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QUEL LUME ALLA FINESTRA – DUE RACCONTI: GERUSALEMME 164 A.E.V; A BUCHENWALD NEL 1944

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QUEL LUME ALLA FINESTRA

DUE RACCONTI: GERUSALEMME 164 A.E.V; A BUCHENWALD NEL 1944

RAV SCIALOM BAHBOUT

La storia di Hanukkah, così com’è narrata nel Talmud, è molto strana e ancora più strano è il fatto che i Maestri abbiano fatto dell’episodio dell’ampolla d’olio e dell’accensione dei lumi l’elemento centrale della festa, una festa che è bene ricordare è l’unica stabilita in epoca postbiblica accettata da tutto Israele nel corso delle generazioni. Hanukkah deriva da una radice ebraica che ha vari significati e può essere tradotta con inaugurazione, in ricordo dell’inaugurazione del Tempio fatta dai Maccabei, oppure con consacrazione e destinazione di un oggetto alla sua funzione: quindi nel caso specifico, significa riconsacrazione del Tempio profanato dagli Ellenisti, per restituirlo alla sua primitiva funzione. La radice Hanukkah, da cui derivano Hanukkah e hinnukh (educazione), significa anche « educare ». La rivolta ebraica scoppiò quando il nemico greco tentò di colpire proprio le radici culturali e religiose del popolo e più precisamente, quando i Seleucidi, dominatori della Giudea, imposero agli ebrei di abbandonare progressivamente le proprie tradizioni, costringendoli ad adorare gli idoli nel Tempio di Gerusalemme. Di fronte al pericolo della perdita della propria identità, gli ebrei si opposero e organizzarono una resistenza che fondava le proprie basi sull’adesione all’educazione ebraica. Contro un nemico militarmente più agguerrito, gli ebrei opposero la propria determinazione nel difendere la propria cultura e il diritto alla diversità contro il livellamento culturale imposto dalla cultura ellenista imperante. Non sappiamo con certezza quale sia il significato della storia dell’ampolla d’olio rimasta pura tra le macerie del Tempio: forse essa rappresenta il manipolo di persone sempre pronto a lottare per difendere la propria identità e dignità ebraica, a Gerusalemme come a Buchenwald. L’olio, che sembra bastare per una sola generazione, si rivela sufficiente per alimentare lo spirito ebraico non per sette generazioni (un numero che rappresenta la sopravvivenza dell’uomo nei limiti della natura e della storia), ma per sette + uno, cioè per infinite generazioni, per un tempo che trascende la storia e la natura. Il miracolo di Hanukkah è davvero strano: gli ebrei credono che ogni anno, nel momento in cui un ebreo accende il proprio lume, il miracolo si compia ancora: è il miracolo della sopravvivenza di una piccola minoranza in un mondo che non ha ancora assimilato l’idea che si può essere diversi, ma godere di eguali diritti. Il lume di Hanukkah va acceso vicino alla finestra, in modo che sia ben visibile dall’esterno. Questo gesto ha sì lo scopo di rendere pubblico il miracolo e quindi rendere partecipi anche gli altri della gioia e del mistero della sopravvivenza del popolo ebraico, ma è anche un invito a tutti gli uomini a non lasciarsi intimidire da ogni sorta di prevaricazioni e sopraffazioni. Ma in questa lotta per i propri diritti, pur muovendosi tra le macerie, a Gerusalemme come ad Buchenwald, ieri come oggi, importante è riuscire a non perdere mai di vista i valori che devono caratterizzare la vita dell’uomo. Per l’ebreo questi valori si devono affermare salvaguardando la propria dignità umana ed ebraica, anche nelle condizioni più disperate. Mantenere la Kedushà (santità) dell’immagine divina che è in ogni uomo è stata una delle imprese più difficili per gli ebrei che sono passati attraverso l’esperienza terribile dei campi di concentramento nazisti. La resistenza ebraica al nazismo viene identificata con la rivolta armata del Ghetto di Varsavia e degli altri Ghetti, una lotta attraverso la quale gli ebrei avrebbero riguadagnato la propria dignità e il proprio diritto alla vita. Non dobbiamo tuttavia dimenticare un’altra resistenza, meno eclatante, ma non per questo meno importante: molti ebrei sono riusciti a mantenere alto l’onore d’Israele rifiutandosi di accettare la logica dell’assassino che voleva distruggere l’ebreo nella sua umanità ebraica, prima ancora che nel suo corpo. La resistenza armata è stata per molto tempo giustamente messa in primo piano: c’è da chiedersi se non sia doveroso oggi ricordare con orgoglio anche la resistenza che, giorno dopo giorno, gli ebrei sono stati capaci di opporre al nazismo nei campi di concentramento. La nostra generazione, che ha avuto il privilegio di vedere ricostruito il « corpo » d’Israele, ha anche la responsabilità di muoversi con urgenza e determinazione per ricostruire lo « spirito » e la cultura d’Israele. Per accendere, ancora una volta, la propria Hanukkah.

DUE RACCONTI A Gerusalemme intorno all’anno 164 A.E.V. Cosa è Hanuklah? Hanno insegnato i Maestri: il 25 del mese di Kislev iniziano gli otto giorni di Hanukhah, giorni in cui non si possono fare manifestazioni di lutto e non si può digiunare. Quando i greci entrarono nel Tempio, resero impuro tutto l’olio, e gli Asmonei, dopo aver sconfitto il nemico greco, cercarono e non trovarono che una sola ampolla d’olio, che era rimasta pura, perché ancora chiusa con il sigillo del Sommo sacerdote. Questa ampolla sarebbe bastata per illuminare il Tempio un solo giorno. Accadde un miracolo con quella ampolla, e così essi poterono accendere il lume per otto giorni. L’anno seguente stabilirono di rendere quei giorni, giorni di festa e di lode. (Talmud Shabbath 21b)

A Buchenwald nel 1944 Inverno 1944. Campo di concentramento di Buchenwald. Blocco 62. 400 internati ebrei. Dopo cinque anni e mezzo di terrore, 400 internati ebrei, ormai ridotti a scheletri, quasi larve umane. Sui giacigli di legno si ammassano per dormire fino a 14 persone, uno sull’altro. Non ci si può rigirare nel letto senza svegliare tutti gli altri, quasi si trattasse di una catena umana. È l’ora della distribuzione del cibo. Vengono portate due grandi pentole e due internati di turno provvedono alla distribuzione. Il tedesco di guardia controlla la situazione. Ognuno riceve 150 grammi di pane: la razione giornaliera; un bicchiere di acqua calda che osano chiamare té e qualche volta una razione di margarina. Duecento grammi di margarina da dividere in 16 parti. Finita la distribuzione del cibo, gli addetti alla distribuzione chiedono all’S.S. tedesco cosa fare dei resti di margarina avanzati nella pentola. Il tedesco si fa portare la pentola. Prende i pezzi più grossi di margarina, quelli ancora solidi e divertito grida: « ora li getto per aria e chi li prende sono suoi ». A Buchenwald non mancano davvero persone che per la fame e per le molte sofferenze, hanno perso il senso della propria dignità ed ora sono lì, pronte a gettarsi ai piedi del tedesco pur di racimolare un po’ di margarina che forse permetterà loro di sopravvivere alla prossima selezione. Ed ecco che un terribile groviglio umano si forma ai piedi del tedesco. Ed egli gode alla vista ditale spettacolo. Nel blocco 62 c’è un vecchio. Non sembra aver paura delle selezioni. Quella margarina a lui non sembra importare. Egli mantiene uno sguardo e un portamento altero. Anche in quell’inferno non ha perduto la sua umanità e cerca di aiutare gli altri come può: con una buona parola, o privandosi di una parte del suo cibo. E neppure la sua dignità ha perduto il vecchio. Per questo non fa mai parte del groviglio umano che si gettava ai piedi del tedesco per conquistarsi un avanzo di margarina. Ecco un giorno, finita la distribuzione, il solito terribile rito si ripete. Il pane, il tè e la margarina sono ormai stati distribuiti e gli internati del blocco 62 assistono ad un insolito spettacolo: il vecchio che si getta sulla margarina e rimane disteso per terra finché non è ben sicuro che la margarina che è riuscito a racimolare è al sicuro. Anche lui, il vecchio, quello che sembrava essere il simbolo della dignità da non perdere, aveva ceduto, era crollato di fronte a una realtà disumanizzante. Anche lui aveva venduto la propria dignità per un po’ di margarina. Il vecchio si alza lentamente e qualcuno degli internati, mosso a pietà, gli consegna il proprio pezzo di margarina. E tra la meraviglia dei presenti, il vecchio li accetta. Poi, rifugiatosi in un angolo, il vecchio ebreo aspetta che il tedesco esca. Fa freddo a Buchenwald e la margarina nelle mani del vecchio è solida, ma lui la tiene vicino al bicchiere di té caldo e la margarina comincia a sciogliersi. Sembra impazzito, tira con forza i bottoni dalla sua vecchia divisa da internato e li strappa via. Anche lui a Buchenwald ha ceduto alle lusinghe della pazzia, convengono gli altri internati. Con gesti convulsi prende a sfilare alcuni fili dai lembi del vestito. Il vecchio si alza in piedi, ha in mano i bottoni, i fili e la margarina liquida e grida ai 400 internati del blocco 62 di Buchenwald: « Ebrei! oggi è Hanukkah » Dopo cinque anni e mezzo di terrore, quel vecchio, senza calendario ebraico, senza radio, senza alcun collegamento con l’esterno, era riuscito a tenere i conti, non aveva perso la nozione del tempo ed era riuscito a stabilire la data di Hanukkah. Sapeva con precisione quando cadeva Hanukkah e in quale giorno della festa si trovavano: aspettava solo il giorno della distribuzione della margarina. Prende i bottoni e li mette per terra; poi prende i fili e li infila nei bottoni e versa un po’ di margarina sui bottoni. Ecco… adesso aveva tutto ciò che gli era necessario per accendere i lumi di Hanukkah. Una persona arrotola un pezzo di carta e, dopo essersi arrampicato sulle spalle di un altro internato, lo accende usando il fuoco della lampada a nafta che illuminava debolmente il blocco. Poi lo consegna al vecchio, che, in piedi, in mezzo ai quattrocento internati, accende e i lumi recitando le benedizioni: Benedetto sii Tu, o Signore, Dio nostro re del mondo che ci hai consacrato con i tuoi precetti e ci hai comandato di accendere i lumi di Hanuklah. Benedetto sii Tu, o Signore, Dio nostro re del mondo che hai operato miracoli ai nostri padri in quei giorni, in questo tempo. Benedetto sii Tu, o Signore, Dio nostro re del mondo che ci hai mantenuto in vita e d hai fatto giungere a questo tempo. Solo allora, tutti i prigionieri che avevano seguito la scena in silenzio, cominciano a cantare, dapprima a bassa voce, ma poi sempre con maggior forza Maoz zur yeshuati. Il canto dei 400 internati si fa sempre più forte, nel blocco 62 del campo di concentramento di Buchenwald. La porta del blocco viene aperta con violenza, e al Kapò e all’SS di guardia del blocco, si presenta uno spettacolo incredibile: i quattrocento internati, per un momento, avevano riacquistato la loro libertà, come al tempo degli Asmonei: cinque anni e mezzo di terrore avevano fiaccato il loro corpo, ma non il loro spirito. Racconto orale (L’episodio è citato anche in Pardes Harlukkà, Petachia Rosenwasser, Ed. Zekher JeruBalem, pag. 327)

Rav Scialom Bahbout 

AMIDÀ (tefillot)

http://www.israeledintorni.net/index.php/2007081932/amid.html

AMIDÀ (Ebraica)
   
Domenica 19 Agosto 2007

L’amidà dopo lo Shemà fà parte delle tefillot basilari dell’ebraismo. L’amidà è anche conosciuta come la preghiera delle 18 benedizioni, anche se in realtà sono 19, una ultima fù aggiunta dopo l’esilio Babilonese.  ebraismo01La si recita rivolti a Gerusalemme in piedi con i piedi uniti, infatti la parola amidà viene da omed che significa stare in piedi ed anche stare: ani OMED lahasot, io sto per fare. Mentre si dice l’amidà non ci si può interrompere fino alla sua conclusione, ricordo che da bambino mi insegnavano che anche ci fossero dei serpenti ai miei piedi è vietato interrompere la preghiera. In genere la si dice sottovoce, e quando c’è un minian l’officiante la ripete ad alta voce, caratteristico è l’uso che il pubblico dice baruch baruch hu scemò (benedetto benedetto il suo nome) ogni volta che l’officiante benedice il Signore, ed alla conclusione della benedizione dice amèn. Escluso durante l’arvit, la preghiera serale, in cui non c’è la ripetizione. Ma quali sono queste benedizioni? Farò un breve sunto con alcuni passi caratteristici che in particolare mi hanno sempre molto colpito.

La prima benedizione è una richiesta di protezione nel nome dei nostri padri.
Dio altissimo che usi benigna misericordia, e di tutto sei il Padrone, che ricordi la pietà dei Patriarchi, e redimi con amore i loro posteri in grazie del Tuo nome.

Dà la vita ed aiuti tutti.
Sostieni i cadenti, risani gli infermi, liberi i carcerati, e mantieni la promessa data a coloro che dormono nella polvere. Chi mai Ti può eguagliare in potenza?

E’ santo.
Dio grande e santo sei tu, Benedetto sii Tu o Signore Dio Santo.

Concede intelligenza e conoscenza.
Concedici dunque in grazia ragione, intelligenza discernimento. Benedetto sii Tu o Signore, che concedi la ragione.

Ci fà tornare all’osservanza delle Tue Leggi.
Benedetto Tu o Signore che gradisci la penitenza.

Perdona i nostri peccati.
Perchè Dio buono e perdonatore Tu sei.

Ci aiuta.
Guarda la nostra miseria, difendi la nostra causa, e liberaci nostro Re in grazia del Tuo Nome.

Ci guarisca.
In quanto Dio guaritore pietoso e leale Tu.

Ci benedica.
E sazia il mondo con la tua benedizione, e dacci benedizione successo e prosperità su ogni opera delle nostre mani.

Annunci la nostra liberazione.
Radunaci presto dai quattro angoli della terra, nella nostra patria.

Ristabilisca i giudici.
Rimetti i giudici come al principio e i nostri consiglieri (ministri) come all’inizio, e regnaci presto solo Tu, con clemenza misericodia e giustizia.

Spezza i cattivi.
Per i calunniatori e per gli eretici non vi sia speranza.

Sia da aiuto ai giusti.
Accorda generosa mercede a tutti coloro che confidano sinceramente nel Tuo nome, e fa che abbiamo la nostra parte con loro.

Ritorni a Gerusalemme.
In Gerusalemme Tua città con misericordia tornerai, e la rifabbricherai quale edificio eterno presto ai giorni nostri.

Faccia giungere il Messia.
La pianta di David tuo servitore presto fiorirà.

Ascolta la nostra voce.
In quanto Padre pieno di pieta sei Tu, e non torneremo a vuoto davanti a Te.

Ristabilisca il culto.
E sarà gradito il culto d’Israele Tuo popolo.

Sia grazia a Te per i miracoli.
Per i prodigi che ogni giorno operi con noi, per i meravigliosi portenti che fai ad ogni istante, sera mattina e mezzogiorno.

Concedi la pace.
Che ci concedesti legge di vita, di amore e di misericordia, carità, benedizione, salvezza, clemenza e pace.

Amèn

04.09.05 – LA LETTERATURA RABBINICA

http://www.terrasantapiemonte.org/luoghi45.htm

04.09.05 – LA LETTERATURA RABBINICA

La letteratura rabbinica si divide in due grandi rami: uno a carattere più spiccatamente precettistico (halachico), e l’altro di carattere narrativo (haggadico) e interpretativo del testo sacro e in particolare della Legge, della Torah. Al primo appartiene la Mishnah, Corpus di norme, redatto alla fine del II sec., contenente materiale giuridico ma soprattutto religioso; preziosa fonte per conosce re la vita del pio israelita nell’epoca intorno al sorgere del l’era cristiana, la sua vita liturgica, privata e pubblica, i suoi principi morali, ecc.
Si divide in sei « ordini »: Semente, Festività, Donne (diritto matrimoniale), Danni (diritto civile e penale), Cose sacre, Cose pure. Ciascun « ordine » è risuddiviso in « trattati ».
È la Mishnah che costituisce la base su cui si sviluppano le due redazioni del Talmud; le singole parti di essa vennero fatte oggetto di discussione approfondita da parte dei dottori (Rabbini) nelle accademie apposite, in Palestina e in Babilonia, dove era sempre rimasta una comunità ebraica fin dal tempo dell’esilio nel 586 a.C., comunità che dal III sec. in poi venne ad assumere una importanza preponderante nell’ebraismo. Possiamo considerare il Talmud babilonese e il Talmud gerosolimitano come la raccolta dei verbali delle discussioni intorno al testo della Mishnah.
La discussione tende soprattutto a riallacciare la prassi codificata nella Mishnah al testo biblico e a giustificarla in base ad esso, per mezzo di determinate regole ermeneutiche. Naturalmente nel corso della discussione si introducono gli argomenti più diversi, così che il Talmud è una fonte inesauribile per la conoscenza di tutta la vita degli ebrei nei primi secoli dell’era cristiana; vi troviamo materiale storico, mitico, aneddotico, geografico; in base ad esso possiamo ricostruire il credo degli ebrei intorno a Dio, la Sua attività creatrice, la Sua provvidenza, la Sua giustizia, gli angeli e i demoni, la vita futura, l’escatologia, il messianesimo, l’elezione d’Israele, ecc.; vi troviamo la saggezza di antichi maestri, e la spiritualità e la pietà d’Israele risuona profonda in numerose preghiere.
Il Talmud palestinese si ritiene concluso nel V sec.; quello babilonese fu invece sottoposto alla revisione dei dottori detti  » saborei « , che ne vagliarono minuziosamente il materiale, dandogli anche una forma non scevra di artifici letterari; la redazione di esso si conchiude nel VI secolo [Il Talmud babilonese è tradotto in tedesco da Goldschmidt, Berlin 1929-36 e in inglese da J. Epstein, London 1936-48; quello palestinese è tradotto in francese da M. Schwab, Paris 1871-89; ristampato a Parigi. La Mishnah è tradotta in italiano da V. Castiglioni, Mishnaioth, Sabatini 1962, di cui sono usciti per ora quattro ordini. Non ci dilunghiamo su questa letteratura, rimandando a: E. Zolli, Il Talmud Babilonese, Trattato delle Benedizioni, con Introd. alla Letteratura talmudica di S. Cavalletti, Bari 1958; Strack u. Billerbeck, Einleitung in Talmud u. Midrash, Munchen 1921].
Inseriti nel Talmud si trovano alcuni trattati di origine probabilmente posteriore alla Mishnah, fra cui famoso è Aboth de-Rabbi Nathan, che è un’esposizione a carattere moraleggiante del trattato mishnico « Sentenze dei Padri », e Sopherim, fonte di grande interesse per la conoscenza dell’antica liturgia giudaica.
Il materiale normativo (halachico) che non aveva trovato posto nella Mishnah venne anch’esso riunito, al principio del III sec., in un’altra raccolta, detta Tosephta « Aggiunta ».
La halakhah mirava a regolare le azioni secondo le norme del giure religioso, ma la funzione della Torah non si esaurisce in questo; essa deve anche consolare ed edificare. Questo compito viene assolto dalla haggadah, cioè dalla letteratura interpretativa e narrativa (haggadica), che viene indicata con il termine generico di midrash (dalla radice darash, « ricercare » e « indagare »).
Forse più ancora della letteratura halachica, quella haggadica è un mondo, e possiamo indicarne solo le raccolte più importanti; bisogna distinguere in essa i midrashim di carattere più direttamente esegetico, da quelli prevalentemente narrativi o a sfondo etico; alcuni rispecchiano la predicazione nella Sinagoga, ecc.
Raccolte haggadiche esistevano a partire dall’inizio del III sec., ma nelle più antiche fra di esse sono raccolti elementi anteriori, così che possiamo asserire di cogliervi, almeno qua e là, l’eco del mondo in cui ha vissuto Gesù. Il periodo veramente produttivo del midrash corrisponde all’epoca talmudica e si esaurisce più o meno intorno al VI sec. Comincia allora l’epoca della raccolta e della redazione definitiva del materiale, periodo che arriva fino circa al XII sec.
I più antichi midrashim dovuti ai maestri del periodo della Mishnah si attribuiscono parte alla scuola di Rabbi Aqiba (m. 135), e parte alla scuola del suo contemporaneo Rabbi Jishmael; li divide una certa differenza nell’uso delle regole ermeneutiche, e l’interesse giuridico che, nelle opere dovute alla scuola di Rabbi Aqiba, si mescola a quello haggadico, mentre nelle opere della scuola di Rabbi Jishmael l’intento narrativo è prevalente.
Al primo gruppo appartiene il Sifrà, detto anche Torath Kohanim, che prende in considerazione il Levitico; il Sifrè a Numeri e a Deuteronomio. Ci sono poi due commenti a Esodo, detti ambedue Mekhilta: quello che prende il nome di Rabbi Shimon ben Johaj è della Scuola di Rabbi Aqiba, mentre l’altro appartiene alla Scuola di Rabbi Jishmael, insieme con un altro Sifrè a Deuteronomio; tuttavia l’attribuzione a una scuola o all’altra non va intesa in maniera assoluta. Si tratta di commenti parziali e non sistematici ai libri biblici.
Carattere di commento sistematico al Genesi ha il più antico midrash esegetico, detto Genesi rabba (be-reshit rabba); esso contiene materiale assai antico, anche se il periodo della redazione di esso è incerto. Non vi mancano interpretazioni a carattere normativo, ma vi si rispecchia soprattutto la tradizione haggadica palestinese, come nel midrash a Lamentazioni (Ekhah Rabbathi), che appartiene anch’esso ai più antichi midrashim esegetici. Fra i più recenti ricordiamo invece il midrash ai Salmi e ai Proverbi.
Quanto ai midrashim omiletici, si discute se il più antico sia la raccolta Pesiqta de Rab Kahana (detta anche Pesiqta semplicemente) o il Levitico rabba (wa-jiqra rabba). C’è chi ritiene addirittura Pesiqta come la più antica raccolta midrashica; alcuni la ritengono contemporanea di Genesi rabba, altri vedono invece in Lamentazioni rabbati e in Levitico rabba una fonte di Pesiqta.
Si tratta comunque di testi antichi, contenenti materiale assai antico. Pesiqta contiene le omelie alle letture del Pentateuco prescritte per i sabati distinti e le feste, e le omelie ad alcune letture profetiche. Omelie alle stesse letture e ad altre letture della Torah e dei profeti sono raccolte in Pesiqta rabbati, così detta per distinguerla dalla più antica raccolta dello stesso nome.
Alla letteratura haggadica del primo periodo appartiene anche la Megillath Taanit, « Rotolo del digiuno », dove sono indicati i giorni in cui si è prodotto qualche fausto evento della storia d’Israele e nei quali quindi è proibito digiunare. È un’opera a carattere storico, nella quale tuttavia la storia è abbellita da elementi popolari. Dello stesso genere ma posteriori sono il Seder Olam e i Pirqè Rahhi Eliezer, databili forse all’VIII sec.
Nel V sec. vive in Palestina il famoso haggadista Rabbi Tanhuma bar Abba, che iniziò la raccolta sistematica e la presentazione letteraria della haggadah. Sotto il suo nome è nota la grande collezione omiletica che copre tutto il Pentateuco, seguendo le divisioni in pericopi della lettura liturgica settimanale. Esiste un midrash Tanhuma A (edito da Salomone Buber), e un midrash Tanhuma B, conosciuto anche come Jelammedenu (« Insegnaci »), dalla frase con cui si introducono le domande su questioni halachiche. Sono caratteristiche di queste omelie le conclusioni consolatorie a carattere messianico.
Dipendono dal midrash Tanhuma le raccolte omiletiche di Esodo rabba (shemoth rabba), Numeri rabba (be-midbar rabba); mentre Deuteronomio rabba (debharim rabba) dipende piuttosto dal Talmud palestinese, da Genesi rabba e da Lamentazioni rabbati; secondo Zunz andrebbe datato al 900.
Si collega invece ancora al midrash Tanhuma la Aggadath Eereshith, la cui particolarità consiste nella triplice divisione di ogni omelia: la prima parte si collega a un passo di Genesi, la seconda a un brano profetico e la terza a un testo degli agiografi. Si può forse trarre da qui l’indicazione di quale fosse la lettura profetica (haftarah} che seguiva ciascuna pericope di Genesi. I midrashim omiletici sono comunque preziosa fonte per la conoscenza dell’anno liturgico giudaico e in genere della vita liturgica della Sinagoga.
I midrashim ai « Cinque Rotoli » (Esther, Cantico dei Cantici, Lamentazioni, Ruth ed Ecclesiaste) si trovano riuniti a partire dalla editio princeps di Pesaro nel 1519; si tratta tuttavia di opere indipendenti l’una dall’altra. Di Lamentazioni rabbati abbiamo già detto. Cantico rabba (shir ha-shirim rabba) è un’opera di compilazione che raccoglie, seguendo verso per verso il testo biblico, materiale tratto in gran parte dal Talmud palestinese, da Genesi rabba, da Pesiqta e Levitico rabba. Il testo biblico viene interpretato per lo più in senso allegorico, ricercandovi allusioni di carattere mistico all’incontro tra Dio e il Suo popolo.
Anche Ruth rabba è un commento verso per verso al libro biblico, preceduto da un lungo proemio. Le fonti sono le stesse del midrash al Cantico.
Opera di compilazione è anche il midrash a Ecclesiaste (Qoheleth rabba); il compilatore attinge a Genesi rabba al midrash a Lamentazioni e a Cantico, e anche a fonti omiletiche, come Pesiqta e Levitico rabba.
Il midrash Megillath Esther, contiene anch’esso materiale attinto a fonti antiche (Talmud palestinese, Genesi rabba, Levitico rabba), com’è naturale, dato che il Libro di Esther fu fatto oggetto di studio nelle scuole rabbini – che già in tempi assai remoti; inoltre vi si trovano dei brani interpolati, che si ritengono tratti dal Josippon, opera composta in Italia nel IX sec. che tratta, alla maniera haggadica, la storia d’Israele dalla caduta di Babilonia alla distruzione del Tempio. Le interpolazioni riguardano il sogno di Mardocheo e la sua preghiera, la preghiera di Esther e la sua comparsa davanti al re, passi che non fanno parte del testo ebraico di Esther, ma ci sono pervenuti in greco.
Le grandi raccolte midrashiche ci riportano infine a tempi più tardi. Leqah tobh sarebbe dovuto a Tobia ben Eliezer (sec. XI-XIl) e copre tutto il Pentateuco e i Cinque Rotoli. Il Midrash ha-gadol è posteriore a Maimonide, ma conserva alcuni midrashim del primo periodo che non ci sono altrimenti noti. Il grande Thesaurus a tutto l’ Antico Testamento porta il nome di Jalqut Shimoni; contiene materiale halachico e haggadico. Di un secolo più tardo è il Jalqut ha-Makhiri.
L’enumerazione dei midrashim è ben lungi dall’essere completa, ma per amore di chiarezza preferiamo limitarci alle opere di importanza fondamentale [Un certo numero di midrashim è stato tradotto da A. Wünsche in " Biblioteca Rabbinica "; per notizie su di essi v. Strack u.. Billerbeck, o.c.; il Midrash rabba è tradotto in inglese, ed. Soncino, Londra 1939, ristampato nel 1951 e 1961].
Va aggiunta ancora una parola a proposito delle traduzioni aramaiche della Bibbia, il Targum [V. A. Diez Macho, Targum y Nuevo Testamento, Melan E. Tisserant, Città del Vaticano 1964, I, 153 ss.]. L’origine del Targum è sinagogale; sorse presto – forse addirittura dall’epoca del ritorno dall’esilio – il bisogno di tradurre il testo biblico per quelle comunità che non capivano la lingua ebraica. Anche la traduzione greca, detta dei settanta, è dovuta a un’esigenza dello stesso genere. Il Trattato Sopherim (10,1) stabilisce le regole per tali traduzioni: il traduttore (meturgeman) deve tradurre la Torah un versetto alla volta; i profeti tre versetti alla volta. Si sono venute formando così varie raccolte targumiche.
Ogni traduzione, anche letterale, è sempre un po’ un’interpretazione del testo; nel Targum poi molto spesso il meturgeman si allontana dal testo, lo abbellisce, vi aggiunge materiale haggadico. In tal modo il Targum diventa una importantissima fonte per la conoscenza del giudaismo tanto più importante in quanto gli studiosi sono oggi per lo più d’accordo nel riconoscere un’origine precristiana al materiale targumico, anche se redatto più tardi.
La scoperta sensazionale avvenuta nel 1956 di un manoscritto di un Targum completo – meno pochi versetti tralasciati per errore di scriba – al Pentateuco, chiamato dall’indicazione del frontespizio Codice Neofiti, ha destato nuovo interesse per questi studi, e si è visto che gli argomenti che il Kahle aveva portato per rivendicare una data assai antica ad alcuni frammenti targumici d’origine palestinese rinvenuti al Cairo, valevano anche per questo testo.
Il Codice Neofiti contiene un Targum per lo più – sopratutto per Levitico e Deuteronomio – sobrio e fedele al testo biblico, tanto che si pensa a una redazione più o meno ufficiale. I lunghi passi haggadici, che malgrado tutto si sono conservati, sarebbero dovuti probabilmente alla veneranda antichità di talune tradizioni o anche a particolari usi liturgici.
Sta di fatto che la situazione degli studi targumici si è venuta capovolgendo: il Targum detto Onqelos, traduzione quasi letterale dei cinque Libri di Mosè, era ritenuto come il più antico e di origine babilonese; ora si pensa invece che esso sia un’abbreviazione del Targum palestinese, detto pseudo Jonatham e che contenga haggadah palestinese. L ‘Onqelos è redatto in un aramaico di scuole, detto « aramaico imperiale », idioma in cui sono redatte anche le parti aramaiche della Bibbia.
Il Targum pseudo-Jonathan, detto anche Jerushalmi, copre anch’esso tutto il Pentateuco, ma è più perifrastico dell’ Onqelos, incorporando materiale haggadico, che diventa assai abbondante nella seconda recensione di esso, nota come  » Targum frammentario « , perché conservato solo per un numero complessivo di 800 versetti. E’ stato constatato che l’antico midrash Genesi rabba si riferisce sempre – meno una o due volte – al Targum palestinese, e non all’Onqelos, cosa che viene a confermare la datazione antica del primo.
Esiste ancora un Targum ai profeti detto di Jonathan ben Uzziel, scritto nella lingua del Targum Onqelos. Anche in esso sono state conservate tradizioni assai antiche: è spiegabile ad es. che l’interpretazione in chiave messianica che esso dà del passo di Michea 5,2 « Da Te, Betlemme, uscirà il Messia ») sia stata conservata dopo la nascita del cristianesimo, ma non si può supporre che vi sia stata inserita dopo.
Mentre il Targum al Pentateuco e ai profeti era la traduzione ufficiale della Sinagoga palestinese, il Targum agli agiografi non ha mai raggiunto l’importanza degli altri; la cosa ha il suo lato positivo, perché esso ha così goduto di una maggiore libertà nell’uso delle parafrasi, conservando quindi tradizioni haggadiche interessanti. Le constatazioni di una parentela tra il Targum di Proverbi e la traduzione siriaca dello stesso testo, anzi la supposizione Che la seconda dipenda dal primo, fanno pensare anche in questo caso a una datazione antica.
L’attribuzione del Targum al Pentateuco a Onqelos e di quello dei profeti a Jonathan è una finzione, con la quale si voleva affermare che quello che Aquila e Teodozione avevano fatto per gli ebrei di lingua greca era stato fatto anche per quelli fra loro che parlavano aramaico. I Targumim non sono opera personale, fatta a tavolino, ma rispecchiano la catechesi viva.
In quanto all’importanza del Targum per la conoscenza dell’ambiente in cui è sorto il Vangelo, ci limitiamo a riportare le parole del noto studioso francese, Roger Le Deaut: « …le ricchezze contenute nelle fonti targumiche fanno parte di quella ‘tradizione’ del popolo di Dio, in Cui gli autori ispirati hanno attinto per esprimere il messaggio di Cristo. Noi cattolici che insistiamo tanto, a ragione, sul valore della Tradizione dovremmo essere pronti a considerare con molta simpatia tutte queste ricchezze religiose che costituivano una parte della religione di coloro per mezzo dei quali ci è venuta la luce del Vangelo » (La Nuit Pascal, Rome, 1963, p. 58).
Ci siamo talvolta riferiti anche a testi liturgici; aggiungiamo quindi qualche notizia sommaria anche intorno ad essi.
Il grande riformatore della liturgia giudaica fu Rabban Gamlièl Il, che visse al tempo della distruzione del Tempio (70 d.C.). Come il suo contemporaneo Rabbi Johannan ben Zakkaj riconobbe la necessità di alcuni cambiamenti nella Legge (abolì per esempio la prova delle  » acque amare  » per la donna sospetta di adulterio), così Rabban Gamlièl sentì un bisogno analogo per quel che riguarda la liturgia e affrontò con decisione la situazione cambiata, in conseguenza della caduta del Tempio. Come Rabbi Johannan ben Zakkaj cercò in qualche modo di sostituire Gerusalemme, organizzando l’accademia di Jabne, così Rabban Gamlièl compensò con l’ organizzazione della preghiera – considerata « sacrificio delle labbra » – il culto sacrificale, caduto con il Tempio.
Le più antiche indicazioni liturgiche si trovano nella Mishnah e nella Tosefta, dove troviamo però per lo più indicazioni di carattere rubristico (v. in particolare i trattati dell’ordine « Festività » ), e solo raramente il testo vero e proprio di preghiere.
Si incomincia evidentemente ad andare verso una fissazione della struttura liturgica, rimasta fino ad allora piuttosto fluida; tale fissazione riguarda però ancora piuttosto il quadro esteriore e non le formule. Mishnah e Tosefta sono tuttavia preziose per ricostruire almeno la struttura di gran parte dell’antica liturgia ebraica, e ci permettono di constatare il perdurare fino ad oggi di antichi elementi liturgici. Le notizie contenute nelle due antiche raccolte rabbiniche vengono naturalmente riprese e ampliate più tardi nella discussione talmudica.
Carattere ancora più o meno rubristico ha Massekheth Sopherim (il trattato degli  » Scribi  » ), che fornisce fra l’altro importanti notizie intorno alle letture liturgiche sinagogali (benedizioni che le accompagnano, spiegazione e traduzione di esse, numero dei lettori, ecc.), e rispecchia gli usi gerosolomitani. Si discute se far risalire la sua redazione al VI o all’VIII sec.; comunque contiene materiale, che risale all’epoca della Mishnah.
Non sappiamo se la terribile proibizione contenuta in Tosefta Shab. 14, 4: « Chiunque redige in iscritto una preghiera, commette un peccato, come se bruciasse la Torah » sia stata realmente ritenuta valida e per quanto tempo. Comunque la grande epoca di redazione delle raccolte di preghiere (siddurim) inizia nell’VIII-IX sec., con il siddur di Amram gaonita [Di una parte del siddur di AMRAM esiste una traduzione inglese con testo e commento: Hedegard D., Lund 1951.]; è un documento ufficiale dell’accademia di Sura, la cui fonte principale è il Talmud babilonese e rispecchia la tradizione liturgica babilonese.
Nel X sec. il gaonista Saadjah redige egli pure un siddur, che rispecchia la prassi liturgica palestinese.
Una specie di Thesaurus liturgico è il Mahsor Vitry, compilato da Simha ben Shemuel, talmudista francese del XII sec. alunno di Rashj, con aggiunte di altri; vi troviamo raccolte di rubriche, preghiere, commenti a testi liturgici ecc. Altra inesauribile fonte di notizie liturgiche è Mishneh Torah di Maimonide.

Sofia Cavalletti

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 10 octobre, 2013 |Pas de commentaires »

IL SIGNORE TI BENEDICA (01.05.05) – LA BENEDIZIONE SACERDOTALE

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01/05/2005

IL SIGNORE TI BENEDICA (01.05.05)

Meditazione sulla “benedizione sacerdotale” (Nm 6,22-27), svolta nel corso del XII convegno di teologia della pace, Sacerdozio: una mediazione per la pace, Ferrara 10 aprile 2005.

PIETRO STEFANI

        «Il Signore aggiunse a Mosè: “Parla ad Aronne e ai suoi figli e dì loro: Voi benedirete così i figli d’Israele; direte loro:
Ti benedica il Signore
e ti  custodisca.
Il Signore faccia risplendere il suo volto per te
e ti faccia grazia.
Il Signore elevi il suo volto  su di te
e ponga su di te la pace.
Così porranno il mio nome sui figli d’Israele
e Io li benedirò». (Nm 6,22-27).

Quattro brevi pensieri.
1. L’azione sacerdotale non è un atto che ha valore in se stesso; non è dotata di alcun potere intrinseco: è obbedienza alla parola. Tutto inizia dall’ascolto prestato al comando di Dio che scende su Mosè e si dilata verso i sacerdoti: «Il Signore disse a Mosè: ‘Parla ad Aronne e ai suoi figli [i sacerdoti]…». Lo stesso vale per l’incipit del più sacerdotale tra tutti i libri biblici, il Levitico: «Il Signore chiamò Mosè dalla tenda del convegno e gli disse…» (Lv 1,1).
I figli di Aronne sono posti in mezzo tra la parola del Signore, giunta loro grazie a  Mosè, e i figli d’Israele. Il sacerdozio non ha significato senza ascolto obbediente e senza essere posto al servizio della comunità.
2. La mediazione sacerdotale è paragonabile al fermento catalitico: consente la reazione ma non ne fa parte in modo diretto, non è un protagonista in prima persona: «Così benedirete i figli d’Israele, dicendo loro: il Signore vi benedica e vi custodisca». La benedizione del sacerdote sta nel chiedere al Signore di benedire e custodire con impegno (si usa il verbo shamar, lo stesso adoperato per l’osservanza dei precetti)  il proprio popolo. Non c’è benedizione maggiore dell’obbligo di custodia assunto dal Signore nei confronti dei figli d’Israele. La benedizione sacerdotale è quella che chiama in causa in prima istanza il Signore: «Il Signore elevi il suo volto su di te e ponga su di te la pace. Porrete il mio nome sui figli d’Isarele e Io li benedirò». In ebraico la presenza del termine «io» (’ani) è  enfatica, qui dunque si vuole rimarcare volutamente l’azione di Dio. In questo senso i commenti rabbinici sono di una chiarità solare: «“E Io li benedirò”. Queste parole sono aggiunte perché i figli d’Israele non pensino che le loro benedizioni dipendano dai loro sacerdoti; allo stesso modo i sacerdoti non debbono dire “Siamo noi a benedire Israele”» (Sifre Numeri, Naso, par. 43).
3. La cornice della benedizione evoca una dimensione plurale. Inizia dicendo «Così benedirete i figli d’Israele» e si conchiude con la promessa divina «E Io li benedirò». Ci troviamo nell’ambito di una comunità. Nel mezzo però tutto si riferisce a un singolare di seconda persona: «Il Signore ti benedica e ti custodisca…». La benedizione sta nel fatto che il Signore ti riconosce come un soggetto davanti a lui e nel contempo come parte di una comunità. Dio non benedice nazioni, popoli, patrie o bandiere. Qui non lo fa neanche in relazione alla collettività d’Israele. Non si benedice però nemmeno l’individuo in quanto tale o il singolo. Si benedice il soggetto colto come parte di una comunità. Ben lo comprese Francesco d’Assisi quando, dopo aver trascritto la benedizione del libro dei Numeri, concluse con queste parole «il Signore benedica te, Frate Leone». In un documento autentico, inserita nel nome di Leone, si trova una tau vergata dal  pugno del santo. Lo spirito  di Francesco è esattamente quello biblico. Si benedice chi appartiene a un gruppo (Frate), ma ci si rivolge a lui come persona (Leone).
4. «Il Signore faccia risplendere il suo volto (ja’er) per te e  ti faccia grazia (wichunnekh)». Le due cose sono una: il far risplendere il volto (espressione non rara nella Scrittura, cfr. per es. Sal 31,167; 67,2; 80,4.8.20…) coincide con l’atto stesso di far grazia. Per comprenderlo appieno occorre guardare al suo opposto, vale a dire all’espressione che indica il nascondimento del volto (str panim)  di Dio. Essa nella Bibbia  è ancora più frequente (cfr. per es. Dt 31,17; 33,20; Is 8,17; 54,8; 59,2; 64,6; Ger 33,5; Ez 33,23; Gb 13,23-24). Il più delle volte indica un ritrarsi del Signore che lascia l’uomo in preda al suo peccato; in tali circostanze egli è temporaneamente escluso dalla grazia di Dio. Al contrario, quando il volto di Dio risplende su di te significa che il tuo peccato ti è stato cancellato. Questo atto di misericordia ti riconsegna a essere pienamente un soggetto benedetto davanti a Dio e riconciliato con i membri della tua comunità. La pace non è altro che questo: «Elevi il Signore il suo volto su di te [vale a dire non lo nasconda] e ponga su di  te la pace».

Piero Stefani

LA SAPIENZA DI ISRAELE – UNA RIFLESSIONE NUOVA

http://www.paroledivita.it/upload/2003/articolo1_4.asp

LA SAPIENZA DI ISRAELE

PRIOTTO M.

UNA RIFLESSIONE NUOVA

È  innegabile la meraviglia che investe il lettore della Bibbia quando, dopo aver gustato la dolcezza e la profondità teologica della raccolta dei Salmi, s’addentra nella lettura del libro dei Proverbi. Egli prova immediatamente la sensazione di trovarsi in un territorio nuovo e diverso, dove regnano i saggi, ricchi di un sapere che proviene da lontano e che tuttavia vuole essere attuale e provocante. Questo nuovo paese comprende, oltre al libro dei Proverbi, anche altri quattro libri, che formano come una pentapoli sapienziale[1]: sono i libri di Giobbe, Qoelet, Siracide e Sapienza. Essi costituiscono come un pentateuco sapienziale, il cui patrono e ispiratore è Salomone. Possiamo considerare Proverbi e Siracide come fratelli a motivo delle loro innegabili somiglianze; così protesta e anticonformismo legano strettamente fra loro Giobbe e Qoelet; rimane Sapienza, una splendida riflessione in ambiente greco-alessandrino, che chiude l’intera rivelazione veterotestamentaria.
La particolarità di questi libri biblici consiste nel fatto che, pur attingendo abbondantemente dalla precedente tradizione biblica, si distinguono chiaramente da essa; non offrono narrazioni di storia salvifica, anche se talvolta affiorano riletture storico-narrative, come nel caso di Sap 11-19; né propongono nuove leggi, sebbene il tema della legge emerga qua e là; né raccolgono oracoli profetici, sebbene la riflessione sulla parola di Dio sia presente e sentita: Questa letteratura invita il lettore a una riflessione di tipo nuovo, che chiamiamo sapienziale, originale e ricca di suggestioni. È proprio la letteratura sapienziale.
Nella passata ricerca biblica questa letteratura sapienziale non ha goduto di molta simpatia da parte degli studiosi, ad eccezione dei libri di Giobbe e di Qoelet. I libri del Siracide e della Sapienza, soprattutto a causa della loro esclusione dal canone ebraico e protestante, non hanno suscitato molto interesse, e anche il libro dei Proverbi, pur essendo canonico, s’è trovato nella medesima situazione. Il motivo va ricercato soprattutto in una impostazione di fondo che dominava gli studi esegetici fino ai tempi recenti; questa impostazione, ossessionata da una preoccupazione esclusivamente storica, non ha favorito l’interesse per una riflessione sapienziale, orientata invece ai temi fondamentali della vita umana con astrazione da fatti o circostanze storiche particolari.

2. Il ritrovato interesse per la sapienza

La riscoperta della letteratura sapienziale in questi ultimi decenni è un fatto innegabile, dovuto al sorgere di nuovi interessi e alla caduta di impostazioni critiche, che certezze non erano, ma semplici pregiudizi. Un esempio significativo è stato l’eminente esegeta tedesco G. von Rad (1901-1971) che, partendo dagli studi storico-critici sul Pentateuco, è approdato dapprima a una monumentale teologia dell’Antico Testamento (1957-1960) e infine a un brillantissimo saggio sulla sapienza in Israele (1970).
Questa scoperta della letteratura sapienziale è di fatto una riscoperta, che riallaccia gli studi attuali all’antica tradizione patristica e medioevale, dove i libri sapienziali erano molto conosciuti e commentati. Questi libri sapienziali, infatti, si occupano dell’uomo presente e in particolare del problema della vita in tutti i suoi risvolti positivi e drammatici. È il problema con cui è affrontato l’uomo fin dalle prime battute della riflessione biblica, quando si lascia fuorviare da una falsa ricerca della sapienza (cf. Gn 3,1-7).
La sapienza si propone come l’albero della vita, essa, infatti, «è un albero di vita per chi ad essa si attiene e chi ad essa si stringe è beato» (Pr 3,18). Non solo, ma quest’albero di vita che è la sapienza, contro ogni tentazione di ridurre la fede a codice o a culto, si presenta come una signora, offrendo la possibilità di un profondo rapporto esistenziale, anzi di un innamoramento: «Beato l’uomo che mi ascolta, vegliando ogni giorno alle mie porte… chi trova me trova la vita» (Pr 8,34-35).
L’impegno per chi ricerca la sapienza dunque non è solo di ordine intellettuale e conoscitivo; si deve desiderarla con tutto il cuore, perseguirla tenacemente, ascoltarla e infine invocarla con la preghiera, perché essa è soprattutto dono di Dio. Una volta raggiunta, la si deve ancora ricercare, senza presumere di averla ottenuta definitivamente, perché, come ben ricorda il vecchio saggio Ben Sira: «Il primo uomo non esaurì la comprensione della sapienza, né l’ultimo la potrà pienamente indagare» (24,26).

3. Carattere sfuggente
La prima impressione che suscita la frequentazione della sapienza è il suo carattere sfuggente; si ha la sensazione di una presenza difficile da inquadrare[2]. È significativo che i due termini riassuntivi del Primo Testamento siano la Legge e i Profeti, dove mancano appunto i saggi. Molte teologie bibliche dell’Antico Testamento omettono la sapienza o le danno un posto a fatica; sembra infatti che un proverbio non costituisca una rivelazione; non è ovvio affermare che non bisogna fidarsi del bugiardo, che il pigro si prepara una vecchiaia difficile, che il marito infedele diventa spendaccione?
Contro questa impressione si deve invece rilevare che la sapienza ci descrive il quotidiano, quello che forma l’intreccio della nostra vita, ma dal punto di vista di Dio! La nostra vita è frammentata, dispersa, apparentemente indifferente o neutrale, talvolta drammaticamente confrontata con problemi insolubili. La sapienza ne rivela il senso, le conferisce unità, scoprendovi la presenza di Dio. Quel Signore, che parla tramite i profeti ed è presente nel tempio e nella Torah ivi custodita e annunciata, è pure il Signore della nostra vita quotidiana, delle nostre domande, del nostro mondo!

4. Una figura emblematica: Salomone
Tre libri sapienziali vengono attribuiti a Salomone: Proverbi, Qoelet e Sapienza; l’attribuzione è fittizia, ma ha un senso! Essa risale anzitutto alla tradizione biblica di 1Re 5,9-14, che attribuisce al re Salomone una vasta e profonda conoscenza sapienziale: tremila proverbi, millecinque poesie e un sapere scientifico enciclopedico.
Il midrash approfondisce questa tradizione articolando con più precisione la conoscenza sapienziale del re:
«Salomone ha scritto il Cantico quando era giovane, i Proverbi all’età matura e Qoelet nella sua vecchiaia; perché quando l’uomo è giovane, canta; quando è adulto, enumera delle massime; quando diventa vecchio, parla della vanità delle cose»[3].
È evidente il tentativo di coprire con l’insegnamento sapienziale tutti gli ambiti della vita.
L’universalità di questo sapere sapienziale traspare dalla qualifica regale di Salomone. Il re, infatti, a differenza del sacerdote o del profeta, non rappresenta alcuna classe sociale particolare, bensì tutto il popolo; per cui attribuire la sapienza a Salomone significa attribuirla al popolo. Effettivamente gli scritti sapienziali danno la parola a Israele, al popolo e l’io regale salomonico uguaglia l’io anonimo di ogni israelita.
Questa sapienza non è un sapere chiuso, nazionalistico, ma mette in relazione Salomone e Israele con la sapienza dei popoli, superandola:

«La saggezza di Salomone superò la saggezza di tutti gli orientali e tutta la saggezza dell’Egitto» (1Re 5,10).
Questo fatto è importante perché permette a Israele di prendere coscienza della sua comune appartenenza all’umanità. Israele è originale nella sua coscienza dell’universale, che non gli è proprio; questo universale infatti appartiene all’uomo in quanto tale e non solo al giudeo. Tramite la sapienza Israele prende coscienza di essere figlio di Adamo prima di essere figlio di Abramo! Ecco perché in questa letteratura sapienziale scompare quasi totalmente la storia salvifica e Salomone diventa sinonimo di uomo.
Questo Salomone sapienziale però non abdica alla propria identità! Anzi, il comune linguaggio sapienziale e la sua presenza in mezzo alle nazioni tramite il fenomeno della diaspora gli permettono di far loro conoscere la propria storia di figlio di Abramo. È quanto fa il Salomone anonimo del libro della Sapienza: egli parla anzitutto ai re della terra (cf. 1,6), si qualifica poi come Salomone (cc 7-9) e infine commenta la storia di Israele (cc 10-19), dove decifra la storia umana alla luce della propria fede e racconta la storia di Israele nel linguaggio della sapienza universale.

5. Descrizione-definizione della sapienza
È difficile definire concettualmente la sapienza a motivo della vastità dei suoi interessi e del suo carattere sfuggente a cui si accennava sopra. Ecco perché gli studiosi l’hanno definita variamente, chi insistendo sul suo carattere di conoscenza, chi sulla sua proposta etica, chi sul suo sforzo di definire e di proporre un ordine universale, chi sull’intento di raggiungere il successo nella vita privata e sociale[4]. Certamente queste definizioni evidenziano aspetti reali di questo fenomeno complesso che è la sapienza, tuttavia non esaustivi. Infatti non si può affermare che la sapienza costituisca una forma di conoscenza sia pure particolare; così non si può ridurre la ricerca sapienziale alla proposta e all’esposizione di un ordine morale vincolante, pur essendo evidente il suo interesse alla formazione della coscienza morale; anche la ricerca di un ordine del creato con cui armonizzare le scelte e avere così successo nella vita è debitrice più a una concezione egiziana che biblica[5].
Tentando una definizione di sapienza che tenga conto delle osservazioni precedenti, potremmo adottare la formula concisa e accattivante di A. Schökel: «Un’offerta di senso»[6]. «Senso» indica non solo il cosiddetto buon senso, bensì la ragione interiore di un avvenimento, di una scelta o di un’intera esistenza; l’uomo infatti è alla ricerca di ciò che, al di là degli aspetti esteriori, conferisce la ragione d’essere, il significato profondo di un evento, di una vita e addirittura della storia e del mondo. Il secondo termine «offerta» sottolinea la particolare pedagogia del maestro di sapienza, il quale non usa la leva della legge o dell’autorità per imporre il proprio insegnamento, quanto piuttosto l’arte della proposta libera ma suadente; egli è convinto di offrire un bene prezioso che si imporrà da sé, anche se in un arco di tempo lungo. Si tratta di convincere, più che di imporre, evidenziando il valore della proposta più che la forza di un’autorità o la gravità di una sanzione.
Questa offerta di senso propone un’attitudine e un metodo che portano all’autorealizzazione dell’uomo sia nella sfera privata che in quella professionale; con ciò si raggiungono gli ambiti della natura, della società e della religione, e vengono ricuperati gli aspetti della conoscenza, dell’etica e dell’ordine.

6. La sapienza come abilità dell’artigiano
Quella che s’è data è una definizione-quadro della sapienza, che necessita ancora di essere precisata. Punto di partenza non è l’ambito intellettuale e conoscitivo, ma piuttosto quello pratico-tecnico. Infatti il termine hokma orienta anzitutto all’abilità tecnica dell’artigiano che sa realizzare un’opera artistica e pregevole, come nel caso di Bezaleel, del quale si dice:
«L’ho riempito dello spirito di Dio, perché abbia saggezza, intelligenza e scienza[7], in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli in oro, argento e rame, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro» (Es 31,3-5).
Qui il vocabolario sapienziale definisce l’abilità artistica di Bezaleel nella costruzione del santuario. Con la stessa terminologia sapienziale viene descritto Chiram, che Salomone fa venire da Tiro per la costruzione del Tempio di Gerusalemme (cf. 1Re 7,14).
È partendo da questa espressione umana che la fede dell’Antico Testamento parla della sapienza creatrice di Dio. Egli viene concepito come l’artigiano per eccellenza, che ha saputo costruire questo mondo meraviglioso in cui viviamo:
«Egli ha formato la terra con potenza, ha fissato il mondo con sapienza (hokma), con intelligenza (tebuna), ha disteso i cieli» (Ger 10,12).
A Geremia fanno eco i Salmi:
«Quanto sono grandi, Signore, le tue opere! Tutto hai fatto con saggezza (hokma)» (104,24);
«Hai creato i cieli con sapienza (tebuna), perché eterna è la tua misericordia» (136,5).
È questo Dio dunque che al termine della sua giornata lavorativa può contemplare l’opera delle sue mani ed esclamare con soddisfazione: è bello, è buono! (cf. Gn 1).
Così concepita, la creazione interpella l’uomo; essa infatti viene offerta all’uomo perché possa coltivarla e custodirla (cf. Gn 2,15), riempirla e soggiogarla, dominare sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra (Gn 1,28). Così la sapienza che Dio ha effuso a piene mani nel creato viene offerta all’uomo:
«Il Signore ha creato la sapienza; l’ha vista e l’ha misurata, l’ha diffusa su tutte le sue opere, su ogni mortale, secondo la sua generosità; la elargì a quanti la amano» (Sir 1,7-8).
Si tratta allora per l’uomo di continuare l’opera creatrice di Dio mediante una contemplazione disinteressata e gioiosa che sfocia nella lode, mediante soprattutto una vita guidata dalla Torah; l’ordine del creato, infatti, esige l’ordine morale dell’uomo (cf. Sal 19)! L’uomo dunque si scopre artigiano della propria vita ed è grazie al dono della sapienza che egli potrà modellare con decisioni piccole o grandi la propria vita facendone un’opera d’arte. Solo al termine della propria vita l’uomo completerà quest’opera: «Prima della fine non chiamare nessuno beato; un uomo si conosce veramente alla fine» (Sir 11,28).
È questo il grande compito dell’uomo, compito difficile, ma esaltante; compito personale, ma all’interno di una comunità; compito dell’uomo, ma reso possibile unicamente dal dono della sapienza. Soltanto lei può offrire un senso compiuto all’esistenza dell’uomo ed è proprio questo senso della vita che i maestri di sapienza cercano e offrono a tutti coloro che aderiscono alla loro scuola:
«Figlio mio, fa attenzione alle mie parole, porgi l’orecchio ai miei detti; non perderli mai di vista, custodiscili nel tuo cuore, perché essi sono vita per chi li trova e salute per tutto il suo corpo» (Pr 4,20-22).

7. Un’offerta sponsale
La sapienza lungo i secoli del tempo biblico assumerà una pluralità di volti, come un orizzonte che si apre su un altro orizzonte, senza discontinuità e senza fine. Occorre sempre cercare la sapienza sapendo che «quanti si nutrono di lei avranno ancora fame e quanti bevono di lei avranno ancora sete» (Sir 24,20). Ma una certezza sempre più forte emerge in questo cammino verso la sapienza: essa si rivela come l’unica sposa ideale dell’uomo.
L’autore del libro della Sapienza, rileggendo il sogno di Gabaon (1Re 3,4-15) in chiave mistico-sponsale, descrive l’innamoramento del giovane Salomone:
«Questa ho amato e ricercato fin dalla mia giovinezza, ho cercato di prendermela come sposa, mi sono innamorato della sua bellezza» (8,2).
Più che un progetto volontario e deliberato, si tratta di un’attrazione incontenibile; è infatti essa stessa che con la sua ricerca amorosa previene ogni ricerca dell’uomo (Sap 6,12-16). E così il giovane Salomone, tipo di ogni giovane alla ricerca del senso della propria vita, si mette alla ricerca della sapienza, per condurla a casa propria e sposarla:
«Ritornato a casa, riposerò vicino a lei, perché la sua compagnia non dà amarezza, né dolore la sua convivenza, ma contentezza e gioia (8,16).
Nessun successo nella vita pubblica potrebbe compensare un insuccesso nella vita privata; di qui il ritratto della sapienza come l’unica sposa che può rendere felice l’uomo.
Si tratta però di un ideale non ancora raggiunto, ma solo agognato (i verbi sono al futuro!). Sorge così spontaneo l’anelito alla preghiera, un anelito sempre più insistente e appassionato, a cui ogni ricercatore della sapienza è invitato:
«Sapendo che non l’avrei altrimenti ottenuta, se Dio non me l’avesse concessa, – ed era proprio dell’intelligenza sapere da chi viene tale dono – mi rivolsi al Signore e lo pregai» (8,21).

[1] L’espressione è di L. Alonso Schökel, a cui siamo debitori per queste note introduttive. Cf. L. Alonso Schökel-J. Vilchez Lindez, I Proverbi, Borla, Roma 1988, 17-25.
[2] Vedi al riguardo le stimolanti riflessioni di P. Beauchamp, L’uno e l’altro testamento, Paideia, I, Brescia 1985, specialmente 123-141.
[3] Midr.Rab. Cant 1,10. Anche la tradizione cristiana a partire da Origene fino al Medioevo riprende questa interpretazione giudaica, riorientandola però in senso spirituale: con i Proverbi Salomone insegna ai principianti come vivere virtuosamente nel mondo; con Qoelet indica a coloro che sono già avanzati nella vita spirituale a disprezzare le cose del mondo come vane e fugaci; col Cantico Salomone parla agli iniziati dell’amore di Dio. Cf. R.E. Murphy, L’albero della vita. Una esplorazione della letteratura sapienziale biblica, Queriniana, Brescia 1993, 15.
[4] Per una panoramica delle proposte moderne circa la definizione della sapienza vedi V. Morla Asensio, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione allo studio della Bibbia 5), Paideia, Brescia 1997, 30-45.
[5] Gli antichi egiziani attribuivano l’ordine primordiale del mondo alla Ma’at, che consideravano una dea o quantomeno un attributo della divinità. Essa è l’ordine immanente del mondo, non soltanto del mondo naturale, ma anche del mondo umano. Alonso Schökel-Vilchez Lindez, I Proverbi, 67-69.
[6] Ibid., 20.
[7] Il vocabolario è tipicamente sapienziale: hokma, tebuna, da’at; ma descrive il campo dell’abilità artistica e artigianale; perciò si dovrebbe più correttamente tradurre: «…perché abbia destrezza, abilità e perizia…».

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 30 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

“L’ARCOBALENO È UN PROMEMORIA” DI PAOLO DE BENEDETTI

http://www.betmidrash.it/debenedetti_7.html

“L’ARCOBALENO È UN PROMEMORIA” DI PAOLO DE BENEDETTI

“Quando radunerò
le nubi sulla terra
E apparirà l’arco sulle nubi
Ricorderò la mia alleanza
Che è tra me e voi
E tra ogni essere che vive in ogni carne
E non ci saranno più le acque
Per il diluvio, per distruggere ogni carne.
L’arco sarà sulle nubi
Ed io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna
Tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne
Che è sulla terra” (Genesi 9, 14-16)

Forse Dio ha bisogno dell’arcobaleno come un promemoria? Le sue parole in realtà ci fanno pensare che qualche volta Dio debba essere aiutato a ricordare. E sono numerose le preghiere che iniziano proprio con l’imperativo “ricorda”. Un imperativo che in realtà esprime soprattutto la nostra fede nella memoria di Dio. Infatti, se anche Dio ci confida qui il suo bisogno di non dimenticare, in primo luogo la memoria di Dio è il ponte infrangibile che unisce Lui a noi e noi a Lui. Quindi l’arcobaleno è anche per noi un invito, direi un “sacramento”, che attraverso un evento naturale ci unisce a Dio. E ci insegna a costruire quotidianamente piccoli arcobaleni per il nostro rapporto con il prossimo e con tutto il creato.

Publié dans:DOCENTI -, EBRAISMO - STUDI |on 12 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

OGGI COME ALLORA (ebraismo)

http://www.pensieriditora.it/index.php/2012/04/oggi-come-allora/

OGGI COME ALLORA

Posted on 3 aprile 2012

Questa è la libertà? Si domandarono gli ebrei nel giorno dell’uscita dall’Egitto. Quale sarà la nostra nuova identità? Si chiesero persone che fino a pochi giorni prima non avevano più il coraggio di porsi domande. Questo è il gusto della libertà? Tentarono di capire individui i cui corpi erano ancora segnati dalla violenza della schiavitù d’Egitto. Libertà è prendere la divinità del posto e sacrificarla senza timore davanti agli occhi di chi la venera, rispose  Mosè spiegando le regole del sacrificio pasquale. La vostra nuova identità consisterà nell’essere la nazione ebraica. In poche parole, i servi di D-o, continuò Mosè chiarendo il motivo della loro venuta in questo mondo a centinaia di migliaia di individui. Sapete quale è il vero sapore della libertà? Domandò Mosè senza dar tempo di rispondere. Quello dello shabat, degli animali kasher, del pane non lievitato che oggi portate con voi. Il tempo passò. E i figli dei figli dei figli di coloro che un giorno uscirono dall’Egitto, si ritrovarono in un mondo incapace di dare risposte. Questa è vera libertà? Si domandano quei figli le cui attività lavorative non subiscono mai nessuna interruzione, sette giorni su sette. Quale è la nostra vera identità? Chiedono all’improvviso quei figli poco abituati a porsi domande sul motivo per cui si trovano in questo mondo. Questo è il vero gusto della libertà? Tentano di capire quei figli a cui è stato insegnato che le regole divine sono una limitazione alla libertà individuale. Libertà è essere in grado di pensare da ebreo. Senza timore e vergogna. Indipendentemente da chi ci sta davanti. E dal modo in cui la pensa il mondo intero.  Risponde Rabbi Menachem Mendel Schneerson, il Rebbe, il cui scopo di vita fu di salvare i propri fratelli ebrei dal nemico più subdolo e imprevedibile. L’assimiliazione. La nostra vera identità consiste nel cercare le risposte nelle parole della Torà, continua il Rebbe a ripetere durante ogni giorno della sua vita. La libertà ha il gusto del cibo kasher. Delle matzot di pesach, del maror e charoset. La vera libertà sta qui. Conlcude il Rebbe ricordando che ogni ebreo possiede le forze spirituali per stravolgere tutto. Per mangiare pane azzimo durante otto lunghi giorni mentre il mondo là fuori festeggia con uova e colombe. Riscrivendo  il vero significato di libertà ispirandosi a fonti non riportate sui dizionari. Libertà è la possibilità di procedere al di là dei mass media, di mode e correnti. È portare avanti un pensiero autonomo e non condizionato. È essere capaci, nonostante il mondo là fuori martelli pesante, di scuotersi dalla schiavitù delle influenze esterne. È sedersi alla tavola del Seder il 6 e 7 aprile 2012 e trasmettere ai figli una rinnovata certezza. Che la vera libertà consiste nel servire D-o. Oggi come allora.

Pesach Kasher vesameach

Gheula Canarutto Nemni

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 27 mai, 2013 |Pas de commentaires »
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