marchio a fuoco, ma la Bibbia mal tollerava segni corporei permanenti. Ritengo che i tefillin siano stati introdotti in sostituzione; la proibizione di marchi e tatuaggi aveva come scopo quello di segnare una distinzione tra la nuova religione monoteistica e le culture politeistiche della regione, come ribadiva nuovamente Maimonide nel xiii secolo. La circoncisione tuttavia continuava a essere praticata dagli ebrei nella misura in cui erano usi fare soltanto i popoli egizio e cananeo. Non vi è prova linguistica, o di qualsiasi altro genere, che le culture mesopotamiche praticassero la circoncisione. Pertanto la tradizione che vede nella circoncisione di Abramo un retaggio mesopotamico mi pare dubbia; probabilmente qualcuno aveva interesse a nascondere l’influenza che la cultura egizia ebbe sugli ebrei. L’ellenismo ereditò con molta probabilità il costume babilonese-persiano di rigettare la circoncisione, e sotto l’influsso ellenistico la pratica della circoncisione non fu più seguita da tutti gli ebrei, tanto che non era raro il ripristino del prepuzio. La cultura greco-romana rifiutava la circoncisione, che era vista come una mutilazione della bellezza del corpo.
Le mnemotecniche impiegate nell’antico ebraismo mediante i segni del corpo ebbero un brillante futuro nel cristianesimo medievale. Il Nuovo Testamento aveva prodotto la visione organica della comunità quale corpo in comunione con Gesù. L’idea di Dio (la Parola o Lògos) che diviene carne (che cioè assume forma umana) non era estranea alle tradizione ellenistica, egizia e mesopotamica. Allo stesso tempo la natura divina e umana di Gesù divenne una dottrina vincolante nel primo concilio di Nicea nel 325. I primi cristiani adottarono costumi analoghi a quelli della cultura ebraica, ma a un livello simbolico e non corporeo. L’esempio migliore è il battesimo quale rito d’iniziazione. In maniera analoga alla circoncisione, il battesimo crea un marchio indelebile, ma nell’anima. La contrapposizione tra la corporeità ebraica e la spiritualità cristiana è stata segnata da polemiche tra le due religioni, le più antiche delle quali probabilmente risalgono fino alla Mishna. Rabbi Eliezer Hamodai diceva nelle Massime dei Padri che coloro che cancellano il patto di Abramo « non hanno parte nel mondo che verrà ». Sant’Agostino espresse questa polarizzazione polemica, affermando che i cristiani hanno una comprensione più profonda del significato spirituale, mentre gli ebrei permangono nel regno « inferiore » della carnalità, intesa soltanto nella sua forma fisica e materiale. Ciononostante, la circoncisione era considerata da Agostino come una sorta di sigillo di salvezza. Essa era comunque intesa da Pietro Lombardo come un mero marchio, giacché Abramo era già giustificato attraverso la fede. Basandosi su Agostino, Lombardo considerava la circoncisione sin dal tempo di Abramo come un rimedio contro il peccato originale, ereditato di generazione in generazione attraverso la concupiscenza dei genitori.
Nell’iconografia cristiana sin dal xiii secolo il rito ebraico della circoncisione appare spesso nel ciclo della vita di Gesù, quasi sempre senza allusioni negative. A partire dal xiii secolo i sentimenti religiosi cristiani comprendevano una corporeità emergente seguita dall’arte figurativa. Crebbe di conseguenza il culto dei segni del corpo, nelle forme più svariate, quali la venerazione del Corpus Christi, le cinque piaghe di Gesù, le stimmate di san Francesco o la venerazione delle Arma Christi. La Imitatio Christi divenne l’ideale corporeo della religiosità mistica in epoca tardo-medievale. Il sangue mutò il suo significato normativo, in opposizione a quanto registrato nella Bibbia, nella quale era associato alla vita, alla purità e alla prosperità. La Qabbalah abbracciò valenze differenti e contraddittorie. Sia per i cristiani sia per gli ebrei in epoca medievale il corpo di Dio, e in particolare il suo sangue, venne a trovarsi al centro di un nuovo senso di corporeità; entrambe le culture, come scrive David Biale, condividevano il culto del sangue di Dio.
Non vi è dubbio che ebrei e cristiani nelle città medievali condividevano una corporeità che era il prodotto della coabitazione in un ambiente urbano densamente abitato. Avevano imparato a conoscere i reciproci riti, ma, contendendosi la benevolenza divina, ciò non bastò a ridurre la loro animosità. Ebrei e cristiani spesso « interpretavano » o deridevano vicendevolmente i propri riti, contribuendo entrambi, in questa maniera, ad alimentare un ciclo di polemiche. L’unica differenza era che gli ebrei costituivano una minoranza che non soltanto rischiava la propria vita, ma veniva anche bollata con pregiudizi profondamente radicati.
Considerando la liturgia come linguaggio del corpo in una religione, si potrebbero tracciare delle similitudini e delle differenze tra i gesti corporei ebraici e cristiani e le loro rispettive liturgie. Nell’atto penitenziale all’inizio di ogni messa i fedeli battono per tre volte il pugno della mano destra sulla parte sinistra del petto; lo stesso gesto viene compiuto principalmente dagli ebrei askenaziti nella preghiera quotidiana del Vidui (confessione) per ciascuno dei ventiquattro peccati che vengono enumerati. Non è noto quale religione abbia adottato il gesto per prima, ma esso fu introdotto molto probabilmente nel Medioevo. Quando il rotolo della Torah viene estratto dall’arca santa la comunità in sinagoga si alza in piedi. Allo stesso modo, durante la Liturgia Verbi per la lettura del Vangelo, l’assemblea in chiesa si alza in piedi. Al Vangelo è riservata dignità simile a quella della Torah, entrambi infatti sono esibiti in processione intorno all’Altare o all’Arca Santa rispettivamente. Mentre il Vangelo viene adorato da lontano, gli ebrei cercano la prossimità fisica col rotolo della Torah durante la processione, baciandolo o sfiorandolo con le frange di corde intrecciate (Zizit) poste alle estremità del mantello da preghiera (Tallith). La stessa manifestazione di contatto fisico avviene tra gli ebrei all’inizio e alla fine di ogni lettura di un passo dal rotolo della Torah. Anche la liturgia cristiana ha tuttavia sviluppato una propria genuina espressione di corporeità. Il quadrato di lino bianco sull’altare, sul quale si posano le specie eucaristiche, è chiamato già dal xiv secolo Corporale, poiché esso viene utilizzato per avvolgere il corpo di Cristo durante la liturgia eucaristica. Il segno della croce con le dita su oggetti, sul corpo di qualcuno o in aria creò un’ampia varietà di gesti liturgici. Il barocco spagnolo produsse sculture votive lignee dipinte in maniera così naturalistica da essere chiamate encarnación. Quest’arte post-tridentina diede alla dottrina della Parola divenuta carne un’amplissima visibilità.
Il Pentateuco riflette già un’attitudine iconoclastica, vietando la creazione di immagini. Gli ebrei in seguito svilupparono la capacità di sublimare la corporeità in immaterialità, per esempio, mutando le offerte in preghiere. Parole e scritti canonizzati rafforzavano l’attitudine all’espressione artistica non pittorica. Ne derivarono, come nell’arte islamica, disegni ornamentali e micrografie. L’instaurazione di una cultura quasi priva di immagini sotto il dominio musulmano equivalse a una rottura della tradizione classica greco-romana di espressione pittorica, che aveva dominato il bacino mediterraneo sin dall’antichità. Il cristianesimo andò in altre direzioni, sublimando la spiritualità della Parola nell’incarnazione di Dio attraverso Gesù. A causa di questa corporeità il cristianesimo poté facilmente mutuare modelli di arte pittorica dalla tradizione greco-romana. Sotto l’influsso ellenistico i mosaici nelle sinagoghe della Terrasanta riproducevano rappresentazioni iconografiche di episodi biblici. La ricchezza di immagini bibliche negli affreschi della sinagoga di Doura-Europos, del iii secolo, è unica.
La cultura ellenistica ammetteva le immagini come verità, così come espresso da Filostrato; Platone contrastò la pittura (e i sofisti) nel Fedro, poiché nessuno dei due poteva creare la vita e la verità. A suo parere soltanto l’anima e la sua verità potevano creare la vita. Le riserve platoniche contro la pittura esistono anche nelle tradizioni musulmane degli Hadith. L’ostilità nei confronti delle immagini è stata mantenuta nel complesso da ebrei e musulmani allo stesso modo. Nella sua polemica contro l’approccio iconoclastico Giovanni Damasceno sosteneva che, poiché Gesù era divenuto l’incarnazione della parola divina, poteva essere raffigurato.
Beda il Venerabile tentò di armonizzare Antico e Nuovo Testamento interpretando l’uno come prefigurazione dell’altro. L’emergere della corporeità nell’arte cristiana fu quasi una necessità didattica. Questo approccio di base del cattolicesimo favorevole all’immagine non è identico all’atteggiamento bizantino iconofilo (iconodulo). William Durand (1220-1296) mise in chiaro che « una cosa è adorare un’immagine e un’altra cosa è, attraverso un’immagine, apprendere storicamente che cosa si deve adorare ». I dottori della Chiesa erano ben consapevoli del fatto che, nelle dispute medievali con ebrei e musulmani, il cristianesimo era visto alla stregua di un’idolatria. La principale argomentazione assumeva che, se Gesù fosse stato di sola natura umana, la venerazione della sua immagine sarebbe stata idolatria. Se, invece, Gesù avesse avuto natura divina, sarebbe stato impossibile raffigurarlo. La nuova dottrina della transustanziazione e la venerazione del Corpus Christi necessitavano di una diffusione tra credenti i quali, senza miracoli visibili, avevano difficoltà a comprenderle. Maimonide, nella sua classifica dei cinque tipi di infedeltà, definì il cristiano « colui che ammette che c’è un solo Dio, ma che questi ha un corpo e una forma ».
Il mezzo espressivo meglio preservato nell’arte ebraica medievale è costituito dai manoscritti ebraici miniati di origine askenazita (dell’Europa centro-occidentale). Ciò che colpisce, osservandoli, sono le rappresentazioni figurative di animali e di creature umane. Come si può conciliare questo fenomeno con l’approccio iconoclastico dell’ebraismo? Maimonide scrive nel Mishe Torah:  « È permesso beneficiare di figure realizzate dai gentili per decorazione, ma quelle realizzate per l’adorazione di idoli sono proibite ». L’opinione accettata oggigiorno è che quei manoscritti sono il prodotto della collaborazione fra scribi ebrei e miniatori cristiani. Le creature, spesso bizzarre e distorte, rispondevano essenzialmente alla richiesta da parte dei committenti ebrei di non raffigurare esseri umani. A ogni modo, pur non spingendoci oltre come Ruth Melnikoff, possiamo affermare che gli ebrei, nella loro opposizione alle immagini umane, sembrano chiudere un occhio su queste miniature. Nei manoscritti ebraici di provenienza italiana o spagnola non si trova questo tipo di deliberata deformazione della figura umana. Escludo la possibilità che in questi Paesi venissero ingaggiati pittori ebrei; se consideriamo le norme prescritte da Maimonide nei confronti degli idoli, pittura e scultura non potevano essere una professione per ebrei. Soltanto il processo di assimilazione all’interno di una società gentile, come accadde in parti dell’Europa alla fine del xix secolo, portò un cambiamento radicale. Ci vollero quasi ottocento anni dal tempo di Maimonide perché Chagall potesse creare per la prima volta un’autentica arte figurativa ebraica.

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L’antica tradizione di cercare Dio tra le righe

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L’antica tradizione di cercare Dio tra le righe

di Massimo Giuliani

(7 luglio 2006)

Al di là delle mode superficiali, delle curiosità morbose, delle superstizioni facili, che cosa è realmente la qabbalà? Lo spiega in questo articolo Massimo Giuliani, studioso di ebraismo e professore all’Università di Trento.
Ripulita dalle incrostazioni che lungo i secoli l’hanno trasformata in una superstiziosa mitologia di numeri portafortuna, la qabbalà non è altro che la tradizione mistica del giudaismo che affonda le sue radici nei primi secoli dopo Cristo e che si è forgiata, come noi la conosciamo oggi, tra la Provenza e la Spagna, e poi a Safed in Galilea, tra il XII e il XVI secolo. Il termine ebraico « qabbalà » significa «recezione» nel senso di qualcosa ricevuto e trasmesso per via orale, e dunque «tradizione» della sapienza ebraica, che consiste essenzialmente in commenti esegetici e simbolici del Tanakh, ossia della Bibbia ebraica.
Poiché in ebraico i numeri si esprimono con le 22 consonanti dell’alfabeto, e dato che uno dei metodi dell’esegesi tradizionale ebraica è la ghematria, ossia il computo del valore numerico delle parole onde scoprire nuovi significati scritturistici, è stato facile per i non iniziati a questo metodo confonderlo con un’arte segreta dei numeri, da cui attingere formule semimagiche per ottenere i favori divini. Solo nel corso del XX secolo, anche grazie all’opera storiografica di Gershom Scholem (1897-1982), questa dimensione poco nota della dottrina e dell’esperienza ebraica è stata studiata con metodi scientifici e rivalutata in tutta la sua complessità teologica e antropologica.
In termini più generali, poi, per qabbalà si intende un corpus assai esteso di testi, arrivati a noi per lo più in forma di manoscritti in ebraico e/o in aramaico, che raccoglie le riflessioni e le meditazioni di circoli elitari di studiosi ebrei che avevano come ideale religioso, al pari dei mistici della tradizione cristiana e musulmana, l’unione con Dio (devequt in ebraico), ovvero l’ascesa dell’anima nei «mondi superiori»; ma anche, a differenza del misticismo di ogni altra religione, il desiderio profondo di contribuire in modo attivo alla redenzione del mondo e all’unificazione di Dio stesso. La natura elitaria di questi circoli, almeno fino all’avvento del chassidismo (XVIII secolo) che si propose di popolarizzare l’ideale della devequt, è dovuta al fatto che la conoscenza approfondita di questo corpus letterario-teologico richiede lungo apprendistato di studi sia biblici che talmudici, congiunti solitamente a una non comune pratica ascetica personale.
Tre sono i testi fondamentali, che costituiscono il fondamento del misticismo ebraico. Si ritiene che il più antico, la cui composizione è datata tra il VI e il VII secolo d.C., sia il Sefer Jezirà, ossia il «libro di formazione», di autore ignoto, nel quale si narra di come Dio abbia creato il mondo giocando, se così si può dire, con le lettere dell’alfabeto ebraico attraverso quella che nel Medioevo sarà chiamata ars combinatoria. Tradotta in latino, quest’opera esercitò una grande influenza anche nel mondo cristiano rinascimentale.
Nella Provenza del XII secolo apparve poi un altro testo, destinato ad affascinare il pensiero e la prassi dei mistici ebrei: il Sefer ha-bahir o «libro dell’illuminazione». Scritto in forma di dialogo tra alcuni maestri e i loro discepoli, condensa molte interpretazioni scritturali dove compare, per la prima volta, la dottrina delle dieci sefirot o emanazioni divine, concepite come veri e propri attributi della presenza di Dio nel mondo, e se messe in relazione tra di loro danno forma a una specie di albero, noto come albero sefirotico o albero della vita, una delle « immagini » più diffuse che sintetizzano appunto gli elementi costitutivi della qabbalà.
Un terzo testo fondamentale è il Sefer ha-zohar, o «libro dello splendore», a ragione il più noto e il più lungo, vera summa di commenti mistici sulla Torà, attribuito (per accrescerne l’autorevolezza) al maestro del II secolo Shimon bar Jochaj ma in realtà, come gli storici hanno appurato, compilato agli inizi del XIII secolo nell’ambito del giudaismo castigliano, forse (secondo l’ipotesi di Scholem) da Moshè de Leon di Villadolid.
Lo Zohar, come è chiamato per brevità, contiene un po’ tutte le dottrine del misticismo ebraico dei secoli precedenti, che vengono riorganizzate in un linguaggio esoterico ricco di metafore, tra cui un’immagine divina composta di una parte maschile e una parte femminile in costante desiderio di unificarsi. Nello Zohar non mancano comunque riflessioni sul male, sulla teodicea, sulla reincarnazione delle anime e sui complessi rapporti tra le varie emanazioni o attributi divini.
In questa tradizione mistica – che secondo il pensiero ebraico ortodosso è stata consegnata da Dio, come la Torà, a Mosè sul Monte Sinài – due testi biblici costituiscono dei paradigmi imprescindibili: il primo capitolo della Genesi e il terzo capitolo di Ezechiele. L’incipit della Bibbia dà origine a una riflessione chiamata ma’asè bereshit, oOpera della creazione, mentre la visione del profeta sulla figura del carro divino, che pertanto si chiama ma’asè merkavà o Opera del carro, ispira una spiritualità dell’ascesa; insieme rappresentano due tendenze speculative e due generi letterari, come spiega Giulio Busi nell’introduzione alla miglior antologia sulla qabbalà disponibile oggi in Italia (Mistica ebraica, Einaudi 1999), cui fanno riferimento un po’ tutte le scuole qabbalistiche, quasi a voler indicare una via discendente e una via ascendente per cogliere i segreti divini nascosti nelle Sacre Scritture.
Non deve essere infatti mai dimenticato che questi testi esoterici sono comunque uno sforzo interpretativo, da parte dei maestri del giudaismo, per meglio comprendere la Rivelazione biblica e per compiacere Dio osservando i suoi comandamenti. A questo scopo le dottrine qabbalistiche danno tutte grande importanza al linguaggio e ai suoi elementi costitutivi, ossia all’alfabeto ebraico, che per un mistico contiene già, seppure in nuce, tutti i segreti della Creazione, della Rivelazione e persino della Redenzione, essendo le lettere ebraiche veri ricettacoli della potenza divina. La loro contemplazione è già contemplazione della potenza divina che opera nel cosmo, e la loro conoscenza associa chi ne studia le combinazioni alla stessa creatività di Dio. Questo spiega perché nei secoli passati la qabbalà sia stata così spesso accostata all’alchimia, all’arte della trasformazione dei metalli con il fuoco (altra metafora che ricorre spesso nel corpus mistico ebraico) e alla rigenerazione dell’anima.
Sempre secondo alcuni storici del giudaismo, questa corrente mistica rifiorì nella Catalogna e nella Castiglia del XIII e XIV secolo come reazione al razionalismo di stampo aristotelico tipico della filosofia ebraica ispirata da Maimonide. Che si tratti di una reazione oppure di un germoglio autoctono, che affonda le sue radici nel movimento dei profeti biblici, è storicamente determinante il fatto che, con la cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492, anche la qabbalà emigra dalla penisola iberica verso le altre sponde del Mediterraneo, in particolare nella Grecia e nella Turchia dell’impero ottomano e in Palestina, o meglio in Galilea, nella città di Safed. Qui emergono qabbalisti di prim’ordine, veri e propri filosofi della mistica ebraica, come Joseph Caro (1488-1575), Solomon Alkebez (1505-1584), Moshè Cordovero (1522-1570) e soprattutto Izchaq Luria (1534-1572) che, seppur morto giovane, influì enormemente sul pensiero mistico grazie agli scritti del suo discepolo Chajjim Vital (1542-1620).
A Vital dobbiamo la divulgazione delle idee altamente speculative di Luria, per il quale la creazione del mondo altro non sarebbe che un atto di autorestringimento di Dio, lo tzimtzum, in virtù del quale Dio, che è il Tutto, dovette «restringersi», quasi contrarsi in se stesso, onde far posto al mondo come realtà autonoma e indipendente. Altra famosa teoria qabbalistica di matrice luriana è la concezione che nel mondo esistano qua e là scintille di luce divina, sparse e seminascoste nella materia, precipitate dai «vasi» che le contenevano e che si sarebbero rotti al momento della creazione. Compito dei giusti nella vita è quello di riconoscere queste scintille e di liberarle dalle scorze che le tengono prigioniere, al fine di riunirle all’energia divina.
Per Luria e Vital, in fondo, tutta la mistica ovvero la qabbalà non sarebbe altro che uno sforzo da parte ebraica per riunire le scintille divine sparse nell’universo (forse le anime dei giusti che soffrono) e nell’accelerare così il processo dell’avvento messianico. A queste dottrine si rifece un secolo dopo il falso-messia Shabbataj Zevi, che si appoggiò all’autorità delle dottrine esoteriche per giustificare prima la sua presunta messianicità e poi la sua tragica apostasia (a Costantinopoli per aver salva la vita si convertì all’islam).
Anche il giudaismo italiano diede un contributo significativo allo sviluppo della mistica sia nel periodo medioevale che nell’età moderna. Essendo terra di mezzo tra le comunità di Palestina e quelle della Provenza e della valle del Reno, nell’Italia centro-meridionale fiorirono molte scuole talmudiche aperte alla speculazione mistica.
Tre nomi possono richiamare tale contributo: Menachem Recanati, attivo tra il XIII e il XIV secolo, che lasciò un prezioso commento alle dieci sefirot, che fu studiato nel Rinascimento anche da Giovanni Pico della Mirandola, tra i primi umanisti cristiani a esplorare i testi della qabbalà; Moshè Chajjim Luzzatto (1707-1747), ebreo padovano autore di opere sia qabbalistiche che morali, che fondò anche un circolo di mistici dediti alla lettura continuata dello Zohar e che a motivo di questa frequentazione venne allontanato dall’Italia (si rifugiò prima in Olanda e poi emigrò a sua volta in Galilea); e infine Elia Benamozegh (1823-1900), livornese di origini sefardite, forse l’ultimo grande rabbino italiano che coltivasse la qabbalà e che ne sapesse integrare gli insegnamenti con il tradizionale pensiero talmudico.
Nachmanide, un grande qabbalista sefardita del XIII secolo, afferma che tutta la Torà sarebbe stata data sul Monte Sinài come una sola grande parola, un testo continuato, senza interruzione alcuna. Mosè l’avrebbe però intesa nella forma che noi conosciamo, già suddivisa in libri, sezioni e comandamenti, e la trasmise come Torà scritta. Tuttavia egli la udì anche come un’unica parola, come il Nome completo di Dio «scritto con fuoco nero su fuoco bianco». La qabbalà è ricerca di questo Nome che come un fuoco vibra continuamente nel testo scritto (fuoco nero) non meno che nella sua continua interpretazione orale (fuoco bianco) da parte della comunità che la accoglie; ma è una ricerca che non pretende mai di trovare ciò che cerca, ben consapevole che tutte le nostre parole umane non possono contenere neppure una parte della verità divina, la quale nei testi sacri più che apparire ama nascondersi, appunto per farsi cercare ogni volta come daccapo. Non a caso nella tradizione qabbalistica Dio è chiamato Ein Sof, il Senza Fine. Questo è il messaggio del misticismo ebraico, che non smette fino a oggi di affascinare gli ebrei come i non ebrei.

Massimo Giulian

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 14 février, 2012 |Pas de commentaires »

Riscoprire la sapienza ebraica: Levinas

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=115

Riscoprire la sapienza ebraica: Levinas

sintesi della relazione di Piero Stefani

Verbania Pallanza, 15 febbraio 1997

caratteri qualificanti della sapienza ebraica o giudaica

Mentre per "ebraismo" si intende sia la religione biblica che quella rabbinica e quella attuale, con "giudaismo" si intende soprattutto la religione rabbinica elaborata in epoca postbiblica. Si parlerà soprattutto di sapienza giudaica. 
La sapienza giudaica (la sapienza indica una dimensione che ha a che fare con il mondo umano e pratico) è caratterizzata dall'origine e dal termine. L'origine di questa sapienza è collocata nella rivelazione avvenuta sul monte Sinai, mentre il punto di arrivo è la figura del sapiente. Questa affermazione è illustrata molto bene in un famosissimo testo posto all'inizio della Misnà, chiamato Pirqé 'Avot, cioè capitoli dei Padri, che risale al 250 d.C., che descrive una catena di trasmissione della rivelazione, della parola di Dio che si umanizza: "Mosè ricevette la Torà (la Torà può essere intesa nella sua globalità come l'equivalente della totalità della rivelazione, non tanto come Legge) dal Sinai, la trasmise a Giosuè, Giosuè la trasmise agli anziani, gli anziani la trasmisero ai profeti, i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea. Gli uomini della grande assemblea dicevano tre cose: siate cauti nel giudicare, allevate molti discepoli e fate una siepe attorno alla Torà". 
Sono qui indicate le caratteristiche della sapienza: l'origine, la trasmissione, l'interpretazione, la discussione, la decisione e la messa in pratica. 
Mosè ricevette la rivelazione dal Sinai (non "sul"). Sinai sta per "cieli", cioè Dio (un modo di dire Dio senza nominarlo). 
Mosé ricevette la rivelazione da Dio disceso sul Sinai, da un Dio che rende udibile la propria volontà. L'origine è divina e tutti gli altri anelli della catena sono umani: Mosè, Gosuè, Anziani (cioè i Giudici), Profeti, gli uomini della grande assemblea, cioè i saggi. Anche i profeti sono canali di trasmissione della rivelazione. 
Dopo il punto di partenza unico e globale non ci sono più altre rivelazioni: bisogna solo trasmettere, attuare e applicare quella parola, da parte degli uomini. L'origine divina consente l'umanizzazione della parola, e il termine è il sapiente, che deve interpretare e trasmettere questa parola. Qui sta il significato che il Sinai è oggi. La rivelazione è sempre oggi. 
E vero anche il contrario: quello che dice oggi il sapiente ha lo statuto della rivelazione, era in nuce già nell'origine. È quanto sostiene Lévinas: Se al mondo fossero mancate certe persone certi sensi della Scrittura sarebbero stati per sempre nascosti. 
Questa trasmissione della rivelazione è un processo di umanizzazione, in quanto la parola divina diventa sempre più umana. Sembra un processo di secolarizzazione (niente trascendenza di Dio), impossibile però per il giudaismo, per il quale l'origine divina è sempre presente (il Sinai è oggi). 
La concezione del giudaismo è aprofetica, in quanto non ci sono ulteriori rivelazioni. 
Il punto di arrivo sono gli uomini della grande assemblea, che per il giudaismo sono i prototipi dei rabbini. La grande assemblea, probabilmente mai esistita, era fatta risalire all'epoca di Esdra e Neemia, cioè al periodo successivo al ritorno dall'esilio. Per il giudaismo la rivelazione biblica finisce in quel periodo e tutti i libri che entrano nel canone biblico si finge che siano stati scritti entro quell'epoca. 
Per quanto riguarda i contenuti della rivelazione, nel brano prima letto si fa riferimento alle funzioni proprie dei saggi, i quali facevano i giudici nei tribunali (siate cauti nel giudizio), i maestri nelle scuole (allevate molti discepoli) e determinavano i contenuti dei precetti (fate una siepe attorno alla Torah).
lévinas è un rappresentante della sapienza ebraica?

Lévinas è preoccupato che la voce della bibbia ebraica continui ad essere tuttora ascoltabile. E perché questo avvenga è necessario tradurre in greco la bibbia e dar credito alla tradizionale interpretazione giudaica della bibbia. 
Innanzitutto quindi occorre tradurre in greco la bibbia vale a dire trascrivere la bibbia in categorie filosofiche, in un linguaggio universalizzabile. Ci sono idee che hanno il loro senso originario nel pensiero biblico che devono essere tradotte in un linguaggio universalizzabile, in pensiero. 
Occorre poi prestare attenzione all'esegesi fatta dai rabbini. Lévinas legge le fonti rabbiniche (in particolare il Talmud) in modo filosofico. 
Se una parola ebraica è udibile ancora oggi, lo è perché è passata attraverso l'anello del giudaismo. Solo la tradizione esegetica giudaica tiene aperto un testo, la bibbia, che vive unicamente se interpretato. Lévinas afferma che certi aspetti delle Scritture non si sarebbero mai rivelati se certe persone fossero mancate all'umanità. Noi potremmo dire che se fosse mancato Lévinas sarebbe mancata la possibilità di tradurre in greco certi passi della Scrittura. 
Lévinas non si allontana dall'esegesi biblica sia nell'intendere l'interpretazione del testo non come una semplice riproposizione ma come una sollecitazione perché dal testo emerga ciò che vi è germinalmente, sia nel proporre una umanizzazione del testo, parlando poco di Dio e molto degli uomini. La trascendenza di Dio è un suo ritrarsi per far emergere l'uomo. 
Certo Lévinas non è un rabbino devoto, ma un filosofo.
lévinas e l'etica del non uccidere

Ritiene equivalenti il comando di non uccidere e il comando di amare il prossimo tuo come te stesso. 
La posizione della sapienza rabbinica e quella di Lévinas sono confrontabili, ma con una profonda diversità. 
Afferma Lévinas: "L'Esodo è anche il libro dei dieci comandamenti, tra i quali io considero radicale il non uccidere. Non uccidere non vuol dire affatto non uccidere con un coltello, ma non uccidere in nessuno degli altri modi che esistono per uccidere. Esso significa piuttosto: ama il prossimo tuo". 
Il motivo dell'equivalenza è ritrovato nel modo di rappresentare le tavole della legge nel mondo ebraico. Mentre i cattolici le raffigurano con tre comandamenti sulla prima (i rapporti con Dio) e sette sulla seconda (i rapporti tra gli uomini), gli ebrei con cinque sull'una e cinque sull'altra, mettendo in relazione, seguendo la tradizione, il primo di una tavola, che per gli ebrei è "Io sono il Signore Dio tuo", con il primo della seconda tavola: "Non uccidere". 
Nella tradizione rabbinica si sostiene la corrispondenza in base all'eteronomia del precetto (il precetto non è valido in sé, non si fonda sulla ragione ma in Dio) e in base al teomorfismo (l'uomo è immagine di Dio e pertanto chi uccide l'uomo distrugge l'immagine di Dio). 
Lévinas interpreta il comando dell' ama il prossimo tuo come te stesso come ama il prossimo tuo. È te stesso. Dal punto di vista biblico non c'è alcun appiglio per eliminare il "come". 
La lettura giudaica della bibbia tiene conto di tutte e tre le frasi del versetto: "Non vendicarti e non serbar rancore contro i figli del tuo popolo. Ama (porta amore al) il tuo prossimo: è come te stesso. Io sono il Signore". 
Il verbo amare poi dovrebbe meglio tradursi con portare amore, che indica più che il sentimento l'azione. 
Ora chi è il prossimo? Nel mondo giudaico tradizionale il prossimo è il coebreo, il connazionale, l'appartenente al tuo gruppo. La pariteticità del come te stesso non vale nel caso dell'essere disprezzato e maledetto (l'uomo immagine di Dio). 
Per Buber prossimo è colui che di fatto ti è dato di incontrare e con cui tu instauri un rapporto di effettivo aiuto. 
Per Buber perché sia possibile l'opera di amore del prossimo è necessario prima purificare l'interiorità: solo così ci si può aprire verso il tu. (rapporto io-tu) 
Al contrario per Lévinas il punto di partenza è l'esteriorità. (rapporto tu-io). 
Per Buber il "non uccidere" è una conseguenza dell'amore del prossimo. Se invece il punto di partenza è l'esteriorità, allora il non uccidere diventa il fondamento dell'amore del prossimo. 
È il primato del volto. Chi mi comanda di non uccidere è la debolezza che è fuori, è il debole che può essere ucciso. L'altro, in quanto volto, non è la mia immagine dell'altro (sarebbe sempre un io verso un tu). L'altro è volto nel momento in cui non è riconducibile a me. L'altro, in quanto debolezza, diventa imperativo,mi pone di fronte alla responsabilità che ho nei suoi confronti. 
Il fondamento dell'amore del prossimo non è né Dio, con un suo comando esplicito, né il mio io interiore rivolto verso l'altro, ma l'altro in quanto volto, in quanto uccidibile. È la debolezza dell'altro che comanda la nostra forza. 
Non è Dio che comanda, ma il volto dell'altro. Certamente c'è Dio, ma in quanto non lo si sa. 
Nella tradizione cristiana del giudizio finale in Matteo (qualunque cosa avete fatto a uno di questi l'avete fatto a me) non è un invito a far bene perché la si fa a Gesù, come solitamente si dice. Il giudizio non è sul sapere o sul non sapere, ma sul fare o sul non fare. 
Il non uccidere è assumere la voce imperativa della debolezza, la responsabilità nei confronti dell'altro. 
Per Lévinas c'è un'altra dimensione da tenere in considerazione. 
La relazione con l'altro è insufficiente, perché il tema biblico non riguarda solo l'amore, ma anche la giustizia, e quindi il problema della relazione a tre. Qui il problema cambia, perché la mia responsabilità nei confronti dell'altro non è più infinita, se l'altro diventa oppressore del terzo. 
Pur avendo una visione opposta a quella di Hobbes (nella relazione a due vige l'homo hominis lupus, e per interesse pongo dei limiti alla mia libertà con un'autorità che faccia rispettare le regole che limitano le libertà di ciascuno) anche Lévinas giunge alla conclusione della necessità del limitare non la libertà, ma la responsabilità di ciascuno. Nella collettività non posso fare tutto quello che l'altro mi chiede, perché devo tener conto del terzo. A questo livello non è sempre illegittimo l'uso della violenza. Lo stesso comando del "non uccidere" può diventare nel rapporto a tre un comando che mi chiede di uccidere, se l'altro fa violenza e uccide il terzo. Il terzo diventa l'elemento più debole. 
Questa frase lo dice in modo egregio, mirabile: 
"Il vero problema per noi occidentali non consiste tanto nel rifiutare la violenza sempre e comunque in ogni situazione, quanto nell'interrogarci su una lotta contro la violenza che senza languire nella non resistenza al male possa evitare l'istituzione della violenza a partire da questa stessa lotta". Cioè l'esercizio della giustizia deve diventare fondazione di una ingiustizia permanente, della legittimazione della violenza. 
Questo è un pensiero non violento, che legittima anche una resistenza violenta, in certe situazioni.
Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 10 février, 2012 |Pas de commentaires »

Le leggi di Noè e il Dialogo Ebraico-Cristiano – Rav Riccardo Di Segni

http://www.ritornoallatorah.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=66:noe&catid=41:dialogoebraicocristiano&Itemid=72

Le leggi di Noè e il Dialogo Ebraico-Cristiano – Rav Riccardo Di Segni

Riporto di seguito le affermazioni del Rabbino Riccardo Di Segni riguardo le Leggi universali di Noè e il dialogo Ebraico-Cristiano.

2. Veniamo ora al nostro tema, che è quello di Noè. C’è veramente da chiedersi in che modo abbia a che fare con l’universalismo e con i rapporti tra ebrei e cristiani. Potremmo dire con una battuta che, a prima vista, l’unica cosa di universale nella storia di Noè è il diluvio. La Bibbia racconta l’umanità era arrivata ad un tale punto di degenerazione che D. decise di distruggerla completamente, salvando soltanto una famiglia, quella di Noè, che si era distinto rispetto ai contemporanei per un comportamento giusto e corretto. Mentre tutti perivano sommersi da un diluvio, Noè si salvò con i suoi e con ogni specie animale dentro un’arca. L’intera umanità discende dunque dalla famiglia di Noè; per questo tutte le genti vengono chiamate, nel linguaggio rabbinico, Noachidi, figli di Noè. L’interpretazione rabbinica si è a lungo soffermata a riflettere sui messaggi che il testo biblico manda sulla persona che diventa il nostro comune patriarca e sulla storia della sua salvezza. Di Noè il testo dice, presentandolo, che era giusto e integro nella sua generazione e che procedeva con Dio. Il fatto che il testo precisi che era giusto nella sua generazione, fa pensare che se la generazione fosse stata moralmente un po’ al di sopra, forse Noè non avrebbe fatto quella figura di giusto eccezionale. Ma almeno ai suoi tempi lo era. Quanto a quella che potremmo definire la sua « religiosità », il testo specifica che « Noè procedeva con D. ». Per capire il valore e il limite di quest’ espressione dobbiamo fare un salto in avanti. Di Abramo, il giusto che compare dieci generazioni dopo Noè, il testo dice che ricevette il comando divino di procedere davanti a Lui. Un conto è andare insieme, un conto è precedere. Praticamente Noè faceva il suo dovere, seguiva onestamente le regole, ma non si spingeva oltre con slanci d’entusiasmo. E ancora, sempre a confronto con Abramo: quando gli viene annunciato che l’umanità sarà distrutta e che per scampare dovrà costruirsi un’arca, Noè reagisce come sempre, obbedendo senza fiatare. Abramo, quando gli viene annunciata la distruzione imminente di Sodoma e Gomorra, intraprende un’estenuante trattativa con D. cercando di salvare le città peccatrici. Ci sono persone normali, e ci sono persone speciali. Abramo è il prototipo delle persone speciali. Noè di quelle oneste ma comuni e senza slanci. Il dato notevole è che secondo la Bibbia è bastato essere comune e senza entusiasmi particolari per salvarsi e fondare una nuova intera umanità.
3. E’ noto che la dottrina religiosa ebraica costruisce intorno al nome di Noè e dei suoi discendenti una dottrina di doppia legge e doppia salvezza. L’umanità intera non può sfuggire al giogo della legge divina, che si esprime in almeno sette principi essenziali. Questi principi sono espressi in tradizioni orali rabbiniche che si basano, con maggiore o minore evidenza, su riferimenti scritturali. Nella famiglia umana esiste però un gruppo particolare, quello dei figli d’Israele, anch’essi originariamente Noachidi, ma che in virtù della discendenza da Giacobbe –Israele, nipote e prosecutore di Abramo, si distinguono in quanto devono osservare una normativa molto più estesa, fatta anche di altre regole, in parte religiose cerimoniali. E’ una condizione che potremmo definire sacerdotale e di servizio: « un regno di sacerdoti e un popolo distinto ». Il fatto che gli uni siano sacerdoti con rigori e leggi speciali, e gli altri non lo siano, non preclude agli altri i premi e la salvezza. La grande novità di questa dottrina rabbinica è che non è necessario sottoporsi alla dottrina speciale del sacerdozio Israelita per ottenere i premi futuri che sono promessi agli Israeliti. Universalismo ebraico significa due strade parallele verso la salvezza; è sufficiente che ognuno segua la strada in cui si trova dal momento della sua nascita e ne rispetti le relative norme. Il Noachide, che segue le sue sette regole e ne riconosce l’origine divina, viene definito « il fervente delle nazioni del mondo » e ha parte nel mondo futuro.
4. Queste regole sono: il divieto di ogni culto estraneo a quello monoteistico, il divieto della bestemmia, l’obbligo di costituire tribunali, il divieto dell’omicidio, del furto, dell’adulterio e dell’incesto, il divieto di mangiare parti strappate ad animali in vita. Rappresentano il rispetto imposto sulla creazione, sugli altri uomini e in rapporto con D. Se trasferiamo questi principi dalla teoria alla realtà possiamo vedere che la parte sociale delle sette leggi è patrimonio comune di tutta l’umanità civile; che la normativa sessuale è più o meno condivisa nelle legislazioni civile, ed è certamente è prescritta in quelle religiose; che la norma di rispetto degli animali è raramente trasgredita. La bestemmia è certamente proibita nei sistemi religiosi. Quanto al culto monoteistico, apparentemente non ci sono dubbi per le grandi religioni. Per i cristiani in particolare, poi, il fatto che riconoscano sacralità alla Bibbia vale come riconoscimento dell’origine divina delle norme. Arrivati a questo punto parrebbe che non c’è alcun dubbio sul fatto che ognuno per la sua strada, cristiani ed ebrei osservanti, si possa arrivare alla salvezza promessa. Detto questo, potremmo aver finito, ma le cose non stanno proprio così. E sarà bene spiegarlo, perché i chiarimenti su questo problema illuminano sulle difficoltà attuali del confronto ebraico cristiano e danno gli strumenti per definire gli scenari futuri.
5. E’ necessario a questo punto un chiarimento sulla teologia ebraica, che sul tema del monoteismo e di come sia vissuto dal cristianesimo si dibatte in un dilemma essenziale. Si discute se la divinità di Gesù possa essere compatibile, per un non ebreo (perchè per l’ebreo non lo è assolutamente), con l’idea monoteistica. La risposta a questa domanda nella teologia ebraica, come c’era da aspettarselo, non è univoca: c’è chi la nega fermamente, c’è chi l’ammette a certe condizioni. La conseguenza è che secondo l’opinione rigorosa il cristiano potrebbe non essere nella strada per la salvezza.
6. Posso immaginarmi quale sia la reazione di ogni cristiano davanti a queste analisi. Posso immaginarlo, perché il senso di incredulità, di protesta, di ribellione che si provano sono gli stessi che possono provare gli ebrei quando viene loro detto da autorità cristiane che la loro fede è incompleta, e non può condurre, se non per caso imperscrutabile, alla salvezza. E’ incompleta, perché non coronata dalla fede nella salvezza in Gesù. Molti ebrei hanno protestato lo scorso anno quando un documento ufficiale e notissimo della Chiesa ha ribadito questo concetto. Ma il problema non è tanto quello della convinzione della Chiesa nella necessità per gli ebrei di salvarsi attraverso Gesù. Il vero problema è che cosa si fa di questa convinzione. Se si dovesse applicare alla lettera il sistema delle leggi Noachidi, si dovrebbe fare di tutto perché i Noachidi le osservino, anche per ciò che riguarda il divieto di culti estranei. Ognuno dovrebbe diventare un missionario della fede pura. Eccoci dunque al nodo attuale del dialogo e del confronto. A che cosa serve parlarci? Ciò che veramente da’ fastidio agli ebrei è che sia stato detto in documenti ufficiali cattolici che lo scopo del dialogo è quello di convertire l’interlocutore alla propria fede. E se facessimo anche noi lo stesso, se usassimo ogni occasione di confronto per convincervi che state sì sulla buona strada, ma che dovete « purificare » la vostra fede eliminando ciò che per voi invece è essenziale?
7. La domanda che allora si pone è se vi siano alternative a questo dialogo tra sordi, che rischia di diventare irrispettoso e indecoroso per la dignità di ognuno. Posso provare a immaginare due scenari, diversi ma non necessariamente contraddittori. Il primo è di tipo essenzialmente teologico, il secondo prevalentemente politico. La prima soluzione si riferisce alla possibilità di elaborare in entrambe le parti una dottrina che potremmo chiamare, con un nome indicativo, di salvezza parallela. I cristiani dovrebbero arrivare ad ammettere che gli ebrei, in virtù della loro elezione originaria e irrevocabile, e del possesso e dell’osservanza della Torà, possiedono una loro via autonoma, piena e speciale verso la salvezza che non ha bisogno di Gesù. Non basta dire, come si è fatto proprio recentemente e con un lodevole sforzo di elaborazione dottrinale, che la nostra « attesa non è vana » perché serve a stimolare i cristiani; bisogna dire che noi valiamo in quanto tali e nessuno deve giustificare la nostra fede in funzione di altre. Le conseguenze sarebbero, in concreto, la fine di ogni tentazione cristiana di trasformare il dialogo in un sistema di dolce persuasione, demotivando le diffidenze ebraiche.Da parte ebraica a questo movimento dovrebbe corrispondere l’affermazione del principio che la fede in G. non sia incompatibile, beninteso per i cristiani, non per gli ebrei, con il culto del D. unico. Principio che è accettato in tradizioni autorevoli dell’ebraismo, ma che dovrebbe diventare prevalente e maggioritario. Ne deriverebbe da parte ebraica una maggiore comprensione della spiritualità cristiana. Ora, chiunque abbia una minima esperienza sulle modalità di sviluppo delle teologie in ognuno dei due campi potrà comprendere le difficoltà ad arrivare a questi risultati, almeno in tempi brevi e contestuali tra i due mondi.
8. E allora si propone l’altro scenario, che potrebbe essere definito politico, e che consiste essenzialmente nella volontà di una sorta di moratoria, di una sospensione e di un rinvio all’imperscrutabile volontà superiore alla fine dei giorni. Due grandi ebrei, a distanza di undici secoli, e schierati in campi opposti hanno forse detto la stessa cosa. Il primo, Saul di Tarso, l’apostolo Paolo, davanti al dato per lui inesplicabile dell’incredulità ebraicha, ha formulato in Romani 10:25 l’idea dell’ostinazione di Israele che durerà finchè tutti gli altri popoli non arriveranno alla salvezza, e solo allora « tutto Israele sarà salvato ». Il secondo, Mosè Maimonide, nelle norme sui Re del suo codice (cap. 11), dopo aver denunciato l’invalidità della fede di G., ha comunque formulato un’interpretazione sul significato provvidenziale della diffusione del cristianesimo, « per preparare la strada per il re Messia, e aggiustare il mondo intero al servizio di D. insieme, come è detto ‘perché allora riverserò sui popoli una lingua chiara perché tutti invochino il nome del Signore e lo servano unanimamente’ « (Zef. 3:9). Forse il pensiero parallelo dei due suggerisce la soluzione, che non può essere immediata, ma escatologica. Entrambi abbiamo il diritto di sperare che l’altro riconosca in noi la vera fede, ma lasciamo che la cosa si svolga in tempi lunghi e incontrollabili.

La Resurrezione dei morti – (Ebraismo)

dal sito:

http://www.ritornoallatorah.it/public/index.php?option=com_content&view=article&id=216:tkiath&catid=46:credenze&Itemid=77

La Resurrezione dei morti – (Ebraismo)
   
Il tredicesimo articolo della fede Ebraica è la Tchiath Hametim, ovvero la Resurrezione (letteralmente « rivitalizzazione ») dei morti

Questo evento miracoloso è descritto come il riorno dell’anima nel corpo dopo la loro separazione avvenuta al momento della morte. Dio ricomporrà qundi nuovamente i corpi dei defunti e metterà in essi le anime per farli rivivere.
 Si ritiene generalmente che la Resurrezione avverrà al termine dell’era Messianica, quando il nostro universo verrà rinnovato e inizierà quell’epoca senza fine chiamata Mondo Avvenire.
Tuttavia, secondo alcuni, ci saranno degli uomini giusti che torneranno in vita già al tempo della venuta del Messia, i primi dei quali saranno Moshè (Mosè) e Aharon (Aronne) che dovranno guidare i riti nel nuovo Tempio.
Mentre molti passi del Talmud affermano che la Resurrezione riguarderà sia i giusti che i malvagi, in altri brani è riportata l’opinione opposta secondo cui i malvagi non rivivranno affatto, e perciò ancora oggi su questo punto ci sono pareri diversi tra i Rabbini.
Come avverrà la Resurrezione? La seguente spiegazione illustra il pensiero ebraico a riguardo: « In futuro il Santo non creerà dei nuovi corpi per i morti, ma resusciterà i loro corpi originali; poichè quando il corpo di una persona si decompone nella terra, c’è un solo osso che rimane intatto, e questo osso non si decompone mai » (Shaar HaLikutim).
E’ scritto che il Creatore ricomporrà i corpi a partire da questo osso che è chiamato Luz; alcuni interpreti lo identificano con il coccige, altri con un osso che si trova nel cranio.
Dagli antichi scritti rabbinici non si riesce a comprendere in modo chiaro come sarà la vita dei risorti. Rabbi Yehuda HaNassì insegnava: « Nel Mondo Avvenire non ci sarà il mangiare, il bere e la procreazione, non ci sarà invidia, odio o competizione, ma i giusti si siederanno con delle corone sulle loro teste e godranno lo splendore della Presenza Divina » (Berachot 17a), ma questa idea non trova riscontro nelle affermazioni di altri Saggi del Talmud. Secondo alcuni interpreti le funzioni fisiche del corpo non cesseranno, ma i risorti potranno trarre il loro sostentamento direttamente dalla Presenza Divina che li nutrirà in modo spirituale.
Per analizzare i principali punti di vista sulla dottrina della Tchiat Hametim prenderemo in considerazione i pareri di due fra i più grandi Maestri dell’Ebraismo: Maimonide e Nachmanide.

L’opinione di Maimonide
Maimonide afferma che la Resurrezione avverrà su questa terra durante l’era Messianica. Coloro che resusciteranno svolgeranno ancora tutte le attività fisiche e biologiche, proprio come prima della morte. Questi risorti dovranno quindi nutrirsi, riposarsi, avere rapporti sessuali, procreare, e dopo aver vissuto una lunghissima vita moriranno nuovamente, poichè il corpo materiale non è adatto a rimanere in eterno.
L’anima, invece, continuerà a vivere in un mondo del tutto spirituale dove gli esseri umani saranno « come gli angeli », e rimarranno in questa condizione per sempre.
 
L’opinione di Nachmanide
Secondo Nachmanide e molti altri Maestri, l’idea che i risorti debbano morire nuovamente è completamente assurda poichè contraddice la profezia di Isaia che annuncia: « Egli distruggerà la morte per sempre » (Isaia 25:8) e l’affermazione rabbinica secondo cui « I morti che il Santo Benedetto Egli Sia farà risorgere non torneranno alla polvere » (Talmud, Sanhedrin 92a).
Nachmanide spiega che il Mondo Avvenire (Olam HaBah) non è un regno spirituale per le anime, ma un’epoca che inizierà al termine dell’era Messianica e non avrà fine. I Risorti vivranno quindi con il loro corpo su questa terra che sarà rinnovata dalla Presenza Divina.
Nachmanide descrive il destino dell’umanità con queste parole: « In futuro ci sarà l’era del Messia, che è una parte di questo mondo. Alla fine di essa ci sarà il Giudizio e la Resurrezione dei morti, e questa è la ricompensa che riguarda il corpo e l’anima ».
 
La Resurrezione dei morti e la Bibbia.
All’epoca del secondo Tempio non tutti accettavano la dottrina della Resurrezione.
I Farisei, gli Esseni ed altri gruppi religiosi Giudaici ci credevano fermamente, ma i Sadducei la rifiutavano poichè sostenvano che non fosse una dottrina insegnata dalla Torah.
Per confutare le idee dei Sadducei, i Maestri Farisei cercarono ogni possibile riferimento alla Resurrezione all’interno delle Sacre Scritture e spesso dovettero ricorrere a dimostrazioni molto ingegnose.
Rabbi Eliezer ben Yose citò il versetto: « Quella persona dovrà essere uccisa; porterà il peso della sua iniquità ». (Numeri 15:31). Se la persona viene uccisa come farà a portare il peso della sua iniquità? Evidentemente ciò accadrà alla Resurrezione.
Rabbi Gamaliel citò Deuteronomio 11:9, dove troviamo l’espressione « La terra che Hashem giurò di dare ai vostri padri ». Affinchè questa promessa si adempia è necessario che i padri risorgano.
Il riferimento biblico più chiaro ed esplicito alla Resurrezione si trova nel libro di Daniele: 
 » Molti di coloro che dormono nella polvere della terra si risveglieranno, alcuni per una vita eterna, altri per la vergogna e l’infamia eterna [....] E tu vai verso la tua fine; ti riposerai e poi ti rialzerai per il tuo destino alla fine dei giorni. »  (Daniele 12:2-13).

Riferimenti a questa dottrina furono trovati anche nei seguenti versi:
« Io faccio morire e faccio vivere, ferisco e risano » (Deuteronomio 32:39);
« Hashem fa morire e fa vivere, fa scendere nella fossa e ne fa risalire » (1Samuele 2:6);
« I vostri morti saranno resuscitati, i corpi si alzeranno; risvegliati e canta, tu che dimori nella polvere, poichè la tua rugiada è una rugiada di luce » (Isaia 26:19);
« Alzatevi e benedite Hashem, il vostro Dio, da un Mondo all’altro Mondo » (Nehemia 9:5)
Si parla di Resurrezione anche nella famosa visione delle ossa secche (Ezechiele 37:1-14) e in una profezia di Osea: « Dopo due giorni ci ridarà la vita, il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo alla sua presenza. » (Osea 6:2).
In questi due casi è però evidente dal contesto che il ritorno alla vita sia una metafora per descrivere la restaurazione d’Israele dopo l’esilio. Si tratta quindi di una « resurrezione nazionale ».
Nel Talmud è narrato il seguente episodio:
« Un Sadduceo disse a Ghebiha ben Pesisa: «Guai a voi colpevoli [Farisei] che sostenete la Resurrezione dei morti! Se il vivente muore, il morto può forse rivivere?»  «Guai a voi – egli rispose – colpevoli che sotenete che i morti non risorgeranno; se quelli che non esistevano vengono in vita, non è forse più ragionevole che rivivano coloro che hanno già vissuto?»  (Sanhedrin 91a).

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 24 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

La creazione secondo la mistica ebraica – Quando Dio trattenne il fiato

da LOsservatore Romano:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/012q04a1.html

La creazione secondo la mistica ebraica

Quando Dio trattenne il fiato

di Luca Miele

« Come produsse Dio il mondo, come lo creò? Come un uomo trattiene il respiro, e si contrae in se stesso, in modo che il poco possa contenere il molto, così anche Dio contrasse la sua luce di una spanna, e il mondo rimase come tenebre ». Questo brano del xiii secolo contiene un idea che sarà fondamentale nell’intera storia della mistica ebraica:  quella della contrazione o ritiro (tzimtzum) di Dio, un movimento all’interno della divinità – simile a un respiro cadenzato – che sarebbe più originario della stessa creazione.
Prima di procedere all’esame dello tzimtzum – e della dottrina di cui è un’articolazione – dobbiamo interrogarci sul ruolo assolto dalla mistica. Si tratta di un fenomeno in qualche modo solo residuale e astorico, tale da rimanere sostanzialmente estraneo al corpo della tradizione ebraica? O, al contrario, vi è saldamente intrecciato? È nota la posizione di Gershom Scholem, a cui va il merito di aver spiegato la Kabbalah:  la mistica è « una forma legittima a cui gli ebrei hanno fatto ricorso per comprendere se stessi e il mondo esterno, una forma che esprime le loro esperienze religiose e le sue metamorfosi storiche, ma pure le sue crisi mortali o portatrici di vita ». Queste risposte in qualche modo « illuminano il senso dell’Esilio e della Redenzione, collocando la condizione storica unica di Israele in un quadro più ampio, addirittura cosmico:  quello della creazione ».
Un punto rimane però irrevocabilmente fermo:  « Mentre le religioni anteriori o vicine, affermano una unità panteista tra Dio, il cosmo e l’uomo, l’ebraismo ha scavato un abisso tra queste tre sfere » (Pierre Bouretz). Il monoteismo rompe la sacralità del còsmos greco, il suo eterno ripetere l’identico, per inaugurare la storia, luogo del rischio e del tempo.
Allora la torsione che la Kabbalah produce è interna a un altro paradigma fondamentale dell’ebraismo. « Il messianesimo – scrive Scholem – è alle sue origini e per sua natura la teoria di una catastrofe. Questa teoria mette l’accento sull’elemento rivoluzionario e cataclismatico nella transizione da ogni presente storico al futuro messianico ». La Kabbalah attenua l’elemento catastrofico con l’idea di riparazione, che introduce la possibilità di una restaurazione (tikkùn) della rottura iniziale:  prende così corpo una concezione della redenzione in qualche modo « progressiva », per gradi successivi.
È stato Isaac Luria (1534-1572), a introdurre, o meglio a sistematizzare, lo tzimtzum nel quadro di una teoria quanto mai complessa. Luria complica lo schema « emanazionista », che aveva dominato fino ad allora tra i cabalisti per i quali « dall’abbondanza del suo essere, dal tesoro racchiuso in Lui, Dio ha « emanato » le Seriot »:  è attraverso « queste luci in Lui » che « Egli manifesta se stesso esteriormente ». Luria invece fa precedere a questa manifestazione – affinché una cosa diversa dalla divinità possa venire in essere – un movimento di ritiro in se stesso di Dio. Nella divinità si « conficca » così questo « spasmo » di esilio, di autolimitazione.
Come ha scritto David Banon, « la dottrina luriana è di una complessità estrema:  possiamo ricondurla a quattro momenti fondamentali, momenti che sono incastonati nei suoi concetti chiave:  lo tzimtzum, ritrazione, concentrazione; la shevirà, la rottura dei vasi; il tikkùn, la riparazione o restaurazione dei mondi, e il ghilgùl, la metempsicosi o trasmigrazione delle anime.
« Nella teoria di Luria non c’è il concetto di emanazione. Il primo momento è la ritrazione (tzimtzum) dell’En Sof, dell’Infinito. L’En Sof si ritira verso se stesso. È dunque in una interiorizzazione, in un ritiro o una ritrazione dell’essere nel suo essere che si trova il punto di partenza della creazione. È la capacità di ritrazione che permette il processo di apparizione-emergenza del mondo. Senza tzimtzum non c’è creazione poiché Dio, per definizione, riempie « tutto » lo spazio. La creazione è dunque una sorta di esilio in quanto Dio si ritira dal suo essere e si rinchiude nel suo « mistero ».
« È solo dopo avere effettuato lo tzimtzum che l’En Sof si volge verso l’esterno inviando un « filo » o un « getto » di luce – una linea, un raggio (qav) – del suo essere verso lo spazio primordiale chiamato tehirù prodotto dallo tzimtzum ed è così che si formano le sefiròt. Questo raggio, che appartiene alla modalità della misericordia, esercita una funzione catartica penetrando e focalizzando le forze del rigore che permangono nello spazio primordiale assieme al residuo della luce infinita (il reshimù) ».
Questa dottrina, che « sbalza » Dio dall’immobilità, che conferisce movimento, dinamismo al suo essere, è in qualche modo solidale con il Dio vivente biblico. Come attesta l’autoproclamazione del Nome in Esodo (3, 14) – declinato nell’originale ebraico con un doppio futuro – il Dio vivente « manifesta la propria solidarietà con l’esperienza umana del tempo, sul fondale di una imprevedibilità dell’avvenire » (Pierre Bouretz). Le parole « Io sono colui che sono » non hanno infatti il significato « dell’astratto essere, né tanto meno di una pura esistenza, bensì di un accadere, di un divenire, di un esserci, e soprattutto, di un essere presente » (Salvatore Natoli).
Se questa è l’anatomia del concetto di tzimtzum – l’idea di un esilio, di un contrarsi di Dio per consentire l’accadere del mondo – tale dottrina riemerge singolarmente in alcune delle figure più significative del pensiero ebraico del Novecento. L’esempio più trasparente di questa coincidenza è rintracciabile nell’opera di Simone Weil, in particolare quando la pensatrice francese traccia il tema dell’abdicazione di Dio. Nei Quaderni la Weil scrive:  « La creazione stessa è contraddizione. È contraddittorio che Dio, che è infinito, che è tutto, a cui non manca nulla, faccia qualcosa che è fuori di Lui, che non è Lui, pur procedendo da Lui ». Da questa contraddizione, da questo patire, Weil ricava « il concetto costitutivamente aporetico, di « decreazione »:  una presenza che si propone nella modalità dell’assenza, un sì all’altro espresso dalla negazione di sé, un atto coincidente con il proprio ritiro » (Roberto Esposito).
Analogamente Hans Jonas disegna, in Il concetto di Dio dopo Auschwitz, l’immagine di un Dio « sofferente » fin dall’istante della creazione del mondo e, più ancora, dopo la creazione dell’uomo:  un Dio che rimane eternamente « in divenire », un Dio « preoccupato »:  soltanto « l’autolimitazione » del principio divino « apre lo spazio per l’esistenza e l’autonomia di un mondo ».
Una traccia dello tzimtzum è presente anche nell’opera di Andrè Neher, L’esilio della parola:  la storia del mondo e dell’umanità – vi si legge – « è marcata dal segno dell’insicurezza radicale ». Il Dio di Neher è il Dio del silenzio, più che della Parola, « perché se Dio fosse il Dio della Parola ci accecherebbe con la sua luce. Dio è il Dio del silenzio, perché solo il silenzio di Dio è la condizione del rischio e della libertà ». Un Dio eternamente diveniente, sempre aperto alla relazione, è anche il Dio che emerge dalle pagine de Il Sabato di Abraham J. Heschel:  « Il Sabato non rappresenta una sostanza ma la presenza di Dio, la Sua relazione con l’uomo. Il Sabato è la presenza di Dio nel mondo, aperta all’anima dell’uomo ».

Publié dans:EBRAISMO - STUDI |on 14 novembre, 2011 |Pas de commentaires »

ESODO 3,14 SECONDO LE INTERPRETAZIONI DI MOSES MENDELSSOHN, FRANZ ROSENZWAING, MARTIN BUBER

dal sito:

http://www.nostreradici.it/Esodo3-14_Il-Nome.htm

(EHYÈH ASHÈR ÈHYÈH)

ESODO 3,14 SECONDO LE INTERPRETAZIONI DI MOSES MENDELSSOHN, FRANZ ROSENZWAING, MARTIN BUBER 

Francesca Albertini *

* Università di Friburgo

Moses Mendelssohn
Traducendo Es 3,14, inizialmente Mendelssohn si scontrò con una difficoltà grammaticale e linguistica immanente nel versetto. In primo luogo il pronome ashèr , detto localivo d’origine, introduce una proposizione secondaria all’interno della quale  generalmente troviamo l’oggetto del predicato o il soggetto dell’azione, ovvero ogni altro tipo di complemento. Ma all’interno della Bibbia ashèr agisce spesso come una congiunzione od una frase subordinata  esplicativa. In secondo luogo – e questa è la difficoltà maggiore. Èyèh è la prima persona singolare del verbo hâyâh (qui all’imperfetto), che è di solito tradotto come ‘essere’. Secondo Mendelssohn, nel caso particolare di Es 3,14 potremmo trovarci di fronte a una forma arcaica e astratta del verbo ‘essere’, la quale indicherebbe qui un’azione che si svolge contemporaneamente nel passato, nel presente e nel futuro. In altre parole, Mendelssohn osserva che, anche se il verbo ‘essere’ indica uno status definito e permanente del soggetto, in Es 3.14 esso pone in rilievo il dinamismo del soggetto, dinamismo che situa sullo stesso piano temporale la frase principale e la secondaria.
Alla luce di queste difficoltà, è evidente che la traduzione di Es 3.14 non è fondata tanto sulle mere competenze linguistiche e grammaticali di un traduttore, quanto sulla sua particolare concezione dell’Essere Divino, nell’osservare che una traduzione letterale  di Es 3.14 è impossibile.
Mendelssohn traduce l’intero passo con una lunga perifrasi, piuttosto che appellarsi ad una traduzione concisa, come avevano fatto gli esperti tedeschi che lo avevano preceduto: Gott sprach zu Mosche: ich bin das wesen welches ewig ist er sprach nämlich: so zu den kindern Jisraels sprechen : das Ewige Wesen welches sich nennt. ich bin ewig, hat mich zu euch gesendet.
Questa lunga perifrasi può essere tradotta come segue:
D-o disse a Mosè: io sono l’Essere (Ente) Eterno. Ed egli disse: questo dirai ai figli d’ Israele: l’Essere Eterno, che chiama se stesso « Io sono Eterno » mi ha mandato a voi.
A partire da questo momento nella traduzione della Torah di Mendelssohn troveremo sempre il Tetragramma  reso con « Der Ewige » (L’Eterno). È proprio Mendelssohn colui che introduce nell’Ebraismo tedesco della sua epoca questo termine per tradurre l’inesprimibile Tetragramma; successivamente questa tradizione è stata in grado di imporsi nel mondo Ebraico tedesco a dispetto della resistenza di molti esperti.
Per quanto riguarda la traduzione originale, è lo stesso Mendelssohn a chiarire il suo punto di vista nell’esteso Biur dedicato a Es 3,14, in cui il filosofo spiega le ragioni che lo hanno portato a tradurre in quel particolar modo Èyèh ashèr Èyèh:
« » Io sono colui che sono » secondo il midrash (Berakot 9b), il Santo (che Egli sia sempre Benedetto) disse a Mosè: dì loro, io sono colui che io ero ed ora io sono lo stesso e io sarò lo stesso nel futuro [ e ancora i nostri rabbini di venerabile memoria dicevano: io sarò con loro in questa sofferenza così come io sono con loro nella schiavitù sotto altri regni. essi volevano dire che] il passato e il futuro sono nel presente del creatore, vedendo che il tempo per lui non è mutevole né fissato (Gb 10,17) e che nessuno dei suoi giorni si esaurisce. per lui tutti i tempi sono chiamati con lo stesso nome e con una sola espressione che include passato, presente e futuro».
Come conseguenza, secondo Mendelssohn, Der Ewige (L’Eterno) o l’Ewiges Wesen (l’Essere Eterno) implica la necessità dell’esistenza di D-o ed anche la sua interminabile, inesauribile ed incessante Provvidenza. Utilizzando questo nome è come se D-o avesse detto addirittura : « Io sono con i figli degli uomini che sono benigni e misericorD-osi nei confronti di coloro verso cui io uso misericordia. Ora di’ ad Israele che io ero, io sono, io sarò… ed io sarò con loro ogni volta che essi grideranno verso di me ».
In questa parte del suo commento a Es 3,14, Mendelssohn sembra riportare la definizione dell’Essere Divino all’esperienza umana del tempo, all’imprevedibilità di un futuro che può assumere innumerevoli forme. Alla luce di questo significato particolare, la prima parte del versetto indicherebbe l’Essenza di D-o, mentre la seconda parte indicherebbe le mutevoli manifestazioni di un’unica sostanza, che è in realtà sempre identica a se stessa.
Questo « incipit » del commento di Mendelssohn confuta una delle critiche di Raphaël Hirsch, secondo la quale il termine Der Ewige (L’Eterno) svilirebbe l’importanza della Divina Provvidenza nella storia dell’umanità. Al contrario, la Provvidenza è una delle categorie fondamentali del pensiero filosofico e religioso di Mendelssohn e la Provvidenza avrà un ruolo essenziale in « Jerusalem », opera in cui il filosofo mostra come l’essere umano, se non crede nella Provvidenza, nell’immortalità dell’anima e nelle eterne verità di D-o, non può realizzare il suo fine ultimo, che è quello di essere felice. Secondo un’ipotesi accattivante avanzata da alcuni esperti francesi, mediante la traduzione Ich bin das wesen, welches ewig ist potremmo mettere in evidenza la possibilità – che ci è data da D-o mediante la Provvidenza – di superare il tempo all’interno del tempo stesso o di trasformare la memoria in uno strumento di redenzione.
Alla luce della lettura di Es 3,14 operata da Mendelssohn, la Provvidenza dona all’essere umano (l’essere finito che non può conoscere alcun’altra dimensione al di fuori della sua propria finitudine) un’apertura attraverso una dimensione al di là del tempo. Ma la via per raggiungere questa dimensione si situa nella condizione terrena dell’essere umano, e quindi nella Provvidenza, dato che l’eternità è già sperimentata nel mondo degli uomini e delle donne, nella comunione di coloro che pregano. Gli esperti che hanno fornito questa ipotesi suggestiva non spiegano se Mendelssohn comprenda l’eternità come assenza di tempo oppure come una dimensione al di là del tempo che può essere definita solamente in termini negativi in relazione a ciò che noi conosciamo come « tempo ».
Qualsiasi valutazione venga fatta, è sicuro che la Redenzione è per Mendelssohn una vista sul passato, che viene ora letto alla luce del suo significato più profondo e che si trasforma in un « presente provvidenziale ». Questo presente provvidenziale annulla la sua dimensione temporale proprio quando la raggiunge.
Nel commento a Es 3,14, Mendelssohn non si confronta affatto solo con la categoria temporale. Secondo il filosofo, questo versetto contiene un triplice significato: l’eternità, l’esistenza necessaria e – ovviamente – la Provvidenza. Nel giustificare la sua posizione, nel suo commento a Es 3,14, Mendelssohn scopre alcuni eminenti predecessori (Onqelos che ha scritto in Aramaico, Saadia e Maimonide che hanno scritto in Arabo) che hanno dovuto prendere una decisione draconiana: il primo dei tre ha optato per l’utilizzo dell’idea di Provvidenza, mentre gli altri due hanno optato per l’esistenza necessaria, ancora, donata. Ben Uziel ha optato per il legame con la dimensione temporale.
Mendelssohn afferma di aver optato per il termine Der Ewige (L’Eterno) traducendo sia Es 3,14, sia il Tetragramma, poiché tutti gli altri significati dell’identità divina e del Nome Divino sorgerebbero naturalmente da questo aggettivo sostantivato. Secondo questo punto di vista, l’Essere Necessario Eterno (Das ewig notwendig) e « l’Essere previdente e provvidente » (das vorsehende Wesen) sono l’uno lo specchio dell’altro, così che essi hanno un valore equivalente. Infatti, nel pensiero di Mendelssohn tutti questi significati sono racchiusi in Es 3,14.
Nella scelta di Mendelssohn troviamo una parte della sua convinzione (che non è più sostenibile per Rosenzweig, come mostrerò meglio in seguito) nella possibilità di una teologia razionale. In evidente contraddizione con l’esperienza offerta dalla Storia della Filosofia, l’Essere Previdente-Provvidente emerge da una conclusione logica a partire dall’Essere Necessario Esistente.
In altre parole, per Mendelssohn, il cui pensiero è ancora pre-critico (vale a dire precedente alla più importante opera di Kant), è l’essenza che ha la supremazia sull’esistenza.
Anche se le azioni del D-o di Mendelssohn tramite la Sua Provvidenza sono all’interno della Storia, Egli è ancora un D-o la cui identità astratta e concettuale ha la meglio sulla sua concreta Teofania.
Il D-o di Mendelssohn è ancora il D-o di un filosofo, anche se egli tenta una difficile mediazione tra la fede Giudaica e il suo pensiero Illuministico.

 Franz Rosenzweig
Secondo quanto afferma Leo Baeck, sulla base della corrispondenza di quegli anni tra Rosenzweig e Buber, si può affermare senza allontanarsi troppo dalla realtà che Rosenzweig influenza Buber per la traduzione di Es 3,14, dal momento che quest’ultima contiene una tradizione perfettamente consona al concetto di Redenzione di Rosenzweig sviluppato  all’epoca di « Der Stern der Erlösung » (« La Stella della Redenzione »). Rosenzweig traduce Es 3,14 nel seguente modo:

Gott aber sprach zu Mosche:
Ich werde dasein, als der ich dasein werde.
Und sprach:
so sollst du zu den Söhnen Jisraels sprechen:
« Ich bin da » schickt mich zu euch

A partire della spiegazioni di Rosenzweig che si trovano nella succitata corrispondenza, dobbiamo cercare di capire che cosa significhino i termini dasein e werde rispetto all’Ewigkeit (Eternità) di Mendelssohn.
In una lettera ad Hans Ehrenberg datata 23 aprile 1926, Rosenzweig afferma che la sua tradizione di questo enigmatico versetto è stata influenzata dalla ricerca  di Benno Jacob sull’Esodo (pubblicata nel 1922 col titolo « Moses am Dornbusch »). Basandosi su questa ricerca, che è centrata sul problema dell’identità divina  così come Essa si manifesta nell’Esodo, nella sua traduzione Rosenzweig non privilegia il significato di « esistenza necessaria » del termine èhyèh, bensì quello di « Provvidenza ». Anche ad un livello meramente linguistico, èhyèh non possiede il significato statico dell’essere, ma il significato dinamico di un Essere che diviene e agisce.
Questo versetto indica l’Identità divina pronunciata e mostrata da D-o stesso, e pertanto rimanda ad un’effettiva presenza di D-o accanto a Mosè. Secondo Rosenzweig, è evidente che l’infelice popolo ebraico, cui Mosè deve rendere conto del suo incontro con D-o vedendo le sue condizioni di schiavitù, si aspetta tutto fuorché una conferenza ex-cathedra sulla necessaria esistenza di D-o. Gli Ebrei e il loro esitante condottiero hanno bisogno di una spiegazione che allontani ogni ragionevole dubbio.
Per questo motivo, secondo quanto è scritto in una lettera di Rosenzweig a Buber il 23 giungo 1923, il contesto biblico giustifica una sola traduzione di Es 3,14, una traduzione che non può avere a che fare con « l’Essere Eterno » ma , al contrario, deve riguardare « l’Essere Presente », che è e diviene con e vicino al popolo ebraico.
Nel pensiero di Rosenzweig, il monoteismo biblico non consiste in un’unica, semplice idea di D-o, bensì nel riconoscere questo D-o come un Essere che non è separato dall’esistenza concreta, il che significa che essa sia più personale e immediata: èhyèh e Ich bin da, pronunciato dal roveto ardente e consegnato all’essere umano per il tramite di Mosè.
Secondo Rosenzweig, il terzo capitolo dell’Esodo contiene l’auto-testimonianza di D-o, che consente di rischiarare la superficie opaca del Tetragramma. D-o non nomina Se stesso,  come l’ « Essere Essente » (der Seiende), ma come l’ « Essere Esistente » (der Daseiende), Colui Che esiste non solo in Se stesso, ma anche « per te », Che esiste per te faccia a faccia (metafora che sarà conservata cara da Emmanuel Lévinas), Colui Che si avvicina a te a ti aiuta. Basandosi su questo significato particolare, Rosenzweig scrive in una lettera a Ernst Carlesbach datata 2 agosto 1924:
Il D-o di Mendelssohn non mi consente di esprimermi familiarmente nei suoi confronti; non posso dirgli : « Tu ».
In questa traduzione/interpretazione di Es 3,14, Rosenzweig è quasi obbligato a confrontarsi con Mendelssohn. Nel saggio Der Ewige, Rosenzweig mostra una grande stima nei confronti di Mendelssohn, « l’uomo che ha consentito agli Ebrei tedeschi di comprendere il significato della loro Deutschtum (della peculiarità del loro essere tedeschi) », anche se l’Ebraismo di Mendelssohn è fondato esclusivamente sulla divina Gesetzgebung, vale a dire solo sulla Legge rivelata. È vero che, in accordo con Mendelssohn, Rosenzweig ritiene che la fede sia fondata sull’evento della Rivelazione e che la Rivelazione  si rifletta nella Legge Divina. Ma, mentre Mendelssohn concepisce i comandamenti come atti simbolici, Rosenzweig attribuisce alla concreta esperienza della teofania rivelata la possibilità di rendere comprensibile il legame tra la fede e la ragione.

Martin Buber
Ci limiteremo qui ad affrontare il periodo (1923-1938 ca.) in cui le dissertazioni su Es 3,14 appaiono spesso nella corrispondenza del filosofo Buber. I suoi interlocutori privilegiati sono, in questo periodo (oltre ovviamente a Franz Rosenzweig), Ernst Simon, Gerhard Scholem, Hugo Bergmann e Hugo von Hoffmanstahl.
Nel corso della sua collaborazione con Franz Rosenzweig, Buber mostra sempre una grande stima per le sue osservazioni e per le sue teorie, al punto che i due filosofi elaborano il seguente piano di lavoro: mandarsi l’un l’altro traduzioni di una piccola parte di versetti complessi e valutare insieme la traduzione più consona con la versione originale del testo biblico.
È datato 5 marzo 1923 il primo lavoro che Rosenzweig ha inviato a Buber in cui Rosenzweig stesso incontra delle difficoltà nel misurarsi con Es 3,14 : « Sulla base di quanto illustrato fin’ora, ritengo che la traduzione più prossima alla Scrittura sia ‘Ich werde dasein als der ich dasein werde’ « .
La risposta di Buber risale al 30 marzo e mostra come le considerazioni su quella che un giorno sarà la sua filosofia dialogica hanno avuto un ruolo molto importante nella traduzione di questo versetto enigmatico.  » In Es 3,14 dobbiamo cercare di tener sempre presente la doppia natura della Divina Promessa inclusa nella ripetizione del termine « èhyèh »: ‘Io sarò presente e rimarrò presente sul tuo cammino [.....]. L’importanza del dialogo è conferita da « ashèr », che unisce le due promesse e i due interlocutori ».
Secondo Buber, come egli stesso scrive in un passo successivo della stessa lettera a Rosenzweig, anche se una promessa coinvolge allo stesso modo colui che la fa e colui che la accetta, il punto focale di Es 3,14 è rappresentato da D-o e non dall’essere umano.
L’ermeneutica tradizionale ritiene comunemente che la risposta di Mosè significhi solamente questo: conoscere la risposta da dare al popolo ebraico quando gli Ebrei chiedono il vero Nome di D-o, il D-o che ha dato il messaggio a Mosè. Così concepito, secondo Buber, il significato di questo versetto si trasforma in uno dei punti focali dell’ipotesi kenit. Sulle basi di quest’ultima, il D-o del popolo ebraico sarebbe solo l’evoluzione di alcune delle divinità già presenti in quell’area e la cui principale caratteristica sia l’appropriazione del nome da parte dei fedeli.
Secondo la prospettiva di Buber, l’ipotesi è invalidata dal fatto che, nell’Ebraico biblico (ma anche in quello moderno dei nostri giorni), la domanda per chiedere il nome di una persona non è « come di chiami? », « qual è il tuo nome? », ma « Chi sei tu ». Osservando che la richiesta di Mosè si mostra proprio attraverso questa domanda, è chiaro che Mosè non si riferisca soltanto al Nome di D-o, ma anche a ciò che questo Nome nasconde.
In una lettera a Ernst Simon del 15 novembre 1923, Buber scrive che il significato più profondo di Es 3,14 è lo stesso che troviamo in Gn 35,10, nell’episoD-o in cui, dopo il combattimento di D-o con Giacobbe sulla riva del fiume, il Signore ha imposto a Giacobbe il nome di Israele (« colui che lotta con D-o »). Secondo Buber, la differenza sostanziale tra questi due episodi dell’Antico Testamento risiede nel fatto che, mentre in Gn 35,10 troviamo un’imposizione unilaterale, in Es 3,14 ci troviamo di fronte a un dialogo diretto tra la creatura e il Creatore. Sorprendentemente, in un certo senso in Es 3,14 l’essere umano « limita » D-o costringendoLo a dare una risposta da cui D-o non può esimersi.
In questa lettera, così come in quella datata 4 agosto 1925 a Hugo von Hoffmanstahl, è evidente come Buber cerchi di collegare Es 3,14 con il Nome Divino e cerchi di definirlo alla luce di Èyèh ashèr Èyèh.
In questo periodo Buber ritiene che, così come Es 3,14 ha l’aspetto di una risposta ad una richiesta, anche il Nome di D-o è un vocativo: Ya-hu. A partire da questo vocativo (e qui si nota l’influsso di Rosenzweig), D-o è definito tramite un nome impronunciabile, che è contemporaneamente più e meno che un nome:
In una lettera a Hugo Bergmann del 14 settembre 1927, Buber osserva che, dal momento che il Tetragramma è una risposta a una richiesta – se lo interpretiamo alla luce di Es 3,14 – è chiaro perché i nomi propri biblici facciano raramente riferimento, nella loro forma e nella loro radice, al Tetragramma. L’unica eccezione è rappresentata dal nome della madre di Mosè, Yochebed (D-o è grande). Questo nome è quasi una testimonianza di una sorta di « tradizione familiare », che preparerebbe la strada all’evento della Rivelazione dell’Essenza Divina. In realtà, è più attendibile sostenere che, in un periodo di lassismo religioso, quale era l’epoca della schiavitù sotto il dominio egiziano,  l’intima essenza del Tetragramma sia relegata nell’oblio. Così, il Tetragramma si trasforma in una risonanza fonetica vuota.
Come Buber scrive in una lettera a Rosenzweig del 14 luglio 1925, « In un certo senso nella memoria collettiva e nella coscienza del popolo ebraico, Es 3,14 rivela l’ultimo significato del Tetragramma, mostrando la sua essenza più profonda che persino i Patriarchi non conoscevano (Es 6,3). La traduzione comune « Io sono Colui che sono » [Ich bin der ich bin] fornisce una descrizione dell’Essere Divino come l’Unico Ente o l’Ente Eterno, vale a dire Colui che si mantiene per sempre nella Sua essenza [....]. Tuttavia questo tipo di astrazione non è adatta per una rinascita della vitalità religiosa quale si è realizzata all’interno del Popolo Ebraico per mezzo di Mosè ».
In questa lettera, Buber sottolinea come hâyâh non indica affatto una pura essenza metafisica, ma un avvenimento, un « venire all’esistenza », « essere presente tra questo e quello », e non indica un’esistenza astratta e trascendente.
Secondo Buber, la risposta « Io sono Colui che sono » non è adatta ad una Rivelazione, ma può al massimo essere congeniale a un’essenza che desidera rimanere misteriosamente nascosta persino alle persone a cui si presenta. Sotto questa prospettiva « Io sono Colui che sono » si mostra  una tautologia priva di significato o il cui significato può essere compreso dalla mente umana. Quale sarebbe il significato della Rivelazione, se l’intento di D-o fosse quello di rimanere nascosto?
Quando il popolo Ebraico viene raggiunto dalla notizia della sua imminente liberazione, esso ha bisogno dell’esperienza della vicinanza di D-o e non della Sua profonda distanza dal destino e dagli eventi dell’uomo.
Il Signore è presente come Colui che era, che è e che sarà presente in modo tanto trascendente quanto terreno.
Buber osserva che poco dopo e poco prima della Rivelazione  (Es 3,12 e Es 4,12), D-o riafferma la sua presenza accanto a colui che Egli ha scelto.
Quando Mosè, timoroso per l’obiettivo affidatogli, chiede a D-o cosa dovrà dire agli Ebrei, come potrà convincerli, D-o risponde Io sarò con te. Rinnovando quanto Egli aveva fatto con la promessa a Isacco, D-o annienta ogni possibile differenza che potremmo notare tra il D-o dei Patriarchi e la voce che parla a Mosè dal roveto ardente. Nel corso di questa eccezionale sfida linguistica,  Mosè viene esortato a presentarsi agli Ebrei come l’inviato di èhyèh. Come Buber osserva in una lettera ad Ernst Simon del 12 aprile 1932, èhyèh non è affatto un nome, bensì la forma contratta del verbo hâyâh, che contiene in se stesso l’ultimo significato della Rivelazione.  D-o non può essere chiamato èhyèh, o meglio, D-o Si presenta in questo modo solo nel terzo capitolo dell’Esodo, quando è necessario che gli Ebrei abbiano l’auto-coscienza di D-o per permetterGli comunicare la Sua volontà. Quest’auto-coscienza non può essere insegnata da un trattato teologico, ma può essere sperimentata nella certezza del dialogo quotidiano col D-o dei Patriarchi.
Secondo la prospettiva di Buber, il legame tra Es 3,14 e il Nome divino decreta la nascita di una nuova alleanza, nella quale il Creatore e la creatura si trovano uniti, anche se a livelli differenti, nella dimensione sempre aperta del dialogo.
Buber esamina attentamente l’interpretazione di Es 3,14 anche nel saggio « Moses » (1945), in cui l’analisi viene condotta eminentemente su basi storiche. La Rivelazione, che nel saggio Ich und Du (Io e Te) può sembrare una mera essenza spirituale su cui si fonda il mondo concreto della responsabilità, acquisisce una dimensione sempre più terrena nella tappe evolutive degli studi biblici di Buber. Nel saggio « Moses », la Rivelazione viene affrontata come una categoria tanto politica quanto storica, anche se Essa non perde mai né la Sua ultramondanità né il Suo carattere di legame tra il Creatore e la creatura . Nell’opera « L’eclisse di D-o », una raccolta di saggi scritti tra il 1930 e il 1950 (anno in cui Buber ha già più di settant’anni), questi aspetti particolari della Rivelazione sono esaminati più attentamente alla luce di una nuova problematica: il nascondimento di D-o causato dell’Ego umano.
È vero che Es 3,14 garantisce la presenza di D-o accanto all’essere umano, ma l’essere umano può sfuggire a questo legame quando vuole. Desiderando un confronto con un figlio e non con un servo, D-o ha garantito all’essere umano la possibilità di operare una scelta contraria alla Creazione. D-o ha permesso all’essere umano di rifiutare la Rivelazione e di rimpiazzarlo con un nuovo D-o: la Ichheit (che potremmo tradurre col termine Egoità).
Così,  Buber conclude le sue decennali speculazioni su D-o e sulla Rivelazione sottolineando l’interminabile lotta dell’essere umano per mantenere vivo il legame con D-o. In ogni momento, questo legame può essere spezzato a partire da un Ich (Io) oggettivante ed egoistico, un Ich che non conosce la dimensione dialogica dell’amore.

Note

Cfr. Mendelssohn Moses, Gesammelte Werke, Berlino, Frommann Verlag, 1991, vol. 9/1, pp. 133-134.
Tale a Colette Sirat e René Lapassier.
Cfr. Rosenzweig F.- Buber, Martin, Die Bibel, Stuttgart, Bibelgesellschaft Verlag, 1992, p. 189.
Cfr. Rosenzweig F., Der Mensch und sein Werk, Dordrecht, Nijhoff Verlag, 1990, 1° vol., p. 1104.
Cfr. Jacob Benno, Moses am Dornbusch, Frankfurt am Main, Källiger Verlag, 1922.
Cfr. Ibidem, p. 1128.
Cfr. Buber, M., Briefwechsel aus sieben Jahrzhenten, Heidelberg Lambert Schneider Verlag, 1975, 2 vol., p. 78.
Cfr. Ibidem, p. 89.
Cfr. Ibidem, p. 147.
Cfr. Ibidem, p. 195.
Cfr. Ibidem, p. 161
Cfr. Ibidem, p. 431.
Cfr. Buber M., Eclipse of God, London, Happingen Publ., 1973.
___________________
[Fonte: Morasha.it - Traduzione dall'inglese per LnR di Antonio Marcantonio] 

Publié dans:EBRAISMO - STUDI |on 9 novembre, 2011 |Pas de commentaires »
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