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INTERVENTO DEL RABBINO CAPO DI ROMA, RAV RICCARDO DI SEGNI, NELL’UDIENZA IN VATICANO

http://www.zenit.org/it/articles/ebrei-e-cattolici-per-riparare-e-costruire-un-mondo-migliore

EBREI E CATTOLICI PER RIPARARE E COSTRUIRE UN MONDO MIGLIORE

INTERVENTO DEL RABBINO CAPO DI ROMA, RAV RICCARDO DI SEGNI, NELL’UDIENZA IN VATICANO

ROMA, 12 OTTOBRE 2013 (ZENIT.ORG)

Ieri mattina la Comunità Ebraica di Roma ha incontrato Papa Francesco in Vaticano. Riportiamo di seguito l’intervento del Rabbino Capo di Roma, Rav Riccardo Di Segni.

***
La Comunità Ebraica di Roma è qui presente con una delegazione di rabbini e di dirigenti delle sue istituzioni. La ringraziamo per aver accolto la nostra richiesta di incontro, a pochi mesi dalla Sua elezione; un incontro che abbiamo desiderato come segno di continuità e di novità.
Continuità perché esiste in questa città un rapporto tra le nostre due comunità di fede che è eccezionale per la sua antichità -quasi due millenni-, la sua drammaticità in molti periodi della storia, la sua valenza simbolica come emblema del difficile rapporto ebraico cristiano e come laboratorio di confronto. Non possiamo entrambi ignorare questa lunga storia locale ma di significato universale, riflettere sui suoi insegnamenti, correggere gli errori, lenire le ferite, costruire.
Novità perché quello che è successo al popolo ebraico nello scorso secolo –Shoà e fondazione dello Stato d’Israele- ha segnato profondamente non solo l’ebraismo ma il mondo intero e la Chiesa stessa, indirizzandola verso un nuovo percorso.
Ognuno dei Papi che si sono succeduti in questi ultimi tempi ha dato il suo contributo notevole a questo percorso. Mi trovo qui a distanza di dieci anni a parlare per la terza volta ad un Pontefice diverso; con i Suoi due ultimi predecessori, ciascuno con la sua individuale personalità, dottrina e stile, abbiamo avuto un rapporto speciale; e ora sentiamo, come tutti sentono, che la parola novità qui è di casa.
Un nuovo che è antico al tempo stesso, e non potrebbe essere altrimenti per la Cattedra da cui parte, un nuovo che è riscoperta delle forze creatrici di cui ogni religione è portatrice anche se rischia di sopirle nel tempo.
Riferendomi alla novità e ai Suoi forti messaggi di questi mesi traccerei due linee. La prima riguarda il nostro confronto, i problemi di relazione tra di noi. Guardandoci dietro è evidente cosa è stato fatto di buono. Ma spesso la soluzione di un problema ne apre molti altri e non dobbiamo illuderci di aver risolto tutto o quasi tutto. Bisogna lavorare per chiarire ancora, per comprendere le sensibilità e i punti critici, perché i messaggi positivi si diffondano, l’amicizia e la fiducia crescano e il rispetto reciproco sia reale.
La seconda e forse più importante linea riguarda la responsabilità pubblica che deriva dalla nostra vicinanza. Vorrei fare un esempio. Secondo il nostro calendario liturgico abbiamo letto lo scorso Sabato la storia di Noè e del diluvio universale. C’è qualcosa che ci tormenta oggi in quel racconto, in cui, di tutta l’umanità, sopravvive solo una famiglia chiusa dentro una barca, mentre il resto è distrutto dal diluvio.
In questi giorni assistiamo paradossalmente al contrario: a chi muore dentro a una barca mentre intorno sopravvive un’umanità impotente e in parte indifferente. La nostra storia e la nostra fede si ribellano a tutto questo; e Lei ha dimostrato con la forza della Sua presenza che condivide questa ribellione e che abbiamo valori comuni da trasmettere all’umanità. I nostri Maestri Farisei, approfondendo il senso di quel racconto biblico e del suo seguito con la storia di Abramo, ci hanno insegnato che Abramo si è distinto da Noè che, seppure giusto, non fece qualcosa in difesa della sua generazione prima del diluvio, mentre Abramo pregò con insistenza per impedire la distruzione di Sodoma e Gomorra.
Salvare dalla distruzione, riparare e costruire un mondo migliore in cui ognuno abbia il suo posto: un dovere che rimane nel tempo. La costruzione è basata anche su gesti di amicizia. Durante il Suo Pontificato, che Le auguriamo lungo e sereno, viaggerà nel mondo, incontrando molte comunità ebraiche, visiterà Israele. Ma non potrà mancare una nuova e significativa visita alla nostra Comunità romana, che attende di accoglierLa come ha accolto i Suoi predecessori.

ALLA VIGILIA DEL KIPPÙR – IL GIORNO DELL’ESPIAZIONE (14 SETTEMBRE, QUEST’ANNO) – DI RICCARDO DI SEGNI

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2008/235q01b1.html

ALLA VIGILIA DEL KIPPÙR – IL GIORNO DELL’ESPIAZIONE

(quest’anno era il 14 di settembre)

DI RICCARDO DI SEGNI

RABBINO CAPO DI ROMA

Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell’Espiazione – Kippùr o Yom Kippùr o Yom haKippurìm – è il più importante dell’anno; in aramaico è yomà, « il giorno » per eccellenza che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole. « Il giorno » cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale, quest’anno corrispondente alla sera dell’8 e al giorno del 9 ottobre 2008.
Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico. Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l’altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto. Di qui l’espressione e il concetto di « capro espiatorio ». Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d’obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché « in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore » (versetto 30).
Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell’anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno. La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità. La forza espiatrice del Kippùr si misura con l’obbligo principale dell’uomo nei giorni che lo precedono:  la tesciuvà; letteralmente è il « ritorno » ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via. Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l’intenzione di non commettere nuovamente l’errore, la confessione pubblica e collettiva. Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato. In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell’uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini. Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.
Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne. Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi. Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un’esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l’intera collettività raccolta nel Tempio. Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.
La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell’impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d’inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle. Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina. La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.
Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore – dal quale sono esenti i malati – insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali). Poi c’è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.
Malgrado l’austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.
A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate, può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano. Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati:  il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste. In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell’osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo l’1 gennaio quella della Circoncisione). Ma l’intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi. I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall’unità originaria. Semplificando le posizioni contrapposte:  un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.

Osservatore Romano 8 ottobre 2008

ALLA VIGILIA DEL KIPPÙR – DI RICCARDO DI SEGNI

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/commenti/2008/235q01b1.html

ALLA VIGILIA DEL KIPPÙR

(per il 2013 era il 13 e 14 settembre, si sono sovrapposte alla Festa della Santa Croce, il 14 ed alla domenica, quindi metto qualcosa oggi, articolo del 2008)

IL GIORNO DELL’ESPIAZIONE

DI RICCARDO DI SEGNI – RABBINO CAPO DI ROMA 

Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell’Espiazione – Kippùr o Yom Kippùr o Yom haKippurìm – è il più importante dell’anno; in aramaico è yomà, « il giorno » per eccellenza che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole. « Il giorno » cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale, quest’anno corrispondente alla sera dell’8 e al giorno del 9 ottobre 2008.
Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico. Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l’altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto. Di qui l’espressione e il concetto di « capro espiatorio ». Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d’obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché « in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore » (versetto 30).
Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell’anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno. La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità. La forza espiatrice del Kippùr si misura con l’obbligo principale dell’uomo nei giorni che lo precedono:  la tesciuvà; letteralmente è il « ritorno » ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via. Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l’intenzione di non commettere nuovamente l’errore, la confessione pubblica e collettiva. Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato. In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell’uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini. Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.
Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne. Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi. Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un’esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l’intera collettività raccolta nel Tempio. Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.
La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell’impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d’inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle. Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina. La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.
Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore – dal quale sono esenti i malati – insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali). Poi c’è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.
Malgrado l’austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.
A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate, può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano. Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati:  il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste. In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell’osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo l’1 gennaio quella della Circoncisione). Ma l’intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi. I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall’unità originaria. Semplificando le posizioni contrapposte:  un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.

(L’Osservatore Romano 8 ottobre 2008)

IL SILENZIO DI DIO – RAV RICCARDO DI SEGNI, RABBINO CAPO DI ROMA

http://www.nostreradici.it/silenzio_di_Dio.htm

IL SILENZIO DI DIO

RICCARDO DI SEGNI, RABBINO CAPO DI ROMA, DIRETTORE DEL COLLEGIO RABBINICO ITALIANO

Il tema del silenzio e dell’assenza di Dio davanti alle sofferenze dell’umanità è salito improvvisamente alla ribalta per un motivo quasi casuale, un recente intervento del Papa che lo ha affrontato nel corso di un’omelia.
Parlare di quest’argomento ha sorpreso un po’ tutti, sia per la natura del tema, così difficile e speciale, che per la forza con cui è stato trattato. Ma per la sensibilità ebraica non si è trattato di una novità né di una sorpresa.

Oltre le tenebre, la luce
È un tema importante della teologia biblica che viene costantemente ripreso ed elaborato nel corso della storia e che davanti a fenomeni di particolare gravità, come la Shoà, esplode travolgendo le coscienze. Esaminando le pagine bibliche si può vedere come l’interrogativo sulla presenza divina accompagni la storia ebraica dal momento stesso in cui nasce come popolo. 
La Bibbia cerca di dare qualche risposta, anche molto precisa a questa domanda terribile, ma la questione evidentemente non è semplice da risolvere per le coscienze turbate. Il tema trova espressione in una grande metafora antropomorfica, quella del panim, del volto divino.
Nel rapporto tra esseri umani guardarsi in faccia è un modo di comunicare, anche se non necessariamente benevolo, mentre volgersi la faccia, rivoltarsi, è segno di chiusura, di interruzione, di comunicazione, di rifiuto.
Sono pertanto sinonimo di speciale benedizione, simpatia, protezione, benevolenza le espressioni iaer haShem panaw elekha e issà haShem panaw elekha, « che il Signore illumini e volga te il suo volto », che compaiono nella benedizione sacerdotale di Numeri 6:25-26, che quotidianamente ripetiamo nella nostra liturgia.
Al contrario è il celarsi, il nascondersi del volto divino il segno di allontanamento. Leggiamo in proposito un brano fondamentale:
 » La mia ira divamperà contro di lui in quel giorno e li abbandonerò e nasconderò loro il mio volto (letteralmente: mi nasconderò il volto da loro) e diventerà preda di chi vuole divorarlo e lo incontreranno numerose disgrazie e cose cattive e in quel giorno dirà ‘è perché il mio Dio non è in mezzo a me che mi sono capitate queste brutte cose’. Ma Io avrò nascosto il mio volto in quel giorno per tutto il male che aveva fatto, perché si era rivolto ad altri dei ». (Deuteronomio 31:17-18).
In questo brano c’è la prefigurazione dell’evento (l’abbattersi delle sciagure nazionali, il diventare preda dei nemici), la sua rappresentazione teologica (Dio che si nasconde all’uomo), la constatazione umana dell’abbandono (Dio non è in mezzo a me) e l’interpretazione teologica (il volto si nasconde perché l’uomo si è ri-volto altrove).
Che non si vadano a cercare responsabilità divine primarie nel male; questo dipende in primo luogo dall’uomo e dal dono che gli è stato fatto di poter scegliere tra bene e male, tra premio e punizione. E all’uomo viene quindi chiesto di fidarsi e scommettere.
Non a caso, in un brano che per molti versi è l’anticipazione di quest’interpretazione del Deuteronomio, la domanda su dove è Dio nasce in un contesto storico preciso: usciti dall’Egitto, dopo tutti i miracoli cui hanno assistito, gli ebrei si trovano nel deserto senza acqua; e allora, immemori e ingrati dei beni precedenti, protestano, fino a minacciare Mosè di lapidazione.

Racconta la Bibbia:
« (Mosè) chiamò quel luogo Massà e Merivà (contesa e lite) per la lite dei figli d’Israele e per aver loro messo alla prova il Signore dicendo: ‘se Dio è in mezzo a noi o no’  » (Esodo 17:7).
E subito dopo ecco quello che succede:
« Arrivò Amaleq e combattè con Israele a Refidim » (ibid, v. 18).
Amaleq è il nemico mortale perenne d’Israele, senza pietà per i più deboli. Amaleq arriva e colpisce non in un momento qualsiasi, ma quando Israele non è più capace di avvertire la presenza divina dentro di sé. Dio fugge e si nasconde secondo il Deuteronomio dopo che gli ebrei gli si rivoltano contro; ma la prima fuga – quella che apre il varco al nemico divoratore – avviene nella coscienza degli uomini che diventano sordi e incapaci di avvertire la presenza divina.
Prima ancora di un volto che si nasconde c’è l’incapacità umana di vederlo quando c’è. L’importanza di questa storia supera il caso isolato, diventa emblematica. Non a caso nella Torà uno dei comandi più importanti che si riferiscono all’uso della memoria, riguarda proprio la storia di Amaleq: « ricorda cosa ti ha fatto Amaleq » (Deuteronomio 25:17). Ricorda cosa ti ha fatto, ma anche che cosa può averlo provocato.
Il celarsi del Deuteronomio non è isolato, ma lo ritroviamo in tanti altri brani biblici,da Isaia (8:17, 54:8), Ezechiele 39 (23,24,29), ai Salmi (« non nascondermi il tuo volto »: 27:9, 102:3, 143:7; e ancora 13:2, 30:8, 44:25 ecc), espressioni di una angoscia e di una ricerca costante. Di fatto il tema del Dio che si nasconde diventa la costante dell’esperienza successiva, specialmente diasporica.
Giocando sulla lingua, la radice satar che indica il celarsi (da cui forse anche il mistero) viene riscontrata dai Maestri nel nome dell’eroina biblica Ester: un nome che in realtà dovrebbe essere collegato a Astarte e Aster-Astro, ma che per i Maestri non indica il fulgore ma il buio. Con una consolazione: perché la regina Ester opera in un periodo storico in cui il Volto non è più visibile e accessibile, e per questo può sempre sorgere qualcuno che decide di distruggere l’intero popolo ebraico; ma anche se la presenza diretta, la visione luminosa del volto non c’è più, la presenza divina, la sua provvidenza, la sua assistenza non mancano mai e al momento giusto intervengono nella storia e liberano.
Per questo motivo consolatorio e di speranza gli ebrei celebrano ancora oggi (e continueranno a farlo anche quando tutte le altre feste saranno abolite), per una volta all’anno, con gioia fisica quasi sfrenata, la festa del Purim, per segnalare che anche in un regime di volto nascosto la protezione non viene mai meno. È sul filo di questa speranza che si gioca un’esperienza drammatica, una domanda con tante risposte sempre insufficienti, una provocazione alla fede che coinvolge quasi quotidianamente la vita di ogni ebreo, che sia religioso o no.
Nel momento in cui lo Stato si accinge a celebrare il Giorno della Memoria, con importanti intenti memoriale ed educativi, lo spirito ebraico partecipa con un ricordo sconsolato e con il peso di una domanda e di una ricerca che ha più di 32 secoli di storia.

[Fonte: ucei.it/giornodellamemoria]

Rav Riccardo Di Segni: La rottura del bicchiere

http://www.morasha.it/zehut/rds20_rottura_bicchiere.html

Riccardo Di Segni

(Rabbino capo di Roma)

La rottura del bicchiere

Il Salmo 127 esprime lo stato d’animo degli esuli ebrei in Babilonia, dopo la distruzione del primo Tempio, che rifiutavano l’invito dei loro persecutori a cantare in terra straniera i canti di Sion. La stessa situazione si ripeté secoli dopo, in termini molto più tragici, con il secondo esilio, e le parole del Salmo (im eshkachekh Yerushalaim.., se ti dimenticherò Gerusalemme) furono un riferimento per i Maestri che imposero alla comunità d’Israele l’obbligo della conservazione della memoria storica. Secondo quanto riferisce il Talmùd (bab. Baba Bathra 6B), dopo la distruzione del Tempio vi furono dei gruppi che cercarono di imporsi, come segno di lutto, l’astensione dal consumo della carne e del vino; ma i Maestri, pur avvertendo la necessità di dare delle norme per mantenere il ricordo, si opposero a forme di lutto così radicali e prolungate nel tempo, e trovarono un compromesso stabilendo delle regole più limitate: lasciare un piccolo spazio non intonacato in ogni nuova costruzione, limitare l’uso di ornamenti femminili e l’eleganza delle tavole apparecchiate; e in particolare agli sposi furono imposte, con ripetute disposizioni, delle limitazioni nell’uso di ornamenti speciali allora in voga, e allo sposo fu richiesto di porsi della cenere nel posto dove si mette la tefillà del capo (per la codificazione di queste norme v. Shulchan Arukh, Orah Chayym 560).
Chi assiste oggi a una cerimonia nuziale ebraica difficilmente potrà trovare un segno evidente dell’applicazione di queste norme, ma certamente non mancherà di notare un altro uso, che, almeno in apparenza, sembra avere le stesse motivazioni: la « rottura del bicchiere », che avviene alla fine della cerimonia. E’ il bicchiere di vetro, che poco prima, pieno di vino, il rabbino celebrante tiene in mano durante la recitazione della prima serie di benedizioni, quelle dei qiddushìn, e che poi porge allo sposo e alla sposa perché ne bevano insieme per la prima volta. Generalmente è lo sposo stesso, alla fine della cerimonia nuziale, che rompe di persona il bicchiere, mentre è avvolto in un panno o un tovagliolo, calpestandolo con il piede. In alcuni luoghi, come nella Sinagoga principale di Roma, è lo shammash che viene incaricato di rompere il bicchiere, alla fine della benedizione che gli sposi ricevono dal rabbino, insieme alla famiglia, davanti all’aròn aperto. Abitualmente la rottura del bicchiere è accompagnata dalla recitazione della frase del Salmo 127: im eshkachekh Yerushalaim.., se ti dimenticherò Gerusalemme… e l’uso sembra trovare la sua spiegazione proprio nell’idea espressa nella frase del Salmo. Questa frase sintetizza l’impegno per ogni ebreo di non dimenticare mai la perdita di Gerusalemme, soprattutto nei momenti più importanti della propria esistenza. Le nozze sono uno di questi momenti, anche perché sono il segno della continuità biologica; ma la continuità biologica si deve arricchire di significati culturali, deve avere la funzione di trasmettere la memoria e l’identità. Dunque nel grande momento della gioia e della commozione personale e familiare, non bisogna dimenticare la propria identità di popolo e ciò che manca collettivamente alla comunità, perché la gioia di tutti sia completa. Il bicchiere rotto viene così a ricordare simbolicamente che il popolo ebraico non può essere completamente in gioia, perché un’antica frattura storica, che ne ha segnato il destino per tanti secoli, non si è ancora sanata.
La spiegazione sembra perfetta, così come l’uso appare perfettamente funzionale all’idea che vuole esprimere; ma se si indaga sulla sua origine si può scoprire che le cose non sono affatto così chiare. Infatti le fonti talmudiche sopra citate, che impongono varie forme di ricordo della perdita di Gerusalemme, non fanno menzione dell’uso di rompere il bicchiere; mentre qualche cosa che sembra analoga alla rottura del bicchiere in occasione delle nozze è menzionata nel Talmùd, ma in un contesto e con significati differenti: è un brano (b. Berakhot 30b-31a) nel quale si raccontano, con piccole varianti, due episodi simili nei quali, in Babilonia, nel quinto secolo, durante un matrimonio l’allegria dei convitati era salita a un tale livello che un rabbino presente la considerò disdicevole, e per imporre un improvviso cambio d’umore ruppe un preziosissimo calice di vetro. Questa testimonianza, rispetto al nostro uso, si distingue per alcuni elementi importanti:
1. il comportamento dei rabbini che rompono il bicchiere appare sporadico e non abituale;
2. il motivo che provoca la rottura del calice è un’allegria considerata eccessiva;
3. viene distrutto non un bicchiere qualsiasi, ma un oggetto prezioso.
Per trovare dei riferimenti espliciti al nostro uso bisogna attendere molti secoli; nel medioevo diverse fonti cominciano a parlarne, ma con diverse varianti. Nella prima metà del 120 secolo R. Eliezer b. Nathan di Magonza ne parla come un uso comune, ed esprime dei dubbi sul fatto che alla sua origine siano i due episodi del Talmùd di Berakhot. Un’altra fonte, il Machazor Vitry (p. 589 e 593), riferisce l’uso senza spiegazioni, e lo descrive in questo modo: il bicchiere delle sette benedizioni (quindi non quello delle prime due benedizioni, che noi oggi usiamo), dopo essere stato usato, viene svuotato e quindi lanciato verso il muro. Nella descrizione più dettagliata di Jacob Moellin (morto nel 1427) nel Sefer Maharail p.64b-65a, lo sposo, dopo aver bevuto insieme alla sposa, si gira con la faccia verso il Nord e lancia il bicchiere contro il muro.
La prima fonte che spiega l’uso come una forma di ricordo della distruzione di Gerusalemme è il Kolbo (Regole per il 9 di Av, p. 67), del 14° secolo. In questa stessa chiave interpretativa l’uso viene finalmente citato nelle aggiunte allo Shulkhan Arukh di R. Moshe Isserles (Orah Chayym 560 e Even haEzer 65). Non mancano tuttavia spiegazioni differenti, come quella proposta dal cabalista italiano Menachem Recanati, e ripresa da Isaia Horowitz in Shne Luchot haBerit (p.378a), secondo la quale l’uso ha lo scopo di dare la sua parte all’attributo della giustizia e grazie a questo ‘l’iniquità chiuderà la bocca’. Nella letteratura ritualistica degli ultimi secoli le modalità dell’uso vengono progressivamente definite e giustificate, fino ad arrivare alle forme con le quali oggi viene universalmente praticato.
Come è possibile sbrogliare l’intreccio di queste notizie così contraddittorie? Per rispondere a questa domanda bisogna tener presente che su un momento così importante come quello del matrimonio convergono diversi temi, esigenze, preoccupazioni. Tra quelli che sono documentati più o meno apertamente nelle fonti tradizionali ebraiche emergono in particolare:
1. la preoccupazione per l’invidia e il malocchio, e più in generale per lo scatenamento di forze negative e sinistre in un momento di gioia intensa;
2. la critica delle manifestazioni di eccessiva allegria e spensieratezza, che male si adattano ad una concezione ideale di austerità e di autocontrollo;
3. il rischio di perdita dell’identità della comunità ebraica, che non dovrebbe dimenticare, proprio nei momenti familiari più importanti, la sua storia comune e la scala di valori ideali con cui misurarsi.
Ognuna di queste motivazioni ha una sua giustificazione legittima, anche se con un « peso » e un’importanza variabile secondo i punti di vista. Alla luce di questo può essere difficile distinguere in un singolo uso e comportamento una motivazione isolata e valida per sempre, anche perché la sensibilità umana e la cultura evolvono in continuazione, e i comportamenti che ne sono l’espressione spesso sopravvivono alle motivazioni iniziali, e si mantengono nel tempo con altre motivazioni, più vicine all’evoluzione delle sensibilità.
Per questi motivi, ad esempio, il comportamento dei rabbini del Talmùd che rompono un prezioso calice per frenare un’eccessiva allegria, può avere cause contingenti, ma rispecchia esigenze più vaste, che pescano da un lato nelle preoccupazioni primordiali per il malocchio, dall’altro nelle considerazioni filosofiche sull’ideale sobrietà dell’uomo, e infine può perfettamente adattarsi alla cornice, stabilita in altri usi codificati, che impone forme di ricordo storico per la Gerusalemme perduta.
Nell’interpretazione dell’uso della rottura del bicchiere non bisognerà quindi esagerare le sue presunte origini come rito di protezione antidemoniaca (come ha fatto J. Z. Lauterbach, in HUCA II, pp. 351-380, in un saggio per altro apprezzabile per l’accuratezza della ricerca e dell’analisi). Bisognerà piuttosto metterne in evidenza la pluralità e la coesistenza di diversi possibili significati, e soprattutto la prepotente insistenza con cui la tradizione rabbinica ha voluto e ha saputo, con successo, imporre la « sua » spiegazione, di conservazione di memoria e di identità storica. E tutto questo con scopi educativi, costruttivi e consolatori: « chi fa lutto per Gerusalemme avrà il merito di vederne la gioia, come è detto: ‘Gioite per Gerusalemme e rallegratevi per lei, tutti coloro che l’amano.’ »
ebraica..

Rav Riccardo Di Segni…sulla benedizione “che non mi hai fatto donna”

http://moked.it/rabbanutroma/files/2009/06/benedizione-sul-non-essere-donna.pdf

Rav Riccardo Di Segni…sulla benedizione “che non mi hai fatto donna”

Una lettrice si era rivolta a Shalom chiedendo spiegazioni sulla benedizione “che non mi hai fatto donna”,  protestando per il fatto che viene citata come esempio di una condizione tradizionale femminile infelice. Questa la risposta (aggiornata al 1.6.03, con qualche altro dato): La lettrice si è giustamente irritata per un atto disinvolto di disinformazione. L’occasione è utile per dare qualche spiegazione in più su una questione che è di grande attualità ed importanza e richiede un’esposizione più allargata, per quanto possibile in questa sede. Bisogna prima di tutto tener presente il contesto in cui è inserita la frase “incriminata”: le benedizioni del mattino, che si recitano al risveglio (da molti secoli all’inizio della tefillà) e che in particolare comprendono una serie di tre espressioni:
1. Benedetto tu o Signore Nostro D. Re del mondo che non mi hai fatto non ebreo.
2. Benedetto tu o Signore Nostro D. Re del mondo che non mi hai fatto schiavo.
3. Benedetto tu o Signore Nostro D. Re del mondo che non mi hai fatto donna.
Al posto della terza espressione, che solo gli uomini recitano, le donne ne recitano un’altra che dice: “Benedetto tu (o Signore Nostro D. Re del mondo) che mi ha fatto secondo la sua volontà”. Un segmento di questa formula è tra parentesi perché secondo alcuni decisori questa benedizione non fa parte del canone più antico e quindi non autorizza la menzione del nome divino.  Questa è la formula del rito sefardita e ashkenazita. Nel rito italiano ci sono due differenze significative. La prima è che invece di usare una formula al negativo per la condizione di ebreo/non ebreo si dice: “Benedetto tu o Signore Nostro D. Re del mondo che mi ha(i) fatto Israel”. La seconda è che l’ordine delle benedizioni è diverso, e la benedizione che riguarda l’identità ebraica precede quella sullo schiavo. Queste differenze, come vedremo più avanti, hanno la loro importanza. Con lo scoppio della rivoluzione femminista anche l’ebraismo, in tutte le sue istituzioni, è stato sottoposto a una critica molto forte. La prima critica è stata fatta alla benedizione del mattino, nota a tutti in quanto ben visibile nelle prime pagine dei libri di preghiera, e che potrebbe dimostrare come nell’ebraismo tradizionale la posizione della donna sia considerata inferiore e infelice. La critica a questa benedizione è così diventata una sorta di riferimento costante, una bandiera, un simbolo della protesta femminista contro la tradizione (o alcuni suoi aspetti). All’esterno dell’ebraismo poi c’è voluto ben poco per usarla con grande semplicismo come dimostrazione eclatante dell’antifemminismo ebraico. Il caso denunciato dalla nostra lettrice è un esempio di quest’uso. A parte l’uso diffamatorio esterno e anche interno all’ebraismo, qualche ebreo(a) ha sfruttato questa storia come comoda scusa per liberarsi della tradizione ebraica; molti altri hanno reagito in diverso modo chiedendo come è giusto spiegazioni, e se possibile, abolizioni o variazioni. Nell’ambito dell’ebraismo ortodosso, dove la fedeltà alla tradizione è massima ed è difficile modificare cose consolidate da secoli, la riflessione su questo tema comincia ad essere vivace; le risposte sono state varie e possiamo così schematizzarle:
1. La risposta “conservatrice”: Il motivo della benedizione è di ringraziamento per una condizione migliore, in quanto si ritiene che essere ebrei, maschi e liberi sia meglio dell’essere non ebrei, femmine e schiavi. Pertanto non c’è niente da cambiare. Molti ebrei ortodossi (ma non solo loro, perché l’antifemminismo non è patrimonio esclusivo dell’ortodossia e non tutti gli ortodossi, uomini e donne, sono “antifemministi”) resistono con diffidenza alle pressioni dovute al cambio di mentalità, che in questo caso è stato veloce e travolgente. Fino a 50 anni fa e anche meno nessuno si scandalizzava in tutta la società (ebraica e non) quando qualcuno diceva “auguri e figli maschi”. Prima di cambiare, si sostiene, ci vuole un pò di cautela.
2. La risposta esplicativa (o “apologetica”): il senso dell’espressione non è necessariamente antifemminista. Non si tratta di una valutazione globale del ruolo uomo/donna, per cui uno è migliore dell’altro(a) ma di una riflessione specifica sui doveri legati alle differenti posizioni: inquanto liberi, ebrei e maschi si hanno rispetto agli altri, progressivamente, molti più obblighi (mitzwoth), e diverse responsabilità familiari, per cui il senso delle tre benedizioni è quello del ringraziamento per aver ricevuto un carico di mitzwoth superiore. E’ il carico che è superiore, non l’essere maschio. Sono molte le donne ebree che anche in epoca femminista non contestano questa divisione. E’ anche quanto sostiene la nostra lettrice nella sua lettera, in cui difende uno schema nel quale la divisione di ruoli non intende la superiorità ma solo la diversità e il carico di lavoro. Chequesto sia il senso della benedizione lo dimostra anche- per molti interpreti- l’ordine logico delle tre benedizioni (nei riti sefardita e ashkenazita) che sottolinea la progressiva sottomissione al giogo delle mitzwoth. Sempre in questa chiave di lettura è stata proposta una spiegazione diversa della frase che le donne recitano (“che mi ha fatto secondo la sua volontà”), di solito intesa come l’accettazione di un decreto poco favorevole: quando venne creato l’uomo, racconta il Bereshit (1:26), D. disse “facciamo l’uomo” (na’asè adam), al plurale, e il midrash spiega che prima di creare l’uomo D. si consultò con gli angeli. Quando invece si racconta  la creazione della donna, tutti i verbi sono al singolare (“prese una delle costole ..” ecc. ibid. 2:21). Come a dire che per lacreazione dell’uomo ci fu un concorso di idee e di volontà, mentre per la donna ci fu l’unica volontà divina; è per questo quindi che le donne dicono “che mi ha fatto secondo la sua volontà”.
3. La risposta “innovativa”, nel rispetto della tradizione. Dato che queste spiegazioni non convincono i critici più accesi, si tratta di vedere se si può mantenere qualcosa che irrita e offende una parte del pubblico. A questo punto sono state discusse varie soluzioni:
• l’uso di formule nuove e differenti
• la non recitazione della benedizione.
Tra le nuove formule proposte c’è quella in cui l’uomo e la donna benedicono in positivo “che mi ha fatto maschio (o femmina)”. Il problema “tecnico” è se sia legittimo introdurre formule non contemplate dalla tradizione antica (forse sì), e recitarle con il nome divino (probabilmente no). Nelle varie soluzioni proposte il rito italiano, con le sue varianti, è tornato alla ribalta. Perché, come si è visto prima, nel rito italiano si usa già una formula al positivo, per quanto riguarda l’identità ebraica. Una lunga tradizione discute la legittimità della formula italiana e molti critici sostengono che non sia originale, ma sia stata introdotta per una forma di censura, essendo la formula al negativo potenzialmente offensiva per i non ebrei (come ora si offendono le donne). Che questo sia il  motivo è ancora da dimostrare definitivamente, e gli ebrei italiani da secoli sono rimasti gelosamente fedeli alla loro formula, malgrado le critiche, ma anche con molte approvazioni. Su questi presupposti l’introduzione di una formula al positivo anche sulla differenza uomo/donna non sarebbe fuori dalla tradizione. E ci sarebbero illustri precedenti: Nel XV secolo Avraham Farissol scrisse su commissione a una importante ebrea italiana un testo di preghiere secondo il rito italiano,e con stupore vi troviamo questo testo in ebraico: “benedetto tu o Signore ecc. che mi hai fatto donna e non uomo”.L’altro dato importante è l’osservazione fatta da alcuni critici della formula italiana: se si dichiara subito di essere Israel (che può significare ebreo e maschio), le altre benedizioni diventano inutili; ma allora, ragiona qualcuno oggi, basta appunto dichiarare di essere Israel per non avere la necessità di dire la benedizione sulla donna. Bisogna però vedere se veramente Israel è maschile o non comprenda invece anche la condizione femminile. Interessante, da questo punto di vista, una variante del rito italiano presente nella tefillà di rav Camerini, pubblicata nel 1916, dove l’uomo dice “Israel” e la donna “Isreelit” (al femminile).  Insomma secondo le nuove sensibilità ci sarebbero queste possibilità teoriche, ciascuna con qualche problematicità halakhica: per l’uomo: omettere semplicemente la benedizione relativa alla donna, oppure usare la formula italiana al positivo per Israel e omettere quella relativa alla donna, oppure dire al positivo quella relativa al sesso (“che mi hai fatto uomo”); per la donna: continuare con la formula esistente, dandole un significato positivo, oppure usare una formula al positivo (“che mi hai fatto donna”). Tutte queste informazioni le diamo non come regola pratica da seguire, ma semplicemente per aggiornare i lettori sul dibattito in corso. In particolare, per tutto il terzo punto, bisogna precisare che si tratta di una riflessione che nasce in alcuni ambienti ortodossi americani e israeliani ancora limitati dove il problema si pone e c’è questo tipo di sensibilità. In altre parti del mondo ebraico il problema non si pone o bastano le altre due risposte, o forse viene semplicemente represso. Ogni modifica dovrebbe essere sostenuta con autorità e fondamento halakhico, nonchè condivisa ampiamente e per il momento c’è molta discussione e poco consenso. Comunque da tutto questo, per tornare alla domanda della nostra lettrice, possiamo trarre queste conclusioni: E’ possibile che la benedizione “che non mi ha fatto donna” nasca da valutazioni negative del ruolo della donna, e sicuramente queste valutazioni sono emerse nel corso della storia, ma è anche possibile che le motivazioni siano differenti e sicuramente ci sono state e ci sono interpretazioni non offensive. Anche l’ebraismo ortodosso reagisce e discute costruttivamente intorno a questo tema. Con queste premesse, usare la benedizione come il simbolo di una visione negativa della donna nell’ebraismo è una semplificazione falsa e distorcente.

Il Silenzio di Dio – di Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma – per il giorno della memoria

http://www.nostreradici.it/silenzio_DiSegni.htm

Il Silenzio di Dio

Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma, Direttore del Collegio Rabbinico Italiano

Il tema del silenzio e dell’assenza di Dio davanti alle sofferenze dell’umanità è salito improvvisamente alla ribalta per un motivo quasi casuale, un recente intervento del Papa che lo ha affrontato nel corso di un’omelia. Parlare di quest’argomento ha sorpreso un po’ tutti, sia per la natura del tema, così difficile e speciale, che per la forza con cui è stato trattato. Ma per la sensibilità ebraica non si è trattato di una novità né di una sorpresa.
È un tema importante della teologia biblica che viene costantemente ripreso ed elaborato nel corso della storia e che davanti a fenomeni di particolare gravità, come la Shoà, esplode travolgendo le coscienze. Esaminando le pagine bibliche si può vedere come l’interrogativo sulla presenza divina accompagni la storia ebraica dal momento stesso in cui nasce come popolo. La Bibbia cerca di dare qualche risposta, anche molto precisa a questa domanda terribile, ma la questione evidentemente non è semplice da risolvere per le coscienze turbate.
Il tema trova espressione in una grande metafora antropomorfica, quella del panim, del volto divino. Nel rapporto tra esseri umani guardarsi in faccia è un modo di comunicare, anche se non necessariamente benevolo, mentre volgersi la faccia, rivoltarsi, è segno di chiusura, di interruzione di comunicazione, di rifiuto. Sono pertanto sinonimo di speciale benedizione, simpatia, protezione, benevolenza le espressioni iaer haShem panaw elekha e issà haShem panaw elekha, « che il Signore illumini e volga te il suo volto », che compaiono nella benedizione sacerdotale di Numeri 6:25-26, che quotidianamente ripetiamo nella nostra liturgia.
Al contrario è il celarsi, il nascondersi del volto divino il segno di allontanamento. Leggiamo in proposito un brano fondamentale:
 » La mia ira divamperà contro di lui in quel giorno e li abbandonerò e nasconderò loro il mio volto (letteralmente: mi nasconderò il volto da loro) e diventerà preda di chi vuole divorarlo e lo incontreranno numerose disgrazie e cose cattive e in quel giorno dirà ‘è perché il mio Dio non è in mezzo a me che mi sono capitate queste brutte cose’. Ma Io avrò nascosto il mio volto in quel giorno per tutto il male che aveva fatto, perché si era rivolto ad altri dei ». (Deuteronomio 31:17-18).
In questo brano c’è la prefigurazione dell’evento (l’abbattersi delle sciagure nazionali, il diventare preda dei nemici), la sua rappresentazione teologica (Dio che si nasconde all’uomo), la constatazione umana dell’abbandono (Dio non è in mezzo a me) e l’interpretazione teologica (il volto si nasconde perché l’uomo si è ri-volto altrove).
Che non si vadano a cercare responsabilità divine primarie nel male; questo dipende in primo luogo dall’uomo e dal dono che gli è stato fatto di poter scegliere tra bene e male, tra premio e punizione. E all’uomo viene quindi chiesto di fidarsi e scommettere. Non a caso, in un brano che per molti versi è l’anticipazione di quest’interpretazione del Deuteronomio, la domanda su dove è Dio nasce in un contesto storico preciso: usciti dall’Egitto, dopo tutti i miracoli cui hanno assistito, gli ebrei si trovano nel deserto senza acqua; e allora, immemori e ingrati dei beni precedenti, protestano, fino a minacciare Mosè di lapidazione. Racconta la Bibbia:
« (Mosè) chiamò quel luogo Massà e Merivà (contesa e lite) per la lite dei figli d’Israele e per aver loro messo alla prova il Signore dicendo: ‘se Dio è in mezzo a noi o no’  » (Esodo 17:7).
E subito dopo ecco quello che succede:
« Arrivò Amaleq e combatté con Israele a Refidim » (ibid, v. 18).
Amaleq è il nemico mortale perenne d’Israele, senza pietà per i più deboli. Amaleq arriva e colpisce non in un momento qualsiasi, ma quando Israele non è più capace di avvertire la presenza divina dentro di sé. Dio fugge e si nasconde secondo il Deuteronomio dopo che gli ebrei gli si rivoltano contro; ma la prima fuga -quella che apre il varco al nemico divoratore- avviene nella coscienza degli uomini che diventano sordi e incapaci di avvertire la presenza divina. Prima ancora di un volto che si nasconde c’è l’incapacità umana di vederlo quando c’è. L’importanza di questa storia supera il caso isolato, diventa emblematica. Non a caso nella Torà uno dei comandi più importanti che si riferiscono all’uso della memoria, riguarda proprio la storia di Amaleq: « ricorda cosa ti ha fatto Amaleq » (Deuteronomio 25:17). Ricorda cosa ti ha fatto, ma anche che cosa può averlo provocato.
Il celarsi del Deuteronomio non è isolato, ma lo ritroviamo in tanti altri brani biblici,da Isaia (8:17, 54:8), Ezechiele 39 (23,24,29), ai Salmi (« non nascondermi il tuo volto »: 27:9, 102:3, 143:7; e ancora 13:2, 30:8, 44:25 ecc), espressioni di una angoscia e di una ricerca costante. Di fatto il tema del Dio che si nasconde diventa la costante dell’esperienza successiva, specialmente diasporica. Giocando sulla lingua, la radice satar che indica il celarsi (da cui forse anche il mistero) viene riscontrata dai Maestri nel nome dell’eroina biblica Ester: un nome che in realtà dovrebbe essere collegato a Astarte e Aster-Astro, ma che per i Maestri non indica il fulgore ma il buio. Con una consolazione: perché la regina Ester opera in un periodo storico in cui il Volto non è più visibile e accessibile, e per questo può sempre sorgere qualcuno che decide di distruggere l’intero popolo ebraico; ma anche se la presenza diretta, la visione luminosa del volto non c’è più, la presenza divina, la sua provvidenza, la sua assistenza non mancano mai e al momento giusto intervengono nella storia e liberano.
Per questo motivo consolatorio e di speranza gli ebrei celebrano ancora oggi (e continueranno a farlo anche quando tutte le altre feste saranno abolite), per una volta all’anno, con gioia fisica quasi sfrenata, la festa del Purim, per segnalare che anche in un regime di volto nascosto la protezione non viene mai meno. È sul filo di questa speranza che si gioca un’esperienza drammatica, una domanda con tante risposte sempre insufficienti, una provocazione alla fede che coinvolge quasi quotidianamente la vita di ogni ebreo, che sia religioso o no.
Nel momento in cui lo Stato si accinge a celebrare il Giorno della Memoria, con importanti intenti memoriale ed educativi, lo spirito ebraico partecipa con un ricordo sconsolato e con il peso di una domanda e di una ricerca che ha più di 32 secoli di storia.

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