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Veronica Fausti, Bambina piangente dietro filo spinato

Veronica Fausti, Bambina piangente dietro filo spinato dans EBRAISMO: SHOAH
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Publié dans:EBRAISMO: SHOAH, immagini varie |on 26 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

PER IL 27 GENNAIO, IL GIORNO DELLA MEMORIA – PRIMO LEVI E HANNAH ARENDT

http://www.filosofico.net/auschwitz/ausch8.htm

PRIMO LEVI E HANNAH ARENDT

Quella di Adorno, secondo cui Auschwitz è l’unico vero orizzonte della filosofia, è la posizione estrema, a tal punto che egli arriva a chiedersi « se dopo Auschwitz si possa ancora vivere ». Ma questa non è l’unica posizione sostenibile: diametralmente opposta è, a tal proposito, quella che potremmo definire la « strategia in due tempi », così detta perché, subito dopo Auschwitz, si occupa del problema shoà in maniera « radicale », e, in un secondo tempo, lo esamina invece in maniera « banale ». Vessilliferi di questa posizione sono Primo Levi e, soprattutto, Hannah Arendt. In un primo tempo, ci si chiede come possa la cultura farsi carico del disastro rappresentato dalla shoà; e, secondariamente, ammessa l’intrinseca fragilità della cultura e il suo ineliminabile nesso con la barbarie, si finisce per riconoscere che la barbarie stessa ha – per quanto ciò possa sembrare assurdo – una sua normalità o, per dirla con Arendt, una sua « banalità ». Ciò ben emerge in due scritti di Primo Levi – Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati -, risalenti il primo al periodo immediatamente successivo ad Auschwitz, il secondo a diversi anni dopo. In Se questo è un uomo impera la radicalità del male: l’autore, appena giunto nel lager, chiede a tutti con insistenza disperata « Warum? » (Perché?) e un compagno gli risponde « Hier ist kein Warum » (qui non c’è alcun perché). Da ciò affiora la tematica portante dell’opera: forse quanto avvenuto nei lager non si può comprendere, poiché comprendere è giudicare e mettersi al posto dell’autore che ha vissuto sulla propria pelle la catastrofe, ma ciò è assolutamente impossibile. Il male, così inteso, è radicale e colui che lo compie è un essere disumano, un mostro il cui agire non può essere in alcun caso compreso, perché, per comprenderlo, occorrerebbe entrare nella sua personalità. A distanza di vent’anni da Se questo è un uomo, Levi affronta il problema del male in una mutata prospettiva, secondo quella che potremmo definire la « zona grigia » e che possiamo facilmente comprendere leggendo alcuni passaggi de I sommersi e i salvati in cui parla dei carnefici: « erano infatti della nostra stessa stoffa […], erano esseri umani medi […] non erano mostri […] avevano un viso come il nostro ». Chi compie il male non è più inteso come un mostro, come una persona assolutamente diversa da chi lo subisce; viceversa, è un essere umano come gli altri e, proprio in ciò, sta la banalità del male, il fatto che chiunque altro avrebbe potuto compierlo. A tal proposito, Levi adduce l’esempio dei « comandi speciali » con cui era affidato agli ebrei stessi l’ingrato compito di uccidere gli altri ebrei per ottenere in cambio qualche mese di « non morte »: questo è, secondo Levi, il crimine più spaventoso che si possa commettere, poiché si fanno diventare colpevoli le vittime stesse. Centrale nell’opera è la scena della partita di calcio disputata tra i prigionieri del lager e i guardiani: per un momento è come se si tornasse alla normalità, benché si tratti di una partita disputata « davanti alle porte dell’inferno ». Con la prospettiva della « zona grigia » subentra un elemento di inquietudine che, fino ad ora, non avevamo incontrato: nel nostro itinerario, infatti, abbiamo preso in considerazione la drammatica possibilità di finire noi stessi vittime di un lager e, oltre a questa, quella di diventare spettatori indifferenti del male; ora si aggiunge l’altrettanto tragica possibilità di diventare noi stessi i carnefici, e ciò in base alla teoria della banalità del male, secondo la quale a compiere il male sono persone « normali » e non mostri. Hannah Arendt stessa si colloca su posizioni di questo tipo: ella rilascia nel 1965 un’importante intervista in cui confessa di non sentirsi più una filosofa ormai da diversi decenni; ella si sente, piuttosto, una « scienziata politica », con lo sguardo sgombro da quell’impaccio che è la filosofia; verso di essa Arendt nutre grande sfiducia soprattutto da quando – nel ’33 – ha constatato che pressoché tutti i filosofi si allineavano al regime (Heidegger in primis) e ciò non benché fossero filosofi, ma per il fatto stesso che lo erano. Decisivo fu poi, nel suo itinerario, Auschwitz, un « vero trauma » con il quale si spalancò un abisso sotto i suoi piedi: di fronte a ciò, ella si sforza in ogni modo di addivenire ad una comprensione: « io voglio comprendere e provo appagamento se altri comprendono come me ». Ma, nel caso di Arendt, comprendere non equivale né a dimenticare né, tanto meno, a perdonare, bensì a portarsi consapevolmente sulle spalle il fardello del nostro tempo. Da ciò nasce la sempre rinnovatesi esigenza di spazzare il campo dai pregiudizi, in maniera tale da poter affrontare la realtà nella maniera più obiettiva e per venire a capo della realtà del male, del perché lo compiamo. Tre sono i tre grandi momenti della riflessione arendtiana sul male: a) normalità e incommensurabilità del male; b) radicalità del male; c) banalità del male. Sono tre modi di concepirlo in base a tre questioni: 1) qual è la natura del male?; b) qual è il suo rapporto con la modernità?; c) come può la filosofia resistere ad esso? Nell’immediato dopoguerra tende a prevalere la concezione della radicalità del male: Heidegger, che di Arendt fu l’amante, si sbarazza di lei e la invia a Heidelberg da Karl Jaspers, a cui ben presto – a causa del suo dichiarato antinazismo e a causa del fatto che sua moglie era ebrea – sono tolte la cattedra e la possibilità di pubblicare, cosicché egli finisce per vivere una sorta di esilio interno alla Germania. Nel dopoguerra – esattamente nel 1945 – egli torna in cattedra e tiene un corso sulla Schuldfrage, ossia sulla « domanda inerente la colpa »: di che colpa si sono macchiati i Tedeschi? Per rispondere a questa domanda, Jaspers elabora una casistica con quattro tipi di colpa: 1) colpa criminale è la trasgressione della legge; 2) colpa politica è quella che riguarda diversamente i cittadini a seconda della loro posizione (sudditi, capi, ecc), benché resti vero che chi obbedisce e non si oppone è comunque corresponsabile; 3) colpa morale è quella che si commette quando si violano le leggi prescritte dalla propria coscienza (come nel caso in cui si uccide una persona benché la coscienza ci inviti a non farlo); 4) colpa metafisica è quella per cui, in quanto uomini, siamo tutti corresponsabili di ogni torto perpetrato nel mondo, cosicché Jaspers può affermare che « il fatto di essere ancora vivi [dopo Auschwitz] è una colpa ». Arendt, attenta lettrice e grande amica di Jaspers, intende la sua nozione di « colpa metafisica » equivalente a quella di « colpa collettiva » e obietta al filosofo tedesco che dire che tutti sono colpevoli è, in fin dei conti, come dire che nessuno lo è, quasi come se, dalla colpevolezza generalizzata, risultasse una altrettanto generalizzata assoluzione. Si tratta invece – prosegue Arendt – di accertare i singoli gradi di responsabilità nei singoli casi. Sulla base di questi presupposti, esaminiamo ora le tre maniere – corrispondenti a tre momenti della sua vita – in cui Arendt concepisce il male. La prima maniera – quella della normalità e dell’incommensurabilità del male – si afferma specialmente nel carteggio che la filosofa tiene con Jaspers nel 1946 sul problema della colpa: alla tesi jasperiana della colpevolezza collettiva, ella contrappone la nozione di « colpa organizzata ». Come è noto, nel processo di Norimberga, i nazisti cercavano di discolparsi presentandosi come meri ingranaggi della macchina dello sterminio, cioè come semplici esecutori degli ordini che di volta in volta erano loro impartiti: pertanto Arendt – alla stregua di Levi – ne evince che i capi erano dei mostri, mentre gli esecutori erano uomini come noi, ingranaggi in quelle « fabbriche della morte » che erano i lager. Questi ultimi – nota Arendt – sono caratterizzati da tre elementi essenziali: a) l’impersonalità tipica delle grandi burocrazie; b) la parcellizzazione tayloristica, quasi come se si trattasse di una catena di montaggio finalizzata a dare la morte; c) la gerarchicità più totale, come in un esercito. Il lager – nota Arendt – applica tutti i tratti fondamentali delle istituzionalità della modernità e, in particolare, quello che Weber definiva l’agire razionale rispetto allo scopo, intendo – con tale espressione – un agire mirante esclusivamente al fine (lo sterminio degli ebrei) e incurante dei valori e delle conseguenze. Non appena a quegli « onesti padri di famiglia » era dato agire con quello sgravio di impunità morale, il gioco era fatto: diventavano carnefici a tutti gli effetti. La grande modernità di Auschwitz sta allora, secondo Arendt, nel fatto che, oltre a poggiare sulle istituzionalità tipiche del moderno, il male è compiuto da persone come le altre, da « onesti padri di famiglia », gentili ed educati con i propri figli e con le proprie mogli. Dal canto suo, Jaspers propone come terapia ad Auschwitz un ritorno generale all’umanesimo di Goethe e si spinge anche più in là della Arendt, forse in virtù del fatto che egli era psicologo ancor prima che filosofo: « la colpa […] assume un connotato di satanica grandezza »; egli avverte tuttavia il rischio che, parlando come fa Arendt di male incommensurabile, si finisca per farne una velata esaltazione, quasi come se ella trasformasse « l’orrore in mito », cosicché – egli conclude – « mi pare che si debbano ricondurre le cose alla loro banalità »: per spiegare questo punto scivoloso, egli ricorre all’immagine dei batteri che, pur così piccoli e insignificanti, sono in grado di produrre mali immensi; tale è ciò che è accaduto coi nazisti. Ma Arendt rifiuta risolutamente la proposta di Jaspers e lo fa in nome del paqoV: « ad Auschwitz non si è commesso un male superficiale, si è tentato di estirpare dal mondo il concetto stesso di uomo ». Quale strategia di resistenza propone allora la Arendt, di contro al ritorno (forse anacronistico) a Goethe prospettato da Jaspers? Ella propone semplicemente una strategia tanto classica quanto inefficace: un’etica della responsabilità che muti il male in un fardello di cui l’umanità è chiamata a farsi carico, una sorta di vergogna che ciascuno deve provare all’idea di far parte di quell’umanità che ha commesso quel male. E’ una proposta che sicuramente suona bene e, a livello teorico, pare davvero potente; tuttavia, se tradotta in pratica, fa acqua da tutte le parti. Con la stesura de Le origini del totalitarismo, del 1951, si volta pagina: Arendt passa dall’incommensurabilità alla radicalità del male, identificando Auschwitz col male assoluto, icasticamente tratteggiato in questi termini:

« il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato, coi malvagi motivi dell’interesse egoistico, dell’avidità, dell’invidia, del risentimento e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l’amicizia perdonare, la legge punire ».

Da ciò si evince come l’eziologia e la terapia siano messe entrambe fuori gioco: con la shoà il filo della tradizione è stato per sempre reciso e si è concretato quello che già Kant – in La religione entro i limiti della sola ragione – definiva il « male radicale ». Tuttavia Arendt non indica quale sia la reale natura di tale male, ma si limita a indicarne i luoghi in cui esso è nato: i lager. Ella è altresì convinta che, per capire il totalitarismo (e questo è l’obiettivo della sua opera del ’51), si debbano innanzitutto capire i lager, ossia quei luoghi in cui la logia del male radicale si è sviluppata appieno. Ma usare i lager per capire il totalitarismo equivale, naturalmente, a chiedersi quale fosse la funzione dei lager: a tal proposito, Arendt esclude in blocco tutte le possibili risposte utilitaristiche, secondo le quali i lager sarebbero serviti a qualcosa; al contrario – ella nota – essi non sono fabbriche finalizzate alla produzione di qualche cosa, né volte a creare cadaveri. Certo, quella che nei lager si compiva era una forma di annichilimento dell’uomo, giacché egli era in primo luogo annullato come individuo non appena, nel lager, gli erano negate una nazione e una giuridicità, e, in secondo luogo, era azzerato sul piano morale, nella misura in cui – nel lager – i classici problemi morali perdevano ogni significato (tale è il caso in cui alla madre è chiesto quale dei suoi figli preferisce che muoia per primo). Sicchè Arendt addiviene in fine alla conclusione che il vero scopo dei lager era la trasformazione della natura umana, la quale, così com’è, si oppone per sua natura al totalitarismo: il lager plasma un’umanità perversamente nuova e diversa, e questo è il sogno di tutti i pensatori moderni (dal Faust di Goethe fino a Marx). Nei lager quel sogno si è capovolto in incubo, l’utopia si è fatta distopia (è l’immagine del « giardiniere » in altre forme): dopo poche settimane di reclusione, persone tra loro diversissime sotto ogni profilo diventano una sola persona che non ha più umanità né diritti, ma a cui restano esclusivamente le funzioni primarie. Il passo successivo compiuto dalla Arendt è di chiedersi quale sia il ruolo svolto dalla cultura nei lager intesi come laboratori per cambiare la natura umana. A tal proposito, ella confessa a Jaspers: « ho il sospetto che la filosofia non sia monda e priva di macchia in tutto ciò ». Come disciplina, la filosofia ha innanzitutto responsabilità di tipo politico/dirette: è questo il caso in cui essa si mette al servizio di una certa linea politica, con un coinvolgimento diretto (è il caso di Gentile e il fascismo italiano); ma c’è anche una responsabilità di tipo intellettuale/indiretta, quando – come nel caso di Nietzsche e del nazismo – si precorrono filosoficamente posizioni che altri percorreranno fraintendendole. Abbiamo qui succintamente delineato le possibili responsabilità della filosofia in generale, ma dobbiamo ora chiederci quando si debba parlare di responsabilità riferita ai singoli filosofi: quand’è che un filosofo può essere qualificato come nazista? Sicuramente quando egli teorizza la superiorità della presunta razza ariana e quando assegna ad un dato popolo una missione particolare. Tre sono le possibili interpretazioni della responsabilità individuale: 1) si può essere nazisti a prescindere dalla propria filosofia (è il caso di chi aderì al nazismo benché fosse kantiano); 2) si può essere nazisti perché la propria filosofia non presenta elementi di opposizione a ciò (compromissione debole); 3) si può essere nazisti perché la propria filosofia spinge in quella direzione (compromissione forte). Nel caso di Arendt, si preferisce comunemente parlare di « responsabilità indiretta »: quando ella scrive a Jaspers circa la complicità della filosofia col male estremo, pensa ad una prospettiva in cui ciò che accade all’interno dei lager – e che a tutta prima pare del tutto assurdo e ineccepibile – diventa di una chiarezza imbarazzante se visto attraverso le lenti dell’ideologia, le quali finiscono per dare fin « troppo senso » al male. Il termine chiave a cui far riferimento per capire a questo punto il pensiero della Arendt diventa allora quello di ideologia: che cosa intende ella con esso? L’ideologia per Marx era una forma di « falsa coscienza » poggiante su quegli interessi di classe che spingono a pensare in una maniera involontariamente favorevole alla propria classe sociale (tale è il caso della borghesia che finisce col considerare il capitalismo come eterno anziché come frutto di un determinato momento storico); spetta ai critici dell’ideologia smascherare tale falsa coscienza, mettendone in luce la falsità. Con Arendt il termine « ideologia » si colora di significati nuovi e diversi: esso si riferisce ad una corrispondenza totale quanto impossibile tra teoria e prassi; è, in altri termini, la pretesa di far diventare in tutto e per tutto reale la teoria, senza accorgersi che le due sfere – quella reale e quella teorica – fanno a pugni. Lo slogan degli « ideologi » è, in questo senso, il seguente: « ciò che vale per la teoria, deve necessariamente valere anche per la prassi »; o anche quello latino: « fiat veritas ac pereat mundus ». E’ esattamente questo che si è verificato ad Auschwitz, dove i nazisti hanno tentato di concretare la loro perversa teoria: per mettere in evidenza ciò, Arendt si sente in dovere di dimostrare come l’orrore nazista si sia realizzato in virtù del fatto che il mondo è svanito, ossia è caduta quella pluralità che garantiva resistenza, giacché l’ideologia, per funzionare, non ha bisogno dell’io e del mondo: essa è, piuttosto, un parto della mente, un monologo paranoico, un’evasione dal reale. E tale rimozione della pluralità in tutte le sue sfaccettatura – rimozione su cui, come abbiamo detto, trova il suo terreno più fertile l’ideologia – affetta sempre più la filosofia, che tende sempre più a capovolgersi essa stessa in ideologia e a diventare preda di un folle pensare l’unità, riducendo l’umanità ad un solo uomo (nei lager, come abbiamo precedentemente rilevato, le pluralità e le differenze erano azzerate: si era una sorta di unico uomo ridotto alle funzioni primarie). Tuttavia Arendt si accorge ben presto che questo modello, se applicato al nazismo, funziona poco: e, per salvarlo, decide di estenderne l’applicabilità anche allo stalinismo, consapevole di come sia stato, più di ogni altro, Marx (che, nella lettura della Arendt, dello stalinismo è, in certo senso, l’antesignano) a tentare di far diventare prassi la teoria (rendere « filosofico » il mondo, com’egli amava dire), teorizzando la priorità della vita activa su quella contemplativa. Con Marx la filosofia diventa supporto politico del totalitarismo, anche se – come Arendt stessa rileva – « il filo che lega Marx ad Aristotele è assai più robusto di quello che lega Marx a Stalin ». Mostrata la validità della sua tesi per cui si procede sempre più in direzione di un’ideologia, cosicché si perde la pluralità in nome dell’unità, Arendt estende il modello – risultato valido nell’analisi dello stalinismo – anche al nazismo: la teoria della razza è diventata prassi nei lager (questa è l’ideologia). Come antidoto a questa inquietante marcia verso l’ideologia, ella propone di distinguere, all’interno della storia, una « tradizione principale », che rimuove la pluralità e le differenze, e – ad essa contrapposta – una « tradizione alternativa » che, viceversa, valorizza ed esalta il pluralismo in ogni ambito, lottando contro ogni totalitarismo: appuntare l’attenzione su questa tradizione minoritaria è il compito che Arendt si assume a partire dal suo scritto Vita activa. Si tratta dunque di ripensare l’intera tradizione storica e filosofica tentando di valorizzare quegli elementi pluralizzanti che la « tradizione principale » ha eliminato o, nel migliore dei casi, messo a tacere: siamo pertanto di fronte a quello che potremmo definire un « contravveleno anti-ideologico ». Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 il pensiero di Arendt subisce una nuova svolta in concomitanza con l’arresto di Eichmann, uno dei pezzi grossi della milizia nazista, fuggito in Argentina – con l’appoggio del Vaticano – dopo la disfatta tedesca: si cattura e si processa quello che, nell’immaginario collettivo, è il mostro per antonomasia. Israele, diventato Stato, vuole mostrare al mondo che, da quel momento in poi, chi oserà attaccarlo non si salverà; e il fatto stesso che lo Stato vada a prelevare Eichmann in Argentina è una prova lampante di ciò. Subito sorge un problema non da poco: chi ha il diritto di processare Eichmann? Per la prima volta si parla di crimini contro l’umanità: in tale occasione, Jaspers sostiene che tutto il mondo deve processare Eichmann (e Arendt condivide tale posizione), ma Israele si rivela sordo e decide di processarlo a Gerusalemme, anche quando molti (fra cui Arendt stessa) fanno notare che i lager non hanno riguardato esclusivamente gli ebrei, ma anche i comunisti, gli omosessuali, i minorati mentali e, in fin dei conti, l’intera umanità. A questo punto, Arendt decide di seguire di persona il processo a Gerusalemme e di vedere « in carne e ossa » quello che a quei tempi ancora definiva « il male radicale »: sicché si fa mandare da un giornale americano come inviata speciale e da quest’esperienza esce un libro – La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme – attraversato da cima a fondo da un costante senso di spaesamento che traspare fin da quando Arendt scende dall’aereo. Con la pubblicazione di quel libro, inoltre, ella perderà tutti i suoi più cari amici (tra cui Hans Jonas) e sarà ripetutamente accusata di « insensibilità ». Ciò può essere facilmente compreso fin dalle prime pagine, dove ella scrive che, alla vigilia del processo, Israele si stava organizzando come la Germania nazista: espressione, questa, che suonò assai sgradita alle orecchie di molti. Le prime domande che si sollevarono furono le seguenti: perché Eichmann non è processato da una corte universale? Perché non in Germania, dove compì i suoi crimini? La risposta – destinata a suscitare grande scalpore – che Arendt, sconcertata, forniva era che Israele aveva bisogno di legittimarsi e il processo ad Eichmann era un’eccellente occasione. Ancora più sconcertata ella fu allorché vide in persona Eichmann in tribunale; appena due giorni dopo, essa riferì a suo marito dell’incontro e così descrisse icasticamente Eichmann: « è un uomo grigio, piccolo, un coglione ». Ma ciò che più la colpì fu l’assoluta normalità di Eichmann: quello che, nell’immaginario collettivo, era un mostro efferato, si presentava ora come una persona qualunque, del tutto sana, che non uccise mai nessuno con le sue mani e che addirittura svenne alla vista del sangue; egli era, in altri termini, semplicemente un « funzionario delle fabbriche della morte » e, di fronte a lui, la teoria del « male radicale » girava a vuoto. A questo punto, Arendt comincia a mutare prospettiva e ad elaborare una teoria simile a quella della « zona grigia » di Levi. L’avvenuto mutamento di prospettiva è da Arendt comunicato a Scholem (che, fino a quel momento, fu suo amico) in una lettera del 1963:

« ho cambiato idea e non parlo più di « male radicale ». […] Quel che ora penso veramente è che il male non è mai « radicale », ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso « sfida » […] il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua « banalità ». Solo il bene è profondo e può essere radicale ».

La spaesante conclusione cui ella perviene è che Eichmann non è un mostro orripilante, un essere « non umano » che uccide per il gusto di uccidere: al contrario, egli né uccide né odia gli ebrei, bensì si limita ad organizzare il trasporto ferroviario degli ebrei nei campi di sterminio, ossia si preoccupa solamente che i treni arrivino in orario, senza curarsi minimamente del loro carico. Addirittura, si scopre che il suo progetto era di invadere il Madagascar e di mandare lì in esilio tutti gli ebrei: il loro sterminio esulava del tutto dalla sua volontà. Ne emerge, allora, la figura di un Ponzio Pilato che non giudica mai e che è sconvolto quando i nazisti optano per la « soluzione finale »: da tutto ciò, Arendt sostiene che « Eichmann non pensa » ed è perciò un uomo malvagio, quasi l’incarnazione del totalitarismo e dell’ideologia, pensa e agisce in modo meccanico, è « obbediente come un cadavere ». Chiamato a difendersi, egli arriva a dire di aver agito « kantianamente » e di aver seguito la volontà di Hitler: non sa ergersi a giudicare quel che fa, si limita ad obbedire ai comandi che gli sono impartiti; così rileva Arendt e, di seguito, si domanda se quello di Eichmann fosse un comportamento obbligato. A questa domanda risponde negativamente: non è assolutamente vero che in ogni uomo si nasconde e latita un potenziale mostro come Eichmann; al contrario, basta saper pensare ed essere giudici del proprio agire perché ciò non si verifichi. Per chiarire questo punto, Arendt adduce l’esempio della Danimarca, l’unico Paese che si era fermamente opposto all’invasione della Germania e delle sue idee aberranti. In fin dei conti, Arendt rileva che Eichmann ha compiuto un male immenso e incommensurabile ma credendo di fare del bene (in ciò risiede quella che ella chiama la « banalità del male »), non ha saputo opporsi poiché non è stato in grado di pensare e giudicare: perciò deve essere punito dalle leggi. Sicché la pena che gli fu inflitta a Gerusalemme (l’impiccagione) fu giusta secondo Arendt, benché ella non condividesse affatto la sentenza per cui Eichmann era un criminale contro gli ebrei: in realtà – ella nota – Eichmann fu un criminale contro l’umanità e perciò deve morire. Il concetto di obbedienza va bene solo quando si ha a che fare coi bambini o coi credenti, ma mai in politica, dove obbedire equivale ad appoggiare. Certo, non tutti possono essere eroi e intraprendere una resistenza attiva, poiché – come giustamente notava don Abbondio – il coraggio non ce lo possiamo auto-infondere, e tuttavia, ciò non di meno, tutti possono rifiutarsi di obbedire, intraprendendo per questa via una resistenza passiva.

OGGI 19 APRILE – ISRAELE E TUTTO IL MONDO EBRAICO FA MEMORIA DELLA SHOAH

http://www.lanzone.it/Shoah/Schede/insurr.htm

OGGI 19 APRILE - ISRAELE E TUTTO IL MONDO EBRAICO FA MEMORIA DELLA SHOAH

L’insurrezione del ghetto di Varsavia. (19 aprile)

Tra i rarissimi episodi di resistenza degli ebrei contro le persecuzioni e lo sterminio attuati dai nazisti, l’insurrezione del ghetto di Varsavia (o di quanto restava di esso) fu certamente il più significativo per la sua valenza simbolica.
La resistenza interna al ghetto di Varsavia si costituì nell’inverno del 1941, per iniziativa del Zukunft (« l’Avvenire »), organizzazione giovanile del Bund (« Lega »), il partito socialista ebraico attivo in Polonia già nell’anteguerra. La scelta dell’inverno del 1941 per abbozzare una qualsivoglia forma di resistenza non fu casuale: i massacri degli ebrei dell’Europa orientale ebbero inizio soltanto dopo il giugno del 1941, ovvero dopo l’aggressione tedesca all’URSS. Nel febbraio del 1941 giunsero a Varsavia, tramite i canali di comunicazione delle organizzazioni politiche ebraico-polacche, le prime notizie sulle pratiche di sterminio attuate nel campo di Chelmno e sulle fucilazioni di massa avvenute in Bielorussia e in Ucraina. Il Zukunft decise di pubblicare un foglio clandestino per diffondere le notizie conosciute su tali pratiche tra gli ebrei, in maggioranza rassegnati a subire le persecuzioni e ignari del destino che veniva riservato loro.
Nel gennaio del 1942 le diverse organizzazioni politiche ebraiche tennero una conferenza unitaria all’interno del ghetto. Le organizzazioni Hashomer Hatzair (associazione di scoutismo ebraico di ispirazione sionista, fondata nel 1915) e Hechalutz (organizzazione giovanile del movimento sionista) proposero di creare un movimento di lotta comune, mentre il Zukunft, pur concordando sulla necessità di dar vita ad una vera e propria resistenza armata, cercò di raccordare le iniziative politiche interne al ghetto con la resistenza polacca e soprattutto con il Partito Socialista Polacco.
Mentre l’organizzazione della resistenza seguiva percorsi tortuosi anche per evitare di essere scoperta e distrutta sul nascere dai tedeschi, vennero messi in circolazione fogli d’informazione il cui scopo era quello di diffondere la consapevolezza della necessità di resistere con ogni mezzo ai nazisti. Soltanto il Zukunft pubblicava nell’inverno 1941-1942 ben 6 giornali clandestini: Der Werker (« Il Risveglio », settimanale, in yiddish), Biuletjn (« Il Bollettino », mensile, in polacco), Cajtfragn (« Problemi del Tempo », pubblicazione irregolare, in yiddish), Za nasza i wasza wolnosc (« Per la nostra libertà e la vostra », mensile, in polacco), Jungt Sztime (« La voce di giovani », mensile, in yiddish) e Nowa Mlodziez (« Nuova gioventù », mensile, in polacco).
Questa diffusione di stampa clandestina, sebbene molto difficile nelle condizioni vigenti nel ghetto, ebbe una importanza indiscutibile, poiché costituiva un chiaro segnale dell’esistenza almeno di frange di ebrei disposti a resistere ad ogni costo alle violenze naziste.
Nel giugno del 1942 le autorità naziste ordinarono allo Judenrat di Varsavia di pubblicare il decreto che ingiungeva a circa 380.000 ebrei di recarsi nella Umschagplatz, raccordo ferroviario ai confini del ghetto, per dare inizio ad una operazione di Umsiedlung. Pochi giorni dopo la pubblicazione del decreto, il presidente del Judenrat, Czerniakov, si suicidò, non sopportando la vergogna di essere stato costretto a collaborare attivamente alla distruzione annunciata degli ebrei rinchiusi nel ghetto. Il gesto di Czerniakov, peraltro, lasciava pochi dubbi agli ebrei che avessero voglia di comprendere cosa stava per accadere: il presidente del Judenrat aveva collaborato con le autorità tedesche al solo scopo di salvare gli abitanti del ghetto; il suo suicidio era la più evidente testimonianza che egli stesso non riteneva possibile raggiungere lo scopo che si era prefissato.
Il suicidio di Czerniakov segnò un punto di svolta per la resistenza interna al ghetto. Mentre da Treblinka, per mezzo della resistenza polacca, giungevano le prime notizie sul destino riservato agli ebrei deportati, le organizzazioni giovanili ebraiche decisero di dare un chiaro segnale della loro esistenza e di de-legittimazione di ciò che restava dello Judenrat e delle sue istituzioni: il 20 agosto 1942, mentre erano ancora in corso i rastrellamenti nazisti per la deportazione, Szerynski, capo della polizia ebraica del ghetto, venne gravemente ferito in un attentato: si trattava di un avvertimento a tutti i membri della polizia ebraica, che nei giorni del rastrellamento avevano attivamente collaborato con i nazisti.
Il 20 ottobre 1942 i diversi organismi politici che nell’anno precedente avevano diffuso la stampa clandestina si unirono tra loro, formando l’Organizzazione Ebraica di Combattimento (OEC), sotto la guida di Mordechai Anielewicz. L’OEC iniziò immediatamente a reperire armi leggere per il tramite della resistenza socialista polacca e pochi giorni dopo la sua costituzione diede inizio alle azioni armate: il 29 ottobre 1942 venne ucciso in un attentato Jacob Lejkin, nuovo capo della polizia ebraica del ghetto e il 29 novembre venne gravemente ferito Jacob First, membro del Judenrat incaricato di collaborare con i tedeschi alle deportazioni.
Ma la fase decisiva della resistenza ebraica ebbe inizio il 18 gennaio 1943, quando i tedeschi accerchiarono e bloccarono il ghetto, cercando di avviare la seconda fase delle deportazioni. A quell’epoca restavano nel ghetto non più di 40.000 ebrei (su circa 600.000) scampati alle deportazioni di luglio e agosto. Quando i tedeschi cercarono di penentrare nel ghetto per dare inizio ai rastrellamenti, si trovarono di fronte ad una inattesa resistenza armata e furono costretti a desistere per non subire perdite indesiderate. Da quel momento e sino all’aprile del 1943, l’OEC assunse di fatto il controllo del ghetto, contrastando qualunque azione tedesca
Il 19 aprile 1943 ebbe inizio l’attacco finale dell’esercito tedesco contro il ghetto di Varsavia. Malgrado l’evidente disparità delle forze in campo e la totale inadeguatezza dell’equipaggiamento militare dell’OEC (i rivoltosi disponevano di un centiunaio di pistole, meno di cento fucili e di rudimentali bombe « Molotov » costruite con mezzi di fortuna), i combattenti ebrei opposero una strenua resistenza alle truppe tedesche, guidate dal generale delle SS Stroop. Malgrado l’intervento dei carri armati, diverse centinaia di tedeschi e di ucraini ausiliari delle SS vennero uccisi. Il 6 maggio, vista la pessima piega presa dagli eventi, il generale Stroop ordinò alle sue truppe di cannoneggiare e di incendiare il ghetto.
L’8 maggio i tedeschi circondarono il comando dell’OEC, i cui dirigenti preferirono suicidarsi piuttosto che farsi catturare. Soltanto un piccolissimo numero di rivoltosi riuscì a sfuggire all’accerchiamento, utilizzando il sistema fognario per raggiungere la parte « ariana » di Varsavia. Al termine dei combattimenti, il 10 maggio 1943, il ghetto era stato letteralmente raso al suolo. Ciò nonostante, gli insorti erano riusciti ad ottenere un risultato straordinariamente importante, almeno sul piano simbolico. Non solo avevano dimostrato che la resistenza era impossibile: il loro esempio testimoniava del fatto che una opposizione più decisa alle violenze da parte di tutti gli ebrei avrebbe forse reso impossibile la realizzazione dello sterminio.

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La corporeità nel pensiero e nell’arte dell’ebraismo: Tatuaggi sulla carne e nell’anima (O.R. 2010)

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/116q04a1.html

La corporeità nel pensiero e nell’arte dell’ebraismo

Tatuaggi sulla carne e nell’anima

(O.R. 2010)

Il 23 maggio si concluderà a Torino l’ostensione della Sindone. Continua invece fino al 1 ° agosto alla Venaria Reale la mostra – organizzata da Imago Veritatis e curata da Timothy Verdon – « Gesù. Il corpo, il volto nell’arte ». Dal catalogo (Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2010, pagine 336, euro 35) pubblichiamo quasi integralmente il saggio scritto dall’Ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede.

di Mordechay Lewy
La corporeità nell’ebraismo, in contrapposizione alla spiritualità nel cristianesimo, è stata per secoli oggetto di numerose polemiche, conclusesi, a volte, in maniera disastrosa per gli ebrei. Scrivendo questo mio saggio, non è mia intenzione rinfocolare il circolo di polemiche. Al contrario, vorrei far luce su alcuni aspetti che possano ridurre la polarizzazione creatasi nel corso dei secoli. Né il giudaismo né il cristianesimo hanno aderito sempre pienamente alla corporeità o alla spiritualità rispettivamente. Talora troviamo ebrei che elaborano la loro dottrina adottando la filosofia ellenistica, come, per esempio, Filone d’Alessandria, o persino concezioni aristoteliche della vita dopo la morte, come Maimonide. La Qabbalah ebraica ha sviluppato un concetto molto corporeo di Dio, compresa l’idea di reincarnazione dell’anima. La maggior parte dei cristiani hanno inteso Dio quale entità corporea adottando l’idea dell’incarnazione, del Verbo fattosi carne. L’idea della transustanziazione contribuì al culto del Corpus Christi stabilito nel 1264. L’arte cristiana divenne corporea nel momento in cui furono necessari dipinti più naturalistici per diffondere la nuova dottrina. Tuttavia, pur prendendo in prestito gli uni dagli altri, ebrei e cristiani rimasero fedeli ciascuno alla propria verità.
L’alleanza di Dio fu stipulata non soltanto con la nazione ebraica fisicamente presente nel Sinai, ma anche con le future generazioni. L’arca prima, e il tempio, in seguito, erano considerati la dimora di Dio. Dalla distruzione del Secondo tempio, la presenza divina fu dispersa tra il popolo ebraico; nel Talmud vi si fa riferimento col nome di Shekhina. Il testo scritto divenne lo strumento dell’onnipresenza del divino. Le offerte materiali furono sublimate in parole e nelle preghiere quotidiane. Questa idea di onnipresenza divina ben si addice al concetto ebraico di Dio invisibile, privo di corpo o corporeità.
Tra i sommari degli articoli di fede, i tredici principi scritti da Maimonide sono sempre stati oggetto di alta considerazione. I primi tre di essi sono pertinenti:  « Sia esaltato il Dio vivente e sia lodato. Egli esiste e la Sua esistenza non ha limiti di tempo »; « Egli è uno, e non vi è altro unico come la Sua unità. Inscrutabile e infinita è la Sua unità »; « Non ha forma corporea e non è un corpo. Niente può essere paragonato alla Sua santità. Dio è uno, è invisibile e onnipresente e non ha corporeità ».
I principi di Maimonide provocarono una frattura nel mondo rabbinico medievale. Uno dei suoi primi critici, vicino ai circoli cabalistici, fu Rabbi Moses ben Hasdai Taku, che non accettò l’interpretazione allegorica data da Maimonide del linguaggio antropomorfico con cui il testo biblico nel Pentateuco attribuisce a Dio delle voci. Per Rabbi Moses, la potenza di Dio è infinita ed Egli può « ridurre » se stesso, apparire inaspettatamente e allo stesso modo produrre dei suoni o rumori a proprio piacimento. La corrente principale dell’ebraismo continua a considerare Dio invisibile e onnipresente e non ha mai appoggiato idee di reincarnazione dell’anima (Gilgul Neshamot), anzi le ha completamente rigettate. All’emergere dell’impatto della Qabbalah tra il xii e il xiii secolo, l’idea della reincarnazione dell’anima divenne parte del misticismo ebraico.
Il diverso atteggiamento verso l’incarnazione nell’ebraismo e nel cristianesimo ha le proprie radici nella maniera di interpretare la creazione dell’umanità. Di estrema importanza per l’ebraismo era il concetto monista della creatura umana, per cui l’anima e il corpo furono creati come una unità. Il termine ebraico per anima, Nefesh, è quasi sinonimo di uomo e di vita. Essendo una cosa sola, l’uomo porta il proprio corpo nella sua relazione con Dio. Dall’altra parte, Dio conferma questa corporeità, includendo il corpo nella sua alleanza attraverso la circoncisione. Il dualismo ellenistico, tuttavia, ebbe un impatto anche su vari movimenti del giudaismo nel periodo del Secondo tempio. Filone d’Alessandria è considerato il suo principale esponente nella filosofia ebraica. Secondo il suo pensiero il corpo è quasi una prigione dell’anima. Nel Talmud un certo Antonino appare numerose volte mentre dialoga con un certo Rabbi Yehuda, chiaramente il riverito presidente del sinedrio. Ciò riflette una sorta di legittimazione degli scambi di vedute con la filosofia greca. È troppo domandarsi se Antonino rappresenti per caso un imperatore della dinastia degli Antonini, probabilmente persino Marco Aurelio stesso? Alcuni saggi ebrei si sentirono minacciati e si opposero all’impatto ellenistico.
Un pomo della discordia fu la questione della circoncisione. Nel Talmud alcuni saggi presentano la distinzione secondo la quale, dopo la morte, la creatura umana si scompone nelle sue tre parti. L’anima proviene da Dio, il quale (ri)prende ciò che gli appartiene. La sostanza bianca proviene dall’uomo, e di essa sono fatti il cervello e le ossa. La sostanza rossa proviene dalla donna, e di essa sono fatti la pelle, la carne e il sangue. Le parti che hanno origine dall’uomo e dalla donna, dopo la morte, si decompongono. La morte separa il corpo e l’anima temporaneamente sino alla resurrezione. Non v’è descrizione della resurrezione più suggestiva di quella della visione che Ezechiele ebbe delle ossa aride. Gli ebrei adottarono delle usanze funebri finalizzate proprio a predisporre il corpo umano alla resurrezione futura:  l’intero corpo deve essere sepolto lo stesso giorno, e la cremazione non è consentita. Deve essere mantenuta l’integrità del corpo, malgrado la decomposizione mortale, poiché con la resurrezione il corpo tornerà in vita.
Chi non ha visto, dopo ogni attentato suicida, ebrei ortodossi aggirarsi tra le vittime civili israeliane, per raccogliere qualsiasi resto di corpo umano, sparso ovunque, anche lontano dal sito dell’attentato terroristico? Tali sforzi sono giustificati, in effetti, solo se si crede nella resurrezione del corpo nella sua interezza. Ma probabilmente non avrebbero trovato d’accordo Maimonide, molto contestato dai saggi ebrei del suo tempo (1135-1204) e considerato perfino eretico da alcuni, solo perché aveva sostenuto la separazione dell’anima dal corpo dopo la morte.
Non v’è espressione corporea più forte della richiesta di Dio ad Abramo, e a tutta la sua discendenza, di praticare il rito della circoncisione (Brit Mila) sulla loro carne, come segno di alleanza. Un altro vincolo corporeo, ripetuto quotidianamente dagli ebrei osservanti, è quello di legare i filatteri (tefillin) sulla fronte (totafot) e al braccio sinistro, quello vicino al cuore (ot).
Questa è un’ulteriore espressione di corporeità, che comprende la proprietà collettiva di Dio di ciascun individuo ebreo come suo schiavo. Il corpo dell’ebreo maschio porta dei segni permanenti (circoncisione) e segni temporanei (i filatteri legati quotidianamente) quali segni mnemonici, per ricordare la benevolenza di Dio sin dall’esodo dall’Egitto. Ma può essere aggiunto anche un significato antropologico a quei segni corporali. Essi sembrano riflettere l’evoluzione da antichi modelli socio-legali della pratica di marchiare le proprietà. Le antiche culture orientali usavano marchiare la proprietà sui beni, sia che fossero oggetti sia che fossero corpi di animali o corpi umani. Lo stato di schiavitù permanente nelle culture della Mesopotamia era contraddistinto tramite tatuaggio piuttosto che con un marchio a fuoco, ma la Bibbia mal tollerava segni corporei permanenti. Ritengo che i tefillin siano stati introdotti in sostituzione; la proibizione di marchi e tatuaggi aveva come scopo quello di segnare una distinzione tra la nuova religione monoteistica e le culture politeistiche della regione, come ribadiva nuovamente Maimonide nel xiii secolo. La circoncisione tuttavia continuava a essere praticata dagli ebrei nella misura in cui erano usi fare soltanto i popoli egizio e cananeo. Non vi è prova linguistica, o di qualsiasi altro genere, che le culture mesopotamiche praticassero la circoncisione. Pertanto la tradizione che vede nella circoncisione di Abramo un retaggio mesopotamico mi pare dubbia; probabilmente qualcuno aveva interesse a nascondere l’influenza che la cultura egizia ebbe sugli ebrei. L’ellenismo ereditò con molta probabilità il costume babilonese-persiano di rigettare la circoncisione, e sotto l’influsso ellenistico la pratica della circoncisione non fu più seguita da tutti gli ebrei, tanto che non era raro il ripristino del prepuzio. La cultura greco-romana rifiutava la circoncisione, che era vista come una mutilazione della bellezza del corpo.
Le mnemotecniche impiegate nell’antico ebraismo mediante i segni del corpo ebbero un brillante futuro nel cristianesimo medievale. Il Nuovo Testamento aveva prodotto la visione organica della comunità quale corpo in comunione con Gesù. L’idea di Dio (la Parola o Lògos) che diviene carne (che cioè assume forma umana) non era estranea alle tradizione ellenistica, egizia e mesopotamica. Allo stesso tempo la natura divina e umana di Gesù divenne una dottrina vincolante nel primo concilio di Nicea nel 325. I primi cristiani adottarono costumi analoghi a quelli della cultura ebraica, ma a un livello simbolico e non corporeo. L’esempio migliore è il battesimo quale rito d’iniziazione. In maniera analoga alla circoncisione, il battesimo crea un marchio indelebile, ma nell’anima. La contrapposizione tra la corporeità ebraica e la spiritualità cristiana è stata segnata da polemiche tra le due religioni, le più antiche delle quali probabilmente risalgono fino alla Mishna. Rabbi Eliezer Hamodai diceva nelle Massime dei Padri che coloro che cancellano il patto di Abramo « non hanno parte nel mondo che verrà ». Sant’Agostino espresse questa polarizzazione polemica, affermando che i cristiani hanno una comprensione più profonda del significato spirituale, mentre gli ebrei permangono nel regno « inferiore » della carnalità, intesa soltanto nella sua forma fisica e materiale. Ciononostante, la circoncisione era considerata da Agostino come una sorta di sigillo di salvezza. Essa era comunque intesa da Pietro Lombardo come un mero marchio, giacché Abramo era già giustificato attraverso la fede. Basandosi su Agostino, Lombardo considerava la circoncisione sin dal tempo di Abramo come un rimedio contro il peccato originale, ereditato di generazione in generazione attraverso la concupiscenza dei genitori.
Nell’iconografia cristiana sin dal xiii secolo il rito ebraico della circoncisione appare spesso nel ciclo della vita di Gesù, quasi sempre senza allusioni negative. A partire dal xiii secolo i sentimenti religiosi cristiani comprendevano una corporeità emergente seguita dall’arte figurativa. Crebbe di conseguenza il culto dei segni del corpo, nelle forme più svariate, quali la venerazione del Corpus Christi, le cinque piaghe di Gesù, le stimmate di san Francesco o la venerazione delle Arma Christi. La Imitatio Christi divenne l’ideale corporeo della religiosità mistica in epoca tardo-medievale. Il sangue mutò il suo significato normativo, in opposizione a quanto registrato nella Bibbia, nella quale era associato alla vita, alla purità e alla prosperità. La Qabbalah abbracciò valenze differenti e contraddittorie. Sia per i cristiani sia per gli ebrei in epoca medievale il corpo di Dio, e in particolare il suo sangue, venne a trovarsi al centro di un nuovo senso di corporeità; entrambe le culture, come scrive David Biale, condividevano il culto del sangue di Dio.
Non vi è dubbio che ebrei e cristiani nelle città medievali condividevano una corporeità che era il prodotto della coabitazione in un ambiente urbano densamente abitato. Avevano imparato a conoscere i reciproci riti, ma, contendendosi la benevolenza divina, ciò non bastò a ridurre la loro animosità. Ebrei e cristiani spesso « interpretavano » o deridevano vicendevolmente i propri riti, contribuendo entrambi, in questa maniera, ad alimentare un ciclo di polemiche. L’unica differenza era che gli ebrei costituivano una minoranza che non soltanto rischiava la propria vita, ma veniva anche bollata con pregiudizi profondamente radicati.
Considerando la liturgia come linguaggio del corpo in una religione, si potrebbero tracciare delle similitudini e delle differenze tra i gesti corporei ebraici e cristiani e le loro rispettive liturgie. Nell’atto penitenziale all’inizio di ogni messa i fedeli battono per tre volte il pugno della mano destra sulla parte sinistra del petto; lo stesso gesto viene compiuto principalmente dagli ebrei askenaziti nella preghiera quotidiana del Vidui (confessione) per ciascuno dei ventiquattro peccati che vengono enumerati. Non è noto quale religione abbia adottato il gesto per prima, ma esso fu introdotto molto probabilmente nel Medioevo. Quando il rotolo della Torah viene estratto dall’arca santa la comunità in sinagoga si alza in piedi. Allo stesso modo, durante la Liturgia Verbi per la lettura del Vangelo, l’assemblea in chiesa si alza in piedi. Al Vangelo è riservata dignità simile a quella della Torah, entrambi infatti sono esibiti in processione intorno all’Altare o all’Arca Santa rispettivamente. Mentre il Vangelo viene adorato da lontano, gli ebrei cercano la prossimità fisica col rotolo della Torah durante la processione, baciandolo o sfiorandolo con le frange di corde intrecciate (Zizit) poste alle estremità del mantello da preghiera (Tallith). La stessa manifestazione di contatto fisico avviene tra gli ebrei all’inizio e alla fine di ogni lettura di un passo dal rotolo della Torah. Anche la liturgia cristiana ha tuttavia sviluppato una propria genuina espressione di corporeità. Il quadrato di lino bianco sull’altare, sul quale si posano le specie eucaristiche, è chiamato già dal xiv secolo Corporale, poiché esso viene utilizzato per avvolgere il corpo di Cristo durante la liturgia eucaristica. Il segno della croce con le dita su oggetti, sul corpo di qualcuno o in aria creò un’ampia varietà di gesti liturgici. Il barocco spagnolo produsse sculture votive lignee dipinte in maniera così naturalistica da essere chiamate encarnación. Quest’arte post-tridentina diede alla dottrina della Parola divenuta carne un’amplissima visibilità.
Il Pentateuco riflette già un’attitudine iconoclastica, vietando la creazione di immagini. Gli ebrei in seguito svilupparono la capacità di sublimare la corporeità in immaterialità, per esempio, mutando le offerte in preghiere. Parole e scritti canonizzati rafforzavano l’attitudine all’espressione artistica non pittorica. Ne derivarono, come nell’arte islamica, disegni ornamentali e micrografie. L’instaurazione di una cultura quasi priva di immagini sotto il dominio musulmano equivalse a una rottura della tradizione classica greco-romana di espressione pittorica, che aveva dominato il bacino mediterraneo sin dall’antichità. Il cristianesimo andò in altre direzioni, sublimando la spiritualità della Parola nell’incarnazione di Dio attraverso Gesù. A causa di questa corporeità il cristianesimo poté facilmente mutuare modelli di arte pittorica dalla tradizione greco-romana. Sotto l’influsso ellenistico i mosaici nelle sinagoghe della Terrasanta riproducevano rappresentazioni iconografiche di episodi biblici. La ricchezza di immagini bibliche negli affreschi della sinagoga di Doura-Europos, del iii secolo, è unica.
La cultura ellenistica ammetteva le immagini come verità, così come espresso da Filostrato; Platone contrastò la pittura (e i sofisti) nel Fedro, poiché nessuno dei due poteva creare la vita e la verità. A suo parere soltanto l’anima e la sua verità potevano creare la vita. Le riserve platoniche contro la pittura esistono anche nelle tradizioni musulmane degli Hadith. L’ostilità nei confronti delle immagini è stata mantenuta nel complesso da ebrei e musulmani allo stesso modo. Nella sua polemica contro l’approccio iconoclastico Giovanni Damasceno sosteneva che, poiché Gesù era divenuto l’incarnazione della parola divina, poteva essere raffigurato.
Beda il Venerabile tentò di armonizzare Antico e Nuovo Testamento interpretando l’uno come prefigurazione dell’altro. L’emergere della corporeità nell’arte cristiana fu quasi una necessità didattica. Questo approccio di base del cattolicesimo favorevole all’immagine non è identico all’atteggiamento bizantino iconofilo (iconodulo). William Durand (1220-1296) mise in chiaro che « una cosa è adorare un’immagine e un’altra cosa è, attraverso un’immagine, apprendere storicamente che cosa si deve adorare ». I dottori della Chiesa erano ben consapevoli del fatto che, nelle dispute medievali con ebrei e musulmani, il cristianesimo era visto alla stregua di un’idolatria. La principale argomentazione assumeva che, se Gesù fosse stato di sola natura umana, la venerazione della sua immagine sarebbe stata idolatria. Se, invece, Gesù avesse avuto natura divina, sarebbe stato impossibile raffigurarlo. La nuova dottrina della transustanziazione e la venerazione del Corpus Christi necessitavano di una diffusione tra credenti i quali, senza miracoli visibili, avevano difficoltà a comprenderle. Maimonide, nella sua classifica dei cinque tipi di infedeltà, definì il cristiano « colui che ammette che c’è un solo Dio, ma che questi ha un corpo e una forma ».
Il mezzo espressivo meglio preservato nell’arte ebraica medievale è costituito dai manoscritti ebraici miniati di origine askenazita (dell’Europa centro-occidentale). Ciò che colpisce, osservandoli, sono le rappresentazioni figurative di animali e di creature umane. Come si può conciliare questo fenomeno con l’approccio iconoclastico dell’ebraismo? Maimonide scrive nel Mishe Torah:  « È permesso beneficiare di figure realizzate dai gentili per decorazione, ma quelle realizzate per l’adorazione di idoli sono proibite ». L’opinione accettata oggigiorno è che quei manoscritti sono il prodotto della collaborazione fra scribi ebrei e miniatori cristiani. Le creature, spesso bizzarre e distorte, rispondevano essenzialmente alla richiesta da parte dei committenti ebrei di non raffigurare esseri umani. A ogni modo, pur non spingendoci oltre come Ruth Melnikoff, possiamo affermare che gli ebrei, nella loro opposizione alle immagini umane, sembrano chiudere un occhio su queste miniature. Nei manoscritti ebraici di provenienza italiana o spagnola non si trova questo tipo di deliberata deformazione della figura umana. Escludo la possibilità che in questi Paesi venissero ingaggiati pittori ebrei; se consideriamo le norme prescritte da Maimonide nei confronti degli idoli, pittura e scultura non potevano essere una professione per ebrei. Soltanto il processo di assimilazione all’interno di una società gentile, come accadde in parti dell’Europa alla fine del xix secolo, portò un cambiamento radicale. Ci vollero quasi ottocento anni dal tempo di Maimonide perché Chagall potesse creare per la prima volta un’autentica arte figurativa ebraica.

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI, EBRAISMO: SHOAH |on 16 février, 2012 |Pas de commentaires »

Il Silenzio di Dio – di Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma – per il giorno della memoria

http://www.nostreradici.it/silenzio_DiSegni.htm

Il Silenzio di Dio

Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma, Direttore del Collegio Rabbinico Italiano

Il tema del silenzio e dell’assenza di Dio davanti alle sofferenze dell’umanità è salito improvvisamente alla ribalta per un motivo quasi casuale, un recente intervento del Papa che lo ha affrontato nel corso di un’omelia. Parlare di quest’argomento ha sorpreso un po’ tutti, sia per la natura del tema, così difficile e speciale, che per la forza con cui è stato trattato. Ma per la sensibilità ebraica non si è trattato di una novità né di una sorpresa.
È un tema importante della teologia biblica che viene costantemente ripreso ed elaborato nel corso della storia e che davanti a fenomeni di particolare gravità, come la Shoà, esplode travolgendo le coscienze. Esaminando le pagine bibliche si può vedere come l’interrogativo sulla presenza divina accompagni la storia ebraica dal momento stesso in cui nasce come popolo. La Bibbia cerca di dare qualche risposta, anche molto precisa a questa domanda terribile, ma la questione evidentemente non è semplice da risolvere per le coscienze turbate.
Il tema trova espressione in una grande metafora antropomorfica, quella del panim, del volto divino. Nel rapporto tra esseri umani guardarsi in faccia è un modo di comunicare, anche se non necessariamente benevolo, mentre volgersi la faccia, rivoltarsi, è segno di chiusura, di interruzione di comunicazione, di rifiuto. Sono pertanto sinonimo di speciale benedizione, simpatia, protezione, benevolenza le espressioni iaer haShem panaw elekha e issà haShem panaw elekha, « che il Signore illumini e volga te il suo volto », che compaiono nella benedizione sacerdotale di Numeri 6:25-26, che quotidianamente ripetiamo nella nostra liturgia.
Al contrario è il celarsi, il nascondersi del volto divino il segno di allontanamento. Leggiamo in proposito un brano fondamentale:
 » La mia ira divamperà contro di lui in quel giorno e li abbandonerò e nasconderò loro il mio volto (letteralmente: mi nasconderò il volto da loro) e diventerà preda di chi vuole divorarlo e lo incontreranno numerose disgrazie e cose cattive e in quel giorno dirà ‘è perché il mio Dio non è in mezzo a me che mi sono capitate queste brutte cose’. Ma Io avrò nascosto il mio volto in quel giorno per tutto il male che aveva fatto, perché si era rivolto ad altri dei ». (Deuteronomio 31:17-18).
In questo brano c’è la prefigurazione dell’evento (l’abbattersi delle sciagure nazionali, il diventare preda dei nemici), la sua rappresentazione teologica (Dio che si nasconde all’uomo), la constatazione umana dell’abbandono (Dio non è in mezzo a me) e l’interpretazione teologica (il volto si nasconde perché l’uomo si è ri-volto altrove).
Che non si vadano a cercare responsabilità divine primarie nel male; questo dipende in primo luogo dall’uomo e dal dono che gli è stato fatto di poter scegliere tra bene e male, tra premio e punizione. E all’uomo viene quindi chiesto di fidarsi e scommettere. Non a caso, in un brano che per molti versi è l’anticipazione di quest’interpretazione del Deuteronomio, la domanda su dove è Dio nasce in un contesto storico preciso: usciti dall’Egitto, dopo tutti i miracoli cui hanno assistito, gli ebrei si trovano nel deserto senza acqua; e allora, immemori e ingrati dei beni precedenti, protestano, fino a minacciare Mosè di lapidazione. Racconta la Bibbia:
« (Mosè) chiamò quel luogo Massà e Merivà (contesa e lite) per la lite dei figli d’Israele e per aver loro messo alla prova il Signore dicendo: ‘se Dio è in mezzo a noi o no’  » (Esodo 17:7).
E subito dopo ecco quello che succede:
« Arrivò Amaleq e combatté con Israele a Refidim » (ibid, v. 18).
Amaleq è il nemico mortale perenne d’Israele, senza pietà per i più deboli. Amaleq arriva e colpisce non in un momento qualsiasi, ma quando Israele non è più capace di avvertire la presenza divina dentro di sé. Dio fugge e si nasconde secondo il Deuteronomio dopo che gli ebrei gli si rivoltano contro; ma la prima fuga -quella che apre il varco al nemico divoratore- avviene nella coscienza degli uomini che diventano sordi e incapaci di avvertire la presenza divina. Prima ancora di un volto che si nasconde c’è l’incapacità umana di vederlo quando c’è. L’importanza di questa storia supera il caso isolato, diventa emblematica. Non a caso nella Torà uno dei comandi più importanti che si riferiscono all’uso della memoria, riguarda proprio la storia di Amaleq: « ricorda cosa ti ha fatto Amaleq » (Deuteronomio 25:17). Ricorda cosa ti ha fatto, ma anche che cosa può averlo provocato.
Il celarsi del Deuteronomio non è isolato, ma lo ritroviamo in tanti altri brani biblici,da Isaia (8:17, 54:8), Ezechiele 39 (23,24,29), ai Salmi (« non nascondermi il tuo volto »: 27:9, 102:3, 143:7; e ancora 13:2, 30:8, 44:25 ecc), espressioni di una angoscia e di una ricerca costante. Di fatto il tema del Dio che si nasconde diventa la costante dell’esperienza successiva, specialmente diasporica. Giocando sulla lingua, la radice satar che indica il celarsi (da cui forse anche il mistero) viene riscontrata dai Maestri nel nome dell’eroina biblica Ester: un nome che in realtà dovrebbe essere collegato a Astarte e Aster-Astro, ma che per i Maestri non indica il fulgore ma il buio. Con una consolazione: perché la regina Ester opera in un periodo storico in cui il Volto non è più visibile e accessibile, e per questo può sempre sorgere qualcuno che decide di distruggere l’intero popolo ebraico; ma anche se la presenza diretta, la visione luminosa del volto non c’è più, la presenza divina, la sua provvidenza, la sua assistenza non mancano mai e al momento giusto intervengono nella storia e liberano.
Per questo motivo consolatorio e di speranza gli ebrei celebrano ancora oggi (e continueranno a farlo anche quando tutte le altre feste saranno abolite), per una volta all’anno, con gioia fisica quasi sfrenata, la festa del Purim, per segnalare che anche in un regime di volto nascosto la protezione non viene mai meno. È sul filo di questa speranza che si gioca un’esperienza drammatica, una domanda con tante risposte sempre insufficienti, una provocazione alla fede che coinvolge quasi quotidianamente la vita di ogni ebreo, che sia religioso o no.
Nel momento in cui lo Stato si accinge a celebrare il Giorno della Memoria, con importanti intenti memoriale ed educativi, lo spirito ebraico partecipa con un ricordo sconsolato e con il peso di una domanda e di una ricerca che ha più di 32 secoli di storia.

LE « PIETRE D’INCIAMPO » DI ROMA

http://www.zenit.org/article-29276?l=italian

LE « PIETRE D’INCIAMPO » DI ROMA

L’opera dell’artista tedesco Gunter Demnig in memoria delle vittime della Shoah

di Britta Dörre
ROMA, martedì 17 gennaio 2012 (ZENIT.org) – “Una persona è dimenticata solo quando il suo nome è stato dimenticato”: con queste parole, l’artista tedesco Gunter Demnig spiega il suo progetto Stolpersteine.
Dopo le prime due edizioni romane (2010 e 2011), Demnig ha installato quest’anno a Roma 72 altre pietre d’inciampo, vale a dire monumenti artistici per commemorare le vittime del nazismo. Si tratta di piccole targhe in ottone fissate sui famosi sanpietrini romani, che portano il nome, l’anno di nascita, l’anno di deportazione e il destino – se conosciuto – della persona deportata.
La pietra con la targhetta viene incastonata nella pavimentazione davanti all’ultima residenza liberamente scelta della persona deportata (cfr. la pagina web di Demnig: http://www.stolpersteine.com).
Nel quadro del progetto, lanciato dall’artista nel 1993, sono stati installati in circa 700 località circa 32.000 ostacoli. Demnig ha avuto l’idea per il suo progetto quando notò la grande ignoranza riguardo alla persecuzione e alla deportazione di ebrei, rifugiati politici, Sinti e Rom, omosessuali e vittime dell’eutanasia del Nazionalsocialismo.
Con il suo lavoro l’artista vuole lanciare un segnale visibile, che si inserisce anche nella vita quotidiana e nel paesaggio urbano. Per questo motivo, l’artista tedesco ha scelto il formato dei comuni sanpietrini (10 cm x 10 cm), che possono essere facilmente incastonati in qualsiasi pavimentazione. In questo modo il ricordo alla persona deportata non si limita alle giornate commemorative ma diventa parte integrante del presente e del futuro.
I luoghi dove finora sono state collocate pietre d’inciampo a Roma sono disponibili sul sito www.memoriedinciampo.it. La pagina web offre anche film e materiale fotografico, testi di accompagnamento, una biografia dell’artista ed una rassegna stampa.
Sette municipi romani partecipano quest’anno all’iniziativa. Fra questi spicca il Centro Storico, in particolare nel rione Monti. Il progetto Memorie d’inciampo a Roma è sostenuto dall’Associazione Nazionale ex Deportati (ANED), dall’Associazione Nazionale ex Internati (ANEI), dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC), dalla Federazione delle Amicizie Ebraico Cristiane Italiane e dal Museo Storico della Liberazione.
L’iniziativa si svolge sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica d’Italia, dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, della Comunità Ebraica di Roma e dell’Ambasciata della Repubblica Federale di Germania in Italia, ed è realizzato con il sostegno della Comunità Ebraica di Roma e della Comunità di Santa Maria ai Monti.
La commissione scientifica che segue il progetto è presieduta da Adachiara Zevi e composta dagli storici Anna Maria Casavola, Annabella Gioia, Antonio Parisella, Liliana Picciotto, Micaela Procaccia e Michele Sarfatti.
Lo scorso 9 gennaio, durante l’inaugurazione dell’edizione 2012, è stato commemorato don Pietro Pappagallo, che nascose varie persone ricercate dai nazisti e fu tradito da una tedesca. Fu arrestato nel 1944 e condannato a morte. In via Urbana 2 un sanpietrino targato ricorda il sacerdote.
Tutte le pietre d’inciampo sono opere commissionate. In questo caso a commissionare la pietra è stato l’attuale parroco della chiesa di Santa Maria ai Monti, don Francesco Pesce, per celebrare la memoria di don Pappagallo, che nascose soprattutto bambini nella sua chiesa, e delle vittime della furia nazista.
Le stolpersteine invitano a meditare e a riflettere. Confrontarsi con date storiche ed eventi della letteratura è una cosa, scoprire inaspettatamente una pietra d’inciampo e mettersi a di leggere l’iscrizione e vedere la casa dove la persona in questione ha vissuto o lavorato è un’altra. Fa capire di trovarsi davanti al destino umano, di essere umano con un nome, una casa, una famiglia e una storia. Cifre e fatti crudeli ottengono un volto e diventano tangibili. Si scopre che l’orrore non ha risparmiato la nostra città, il nostro quartiere, la nostra strada, ma una triste realtà, ma che, allo stesso tempo, c’è stata anche gente che ha avuto il coraggio di rischiare la propria vita per opporsi all’orrore.
Le stolpersteine sono monumenti che, non solo collegano il passato al presente, ma ci fanno anche riflettere sul nostro presente e sul nostro futuro e ci richiamano alla mente che, essendo creato ad immagine e somiglianza di Dio, l’uomo possiede dei diritti inalienabili, conferitigli dal Creatore. Cioè che la dignità umana è inviolabile.
Nei giorni scorsi, in via Santa Maria in Monticello, alcuni sconosciuti hanno rimosso e sostituito con normalissimi sanpietrini tre pietre d’inciampo dedicate alla memoria delle tre sorelle Spizzichino – Graziella, Letizia ed Elvira – vittime della Shoah.
Se gli autori dell’atto – condannato come “oltraggioso” e “vergognoso” – pensano di poter cancellare in questo modo la memoria di tre persone, tre destini, tre crimini, si sbagliano. La memoria di un essere umano non è legata alla loro visibile materialità, ma vive per sempre nella nostra mente e nei nostri cuori.
[Traduzione dal tedesco a cura di Paul De Maeyer]

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO: SHOAH |on 17 janvier, 2012 |Pas de commentaires »

Gli eroi sconosciuti che salvarono i perseguitati

dal sito:

http://www.zenit.org/article-28345?l=italian

NASCOSTI IN CONVENTO

Gli eroi sconosciuti che salvarono i perseguitati

di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 17 ottobre 2011 (ZENIT.org) – Ieri 16 ottobre a Roma è stata ricordata la razzia che i nazisti fecero nel ghetto ebraico.
Un’azione barbara e disumana. Erano le cinque e mezza di una mattina piovosa del 16 ottobre 1943, quando i nazisti entrarono con forza nelle abitazioni per deportare uomini, bambini, donne e anziani.
Più di mille ebrei vennero presi, destinati insieme a tanti altri in Europa ad essere eliminati.
Ma proprio quando i nazisti accecati dall’odio razziale stavano per mettere in pratica la “soluzione finale”. Quando sembrava che per gli ebrei sembrava che il destino fosse inevitabilmente segnato, migliaia di eroi sconosciuti misero a repentaglio la loro vita, quella dei congiunti, dei confratelli e delle consorelle per salvare i perseguitati.
Nonostante le divisioni segnate dalle leggi razziali ed il rischio di perdere la vita, le porte di chiese e conventi, collegi e università pontificie, si aprirono agli ebrei per accoglierli e proteggerli come fratelli. Storie commoventi e struggenti, molte delle quali non compaiono ancora sulle pagine dei libri di storia.
L’albero della vita così duramente colpito dalle offese della guerra, dalla divisione politica e dall’intolleranza razziale, continuò ad essere alimentato dal coraggio e dalla carità di migliaia di persone. Grazie alle indicazioni precise impartite dal Pontefice Pio XII, l’opera di assistenza delle istituzioni ecclesiastiche fu immensa.
Secondo lo storico Emilio Pinchas Lapide, già console generale di Israele a Milano “La Santa Sede, i nunzi e la Chiesa cattolica hanno salvato da morte certa tra i 700.000 e gli 850.000 Ebrei”.
E Luciano Tas autorevole rappresentante della comunità ebraica romana ha scritto nella ‘Storia degli ebrei italiani’ che “centinaia di conventi, dopo l’ordine in tal senso impartito dal Vaticano, accolsero gli ebrei, migliaia di preti li aiutarono, alti prelati organizzarono una rete clandestina per la distribuzione di documenti falsi…”.
L’opera di protezione della Chiesa è ampiamente testimoniata anche dalla percentuale di cattolici che ha ricevuto la medaglia di giusti tra le nazioni.
Lo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah, istituito nel 1953 con il compito di ricordare i Giusti fra le Nazioni, che rischiarono le loro vite per aiutare gli ebrei durante la Shoah, annoverava alla fine del 2010 circa 23,788 Giusti tra le Nazioni.La stragrande maggioranza di questi Giusti è cattolica, e notevole è la percentuale anche di membri del clero, tra cui cardinali, Vescovi, sacerdoti, suore e religiosi, molti dei quali persero la vita per salvare gli ebrei.
Liana Millu, sopravvissuta al lager di Auschwitz ha ricordato che in quegli anni di guerra “uomini e donne hanno potuto mostrare il meglio o il peggio di sé”.
Il male perpetrato è stato così grande che molti hanno dubitato della presenza di Dio.
Ma come ha spiegato San Paolo “Dio non è mai stato assente, anche quando la gente ha adorato gli idoli” Sappiamo infatti che a fronte di tanto male ci fu tanto bene. Il sangue e le sofferenze di ognuno di quegli eroi sconosciuti ha salvato l’umanità.
Si scopre così che il sentimento di carità, l’amore per gli altri, soprattutto verso coloro che erano più deboli e perseguitati è un atto che riesce a sconfiggere anche la morte.
Questo è il motivo per cui anche la sofferenza può essere piena di significato.
A questo proposito indicative le storie di Odoardo Focherini e Mafalda Pavia.
Odoardo Focherini morto a 37 anni, non era un supereroe. Padre di sette figli, direttore dell’Azione cattolica ed amministratore de l’Avvenire d’Italia, salvò 105 ebrei dalla deportazione, ma venne catturato dai tedeschi e portato nei lager di Hersbruck dove morì il 27 dicembre del 1944.
Nella sua ultima lettera ha scrito: “I miei sette figli … vorrei rivederli prima di morire. Tuttavia accetta o Signore anche questo sacrificio e custodiscili tu, insieme a mia moglie, ai miei genitori, a tutti i miei cari. Dichiaro di morire nella più pura fede cattolica apostolica romana e nella piena sottomissione alla volontà di Dio, offrendo la mia vita in olocausto per la mia diocesi, per l’Azione Cattolica, per il Papa e per il ritorno della pace nel mondo. Vi prego di riferire a mia moglie che le sono sempre fedele, l’ho sempre pensata e sempre intensamente amata”.
Mafalda Pavia, una dottoressa di fede ebraica, libera docente universitaria in Clinica Pediatrica, fu salvata da San Giovanni Calabria, che la nascose nel noviziato delle ‘Povere Serve della Divina Provvidenza’ di Roncà in provincia di Verona.
Il un libro di lettere inviate a San Giovanni Calabria la dottoressa Pavia ha scritto: “Gesù questo fratello sublime si è offerto al nostro popolo”.
“Sublime quest’Ebreo che si è offerto in olocausto per tutti i peccati degli uomini… quest’Uomo che par morire ogni anno, ogni giorno, ogni minuto per la cattiveria di tutti, di ieri, di oggi, di domani … quest’Uomo che par risuscitare ad ogni istante quasi per darci la dolcissima speranza del perdono divino”.
La vicenda di Odoardo Focherini e di Mafalda Pavia sono esempi di come seppure in una lotta impari, il bene possa vincere sul male, e come dove abbonda il peccato sovrabbonderà la grazia.

Publié dans:EBRAISMO: SHOAH |on 18 octobre, 2011 |Pas de commentaires »
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