shoah painting of David Olère – Auschwitz Survivor

dal sito:
http://www.la-shoah-e-la-memoria.it/mostre/poesie.htm
IL VIOLINISTA DI AUSCHWITZ
A Jack-Yaacov Strumsa – superstite di Salonicco
Ogni mattino
anche quando per caso
non c’è stato nessun incubo
quando non mi son destato
in un sudore freddo,
quando non mi sono alzato nello spavento,
nel terrore delle SS.
Proprio ogni mattino.
Mi domando
dove andrò oggi?
Mi vesto, bevo il tè,
avvio l’auto
e parto ?
per dove?
Il motore ronza sommesso
i luoghi scorrono via veloci
il viale, i semafori
la strada s’inerpica,
su per la collina,
il cancello aperto.
Ogni mattino
Yad Va’Shem ?
il Memoriale dell’Olocausto.
Lo stesso borbottio
le stesse voci
le stesse note
la stessa musica
la marcia
la piccola città in fiamme.
La musica guida la mia auto,
mi trascina come una calamita
come un cavo
come la catena di un argano
a Yad Va’Shem.
La Tenda della Memoria
il Lume Perpetuo
candele
la Sala dei Nomi
foto, occhi,
denti, dentiere d’oro, capelli umani.
Qui stanno le camere a gas,
i forni,
i crematori
e gli ebrei in informi abiti a strisce
che spostano corpi.
Donne nude che cercano invano
di celare la loro vergogna
sul ciglio della fossa comune.
Mancano soltanto
il fetore, il fumo e la musica.
Cosa significano il rumore,
la cadenza dei passi
“Links, sinistra, sinistra…!”
La frusta, gli spari,
“Il lavoro rende liberi”
sull’arco sopra il cancello.
E tutt’intorno
mura, cani, e filo spinato;
elenchi di nomi e di numeri
e c’è una mano ? Yad, mani.
Nella parata, chi viene, chi va
da dove, per dove?
Là io suonavo il violino,
fui selezionato
per l’orchestra
che ogni giorno accompagnava, con la musica,
gli ebrei spinti
nelle camere a gas
sull’orlo dell’abisso ?
al luogo da cui nessuno fa ritorno,
nessuno torna indietro
è soltanto rimosso, cadavere
per gli inceneritori.
Non v’è più bisogno di correre
nessun motivo di terrore
ma quella melodia echeggia ancora nella mia testa.
E così arriverò
qui, oggi ieri
domani,
davanti alla foto dei suonatori:
un’orchestra che guida
la processione infinita di quelli che camminano
nella Valle dell’Ombra della Morte.
Sì, ora sono un nonno
dai capelli bianchi;
rimane ben poco di me
ma i miei tratti somigliano ancora,
un po’, al violinista, a me,
là sulla foto
di Auschwitz.
E può accadere
che un visitatore di Yad Va’Shem mi osservi,
fissi la parete, e resti sorpreso.
Come se vedesse qualcuno
al di là di uno spartiacque ?
un’apparizione che, per lui,
appartiene all’altro mondo;
che, per me, è
quel mondo che fu.
Mattino dopo mattino
giorno dopo giorno
arriverò qui,
con quella musica che mi perseguita,
a quelle immagini sulla parete
a quel fetore nelle narici
che solo io posso avvertire.
Questo è il mio luogo, gli appartengo.
Non sono una “statua vivente”:
son vivo.
Di questo monumento
sono una parte.
Questo Yad Va’Shem ?
Mano e Nome ?
e corpo:
il mio.
Moshé Liba
dal sito:
http://www.nostreradici.it/D-o-benedizioni.htm
IL DIO DELLE BENEDIZIONI NELLA TRADIZIONE DI ISRAELE
(Numeri 6, 24-47)
Giuseppe Laras, Rabbino Capo della Comunità ebraica di Milano, in occasione della celebrazione del 17 gennaio 2004: Giornata dell’Ebraismo
Siamo qui questa sera, all’uscita del sabato, per celebrare insieme la giornata dell’ebraismo del 17 gennaio. Già l’anno scorso abbiamo celebrato con analoga cerimonia questa giornata: è stato un momento molto emozionante e molto ricco, e quindi vogliamo proseguire questa esperienza all’insegna di una riflessione che farà da filo conduttore, e che è: « Il Dio delle benedizioni nella tradizione d’Israele ». Faremo un percorso all’interno e intorno alla benedizione; speriamo che ci possa aiutare nei nostri rispettivi cammini, nelle nostre esperienze comuni, nelle nostre vite, in vista di una sempre maggiore e pacifica collaborazione nel nome del Dio unico e della pace.
La Berakhà – benedizione – è un bene universale di cui tutti abbiamo bisogno. Leggiamo nel libro di Rut che quando Boaz arrivava nel campo per visitare i suoi mietitori, si rivolgeva loro con: Ha-Shem ‘immakhem – « Il Signore sia con voi! » – e i mietitori gli rispondevano: « Ti benedica il Signore! ». Abbiamo tutti bisogno di Berakhà. È una parola importante, ma nasconde un contenuto difficile, di difficile attuazione. Molti hanno parlato, parlano e parleranno di benedizione, ma forse sono stati e sono lontani dalla benedizione. C’è la benedizione che rivolge l’uomo a un altro uomo, c’è la benedizione che rivolge l’uomo a Dio, e c’è la benedizione che rivolge Dio all’uomo, al mondo. Sono tutte benedizioni, ma sono benedizioni diverse, perché sicuramente la benedizione autentica, sicuramente vera, è la benedizione di Dio. Tutte le altre sono benedizioni, ma potrebbero essere dei simulacri di benedizioni, potrebbero non essere portatrici di risultati perché, se ci mettiamo nell’ottica umana, è molto difficile immaginare un risultato sicuro, continuo, automatico da parte della benedizione pronunciata.
È scritto nel Trattato delle benedizioni del Talmud babilonese che chiunque goda di qualcosa di questo mondo senza aver detto la benedizione commette peccato di appropriazione. Il riferimento è a colui che mangia qualche cosa senza aver recitato la benedizione. « Benedetto Tu, o Signore Dio nostro, Re del mondo, che hai creato, che hai fatto… » (a seconda o dei frutti o delle cose che vengono mangiati). E perché questa affermazione così categorica? Perché nel momento in cui noi godiamo delle risorse del mondo dobbiamo subito collegare queste risorse a Colui che le ha date, al padrone di queste risorse; e quindi, goderne senza aver benedetto, ringraziato Dio è un qualche cosa che viene definito come appropriazione indebita.
Ovviamente il presupposto per la benedizione è la disponibilità a sentire e a vedere Dio come padrone del mondo, a cui noi dobbiamo un ringraziamento e una benedizione. È chiaro che ci muoviamo all’interno del difficile percorso della religiosità: benedire Dio, avere fede in Dio, sentire Dio, sentirlo vicino anche se è lontano. Sono dei percorsi molto difficili ma, se condotti bene, ci portano alla comprensione autentica della benedizione. In fondo, quando l’uomo benedice l’uomo, intende auspicare che su quella creatura scenda la grazia di Dio, scenda lo Spirito, scenda la benedizione di Dio, il consenso di Dio. Ma, dicevo, la vera benedizione, sicura, autentica, è quella che scende dall’alto, che scende da parte di Dio nei confronti dell’uomo.
Vorrei, a proposito di benedizioni umane, attirare la vostra attenzione su uno strano episodio raccontato nella Torà, nel libro dei Numeri, che ebbe come protagonista il mago Balaam, che Balak re di Moab aveva convinto a tentare di risolvere il suo problema, che era rappresentato dagli ebrei, attraverso la forza contraria alla benedizione, cioè attraverso la maledizione. In sostanza Balak aveva pagato Balaam perché distruggesse con la maledizione il popolo di Israele. Sappiamo che sebbene Balaam, per così dire, ce la mettesse tutta (anche perché, se avesse fatto quello che il suo committente richiedeva, ne avrebbe ricavato delle ricchezze), nonostante i suoi sforzi, invece delle maledizioni uscivano dalla sua bocca delle benedizioni, delle bellissime benedizioni, tra le più belle benedizioni che mai su Israele siano state pronunciate. In alcuni profeti viene ricordato e sottolineato questo stupefacente evento: il Signore che ha trasformato la maledizione in benedizione.
Ecco, qui stiamo parlando del confronto fra la benedizione vera e la benedizione presunta, o addirittura il contrario della benedizione. C’è un passo del Deuteronomio, al cap. 26, a proposito della decima (la decima è una parte del prodotto agricolo che gli agricoltori di Israele ogni terzo anno dovevano devolvere ai leviti, ai forestieri, agli orfani, alle vedove per sovvenirli). Dopo che l’agricoltore aveva separato la decima e l’aveva data a chi di dovere, doveva pronunciare una formula che affermava che lui aveva fatto secondo la prescrizione che Dio gli aveva comandato, e quindi continuava: hashqìfa mimmeòn qodshekà min ha-shamàim – “guarda dalla sede della tua santità, dal cielo, e benedici il tuo popolo Israele e la terra che ci hai dato ». Viene fatto notare che qui è l’unica volta in cui l’espressione hashqìfa, che vuol dire « guardare dall’alto verso il basso », è in senso di Berakhà, positivo e di benedizione. In tutti gli altri punti della Torà in cui ricorre questa espressione essa è in senso negativo. Una simile espressione che subito viene in mente è quella collegata alla contemplazione della distruzione di Sodoma: allora lo sguardo era dall’alto verso il basso. I Maestri dicono che l’espressione « contempla, o Signore” (cioè dall’alto verso il basso) è qui in senso positivo perché si tratta di un soggetto che ha attuato i suoi doveri, ha eseguito la volontà di Dio e quindi chiede un segno di consenso da parte della divinità.
Si chiedono però anche un’altra cosa i Maestri a proposito di questo verso: « e benedici il tuo popolo e Israele ». Bastava dire “il tuo popolo”; era chiaro che si trattava di Israele. Oppure “il tuo popolo Israele”; ma non et ‘ammekhà et Israel. Deve esserci un perché. I nostri Maestri sono curiosi. Essi in qualsiasi espressione non usuale vedono un segnale che vuole trasmettere un insegnamento. Ebbene, l’insegnamento è questo: “benedici il tuo popolo”; il popolo nella sua interezza e globalità deve essere benedetto. “Israele” vuol dire: anche se i singoli del popolo non sono tutti osservanti della volontà di Dio, cioè se sono peccatori. Il popolo è meritevole sicuramente di benedizione; Israele, tutti individualmente, anche quelli che forse non la meriterebbero, indicati midrashicamente nel testo stesso come la “terra”. Dio ama la terra d’Israele. Quindi la benedice nel suo insieme senza privarla della benedizione, anche se c’è qualche cosa che può non piacere. La terra è la terra. Così il popolo è benedetto e i figli di Israele, anche se presentano delle macchie, sono coinvolti comunque nella benedizione. La benedizione è qualcosa che aiuta a colmare i limiti e i difetti di alcuni singoli rispetto alla maggioranza della comunità del popolo che segue la volontà di Dio. Quindi coinvolgimento di tutti nel segno della benedizione.
Un punto centrale della Torà in cui si parla espressamente e solennemente di benedizione è in Numeri (6, 22-27) a proposito della benedizione sacerdotale. La benedizione che i sacerdoti dovevano impartire al popolo viene così annunciata: ko tevarekhù et benè Israel amòr lahèm – » così benedirete i figli di Israele dicendo per loro”; e incomincia la formula della triplice benedizione, composta cioè di tre versi. Il primo verso è composto di tre parole, il secondo di cinque, il terzo di sette. Quindici parole: è difficile non vedere un riferimento a un qualche cosa di importante, che, sviluppato nel suo valore numerico, ammonta a 15, cioè Ja, che vuol dire Dio, il Nome di Dio. Questa benedizione ci coinvolge e ci avvicina alla presenza di Dio. E come deve essere espressa e recitata? La benedizione dei sacerdoti deve essere espressa e recitata solo in quel preciso modo stabilito dalla Torà. Ci sono altri modi, è vero, per esprimere e porgere la benedizione – quella dell’uomo verso l’uomo, come abbiamo detto; ma i sacerdoti tuttavia sono delle persone particolari, che vivono un rapporto intenso di religione e di particolare vicinanza con la divinità, e quindi appaiono più qualificati per poter accompagnare il popolo in questo cammino verso la benedizione. La triplice formula è rigida:
« Ti benedica il Signore e ti protegga.
Illumini il Signore il Suo viso e ti conceda la grazia.
Rivolga il Signore il Suo viso verso di te e ponga su di te la pace ».
Questa la traduzione della formula della benedizione sacerdotale; come tutte le traduzioni è una traduzione sommaria; in realtà il testo della Berakhà dei Cohanim nasconde un’infinità di preziosi ammaestramenti ed è stata oggetto di attenta riflessione e analisi. Vediamo di ricavarne qualche insegnamento.
« Ti benedica il Signore e ti protegga ». La prima osservazione è abbastanza evidente: se il Signore ti benedice, è ovvio che ti protegge. Quindi se c’è la Berakhà c’è tutto. Allora ci chiediamo: che cosa vuol dire: « Ti benedica il Signore »? Vuol dire: ti dia felicità, serenità, prosperità esterna ed interna; ti dia compiutezza di gioia e di felicità e di serenità. In questa espressione c’è anche la felicità materiale, nel senso di serenità per una vita tranquilla. Ma se c’è tutto questo, che cosa vuol dire « ti protegga »? Ebbene, alcuni Maestri dicono: attenzione, perché quello stato di grazia indotto dalla benedizione – « ti benedica » – potrebbe portare la persona a considerare se stessa come artefice di questa benedizione, di questa felicità, di questo successo. E allora è necessario anche che il Signore “ti protegga”. Da che cosa? Dal tuo istinto malvagio, dalla tentazione maligna a cui tutti soggiaciamo che insinua in noi: « sei tu il più grande, sei tu il più bravo, sei tu che crei, sei tu che determini… ». Se subentra questa tentazione e questo atteggiamento, è chiaro che quella Berakhà iniziale va riducendosi e perdendo forza. Ecco allora che accanto alla benedizione è necessaria anche l’assicurazione contro l’istinto malvagio, quello che viene chiamato “jetzer-harà”. È questa soltanto una piccola riflessione che può essere fatta su questa prima parte della Berakhà dei sacerdoti.
« Illumini il Signore il suo viso e ti dia la grazia ». Che cos’è l’illuminazione del volto di Dio nei confronti dell’uomo? È il “volto” consenziente di Dio, il volto che trasmette felicità (quando noi guardiamo, sorridendo, una persona mettiamo quella persona nello stato, nella condizione di aspettarsi qualche cosa di buono e di positivo da noi). Si può dire anche: “Il Signore illumini il Suo viso verso di te, trasmettendo al tuo viso un po’ della Sua luce”. Potremmo pensare, in questo contesto di riflessione sulla “luce” divina, facendo ovviamente le debite differenze, alla luce che traspariva dal volto di Mosè dopo essere stato per 40 giorni e 40 notti al cospetto della divinità sul Monte Sinài: quando discese gli risplendeva talmente il volto, che fu necessario coprirlo con un velo perché quella luce splendente non poteva essere vista, contemplata e sopportata. Quindi: che il Signore ti renda, per così dire, partecipe della sua luce.
Wichunnèkka. Abbiamo tradotto: “e ti conceda la grazia ». Che cosa vuol dire l’espressione “ti conceda la grazia”? Intanto può voler dire: ti renda grazioso, simpatico, attraente, degno di affettuosa attenzione da parte degli altri. Analogamente a quanto capitava a Giuseppe che, qualunque cosa facesse, riusciva e prosperava, perché egli suscitava consenso e simpatia. Forse anche perché, nonostante le sofferenze e le ansie, risplendeva sul suo viso un po’ della luce di Dio. Ma l’espressione « che il Signore ti conceda la grazia », può anche voler dire “che faccia posare” (dalla radice verbale di chanà che significa posarsi, accamparsi), nel senso che faccia scendere la luce della sua provvidenza su di te. Provvidenza e luce sono bene collegabili fra di loro.
« Rivolga il Signore il suo viso verso di te, e ponga su di te la pace ». Assistiamo ad un crescendo: ti benedica, ti protegga, indirizzi il suo sguardo di luce verso di te, ti riempia di grazia e di luce. E infine « rivolga il Signore il suo viso verso di te e ponga su di te la pace”. Che cosa significa: rivolga il Signore il suo viso verso di te? C’è un momento in cui Dio può non guardarci? Forse sì, quando noi commettiamo delle colpe, non ci comportiamo bene, agendo come se Dio non ci vedesse: è quello che i teologi chiamano hastarat-panim, nascondimento del volto. Qui si prega Dio che voglia orientare il suo volto in direzione della creatura. E chi è sotto lo sguardo di Dio, è in pace: « e ponga su di te la pace ». La condizione per vivere integralmente la compiutezza della pace è di essere sotto lo sguardo di Dio. Sul tema della pace tante sarebbero le cose da dire. La pace è intanto sicuramente un dono che viene dall’alto, ma è anche uno strumento nostro per poter accelerare, aumentare, incrementare la discesa dello Spirito di Dio. C’è una espressione dei Maestri che suona così: “Chi opera per rendersi puro riceve un aiuto dal Cielo. Chi opera per rendersi impuro, riceve anche un aiuto dal Cielo”. In prospettiva dello Shalom è importante l’iniziativa che assumiamo noi. Non si può rimanere in posizione statica, limitandoci ad aspettare la grazia dal Cielo. Noi non conosciamo con esattezza e precisione i misteriosi percorsi della benedizione e della pace. Sappiamo però, in proposito, due cose importanti: che esse ci provengono da Dio, ma che anche noi, nonostante i limiti che ci caratterizzano come creature umane, abbiamo parte – una parte importante – nella discesa della benedizione e della pace su di noi.
Il concetto di pace è un concetto complesso, articolato, difficile. A questo proposito desidero far osservare che la Berakhà dei sacerdoti deve essere recitata in ebraico: kò tevarekhù, “così benedirete i figli di Israele », cioè: in questa precisa formulazione. A differenza di alcune preghiere del formulario, essa non può essere pronunciata in altra lingua, che non sia l’ebraico. La Berakhà dei sacerdoti è qualcosa di speciale il cui contenuto non può essere reso nella sua sacrale autenticità in altra lingua. Ne è prova il fatto che mentre il testo della Torà è accompagnato, in alcune importanti edizioni, dalla traduzione aramaica (la lingua appresa dai nostri padri in Babilonia) nel punto della benedizione essa non compare. Almeno per quanto riguarda la traduzione aramaica di Jonatàn ben Uzziel. E perché non c’è? Intanto per sottolineare che non ce n’è bisogno, dato che la benedizione deve ritualmente essere pronunciata in ebraico. Ma poi anche per un motivo profondo che è questo: dato che alla fine della Benedizione è invocato lo Shalom, la pace, e la dimensione dello Shalom è illimitata – nel senso che nessuno di noi può coglierne l’infinito potenziale – il termine Shalom non può essere tradotto in nessun’altra lingua, ma pronunciato e sentito nella sua lingua originale. Questo ci aiuta a introdurre anche un’altra considerazione.
La Berakhà dei sacerdoti inizia con la benedizione « ti benedica il Signore… » e finisce con lo Shalom “e ponga su di te la pace ». Questo sottolinea che – come affermano i Maestri – il Santo Benedetto non trova veicolo migliore per il trasporto della benedizione dello Shalom, la pace. Questo vuol dire che, se vogliamo attenderci abbondante misura di benedizione dall’alto, occorre che ci provvediamo di un contenitore di trasporto che è lo Shalom. Se non c’è lo Shalom, non può arrivare la benedizione. Posizione dinamica e non statica, quindi, pur lasciando alla Berakhà di Dio tutta la sua valenza di dono, la sua indipendenza e la sua imperscrutabilità. Sicuramente nella formazione e nell’avvento dello Shalom noi sentiamo di avere una parte molto importante. Se non costruiamo dentro di noi e in mezzo a noi lo Shalom, è difficile attenderci la Berakhà. La Berakhà ha bisogno dello Shalom. Senza Shalom la Berakhà rischia di perdersi per strada e, quindi, di non arrivare fino a noi.
Prima di concludere vorrei recitare una preghiera molto breve, ma anche molto intensa, recitata da Salomone nel giorno della inaugurazione del Tempio di Gerusalemme: « Sia il Signore nostro Dio con noi, come lo fu con i nostri padri. Non ci lasci e non ci abbandoni mai ». Questa preghiera vorrei che la sentissimo e la recitassimo con la mente e con il cuore tutti insieme, perché è una invocazione di benedizione perpetua per tutti noi nel ricordo dei Padri.
Vorrei infine leggere una preghiera molto semplice scritta da un grande maestro dell’ebraismo della fine del ‘700, il Rabbino Nachman di Breslav, che nella sua vita quotidiana si preoccupava di trasmettere dei valori che esaltassero la sintesi tra etica e religione. Non si può essere religiosi in senso verticale soltanto o in senso orizzontale soltanto. Questo è il messaggio della religione: essere disponibili e aperti con gli altri come condizione necessaria per poter entrare in collegamento verticale con Dio.
« Ti sia gradito, Signore Dio nostro e Dio dei nostri padri, Signore della pace, re cui la pace appartiene, di porre la pace nel tuo popolo Israele. E la pace si moltiplichi fino a penetrare tutti coloro che vengono al mondo. E non ci siano più né gelosie, né rivalità, né vittorie, né motivi di discordia tra gli uomini, ma solo amore e pace fra tutti. E ognuno conosca l’amore del suo prossimo in quanto suo prossimo, cerchi il suo bene, desideri il suo amore, agogni al suo costante successo al fine di potersi incontrare con lui e a lui unirsi per parlare insieme e dirsi l’un l’altro la verità in questo mondo. Un mondo che passa come un batter di ciglio, come un’ombra, ma non come l’ombra di una palma o di un muro, ma come l’ombra di un uccello che vola ».
dal sito:
UNA PREGHIERA EBRAICA COMPOSTA E PREGATA IN UN CAMPO DI CONCENTRAMENTO
Pace agli uomini che desiderano il male;
si ponga fine ad ogni vendetta,
non si parli più di castigo e correzione.
I crimini commessi superano ogni misura;
i limiti di ogni percezione umana,
e molti sono i testimoni del sangue versato.
Per questo, o Dio,
non pesare con la bilancia della giustizia
gli orribili delitti dei carnefici,
di cui è giusto ti rendano conto,
ma fa che le cose possano andare in altro modo.
A tutte le persone che hanno agito con malvagità,
ai carnefici, delatori e traditori,
metti piuttosto in conto
tutto il coraggio e la forza d’animo degli altri,
la rassegnazione, la profonda dignità,
la pena silenziosa, la fatica,
la speranza, mai venuta meno,
il coraggioso sorriso che vinceva le lacrime,
e tutto l’amore, il sacrificio, l’amore bruciante.
Tutti i cuori segnati e torturati
che resistettero forti, senza perdere fiducia
di fronte alla morte e nella morte,
nelle ore della più acuta debolezza.
Fa’ che conti tutto questo, o Dio
Come prezzo di riscatto
per il perdono della colpa,
perché risorga la giustizia.
Conti tutto il bene, non il male.
E ricordando i nostri nemici
non parleremo più di sacrificio,
non saremo l’incubo e l’orrore degli spiriti,
ma verremo in loro aiuto
perché possano abbandonare il razzismo.
Solo questo chiederemo loro
quando tutto sarà finito, un giorno,
di poter vivere come persone fra persone.
Torni la pace su questa povera terra,
su ogni persona di buona volontà,
la pace si estenda a tutti, senza distinzione.
dal sito:
http://www.nostreradici.it/notizie9-010.asp
Festività ebraiche
Rosh Hashanà – capodanno
9-10 settembre 1° e 2° giorno g. di Tishri, Capodanno 5771.
Rosh… la memoria della conclusione della creazione del mondo: il venerdì della creazione compiuta nella dimensione materiale (manca il sabato). Facendo memoria della creazione dell’uomo, si contempla il vero inizio del tempo nella sua percezione umana, cioè il momento « zero » dell’esistenza dell’uomo nella realtà.
Per noi che vogliamo vivere questo ricordo significa « tornare in una situazione nella quale il peccato non c’è ». In realtà noi siamo esseri fortemente temporali; è una valenza positiva, ma ci condiziona il fatto che è difficile scardinare l’oggi: « sono così perché ieri ero così ». Invece questo tornare al momento 0 rompe il legame del nesso logico di causa-effetto; il che impedisce che diventiamo il prodotto di un determinismo spaventoso che ci fa rimanere schiavi di ciò che siamo stati e rende vana la redenzione.
Il procedimento non è semplice e non esauribile in toto in un solo momento; ma esso dura tutta la vita e fa sì che il passato, pur restando presente, cambi di segno.
Questo nome della festa dipende da vari motivi. Innanzi tutto, è il momento dell’anno in cui D-o inizia a giudicare l’uomo per le proprie azioni, come afferma il Talmùd Babilonese: Nel capodanno ogni uomo passa davanti a D-o come gli animali del gregge davanti a un pastore. Ossia, così come un pastore fa sfilare le sue pecore una per una davanti a sé per farle entrare nell’ovile, così D-o, guardando il destino di ogni uomo, fa passare davanti a Sé le azioni compiute da ogni persona. In questo modo Egli può giudicare l’operato di ogni persona per sapere in quale libro scrivere il suo nome. Disse, infatti, rabbi Kruspedaì a nome di rabbi Yochanàn:
Tre libri sono aperti davanti a D-o nel giorno di Rosh Hashanà: uno per i giusti (Tzaddìkim) completi, uno per i malvagi (Reshaìm) completi e uno per quelli che stanno a metà strada, che non sono, cioè, né totalmente giusti, né totalmente malvagi (Benonìm). I giusti vengono iscritti immediatamente nel libro della vita, mentre i malvagi vengono iscritti immediatamente nel libro della morte. Per coloro, invece, che sono Benonim D-o attende a dare il giudizio fino al giorno di Yom Kippùr e se avranno fatto teshuvà (penitenza) nei giorni che vanno da Rosh Hashanà a Yom Kippùr, allora verranno iscritti nel libro della vita; altrimenti verranno iscritti nel libro della morte.
Il giudizio implica il peso delle azioni umane, che vale sia per il singolo che per la collettività e, in definitiva, per l’intera umanità. Giudizio rigoroso, che si dipana nei giorni successivi della teshuva.
Ciascuno, cambiando il peso delle proprie azioni, può cambiare il mondo.
Norme rabbiniche precise per la celebrazione di Rosh Hashanà prescrivono il suono dello shofar (corno di ariete) che non a caso ricorre anche a Kippur. L’ariete ricorda la legatura di Isacco. (cfr. approfondimenti in Yom teruà)
Vi riconosciamo l’aspetto collettivo di chiamare alla riunione e invitare al pentimento tutta la comunità ed ogni persona.
Ma lo shofar è anche una citazione della creazione: il primo vero shofar è Adamo (quando Dio gli ha inalato la ruah), il primo che suona lo shofar è D-o. Vi leggiamo la riproposizione delle modalità di rapporto tra materia e spirito. Noi prendiamo da dentro il fiato da insufflare, Dio lo prende da sé. Lo shofar ricorda l’impasto costitutivo dell’essere dell’uomo.
dal sito:
http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/text.html#13
OSSERVATORE ROMANO – 20 OTTOBRE 2009
Memoria e definizione dello sterminio degli ebrei
Perché Shoah e non Olocausto
di Mordechay Lewy
Ambasciatore di Israele presso la Santa Sede
Per chiarezza qualsiasi discorso sulla Shoah dovrebbe affermare che essa è il male estremo. Un evento che proietta la sua ombra su ogni risultato che il progresso umano possa raggiungere, che ha scatenato una crisi di valori identificati con la civiltà occidentale e ha scosso la fede dell’umanità nell’esistenza di Dio.
All’inizio degli anni Novanta, durante un incontro con gli ambasciatori, un anziano funzionario del ministero degli Esteri israeliano disse che il ricordo della Shoah si sarebbe dovuto mantenere come intima memoria privata piuttosto che come esposizione in pubblico delle sofferenze e dei traumi. Solo così il ricordo sarebbe rimasto autentico e immune da banalità e strumentalizzazioni.
Queste osservazioni, benché di grande impatto, contrastano con l’esperienza pubblicamente condivisa sul modo in cui creare e conservare una cultura della memoria. Queste dichiarazioni sembrano di fatto minare alla base un certo concetto dell’ethos israeliano che lega la Shoah alla costituzione della patria ebraica.
Già prima della Shoah si pensava che la ragion d’essere dello Stato d’Israele più che la mera realizzazione del sogno di ritornare nella Terra promessa, fosse creare un porto sicuro per il popolo ebraico, disperso e perseguitato nella diaspora. Come conseguenza della Shoah è emersa un’ulteriore nozione: che non si sarebbe mai più permesso il verificarsi di una catastrofe simile. Israele non è stato fondato a motivo della Shoah, ma se fosse stato creato prima, essa si sarebbe evitata.
Sembra dunque che gli israeliani siano destinati a vivere in uno stato permanente di paranoia giustificata. Il 12 agosto 2009 « The New York Times » ha attribuito grande importanza alla questione in un articolo intitolato: « È tutto troppo tranquillo per gli israeliani? Cresce l’apprensione per capire quale asso i nemici nascondono nella manica ». Pare che gli israeliani non si permettano il lusso di concepire una vita quotidiana priva di minacce. L’altra faccia di questa medaglia è l’assunzione di un atteggiamento eroico motivato dall’essere israeliani, invece che gli ebrei massacrati, indifesi e privi di un proprio Stato. Senza dubbio coltivare la memoria collettiva di un evento così traumatico, unico nel suo genere, è una necessità perché, con il trascorrere del tempo, i sopravvissuti scompaiono e il ricordo dei fatti potrebbe sbiadire.
I primi anni Cinquanta furono caratterizzati dal silenzio delle vittime e degli aguzzini, un silenzio che lentamente si ruppe alla fine di quel decennio e durante gli anni Sessanta. Nonostante il processo Eichmann abbia portato a elaborare una nuova formulazione della Shoah fra i membri della seconda generazione – sia delle vittime sia degli aguzzini – è stata proprio la seconda generazione a promuovere più di ogni altra la cultura della memoria della Shoah.
Si ritiene che la memoria si mantenga viva grazie alla ripetizione. Il tema della Shoah divenne una parte essenziale della letteratura postbellica e dei mezzi visivi di comunicazione sociale. Tuttavia l’avere modellato con successo una cultura della memoria ha causato anche effetti negativi.
Con il passare dei decenni, da quell’evento unico emerse il problema della sua rilevanza, specialmente quando quegli eventi indescrivibili dovevano essere spiegati alle generazioni più giovani. Con il trascorrere del tempo nulla fu più così ovvio e, forse inevitabilmente, si aprì la strada alla banalizzazione. Inoltre, poiché per correttezza politica si usava il termine « olocausto » per descrivere il male estremo, la tentazione di etichettare altri eventi come olocausti divenne politicamente conveniente. Olocausti in Biafra, in Cambogia, in Burundi o nel Darfur hanno riempito i titoli dei media, contribuendo a richiamare l’attenzione su eventi che lo meritavano. Tuttavia lo scotto da pagare è stato il venir meno dell’unicità della Shoah e della sua memoria. Il termine « olocausto » si è politicamente inflazionato. È divenuto un mezzo per definire afflizioni politiche e umane di ogni tipo.
« Olocausto » è la traduzione in greco del termine ebraico olah, adottata dalla versione dei Settanta. Olah è un sacrificio in cui tutto viene bruciato sull’altare. Secondo la Torah l’uso di questo termine religioso non riguardava gli esseri umani ma nel libro di Geremia (19, 4-5) i tanto esecrati sacrifici umani del culto pagano di Baal sono definiti, al plurale olot. La Bibbia di Donay-Rheims (edizione del 1750), che ha cercato di restare il più possibile fedele alla versione dei Settanta, offre la seguente traduzione: « E hanno fabbricato altari a Baal per bruciare nel fuoco i loro figli in olocausto a Baal: cose che io non comandai, né mai mi vennero in mente ».
Non è noto se lo stesso termine greco holòkauston si riferisse a un rito sacrificale pagano o ebraico. Nell’Anabasi, molto antecedente alla traduzione della Bibbia in greco, Senofonte utilizza la forma verbale holokàutei in riferimento al rito sacrificale pagano greco. Il testo di Senofonte è stato letto praticamente da ogni classe istruita nel corso di tutta la storia europea. Anche per questo i termini « sacrificio » e « olocausto » sono stati spesso associati ai riti pagani, con il significato di « offerta interamente bruciata ».
Nella Encyclopédie (1765) di Diderot e D’Alambert, la voce Olocausto, in trenta righe, non fa alcun riferimento a ebrei o a pratiche ebraiche, ma solo a sacrifici in onore di « divinità infernali ». Nel 1929 Winston Churchill definì le atrocità turche contro gli armeni come « olocausto amministrativo ». D’altra parte, a New York, nel 1932, un annuncio pubblicitario di una grande svendita promozionale affermava che tappeti orientali e nazionali erano oggetto di un « grande olocausto del prezzo ».
Il termine « olocausto » per indicare lo sterminio nazista degli ebrei fu utilizzato per la prima volta nel novembre 1942 in un editoriale del « Jewish Frontier ». Tuttavia, anche dopo il 1945, non è mai divenuto un sinonimo preciso di sterminio degli ebrei, infatti, fino ai primi anni Sessanta, era usato principalmente nel contesto della catastrofe nucleare. Fu il pensatore cattolico François Mauriac, nel 1958, nella prefazione al libro di Eli Wiesel La notte ad adottare il significato religioso del termine « olocausto » utilizzato in Geremia 19, 4-5 per indicare grave peccato: « Per Wiesel (…) Dio è morto (…) il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe si è dileguato per sempre (…) nel fumo dell’olocausto preteso dalla razza, la più ingorda di tutti gli idoli ».
L’interpretazione di Mauriac può condurre alla possibilità della formulazione di un impegno cattolico vincolante che dovrebbe considerare la negazione dell’ »olocausto » un peccato contro Dio. È interessante osservare come il nome della legge israeliana che nel 1953 istituì lo Yad Vashem sia Remembrance Authority of the Disaster and Heroism. In questo caso il termine Shoah è stato tradotto con « disastro » o « catastrofe », resa abbastanza precisa del suo significato biblico.
Il termine « olocausto » per indicare lo sterminio degli ebrei era dunque usato raramente e, perfino negli anni Sessanta, sempre insieme all’aggettivo « ebraico » o ad altri. Negli anni Settanta, nelle pubblicazioni americane l’uso del termine divenne più frequente per indicare lo sterminio degli ebrei. Nel 1978 la serie televisiva statunitense Holocaust fu trasmessa in tutto il mondo occidentale. E tuttavia il termine non poteva identificarsi esclusivamente con lo sterminio degli ebrei.
Sono numerosi i motivi per cui è divenuto preferibile il termine Shoah per indicare l’evento, unico nel suo genere, dell’uccisione sistematica e meccanizzata che portò allo sterminio di un terzo del popolo ebraico. In primo luogo, esso offre un’alternativa ai significati, in qualche modo vaghi, del termine « olocausto ». L’unicità è meglio mantenuta con il termine Shoah. In secondo luogo, utilizzando il termine Shoah si può mostrare rispetto e solidarietà alle vittime e al modo in cui esse stesse esprimono la propria memoria nella loro lingua ebraica. Più probabilmente dobbiamo questa sostituzione di termini al regista Claude Lanzmann, che, nel 1985, ha intitolato il suo acclamatissimo documentario di nove ore proprio Shoah. Ciò ha reso internazionalmente nota questa parola ebraica. La scelta è condivisa anche da Benedetto XVI, che, in occasione del settantesimo anniversario della « notte dei cristalli », ha definito, il 9 novembre 2008, « quel triste avvenimento » inizio della « sistematica e violenta persecuzione degli ebrei tedeschi, che si concluse nella Shoah ». Gli ebrei, fin dalla seconda generazione dei sopravvissuti alla Shoah, hanno sviluppato un atteggiamento paranoico per evitare la dimenticanza. Ciò viene mitigato dalla ripetizione o, in altre parole, dalla memoria ritualizzata. A tutt’oggi accomunare la loro unica esperienza di vittime con le atrocità commesse contro altre nazioni sembra equivalere al tradimento di un lascito trasmesso alle generazioni di ebrei sopravvissuti a quell’evento.
Infatti, se la possibile conseguenza della memoria è la banalizzazione, il prezzo della dimenticanza è molto più alto. Per questo all’entrata dello Yad Vashem si possono leggere le parole attribuite al fondatore del movimento chassidico, il Ba’al Shem Tov: « La memoria è la fonte della redenzione ».
(L’Osservatore Romano – 21 ottobre 2009)