LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE : TRA UN PRIMA E UN DOPO
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LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE
Michel Quesnel
TRA UN PRIMA E UN DOPO
(lo metto sotto la categoria teologia perché è un teologo)
ELOGIO DELLA CONTEMPLAZIONE
È un classico opporre gli attivi ai contemplativi, come se questo corrispondesse a due tipi di temperamento o ancora, nella Chiesa, a due tipi di impegno: i monaci da un lato, i laici e il clero secolare dall’altro. La pagina di vangelo che Luca consacra a Marta e Maria spesso è stata interpretata come sostenitrice di questa distinzione. Prendendo le difese di Maria, Gesù si sarebbe fatto difensore della contemplazione contro l’ azione, cosa che non corrisponderebbe affatto a come egli stesso visse! Frère Roger, priore di Taizé, nell’invito rivolto nel 1970 al concilio dei giovani, proponeva una visione più giusta delle cose: « Lotta e contemplazione ». L’una non va senza l’altra. La contemplazione senza la lotta sarebbe una pura e semplice dimissione; la lotta senza contemplazione sarebbe solo attivismo. Il cristianesimo afferma la dimensione necessariamente contemplativa di ogni esistenza umana. Ma perché contemplare? E che cosa contemplare?
Innanzitutto, contemplare significa onorare una dimensione fondamentale della persona umana. Il corpo ha cinque sensi dei quali impariamo l’elenco sin dalla scuola elementare: occhi per vedere, orecchie per sentire, naso per annusare, bocca per gustare, mani per toccare. Il]fiondo esteriore gli si impone. Esso è innanzitutto recettivo di sensazioni che il cuore è invitato a trasformare in sentimenti. La contemplazione onora il posto accordato al cuore affinché esso svolga il suo lavoro di integrazione: amare, detestare, preferire. Senza questa integrazione, le sensazioni si sommerebbero le une alle altre senza significato. Momenti di contemplazione privilegiata sono quelli nei quali tutti i sensi vengono sollecitati e le sensazioni si trasformano in piacere: una bella musica dinanzi a un bel paesaggio, tra fiori profumati, gustando un piatto prelibato, carezzando un corpo amato… Abbiamo qui le circostanze ideali – anche se raramente riunite così felicemente – della contemplazione.
Se in questo modo la contemplazione riveste una dimensione naturale, tuttavia non si limita ad essa. La possono provocare anche impressioni che vanno dirette al cuore: il contenuto di una lettera ricevuta, la forza di una parola ascoltata, la gioia di un amore o di un perdono possono introdurre alla contemplazione. Ci si astrae allora dall’ ambiente, con ciò che in esso vi è di futile, per prendersi il tempo di gustare il proprio piacere. Era bello; era bene; grazie. Grazie a chi? Non lo sappiamo necessariamente in modo preciso: forse a chi ha spedito la lettera o ha pronunciato la parola, ma non solo. Grazie anche a tutto un insieme di circostanze, chiaramente identificate o no, che sono all’origine di questo piacere. Grazie a te. Grazie ai tuoi genitori e ai tuoi insegnanti che ti hanno reso come sei… o almeno hanno contribuito. Grazie alle circostanze che hanno permesso che mi dicessi ciò che mi hai detto. Il termine « contemplazione » ha un prefisso derivato dal latino cum che implica un insieme, un’unione, eventualmente una comunione. Chi contempla non si aggrappa al dettaglio. Tutto si integra in lui.
Per il credente grazie anche a Dio, origine e causa ultima di ogni cosa, che non è estraneo a tutto ciò. È qui che la contemplazione assume il senso tecnico, che spesso le viene attribuito, di momento forte della preghiera. Dopo la lettura attenta di un testo – specialmente di un testo biblico -, per scoprirne tutte le ricchezze viene innanzitutto il tempo della meditazione, durante il quale chi prega si impregna di quanto ha appena letto e si interroga sul modo in cui potrebbe integrarlo nella propria vita, e infine soltanto il tempo della contemplazione. Giunto a questa tappa, il suo sguardo si dirige più avanti e più lontano, egli smette di controllare troppo rigidamente la propria volontà, si lascia andare ad ammirare, a lodare Dio, a ringraziarlo, ad amarlo. Allora tra Dio e lui si stabilisce una comunione. Ed egli non sa più molto bene chi dirige il movimento. Convinto che Dio sia vivente ed attivo, egli si offre allora come pura disponibilità, passivo tra le mani del suo Signore, che anch’egli trae piacere da questi momenti di grazia, e che può ispirare condotte conformi alla sua divina volontà.
È opinione comune ritenere che la contemplazione, come la preghiera, esiga un minimo di ambientazione. È difficile immaginare di lasciarsi andare alla contemplazione sul terreno incolto di una zona industriale o presso una discarica di rifiuti. Ma non confondiamo. Se la contemplazione può essere una forma di preghiera, non si limita a questo. Può capitare a noi tutti di essere presi da ventate contemplati ve in posti inaspettati, se siamo stati colpiti da qualcosa di forte. Se siamo credenti, cercheremo il modo di trasformare l’ emozione in preghiera. Perché non si interiorizza mai così bene come quando ci si mette in presenza di Dio, il maestro interiore.
Tutto ciò non ha nulla di specificamente cristiano. Altre tradizioni religiose onorano la dimensione contemplativa della fede, particolarmente le tradizioni buddiste e dell’estremo oriente. Molti dei nostri contemporanei suppongono addirittura che la contemplazione appartenga innanzitutto a quelle tradizioni, mentre è fondamentale anche nel cristianesimo. Perché? Una delle ragioni è senza dubbio il fatto che l’insistenza dei pastori sull’impegno dei fedeli ha fatto dimenticare questa dimensione della fede, mentre invece essa è essenziale; è stato un po’ come se i monaci, gli eremiti e gli anacoreti fossero incaricati di assicurarsi nella Chiesa l’incarico della contemplazione al posto dei semplici fedeli. Strano modo di vedere che trasformerebbe rapidamente la vita di fede del singolo credente in puro attivismo.
Il vangelo di Marco riferisce che cosa successe una certa notte nella quale Gesù, dopo una giornata particolarmente intensa e un sicuro successo a Cafarnao, provò il bisogno di farsi da parte per trarre insegnamento da tutto ciò che era capitato. Questo momento di contemplazione fu decisivo affinché egli si lanciasse in una nuova tappa della sua missione.
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« Al mattino si alzò quando ancora era buio, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce e, trovatolo, gli dissero: – Tutti ti cercano! -.
Egli disse loro: – Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto! - » (Mc 1,35-38).
ELOGIO DELLA MEMORIA
La memoria va di pari passo con la contemplazione. Fare memoria presuppone il fermarsi per guardare indietro. Non si tratta di nostalgia, sensazione più o meno diffusa che l’età dell’ oro sia passata e che nulla di altrettanto buono potrà arrivare adesso o in futuro. Tanto è vano guardare all’indietro per contemplarsi nel passato, tanto è utile ricordarsi dei momenti o degli avvenimenti che furono tappe costitutive della situazione presente, la nostra o quella altrui, e di valutare il cammino percorso di lì in poi. Questa disposizione non è di moda. La corsa all’informazione conduce in senso contrario, a registrare più e più cose con vera frenesia, senza prendersi il tempo di fare dei bilanci; ora, il ricorso frenetico alla memoria elettronica dei computer è inconciliabile con l’atto di memoria. In modo tale che colui che ricorda è come fosse posto su di una linea di spartiacque fra la nostalgia e la memorizzazione a oltranza.
Devo onorare almeno tre tipi di memoria: la memoria degli avvenimenti del mondo; la memoria delle relazioni che ho con altre persone; la memoria dell’intervento di Dio nella mia esistenza.
La memoria degli avvenimenti del mondo è ciò che ci permette di situarci nella storia. Ogni generazione immagina – a torto – di vivere un’epoca di grandi novità. Certo, alcune epoche hanno conosciuto una grande stabilità e altre grandi sconvolgimenti, ma spesso si ha la tendenza ad attribuire all’ambiente che ci circonda degli sconvolgimenti che non sono nient’ altro che quelli che noi stessi proviamo. Ora, il mondo non è stato sempre com’era quando io ero bambino; non è perché io non ho conosciuto le evoluzioni precedenti la mia nascita che esse non sono esistite. Di qui l’importanza di documentarmi sui secoli che hanno preceduto la mia nascita, o di ricordarmi quei fatti che lo slancio della vita mi spingerebbe a dimenticare. Il ricordo dell’Inquisizione e delle Crociate pennette di ricordare che ogni totalitarismo religioso produce dei crimini. La memoria dei genocidi organizzati, dei programmi di sterminio nazisti e di tutti gli orrori razzisti che sono stati una specialità del XX secolo dovrebbe impedirmi di pronunciare la più piccola parola xenofoba. La memoria è un rimedio contro l’intolleranza.
La mia memoria, allo stesso modo, costruisce le relazioni che mi uniscono a persone o a gruppi. Senza di lei, non c’è parola data che tenga, non c’è contratto che valga e, di conseguenza, nessuna possibile relazione interpersonale. Dal momento in cui una relazione umana si instaura comincia ad esistere un tacito patto. Ci si da del tu o del lei, si dà o non si dà il proprio numero di telefono cellulare, ci si incontra al bar dell’ angolo, o per un aperitivo, o per una cena a casa, o per una o due notti. Tutti questi elementi costruiscono progressivamente una storia che ha le proprie esigenze. È possibile spingersi avanti per fare progredire la relazione; ma ritornare indietro sarebbe già, in qualche modo, tradire. Questo è il posto del perdono, espresso o tacito, che ha tanta importanza nelle relazioni interpersonali. Chi potrebbe pretendere, in realtà, di non avere mai tradito un’ amicizia o un affetto?
Un fenomeno analogo entra in campo nelle relazioni che intratteniamo con Dio. La vita spirituale segue un itinerario segnato da tappe importanti che ne costituiscono i riferimenti. Forse certi momenti sono stati decisivi. Forse una lettura, un incontro particolarmente ricco, ad esempio un’esperienza mistica come quella di Paul Claudel ai vespri di Natale del 1886, dietro una colonna di Notre-Darne de Paris. Questi momenti mi hanno indotto a riprendere la mia personale vita di preghiera, a ristabilire una pratica domenicale interrotta da tempo, ad intraprendere un impegno definitivo o temporaneo. Così si è disegnata una traiettoria che mi ha reso quello che sono oggi. Ripercorrere questa traiettoria pennette di sapere a che punto siamo. Aiuta a resistere nei momenti difficili, quando la nebbia è più densa e le vie dell’avvenire sono oscure; le pietre già posate ne costituiscono la base. Le decisioni da prendere vengono rischiarate: questa scelta prolunga la via già tracciata; quest’altra, invece, farebbe affrontare una svolta troppo acuta, non sarebbe coerente con le scelte precedenti. Lo sguardo sul passato, in questo caso, non ha nulla a che vedere con la nostalgia; è necessario prendere coscienza del cammino percorso per impegnarsi verso la tappa successiva.
Esprimere questa esigenza fu uno dei maggiori impegni dei profeti di Israele. Instancabilmente ricordarono al popolo eletto l’alleanza che Dio aveva stretto con lui, liberandolo dall’Egitto e vegliando su di lui durante il suo soggiorno nel deserto, esperienza fondatrice che dava senso all’intera sua storia, ed aiutarono a fare una rilettura di quello che era accaduto dopo: momenti di grazia, infedeltà, rinnovamenti dell’alleanza iniziale, perdoni, ingratitudini, oblio. I profeti erano la coscienza di Israele. Alcuni furono perseguitati, perché spesso si è tentati di far tacere la propria coscienza, come il Caino di Victor Hugo (15). Ma sarebbe molto riduttivo attribuire alla coscienza soltanto la funzione di colpevolizzare. Essa è innanzi tutto un fattore di lucidità, con quanto vi è in esso di positivo.
Contemporaneo ai profeti, il libro del Deuteronomio insiste particolarmente sulla necessità di questo atto di memoria.
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« Ma guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste: non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita. Le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli » (Dt 4,9).
« Ricordati di non dimenticare, come hai provocato all’ira il Signore tuo Dio nel deserto. Da quando usciste dal paese d’Egitto fino al vostro arrivo in questo luogo, siete stati ribelli al Signore » (Dt 9,7).
« Porrete dunque nel cuore e nell’anima queste mie parole; ve le legherete alla mano come un segno e le terrete come un pendaglio tra gli occhi; le insegnerete ai vostri figli, parlandone quando sarai seduto in casa tua e quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai » (Dt 11,18-19).
[15] Riferimento alla poesia di Hugo La conscience nella quale Caino sfugge ad un occhio (quello della coscienza) che lo guarda fissamente dovunque egli vada, fin sotto terra (n.d.t.).
ELOGIO DELLA PERSEVERANZA
Nel linguaggio comune parliamo di pazienza piuttosto che di perseveranza. Ma il termine « pazienza » fa pensare anche ad una disposizione del carattere; alcuni sono pazienti, altri no. Se si trattasse soltanto di questo tipo di pazienza, pochi potrebbero tesserne l’elogio, perché i nostri contemporanei sono spesso molto impazienti: si indispettiscono di dover guidare dietro ad un automobilista lento, si innervosiscono se devono trascorrere inutili minuti in fila perché la persona che li precede, anziché andare all’essenziale, racconta la propria vita allo sportellista… I motivi per essere esasperati, principalmente nelle zone di forte concentrazione urbana, sono molteplici.
La pazienza della quale parliamo qui, e che chiameremo piuttosto perseveranza, è complementare all’impegno. Chi si impegna per una causa ne aspetta i risultati, li aspetta in un futuro abbastanza vicino e gli piacerebbe che durassero. Ora, queste tre attese vengono spesso deluse, soprattutto le ultime due. E tuttavia questo non è un motivo per disimpegnarsi. Aspettarsi dei risultati è umano. Un militante che non ottenesse nulla avrebbe legittime ragioni per scoraggiarsi. Potrebbe d’altronde, in questo caso, interrogarsi sulla correttezza della causa per la quale si sta battendo. Non trovare uno sbocco potrebbe, dopo tutto, essere indizio del fatto che si è partiti lancia in resta contro dei mulini a vento o in difesa di ragioni indifendibili.
Più ambigue sono l’esigenza di rapidità e quella di durata dei risultati. Voler raggiungere rapidamente un risultato significa, molto spesso, non tenere conto dei ritmi degli altri. Roma non è stata fatta in un giorno. Se mi impegno per una causa, evidentemente è perché sono convinto della sua eccellenza. E di solito altre persone ne sono convinte quanto me. Ma, visto che sicuramente in questi casi non si è migliaia, è necessario parlare per convincere, intraprendere azioni significative, e tutto ciò richiede tempo. Significherebbe ostentare un orgoglio immenso, sperare di poter sensibilizzare rapidamente il mondo intero a ciò di cui noi siamo convinti, sia pure per la più legittima tra le cause. Dopo tutto, riconoscere che un rinvio è indispensabile non è altro che una forma di rispetto degli altri.
Constatare che le proprie azioni non producono effetti duraturi è ancora più doloroso della sensazione di pesante lentezza nell’ ottenere dei risultati. Esistono militanti che hanno consacrato una parte dei loro anni di giovani adulti a difendere cause umanitarie piene di nobiltà e che provano un’enorme delusione nel constatare che, solo qualche decennio dopo, tutto sarebbe da ricominciare. I risultati sociali che essi hanno strappato, pagandoli cari, non sono più garantiti. La comprensione tra culture ed etnie della quale si sono fatti paladini ha lasciato il posto a una recrudescenza di razzismi ed intolleranze. Ed essi si interrogano con nostalgia: a che pro ho lottato?
Il problema non è nuovo. Il mito di Sisifo condannato a rotolare-una roccia sulla sommità di una montagna, dalla quale essa sempre ridiscende in basso, risale agli antichi Greci. Chi abitualmente gioca a carte potrà paragonarlo al solitario delle nostre nonne che, anche quando fallisce, non finisce mai; si può continuare a giocare senza fine, mescolare il mazzo, disporre di nuovo le carte senza che il processo si arresti, e questo potrebbe durare all’infinito; notando che la sequenza si riproduce sempre allo stesso modo, ci si rende conto di avere perduto. Viene definita « il marinaio di scandaglio », con riferimento ai manovratori di un tempo, incaricati di dragare il fondo delle rade affinché mantenessero una profondità sufficiente, mentre il mare non cessa mai la sua opera di insabbiamento. Questa pretesa riuscita, che termina spesso con un insuccesso, fa pensare a quello che provano le persone che si sono prodigate nella militanza. Certo, si sono battute per qualcosa. Hanno cercato di far conoscere il Vangelo o di diffondere qualche grande ideale. Vi si sono più o meno logorate. Ma che cosa è successo, oggi, all’idea di progresso dell’umanità alla quale i più anziani tra noi hanno creduto nei decenni successivi alla seconda Guerra Mondiale?
Il progresso tecnico, quello esiste; ne trasmettiamo le conquiste di generazione in generazione. Ma il progresso morale non esiste. In questo campo tutto deve ripartire da zero, senza sosta. Il piccolo dell’uomo nascerà sempre con la stessa violenza, lo stesso bisogno di affermarsi, la stessa volontà di acquisire per sé il massimo dei vantaggi. È più ossessionato da quello che lui non ha e che il suo vicino possiede di quanto sia soddisfatto per quello che egli stesso possiede. Teme l’alterità, la differenza: nasce razzista. Non è per il fatto che suo padre ha pensato nobili pensieri che egli farà proprie le stesse convinzioni. Tutto è da ricominciare con lui.
Alla fine della vita, il vecchio militante allora potrà chiedersi: « A che cosa serve quello che ho fatto? Non ho per caso sprecato il mio tempo a prodigarmi per delle chimere? » – « No, caro amico. Certamente le tue azioni non hanno avuto effetti così duraturi come quelli che speravi; ma il mondo dei tempi della tua giovinezza sarebbe stato peggiore se tu non avessi fatto nulla. Dunque hai avuto ragione. Ti pare che la situazione sia peggiorata? Lascia che le generazioni presenti inventino, a loro volta, la propria militanza. Non si batteranno per le tue stesse cause, risponderanno ad altri bisogni. Ed anch’ esse dovranno dirsi alla fine che stanno lavorando a breve termine. Perché le conquiste che raggiungeranno non saranno più definitive di quelle che tu hai realizzato. La loro azione non oltrepasserà più della tua la barriera dei secoli ».
Scetticismo, dunque? Inutilità intrinseca di qualsiasi impegno? Non necessariamente. Richiamo, piuttosto, ad una santa umiltà.
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« Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d’autunno e le piogge di primavera. Siate pazienti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Prendete, o fratelli, a mo dello di sopportazione e di pazienza i profeti che parlano nel nome del Signore. Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione » (Gc 5,7-11).