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OMELIA PER LA SOLENNITÀ DEI SS. PIETRO E PAOLO – Ignazio Sanna (2008)

http://www.ignaziosanna.com/files/Omelia-Solennita-SS-Pietro-e-Paolo-29-06-08.pdf

OMELIA PER LA SOLENNITÀ DEI SS. PIETRO E PAOLO

Ignazio Sanna

(Cattedrale di Oristano, 29 giugno 2008)

0. La solennità odierna fa memoria di Pietro e Paolo, due personalità differenti, due itinerari di vita e di predicazione distanti, un’unica passione per Cristo e un unico martirio nella città del potere imperiale. Le letture della memoria dei due apostoli ci offrono diversi spunti di riflessione per iniziare con vero profitto la celebrazione dell’anno paolino. Questa sera vorrei riflettere con voi sul comportamento della Chiesa primitiva di fronte all’arresto di S. Pietro, sulla domanda di Gesù ai suoi discepoli circa la sua identità, sulla conservazione della fede da parte di S. Paolo.
1. Per quanto riguarda la reazione di fronte all’arresto di S. Pietro, gli Atti degli Apostoli ci descrivono la comunità che prega incessantemente per il proprio pastore. Per un verso, questo fatto rivela con quale mezzo la comunità cristiana affrontava la lotta contro i potenti del mondo. Per un altro verso, l’irruzione dell’angelo nel carcere per liberare S. Pietro mette in evidenza che la vita della Chiesa è sempre sotto la protezione divina. Da subito, infatti, si avvera la profezia di Gesù, secondo la quale le porte degli inferi non prevarranno contro la Chiesa. Le porte degli inferi
moderne, oggi come oggi, sono le centrali laiciste del pensiero unico, la quantità dei luoghi comuni, le ideologie anticlericali che gettano discredito sulla vita della Chiesa. Oggi come allora la Chiesa viene attaccata in diversi modi e con diversi intenti. Si scrivono molti libri contro di essa. La si accusa di ingerenza nel potere secolare, di favorire le guerre, di rovinare i bambini. Ma la promessa di Gesù di “non praevalebunt” ne preserva la durata nel tempo e la natura di mediatrice di salvezza. Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che la Chiesa siamo noi e che “noi siamo la Chiesa”. Quando pensiamo alla Chiesa spesso la identifichiamo con la gerarchia, i preti, le suore. Eppure, Chiesa siamo tutti noi, popolo di Dio, chiamato a testimoniare la novità e originalità della fede cristiana. La Chiesa sono le nostre parrocchie, che nei singoli paesi sono come la fontana del villaggio alla quale attingono tutti, senza discriminazione di razza o di cultura. Sono gli oratori dove si sono formati tanti politici e tanti professionisti che hanno dato il meglio di sé nell’esercizio delle diverse professioni. La Chiesa sono anche le Caritas diocesane e parrocchiali che gestiscono le emergenze della povera gente, per lo più non conosciute dall’opinione pubblica. La Chiesa sono anche le suore
di Madre Teresa, che si prendono cura degli emarginati rifiutati dalla società civile, e non assistiti dalle istituzioni dello Stato. La Chiesa sono anche i fedeli delle nostre parrocchie, che hanno reso possibile l’acquisto di alcuni sintetizzatori vocali per i nostri malati di sla. Quanti eroismi segreti dei nostri fedeli che non si conoscono, perché gli alberi che crescono non fanno rumore mentre l’albero che cade fa molto rumore! Quanti esempi di altruismo e di generosità che non hanno né testimoni né sponsor, ma che alleviano dolori, curano ferite, creano speranza, accompagnano solitudini!
In tutte queste circostanze la Chiesa risana ed eleva la dignità umana non limitandosi solamente a chiedere che la dignità inalienabile di ogni uomo sia giuridicamente garantita, ma anche che sia concretamente rispettata e chenon venga mai messa a libera disposizione della società neppure nei casi conflittuali. Inoltre, la Chiesa promuove e difende la dignità di ogni persona, sostenendo che il non poter disporre della vita umana neppure in situazioni difficili dipende dalla convinzione di sentirsi sempre sorretti dalla potenza infinita di Dio, amante della vita e non della morte. Per la fede cristiana, infine, la verità definitiva dell’uomo è manifesta solo nella verità di Dio su di lui; l’uomo non è in grado di procurarsela da solo, ma la può percepire unicamente nella fede, facendo propria la verità di Dio. Se si dovesse sintetizzare la funzione della Chiesa nella difesa e promozione della dignità dell’uomo e nell’affermazione dei suoi diritti fondamentali, si può dire che essa svolge sostanzialmente il ruolo di « sentinella di umanità », in una posizione che non la colloca all’esterno, come dirimpettaia della storia, per intervenire solo con denunce e documenti, ma che la coinvolge con le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, non essendovi nulla di genuinamente umano che non trovi eco nel suo cuore (GS, 1).
La Chiesa svolge il ruolo di sentinella di umanità , in modo particolare, con l’offrire al mondo un’antropologia della persona, rispettosa dei valori umani e aperta alla trascendenza. La fede cristiana, con la sua particolare visione dell’uomo creato ad immagine di Dio, redento dal sangue di Cristo e destinato a vivere eternamente con Dio, contribuisce enormemente a dare un fondamento molto solido alla concezione dell’eminenza della persona e della inviolabilità della sua dignità. Non siamo lontani dal vero se affermiamo che in assenza di una visione religiosa dell’uomo, ogni difesa razionale della dignità assoluta e inalienabile della persona, per quanto sempre possibile, rimane
problematica e precaria. In realtà, solo chi ha un concetto alto di Dio ha anche un concetto alto dell’uomo, e chi ha un concetto alto dell’uomo non può non avere un concetto alto di Dio.
2. La domanda di Gesù ai discepoli circa la sua identità, riportata dall’evangelista Matteo, corrisponde ad un invito a compiere un esame di coscienza della nostra fede e della nostra spiritualità. Qual’ è la nostra fede in Gesù come il Cristo, Figlio del Dio vivente? Per l’islàm, Gesù
è solo un profeta, un messaggero di Dio. Egli è solo un uomo che ha portato un messaggio, ma non è Dio. La professione della divinità di Gesù è una bestemmia. Anche per gli ebrei, Gesù è solo un profeta che non ebbe alcunché da fare con il cristianesimo o la Chiesa. Sarebbero stati i seguaci di Gesù, di origine ellenistica, coloro che lo divinizzarono. Se, però, Gesù viene considerato solo come un profeta, o come un maestro di morale, non potrà
essere accettato come l’unico maestro di morale, perché la morale è un patrimonio comune dell’umanità ed i percorsi di maturazione etica sono tanti e differenziati. Se Gesù viene considerato, invece, come salvatore, come tale, è unico, e, perciò, può essere accettato, in quanto salvatore assoluto, come colui che non solo garantisce la salvezza parziale nella storia, ma soprattutto la salvezza escatologica nella vita eterna. La morale dei potenti, dei superuomini, non può accogliere la morale di un crocifisso. Ma il bisogno profondo di salvezza assoluta, radicato nel cuore di ogni
uomo, può accogliere un salvatore assoluto, che liberi in maniera definitiva da ogni forma di male e di sofferenza. Gesù ci ha portato Dio, ossia la salvezza dal male e dalla morte. Non si può scambiare questo Dio con un programma di promozione umana.
3. S. Paolo, scrivendo a Timoteo al termine della sua esistenza, guarda indietro agli anni della sua predicazione, dei suoi viaggi, del suo impegno missionario, e afferma di aver conservato la fede. In altri termini, egli afferma di essere rimasto un credente nonostante le avversità della vita, e, indirettamente, fa vedere che la perseveranza nella fede non è mai scontata per nessuno. Lo stesso Gesù, in un momento critico del proprio cammino esistenziale, pregò per Pietro, perché non venisse meno la sua fede (Lc 22, 31-32). Nessuno, infatti, è confermato nella grazia di Dio. Ogni santo è un
peccatore in potenza, così come ogni peccatore è un santo in potenza. La fede è un dono di Dio, prima ancora che una conquista umana. Pietro riconosce in Gesù il Figlio di Dio, perché glielo ha rivelato il Padre (Mt 16, 17). Paolo ha conosciuto l’evangelo e il Figlio Gesù Cristo, per rivelazione di Dio (Gal 1, 12.16). Tutti noi abbiamo ricevuto il dono della fede non per mezzo di una rivelazione particolare, ma con il sacramento del battesimo. Dobbiamo conservare questo dono scrupolosamente, memori sia della preghiera con la quale gli apostoli chiedevano che venisse aumentata la propria fede (Lc 17, 6), sia della terribile domanda di Gesù che, un giorno, ebbe a chiedere se il Figlio dell’Uomo al suo ritorno in terra avrebbe trovato ancora la fede (Lc 18, 8). Mi auguro che quest’anno pastorale dedicato alla Parola ci aiuti a capire l’importanza di questo dono e la necessità di custodirlo con la testimonianza della vita e la coerenza dei comportamenti. Ci accompagni e ci protegga sempre Maria, Madre della Chiesa e Vergine fedele. Amen.

LO SPIRITO SANTO SORGENTE INESAURIBILE DI DONI – Angelo Amato

http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01021998_p-18_it.html

L’ANNO DELLO SPIRITO SANTO
I segni della speranza: i popoli

LO SPIRITO SANTO SORGENTE INESAURIBILE DI DONI
Angelo Amato

1. Lo Spirito è «Persona-dono»
L’esistenza cristiana è intimamente segnata dalla «nube dello Spirito» (cf. Mt 17,5). È lo Spirito che porta i fedeli alla loro piena configurazione a Cristo. Ma, in cosa consiste, concretamente, la presenza dello Spirito Santo e qual è il significato dei suoi doni? La risposta è semplice: la vita cristiana, per svilupparsi e giungere a maturazione, esige una assistenza speciale dello Spirito santo e dei suoi doni. Il mistero profondo dello Spirito è quello di essere «dono»: «Si può dire che nello Spirito santo la vita intima del Dio uno e trino si fa tutta dono, scambio di reciproco amore tra le divine Persone, e che per lo Spirito santo Dio «esiste» a modo di dono. È lo Spirito Santo l’espressione personale di un tale donarsi, di questo essere amore. È Persona-amore. È Persona-dono» (Dominum et Vivificantem, n. 10).
Essendo Persona-dono lo Spirito è la sorgente di ogni dono creato, come la vita, la grazia, la carità: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5). Ed è Gesù che ha dato il suo Spirito come dono di vita nuova agli apostoli, alla chiesa, al mondo: «Innalzato alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33). Queste parole di Pietro a Pentecoste, riecheggiano la sua esperienza pasquale. La sera della risurrezione, infatti, Gesù, apparendo agli apostoli, disse: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Anche a Pentecoste gli apostoli «furono pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,4). Tale pentecoste apostolica rifluisce su tutta l’umanità, in tutte le sue categorie di giovani e di anziani, di uomini e di donne. È lo stesso Pietro a spiegare, nel suo primo kérygma, che questa irruzione dello Spirito non fa che realizzare la profezia di Gioele:
«Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno» (At 2,17-18).
Il dono dello Spirito significa vocazione alla profezia da parte dei figli e delle figlie, dei servi e delle serve; significa chiamata a seguire grandi ideali («visioni») da parte dei giovani e ad avere sogni profetici da parte degli anziani. L’effusione dello Spirito a Pentecoste realizza anche la profezia di Ezechiele:
«Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio. Vi libererò da tutte le vostre impurità: chiamerò il grano e lo moltiplicherò e non vi manderò più la carestia» (Ez 36,24-29).
Lo Spirito è cioè dono di comunione, è acqua di purificazione, è cuore di carne, è novità, è obbedienza, è appartenenza e fedeltà a Dio, è abbondanza di beni.

2. «Vieni, datore dei doni»
San Giovanni, parlando della nostra vocazione alla comunione con Dio-Amore, afferma: «Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito» (1Gv 4,13). È nello Spirito che noi amiamo Dio. Per questo S. Agostino afferma che «lo Spirito santo è il dono di Dio a tutti coloro che per mezzo suo amano Dio»1. Lo Spirito ci abilita al rapporto interpersonale con Dio, all’alleanza tra il nostro «io» e il «tu» divino: «Il dono dello Spirito significa chiamata all’amicizia, nella quale le trascendenti profondità di Dio vengono, in qualche modo, aperte alla partecipazione da parte dell’uomo» (Dominum et Vivificantem, n. 34). È quanto S. Paolo diceva: «Viviamo sotto il dominio dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in noi» (Rm 8,5.9); «Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,25).
Per rendere possibile e facilitare questo cammino lo Spirito si fa sorgente di molteplici doni, frutti, carismi. Per questo nella solennità di Pentecoste lo invochiamo: «Vieni, Santo Spirito, vieni, datore dei doni». Tradizionalmente si parla dei sette doni dello Spirito Santo: «la sapienza, l’intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio» (CCC n. 1831). Attribuiti in prima istanza al Messia (cf. Is 11,1-2)2, nel quale si realizzano in pienezza, questi doni perfezionano le virtù del battezzato, rendendolo docile e obbediente a seguire le mozioni dello Spirito. Se la vocazione del cristiano è la santità, i doni dello Spirito servono per agevolare la pratica delle virtù sia teologali (fede, speranza, carità), sia morali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza). Spesso la tradizione teologica ha messo in correlazione i singoli doni con le singole virtù. Ad esempio, il dono del timore viene visto in corrispondenza con la virtù della temperanza e il dono della sapienza con la virtù della carità. In realtà ogni singolo dono facilita l’esercizio di tutte le virtù, che ne escono fortemente rafforzate. Più che in una graduatoria o su una scala i doni devono essere messi in reciproca circolarità e correlazione.

3. Il timore, come gioiosa trepidazione per la vicinanza di Dio
Il timore del Signore si può considerare come il primo gradino della scala della perfezione, che avrebbe il suo vertice nel dono della sapienza. Afferma S. Tommaso d’Aquino: «Il timore filiale occupa il primo posto tra i doni dello Spirito Santo in ordine ascendente, e l’ultimo in ordine discendente»3. Il Siracide, tuttavia, mostra l’interdipendenza e il reciproco influsso dei doni:
«Pienezza della sapienza è temere il Signore; essa inebria di frutti i propri devoti. Tutta la loro casa riempirà di cose desiderabili, i magazzini dei suoi frutti. Corona della sapienza è il timore del Signore; fa fiorire la pace e la salute. Dio ha visto e misurato la sapienza; ha fatto piovere la scienza e il lume dell’intelligenza; ha esaltato la gloria di quanti la possiedono. Radice della sapienza è temere il Signore; i suoi rami sono lunga vita» (Sir 1,14-18).
In una proposta di cammino vocazionale, si può vedere nel timore di Dio il primo passo per abbandonare la vita secondo la carne e percorrere la via secondo lo Spirito. Il timore di Dio fa comprendere che la vita non è solitudine e silenzio, ma comunione con Dio. Il timore non è paura di Dio, ma trepidazione e gratitudine per la sua grande prossimità a noi. È riscoperta e lode della sua grandezza e sapienza, e, allo stesso tempo, coscienza di essere immersi in questo «ambiente divino», avvolti dall’abbraccio di Dio:
«Signore, tu mi scruti e mi conosci; tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo. Ti sono note tutte le mie vie; la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Stupenda per me la tua saggezza, troppo alta, e io non la comprendo. Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza?» (Sal 139,1-7).
La prostrazione di Abramo di fronte ai tre pellegrini (Gn 18,2), la sorpresa di Giacobbe nel sogno della scala, la cui cima raggiungeva il cielo (Gn 28,12), lo sbigottimento di Mosè al roveto ardente (Es 3,6), la meraviglia di Isaia di fronte al serafino col carbone ardente (Is 6,6-7), il grande spavento dei pastori all’annuncio degli angeli (Lc 2,9), lo stordimento di Giovanni il veggente di fronte al Vivente (Ap 1,17) indicano lo stupore improvviso di chi si trova a tu per tu di fronte al mistero santo di Dio. È un timore che non si tramuta in paura, ma, al contrario, si espande per Abramo in servizio e dialogo con Dio, per Giacobbe in conferma di aver incontrato Dio, per Mosè in spinta alla missione, per Isaia in obbedienza alla chiamata profetica, per i pastori in invito a incontrare il neonato Salvatore, per Giovanni in contemplazione dell’azione efficace e vittoriosa di Dio nelle martoriate vicende della chiesa e del mondo.
Il timore è la trepidazione avvertita da chi inizia il cammino della vita nello Spirito e si affida con confidenza nelle mani di Dio: «Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri: vedi se percorro una via di menzogna e guidami sulla via della vita» (Sal 139,23-24). Il timore di Dio diventa così consapevolezza della debolezza umana, esercizio di umiltà e di povertà di spirito, ma anche fiducia nella misericordia di Dio, speranza nella sua provvidente bontà, autentico «principio di saggezza» (Sal 111,10).

NOTE
1) De Trinitate, XV 19,35.
2) Il testo ebraico di Is. 11,2 parla di sei doni: spirito di sapienza, intelligenza, consiglio, fortezza, conoscenza e timore del Signore. La versione greca dei LXX e la versione latina della Volgata enunciano invece sette doni, introducendo la «pietà». In realtà si tratta di una interpretazione di Is 11,3, in cui il «timore del Signore», ripetuto in questo versetto, viene tradotto in una sua variazione e cioè in «pietà».
3) STh, II/II q. 19 a. 9.

Publié dans:DOCENTI -, SPIRITO SANTO (sullo) |on 10 juin, 2014 |Pas de commentaires »

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – GIUSEPPE BARBAGLIO – PDF – due parti divido in due

http://www.giuseppebarbaglio.it/Articoli/finesettimana130190.pdf

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – PDF – due parti divido in due

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

VERBANIA PALLANZA, 13-14 GENNAIO 1990

LE DOMANDE DELL’UOMO TRA NATURA E STORIA E LE RISPOSTE IN PAOLO

Il problema essenziale è il rapporto tra noi e il mondo. Il mondo è natura, ma anche storia e gli attori della storia sono gli uomini. Mentre la natura è il regno della necessità, la storia è il regno della libertà. C’è però anche la cultura che sta tra natura e storia: l’uomo , collocandosi nella natura e nella storia, produce le istituzioni del suo vivere (familiari e sociali), modi di pensare e di essere. Quale senso ha la nostra vita, la nostra storia, la nostra natura, dato che apparteniamo ad entrambe? Gestiamo la storia ma apparteniamo anche alla natura. Mentre gli animali sono totalmente assorbiti nella natura l’uomo, oltre che nella natura, ha una presenza significativa nella storia. Lo gnosticismo ha posto il problema con tre interrogativi fondamentali: donde veniamo? chi siamo? dove andiamo? E’ un problema ineludibile per l’uomo di ogni generazione che pensa e riflette, a differenza degli animali. La ricerca di risposte rispecchia situazioni specifiche. Noi ci poniamo le stesse domande degli gnostici, ma in situazioni nuove e perciò dobbiamo cercare nuove risposte adeguate alla situazione in cui viviamo. C’è un problema ecologico che riguarda tutti, c’è la novità del dialogo tra le religioni, c’è la presenza di movimenti pacifisti, c’è la crescente disparità di ricchezze nel mondo, c’è una sfrenata ricerca del profitto che mette il silenziatore alle grandi domande di senso. Cercheremo di trovare delle risposte in Paolo, delle risposte certamente datate. Anche Paolo, come del resto anche Gesù e i profeti, non sfuggiva al criterio della storicità. Paolo è una voce che, pur essendo datata come Cristo e i profeti, noi riconosciamo come espressiva della fede cristiana. Ci indica un cammino consono alla fede cristiana anche se in una cultura particolare.

1 Corinzi 8,4-6: un solo Dio e Signore
E’ un testo molto significativo che Paolo trae dalla tradizione e lo fa suo, rielaborandolo, per esprimere la fede nei suo tratti essenziali: la fede creazionistica e la fede soteriologica della salvezza. Dice Paolo a proposito delle carni immolate agli dei pagani, che la tradizione giudaica vietava di mangiare non solo nei luoghi di culto dove si sacrificavano gli animali ma anche quando venivano vendute al mercato. « Quanto poi al cibarsi delle carni immolate agli idoli sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo (l’idolo è una nullità), e non c’è dio se non uno solo. Infatti anche se ci sono dei cosiddetti dei sia in cielo sia in terra, come di fatto ci sono molti dei e signori… » Sembra una contraddizione, ma prosegue: « per noi invece c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto (la totalità del mondo) viene e noi esistiamo per lui, e c’è un solo Signore, Gesù Cristo, mediante il quale tutto è, e noi siamo mediante lui ». Paolo dice che se vogliamo considerare la situazione concreta guardandoci intorno, vediamo che molti sono gli dei, molti i signori. A quel tempo, ma non solo a quel tempo, c’era uno spreco di dei e signori. L’imperatore era Dio, Cesare Augusto era un titolo divino, Adriano si faceva lodare come il salvatore del mondo, gli dei orientali erano « signori », gli eroi erano i figli di Dio. Anche il mondo di oggi è pieno di dei e signori, perché è pieno di servi. Se non ci fossero i servi
non ci sarebbero i signori. Sono i servi che creano l’altro come signore di se stessi. « ma per noi », per le nostre soggettività, dice Paolo, « non ci sono dei e signori perché c’è un solo Dio, il Padre, e un solo Signore, Gesù Cristo » . E’ un credo costruito su di un motivo creazionale.

Colossesi 1,15-20
E’ un testo straordinariamente bello. E’ da notare che questi testi della chiesa primitiva, giunti a noi attraverso la testimonianza di Paolo e della sua scuola, usano un poco la enfasi, esprimono la lode, sono poetici. Non c’è grande precisazione teologica, e molti termini esprimono l’emozione dei credenti che professano in quel modo la loro fede. Non bisogna insistere molto sui particolari. « Gesù Cristo – dice Colossesi – è l’immagine e l’icona del Dio invisibile ».
Paolo rilegge l’affermazione creazionale dell’uomo a immagine di Dio in senso cristologico, « primogenito di ogni creatura ». C’è un rapporto molto stretto tra Gesù e la creazione in Paolo. « Poiché in lui sono state create tutte le cose, sia quelle che stanno nei cieli che sulla terra, sia quelle visibili che quelle invisibili, sia i troni, sia le signorie, sia i principati, si le potestà ». Si tratta del quadro cosmologico di allora, soprattutto degli ambienti dell’Asia Minore legati ad una pregnosi, in cui tra Dio e l’umanità c’erano esseri intermedi che dominavano la storia, gli eoni. In questa
concezione si dice che Cristo ha vinto gli eoni e quindi ogni dominatore è messo fuori gioco. « Tutte le cose sono state create » Si tratta di un perfetto che indica qualcosa che è avvenuto e che perdura, cioè tutto è stato creato dal primo giorno e resta creato. « Egli è prima di tutte le cose e la totalità delle cose ha consistenza in lui; Lui è la testa del corpo
della chiesa, lui che è l’arché, il principio, il prototipo di ogni creazione e di ogni risurrezione, affinché abbia il primato in tutte le cose, poiché in lui piacque a Dio di fare abitare tutta la pienezza e mediante lui riconciliare tutte le cose, facendo pace mediante il sangue della sua croce e mediante lui sia le cose che ci sono sulla terra, come quelle che sono nel cielo ». Il motivo centrale è la correlazione tra la totalità e l’unità di Gesù. Tutto è mediante lui, verso lui e
consistente in lui; le preposizioni « en », « dia », « eis » stanno ad indicare un rapporto molto forte di comunità essenziale tra l’universo e l’unità singolare, che è Gesù. Tutto (ta panta) è stato creato e tutto è stato riconciliato. Il beneficiario della riconciliazione è lo stesso di quella della creazione, la totalità della realtà, noi e il mondo 2Corinzi 5,17 e Galati 6,15

I due testi sono carichi di significati.
Dice 2Corinzi 5,17:
« Cosicché se uno è in Cristo è una creatura nuova di zecca ». Si usa l’aggettivo « kainé » che a differenza di « neos » indica novità qualitativa, non ripetitiva. Il tema della creatura nuova ha una lunga storia alle spalle. E’ presente nel Deuteroisaia e in Isaia: l’escatologia è una proiezione nel futuro della creazione. L’originalità in Paolo sta nel dire che la « creatura nuova » si realizza nella storia se uno è in Cristo. Non c’è « verranno i cieli e terra nuova », ma la « creatura nuova » è già qui. Paolo, così diverso da Gesù, in questa intuizione profondissima è suo discepolo contro ogni concezione apocalittica. Due sono i motivi presenti in questi testi: la dimensione cristologica della creazione e la dimensione
escatologica della creatura nuova. Tutto, l’uomo e il mondo, è stato creato, è creatura (ktisis) di fronte al creante (ktisas). La Bibbia offre qui una prima fondamentale risposta alle domande su chi siamo, donde veniamo e dove andiamo. Il rapporto tra la totalità come creatura e il creante è un rapporto strutturale. Non può esistere creatura senza creante. Non è un rapporto che è stato all’inizio per poi interrompersi, ma persiste. Noi siamo stati, siamo e saremo creatura di fronte al creante. E’ un rapporto costitutivo del nostro essere nei confronti di Dio e di Dio nei nostri confronti. Ci definiamo, gli uni e gli altri, su questa linea della creazione.

divinizzazione dell’uomo e del mondo
Questo sta ad indicare che l’uomo (e il mondo) non è un assoluto, non è Dio di se stesso. Fa parte della comprensione essenziale dell’uomo la coscienza della creaturalità propria e del mondo. Quindi fa parte della coscienza umana il processo di sdivinizzazione dell’uomo e del mondo. Non c’è nessun dio e nessun signore a questo mondo perché non ci deve essere nessun servo a questo mondo. Nessuno a questo mondo può essere l’oggetto davanti al quale piegare le ginocchia e levare l’incenso, invocare la clemenza, dipendere schiavisticamente. Non c’è nessun padre da scegliere a
questo mondo, perché c’è un solo Dio, il Padre. L’unica categoria che definisce l’uomo nel suo essere profondo rispetto a Dio è la fraternità, la sorellanza. Non c’è nessun padre nel senso signorile. Ancora, il nostro essere creatura di fonte al creatore vuol dire che noi e il mondo siamo stati voluti, fatti da Dio creante, che ha comunicato la sua vita, il suo Spirito. I racconti della creazione in Genesi ci dicono che Dio ha soffiato nei viventi il suo Spirito. La categoria del dono libero è essenziale per capire il senso della totalità di fronte a Dio. Dio creatore non ha nessuna gelosia, nessuna competizione, nessuna rivalità nei nostri confronti e quindi nessuna violenza, dato che la violenza nasce dalla rivalità. Dio è gratuitamente comunicativo, comunica il suo Spirito, la sua vita senza la logica commerciale del do ut des. Dio dà perché è così per nativa esigenza del suo comunicare. Quello che è suo viene condiviso. Il problema della creazione è il problema della condivisione da parte di Dio al mondo e a noi. Dio non vuole godere da solo della sua vita, ma vuole condividerla con gli uomini, con gli animali, con il mondo in generale. La dinamica della creazione è la dinamica della condivisione. Non è un dono mosso da calcoli o da condizionamenti.

un dono di Dio irrevocabile
Procedendo poi su questo motivo di fondo della totalità che è creatura di fronte a Dio che è creatore, capiamo che noi siamo stati voluti e fatti una volta per tutti senza pentimento. E’ vero che c’è nella bibbia il racconto del pentimento di Dio per avere fatto il mondo e dell’invio del diluvio, ma il mondo è poi salvato, e l’arcobaleno diventa il segno dell’alleanza cosmica con Dio che si impegna a non distruggere mai più la vita. Il dono di Dio, la condivisione di Dio è irrevocabile. Se Dio revocasse questa sua comunicazione e donazione cesserebbe di essere quello che è, il creante
(ktisas). Nonostante tutto permane la fedeltà di Dio a questo mondo, l’unico creato e voluto da Dio. Dio non ha alternative: si è definito liberamente ma irrevocabilmente creante (ktisas) di questa creatura (ktisis). L’errore della corrente apocalittica è stato quello di ammettere la possibilità di fare un altro mondo. La dimensione di fondo della apocalittica, espressa nel IV libro (apocrifo) di Esdra, si esprime nella creazione di un secondo mondo, perché il primo è riuscito male. Invece non c’è un’altra umanità, alla quale Dio si è legato liberamente, ma indissolubilmente. L’incarnazione è nella logica della creazione, è pensabile solo all’interno della creazione: se questo mondo non fosse
il mondo di Dio, perché Dio avrebbe dovuto venire a questo mondo, avrebbe dovuto prendersene cura, volerne la salvezza? A questa domanda non poteva rispondere Marcione che aveva diviso la creazione dalla salvezza operata da Cristo. E’ il tallone di Achille di Marcione. C’è un mondo solo che Dio ha voluto e che ha fatto e che resta il suo mondo: questo.

alterità Dio mondo
Altra dimensione importante è che Dio creatore è altro da noi creature, è diverso. Il mondo è non Dio, e Dio è non mondo. Questa alterità tra Dio e il mondo è un elemento caratteristico della fede creatrice contro ogni tipo di immanentismo, che attenua i confini tra Dio umanità e mondo. La concezione creazionistica invece traccia una linea assolutamente invalicabile tra Dio e il mondo. Il mondo in quanto « ktisis » di fronte al « ktisas » è altro da Dio e vive nella sua mondanità, nella sua profanità, non è mescolato al divino. Al contrario della mitologia pagana in la mescolanza è
dominante. Proprio della visione biblica è la separatezza: il mondo è diverso da Dio e Dio è diverso dal mondo.
Ora la concezione di alterità rende possibile la relazione, perché la relazione esiste tra due diversità, tra due altri. Se c’è mescolanza non c’è relazione, ma confusione. Il concetto di persona rinvia ad una soggettività come individualità assolutamente irripetibile. E’ molto importante questa visione perché ci sollecita ad assumerci la piena responsabilità delle realtà mondane, senza cercare responsabili divini: Dio non manda e non toglie la malattia, la guerra non è un castigo di Dio o la pace un premio. La procreazione è una realtà puramente mondana, come la realtà sessuale. L’autorità tra gli uomini non viene da Dio, ma è una scelta operata da persone che delegano a qualcuno un potere per alcuni scopi. Così la famiglia, la società, gli eventi storici. Il Dio creatore non è un soggetto storico, mondano, Dio è altro. Potremmo dire che Dio è la fonte della vita ma non agisce come soggetto magari più grande, più potente, come siamo portati ad immaginarlo. I cristiani a Roma erano tacciati di essere atei perché avevano ripulito il mondo di tutti gli dei, di tutti i signori di cui il mondo politeistico era pieno.

l’uomo interlocutore rischioso di Dio
C’è quindi una autonomia dell’umanità e del mondo da Dio, un’autonomia propria delle creature di fronte al creatore, però la creatura, che é il risultato del movimento di comunicazione, di partecipazione, di condivisione, è interlocutrice libera di Dio; noi siamo soggettività. La differenza tra l’uomo e la natura è che la natura è determinata, mentre l’uomo è una possibilità di essere, è storia. La natura è dato, ma la storia è da farsi. L’uomo, attraverso le sue scelte, è
possibilità di essere, ma anche possibilità di autodistruzione. Dio e noi siamo in dialogo, ma un dialogo altamente rischioso. Dio ha di fronte una soggettività, che può scegliere liberamente, anche di dire di no. Il Dio creatore è un Dio audace e avventuroso che accetta di avere di fronte a sé uno che ha mille volti, e possibilità. Dio entra in un gioco pericoloso, rischioso. Tutto questo è stato percepito dal salmo 8 in cui si dice: « hai fatto l’uomo di poco inferiore ad un dio ». Nella creazione Dio ha di fronte a sé un altra soggettività, che si definisce nelle scelte sue libere, di fronte alla quale può solo proporsi, non imporsi. Questo Dio avventuroso si autolimita; si è imposto alla natura, ma non all’uomo, che si definisce per conto proprio. Dio rischia sempre di essere messo in scacco nel suo progetto, perché ha un progetto con l’uomo, al quale si limita a proporlo e le cui risposte sono quanto mai avventurose. E’ un Dio che per il suo progetto non minaccia, non terrorizza, non punisce il dialogante.

il Dio bifronte nella Bibbia
Il limite del discorso biblico è proprio quello di avere mantenuto la faccia del Dio punitore, presente negli stereotipi religiosi di tutti i tempi. In un libro del 1920 circa, Rudolf Otto, un filosofo della religione, intitolato « Il sacro », afferma che lo schema abituale di visione del divino negli uomini di tutti i tempi è costruito su una immagine religiosa del « mysterium » di Dio, della realtà nascosta di Dio, che ha due facce. C’è il « mysterium fascinans » – che affascina con la sua bontà, la sua generosità, con l’essere fonte di vita, di perdono, di grazia, di salvezza, un Dio benefico – e c’è l’altra
faccia del « mysterium tremendum », del nume tremendo, terribile. L’uomo ha sempre vissuto il divino – il dio monoteistico e le divinità – con questa griglia interpretativa, come « mysterium tremendum » e come « mysterium fascinans ». Anche nella bibbia questo appare con molta chiarezza (sto scrivendo un un libro su questo Dio come Giano bifronte). Il Dio della Bibbia paga un alto prezzo a questo stereotipo religioso della duplice faccia. C’è un testo del Deuteroisaia che dice: « io sono colui che dà la vita, io sono colui che dà la morte ». Dio nella sua faccia benefica dà la vita, però ha anche l’altra faccia tremenda della morte. Le due facce sono state unite per cui il Dio che dà la vita poi domanda conto dell’uso che noi abbiamo fatto, e minaccia la punizione nel caso facciamo un uso distorto o cattivo. E’ una faccia violenta. Siamo in contrasto con la logica creazionistica per la quale Dio partecipa la vita senza merito
nostro, per sua nativa spinta. Dio si propone all’uomo indeterminato che ha davanti, a questo dialogante così inafferrabile, senza proclamare minacce, senza spargere terrore, senza comminare punizioni. Non è un Dio violento. Con la nostra risposta negativa siamo noi che ci creiamo la morte con le nostre mani. L’uomo si gioca la vita e la morte. Se dice di no a Dio non è che Dio gli manda la morte; la morte è una realtà mondana, nostra, solo la vita è il dono di Dio. Dio viene escluso o può essere escluso da noi, che siamo un dialogante capriccioso, ma mai Dio può escludere noi che lo escludiamo perché è donazione, comunicazione, soffio di vita: non si riprende per punizione il soffio di vita. Dobbiamo assumere il dato primordiale della fede creazionale come elemento assolutamente caratterizzante e non introdurre elementi religionistici estranei che offuscano, stravolgono la faccia partecipativa. Dio è tutto in questo darsi e non c’è in lui alcun pentimento, alcun riprendersi i doni, perché è sempre « ktisas ».

il mondo è donato da Dio nella sua materialità: oltre il dualismo
Da questi testi paolini si coglie un altro importante elemento: il mondo è « ktisis », donato da Dio, anche nella sua materialità, nella sua naturalità, è da accettare con gioia, con gratitudine, da godere anche, da custodire con cura e rispetto. La fede creazionistica esclude ogni concezione dualistico-spiritualistica. La visione dualistica ha contaminato il mondo del passato ed ammorba ancora oggi le coscienze nella tradizione cattolica. Secondo questa concezione la realtà – « ta panta » – viene suddivisa in realtà spirituale e in realtà materiale. La realtà spirituale, l’uomo nella sua coscienza e nella sua anima immortale, è positiva e tutto il resto è realtà negativa. Il dualismo spiritualistico, che rifiuta come male tutto ciò che non è spirituale, che non è immateriale, è un fenomeno postbiblico. Nella Bibbia infatti si dice che il Verbo si è incarnato, si è fatto « sarx », (Giovanni). « Sarx » è la materialità, la naturalità. Noi dobbiamo ricuperare le radici bibliche. Se la tradizione cristiana cattolica ha accolto la visione dualistico-spiritualista dell’ambiente circostante è stata infedele alle sue origini. C’è da ricuperare, attraverso la fede creazionistica, questo aspetto gioioso per cui le persone godono di questo mondo che è creatura, è dono, senza per questo negare l’infiltrazione del male, il peccato. E’ strano che nella nostra tradizione cattolica si siano accolti aspetti profondamente infedeli alla visione biblica. Per esempio, la verginità di Maria nella Bibbia non ha una connotazione antisessuale ma è un modo per esprimere la fede nel figlio di Dio, che esiste solo in Matteo e in Luca, ma non in Paolo e in Giovanni. E’ in funzione della figliolanza divina che nasce la credenza nel concepimento verginale di Gesù. In questa maniera si vuole affermare che Gesù è il figlio di Dio, il dono di Dio.

la creazione in prospettiva cristologica
Paolo caratterizza la creazione in senso cristologico, inserendo fin dalle origini Gesù Cristo nel rapporto tra « ktisis » e « ktisas », tra creatura e creante, con diverse formule: in Cristo, mediante Cristo, verso Cristo; sono modi per indicare la mediazione di Gesù Cristo nella creazione. Il rapporto « ktisis »- »ktisas » non è più un rapporto diretto, ma mediato da un terzo, Gesù di Nazareth. Dire che tutta la creazione è avvenuta in Cristo, mediante Cristo ed è finalizzata a Cristo, vuol dire che Gesù costituisce il senso di tutto. Uscendo dalle formule che riecheggiano il discorso della causalità – la causalità strumentale o efficiente, la causalità formale, finale – potremmo dire che Gesù Cristo è il senso del mondo, di « ta panta », ed è impressionante che sia una persona individuo che dà senso alla totalità. Potremmo dire che Gesù è la chiave di lettura di « ta panta », è il centro aggregante per cui « ta panta » non è un insieme di cose, ma è un’unità unificata da lui. Gesù è la luce rivelante il senso della totalità, è il traguardo verso cui corre la totalità, è la forza traente: sono tutti modi per dire che Gesù di Nazereth, morto e risorto, é il senso del mondo. Gesù, che è un uomo qualunque, un uomo debole, un uomo impotente, uno degli ultimi, uno dei vinti della storia, è il centro: lui, il crocifisso e il risorto. « Ta panta », il tutto, riflesso nell’uno Gesù di Nazareth. Però l’uno Gesù di Nazareth non è un individuo chiuso in sé, è il prototipo dell’umanità. Paolo questo l’ha visto chiaramente quando nel cap. 5,12 di Romani parla di Cristo come del secondo Adam, il secondo prototipo dell’umanità, oppure in 1 Corinti 15,20-29.45-49. L’uno Gesù non è separato dalla totalità dell’umanità, ma è il primo tipo e immagine nel quale c’è tutta l’umanità. La totalità trae senso dall’uomo qualunque, debole, fragile.

gli ultimi al centro della creazione e della storia
Il « ta panta » é fatto da Dio per gli ultimi, per i crocifissi, per i vinti: questo è il progetto di Dio creatore, un progetto che viene contestato dalla storia che mette in croce Gesù di Nazareth, che mette in croce gli ultimi, i deboli, gli impotenti. Il progetto di Dio viene contestato dagli uomini forti che creano la società dei violenti, dei privilegiati. Gesù di Nazareth crocifisso e risorto è segno di contraddizione nella storia: Dio ha risuscitato, rendendogli giustizia, colui che, rappresentativo degli ultimi, è stato messo in croce. In questo modo Gesù, benché l’umile, il debole, l’ultimo, il vinto, è il centro del creato. Ecco allora la dialettica drammatica della storia: il progetto di Dio, che Dio può solo proporre e non
imporre, di mettere Gesù al centro è rigettato dall’umanità, che rifiuta che gli ultimi siano al centro e li rimette al margine e crea la società dei forti, dei violenti, dei privilegiati; ma Dio risuscitando Gesù ricolloca al centro quelli che sono stati estromessi. L’interpretazione che dà Paolo di Gesù come centro sconvolge il senso comune che attribuisce il
centro ai violenti e ai potenti. La crocifissione nasce dall’esperienza della violenza coalizzata. I violenti fanno solidarietà fra loro a danno dei deboli. Nei testi della passione si legge che tutti sono coalizzati: le autorità giudaiche di
vertice, gli anziani, i sommi sacerdoti, Pilato, la folla stessa: si crea la società dei violenti che violenta l’indifeso che è Gesù. Ma Dio risuscita il debole, il violentato, il crocifisso. Dio ricolloca al centro quelli che sono stati discriminati, contestando la società dei violenti che occupa il centro della storia. Oggi nel dialogo fra le religioni si tende a sottacere che Gesù è il centro, però questo vuol dire non riconoscere che è il figlio di Dio e farlo diventare uno dei tanti profeti. Ma se lo confessiamo figlio di Dio, se per noi è l’unico Signore, come dice Paolo, non dobbiamo avere delle remore, ben sapendo che è al centro come il crocifisso, come il prototipo dei crocifissi. Si ribalta la logica dei forti e dei violenti che si coalizzano per espungere i deboli. Paolo dice che Gesù è l’Adam, ha senso per l’umanità, un senso che noi cogliamo nella fede. Siamo liberi di coglierlo o no, ma se è l’Adam vuol dire che è il prototipo di ogni uomo, sia esso indiano, cinese, africano, occidentale, orientale. Come questo debba essere interpretato secondo le varie culture è un altro
discorso, ma non è che avendo delle difficoltà dobbiamo negare i punti di partenza che sono l’oggetto elementare della nostra fede. Per noi c’è un solo Dio, il Padre, ed un solo Signore, Gesù Cristo. Si può rinunciare a credere in questo, ma è in gioco il centro della fede non un elemento periferico. Gesù è il centro non in quanto Gesù di Nazareth, ma in quanto morto e risorto. Dire il risorto vuol dire esattamente l’universalizzazione del senso che ha Gesù di Nazareth per tutta l’umanità. E’ certo incarnato nella cultura, paga un debito alla cultura, c’è un problema di superamento della cultura, ma proprio per questo diciamo che è al centro in quanto crocifisso e risorto. Se dicessimo infatti che è solo Gesù di
Nazareth, il problema sarebbe complicato perché bisognerebbe mettere al centro anche la sua cultura. Se invece è Gesù morto e risorto, risorto vuol dire la capacità di Gesù di essere il simbolo di tutta l’umanità al centro della storia come essere debole, fragile, secondo il progetto di Dio.

animati dallo Spirito del risorto
Paolo dice inoltre che noi siamo « ktisis kainé » – nuova creatura – se siamo in Cristo, cioè se siamo animati dallo Spirito del risorto, se siamo investiti dalle forze nuove di questo Spirito vivificante. Spirito vivificante non vuol dire qualcosa che è immateriale nei confronti di ciò che è materiale, ma qualcosa che è vita nei confronti di ciò che è morte. l’antitesi è tra vita e morte, non tra immaterialità e materialità. Lo Spirito del risorto, con il suo dinamismo, viene donato a tutti e da questo punto di vista Gesù è simbolo per tutta l’umanità. Lo Spirito non è monopolio di alcuni
gruppi o di alcune culture. Su questo ha visto molto bene Giovanni quando dice: « lo Spirito soffia dove vuole », come il vento, giocando sul doppio significato di « pneuma » e « ruah » in ebraico. Lo Spirito non ha confini. Cristo è universalizzabile, è simbolo di tutta l’umanità in quanto dona il suo Spirito a tutti gli uomini. Tutti gli uomini ricevono lo Spirito se sono in Cristo. Il dinamismo delle scelte allora diventa dinamismo dell’agape, dell’amore oblativo, comunicativo, costruttivo. Da questo punto di vista (Galati 5,16-25, Romani 8,1-17) la nuova creatura nasce là dove c’è l’uomo « pneumatikos », animato dallo « pneuma », spirituale, non nel senso di uomo dedito alla vita del pensiero, immateriale, ma dedito ad una vita umana condotta secondo il dinamismo dello Spirito che è alternativo al dinamismo della « sarx », all’egocentrismo che induce a costruirsi un mondo chiuso in se stesso, un microcosmo senza porte e senza finestre, autosufficiente. La creazione nuova, dice Paolo, è già presente dove l’uomo si lascia animare dal dinamismo dello Spirito che è donato a tutti. L’uomo può rifiutare lo Spirito, contrastandolo, facendosi guidare dall’altro
dinamismo che è dentro di noi, il dinamismo della « sarx ». La nuova creazione a livello personale vuol dire l’uomo che vive eticamente non guidato da leggi esterne, da norme, da comandamenti – questa è la grande rivoluzione di Paolo – ma guidato dallo Spirito che è dentro di noi, dal dinamismo dell’agape. Docilità al dinamismo dello Spirito: questa è la spiritualità. In Matteo la spiritualità non ha questo senso, è semplicemente una vita condotta nell’obbedienza alla legge di Dio che è manifestata attraverso Cristo. Paolo ha sostituito ad una guida esterna dell’uomo – le leggi, le norme, le autorità, le parole – il dinamismo interno donato dallo Spirito di Cristo. « Vi dico però, – scrive Paolo Galati 5,l6 – camminate (agite) nello Spirito e in questo modo voi non porterete a compimento le cupidigia della carne ». La « sarx » per Paolo è l’uomo che vive nella cupidigia (epitsumìa) delle cose, del possedere per sé, nello strappare agli altri, nelle gelosie, nelle invidie. Già nella tradizione biblica e giudaica del tempo c’era l’equiparazione tra peccato e cupidigia. « La « sarx » nelle sue cupidigie si oppone allo Spirito e lo Spirito ha impulsi contrari alla carne. Queste cose sono antitetiche le une alle altre, affinché voi non facciate quello che desiderate fare nella cupidigia. Se voi vi lasciate condurre dallo Spirito non siete sotto la legge ». La nuova creatura, resa possibile dal dono del risorto e che si realizza alla condizione di lasciarsi guidare dallo Spirito, manifesta la presenza dell’escatologia. Non c’è da una lato la vecchia creazione vigente e dall’altro la nuova creazione che verrà, ma già esiste la « kainé ktisis ». E’ la nuova e originale concezione che Cristo e poi Paolo hanno portato: la fine è dentro la storia, il traguardo è già dentro il cammino, l’oggi è pieno delle forze vivificanti del mondo ultimo, futuro. Sullo sfondo c’è la concezione del mondo creato che si è alienato negando la propria creaturalità, seguendo i percorsi della « sarx ». Il mondo creato alienato è ora in via di riscatto. La nuova « ktisis »,
creazione, è condizionata: si rende presente se e nella misura in cui siete in Cristo, in cui vi lasciate guidare dallo Spirito, in cui contrastate il dinamismo della carne. Il riscatto è soltanto incominciato, la sua realizzazione piena è oggetto di speranza; ma ciò che noi attendiamo per il futuro già lo possiamo anticipare e vivere nell’oggi se siamo in Cristo. La svolta è già avvenuta nel dono dello Spirito che dà il principio del nuovo mondo. Importante è che questo principio attivo e creativo abbia spazio, non sia contrastato, negato, soffocato. Il futuro, la nuova creazione, è una possibilità aperta che possiamo realizzare attraverso la solidarietà con Cristo risorto, sia pure incoativamente e
precariamente perché permane il peso di quell’altro dinamismo. L’AT era approdato, attraverso il filone profetico che inventa l’escatologia – il salto di qualità nella storia – alla soluzione apocalittica: Dio ha fatto due mondi perché questo mondo si è corrotto a tal punto da essere irrecuperabile e quindi destinato alla distruzione. Alla fine sarà sostituito, verrà gettato come una zavorra e scenderà dal cielo un nuovo mondo bello e fatto. In queste nuova scialuppa che verrà data all’umanità entreranno quelli che sono fedeli alla legge mentre gli altri saranno estromessi una volta per sempre. Gesù e Paolo non hanno accolto questa visione apocalittica, perché non ammettono il principio dei due mondi creati. Questo mondo è l’oggetto di tutte le loro speranze però non rimandate al futuro: la svolta ha inizio nella risurrezione di Cristo in cui è dato il principio del nuovo mondo. Questa situazione dialettica di storia ed escatologia, di presente e futuro ultimo, di fine e cammino, è la soluzione cristiana. Il rapporto tra creazione ed escatologia si colloca dentro questa concezione: non sono due realtà separate, ma l’escatologia è dentro la creazione. E’ l’escatologia di questo mondo, di questa storia, e non di un altro mondo, di un’altra storia. Questa è la risposta fornita da Paolo alle domande iniziali su chi siamo? donde veniamo? dove andiamo?

1 Tessalonicesi 4,13-18: una vita nella speranza
In 1Tessalonicesi 4,13-18 Paolo dice che la vita cristiana è una vita nella speranza e in essa non deve aver spazio la tristezza di fronte alla morte, l’ombra sinistra della morte che aleggia sulla vita come ultima parola sull’esistenza. Il fondamento della speranza è la risurrezione di Cristo, una speranza che poggia sulla fede. Paolo fa una distinzione tra quei credenti che sono vivi alla venuta di Cristo (riteneva prossima la fine del mondo) che non passeranno attraverso la morte, ma entreranno nel mondo nuovo per rapimento sull’immagine di Elia o del patriarca Enoch che sono stati rapiti da Dio, e i credenti che sono già morti, che saranno risuscitati. Però sia i rapiti che i risuscitati andranno incontro a Cristo, per essere sempre con lui. Il traguardo della speranza, il traguardo finale dell’esistenza cristiana, già iniziato, consiste nella comunione indefettibile con il Signore Gesù oltre la morte o la fine dell’uomo.

1 Corinzi 7,29-31: il tempo si è contratto
C’è un altro testo caratteristico in 1 Corinzi 7,29-31 in cui Paolo fa una raccomandazione: « Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto conciso, dunque quelli che hanno mogli siano come se non le avessero, e quelli che piangono come se non piangessero, e quelli che godono come se non godessero, e quelli che acquistano come se non possedessero, e quelli che usufruiscono del mondo come se non ne usassero appieno; perché sta passando la figura di questo mondo ».
E’ da rimarcare questa concezione del tempo: « il tempo si è fatto conciso ». Nel mondo greco il tempo era considerato come un fiume che fluisce lentamente e indefinitamente, che va e ritorna. Per Paolo invece il tempo si è rattrappito, si è fatto una breve linea segnata dal passare di questo mondo sulla scena. Paolo pensa ancora alla fine imminente del mondo, la cui caducità viene vissuta in modo altamente drammatico e anche illusorio. In questa precarietà il nostro esistere, le nostre esperienze fondamentali non devono essere assolutizzate: bisogna viverle « os me », « come se ». Non
sono cose indifferenti, ma sono esperienze da relativizzare. Gli stoici proclamavano l’epateia, l’essere emotivamente indifferenti di fronte alla realtà. Paolo dice che le esperienze umane non sono il tutto, non sono un assoluto. Questo mondo non è qualcosa di permanente ed eterno e pertanto le esperienze umane di questo mondo risentono della transitorietà. Sullo sfondo di questa visione c’è una certa escatologia e una conseguente etica.

1 Corinzi 15: Cristo primizia e risuscitatore
E’ la trattazione più completa e più profonda della escatologia in Paolo. Paolo parte dalla risurrezione di Cristo per fondare la speranza nella risurrezione nostra. Dice: se Cristo è risuscitato vuol dire che anche noi risusciteremo. In 1 Tessalonicesi si limitava a dire che se Cristo è risuscitato anche noi risusciteremo, senza approfondire le motivazioni. Nella prima lettera ai Corinzi invece Paolo riesce a trovare la spiegazione profonda. Cristo non è risuscitato come caso unico, ma come « aparché », come primizia. E’ un termine che ha una tradizione alle spalle: « aparché » erano i primi
covoni raccolti che dovevano essere offerti al tempio come riconoscimento del dono di Dio. Inoltre Paolo aggiunge un’altra formula: Cristo è risuscitato come nuovo Adam, come prototipo di una nuova umanità di risorti. Come il primo Adamo era il prototipo della prima umanità, Cristo è il prototipo, principio attivo della nuova umanità. E’ risuscitato come risuscitatore di altri. Paolo dice alla fine del cap. 8 « è il figlio in mezzo a tanti fratelli ». Questo è il disegno di Dio: Cristo centro della storia con tanti fratelli intorno, che siamo noi. La seconda cosa da notare in questo testo è la risurrezione dei corpi su cui Paolo insiste molto. A Corinto dicevano che noi siamo già risuscitati nella nostra anima, erano degli spiritualisti; Paolo invece dice che la risurrezione riguarda i corpi. Per corpo Paolo intende non la parte materiale, ma la struttura basica dell’uomo, per cui se c’è il corpo c’è l’uomo e se non c’è il corpo non c’è l’uomo.
Questa struttura basica è una struttura relazionale, è la relazionalità verso Dio, verso gli altri e verso il mondo; se togliamo una di queste relazionalità non c’è l’uomo. La risurrezione coglie l’uomo in questa sua triplice relazionalità. Questa relazionalità ontologica, dice Paolo, noi la possiamo vivere esistenzialmente in termini negativi o in termini positivi. Posso viverla in termini negativi negando la mia creaturalità, considerando gli altri i miei schiavetti o assumendo un atteggiamento idolatrico o rapace nei confronti del mondo. In questo modo, vivendo in modo egocentrico la triplice relazionalità, per Paolo divento carnale (negando che Dio sia il nostro Dio, che gli altri siano i nostri fratelli, negando che il mondo sia l’habitat dell’uomo). Per Paolo la risurrezione dei corpi è la trasformazione piena di questa triplice relazionalità vissuta in modo positivo, secondo il dinamismo dello Spirito per cui l’uomo accoglie Dio come il Padre suo, gli altri come suoi fratelli ed il mondo come l’habitat suo e di tutta la famiglia umana. Questa
triplice relazionalità vissuta positivamente fa sì che il corpo sia pneumatico, spirituale, animato totalmente dallo Spirito, secondo il dinamismo dell’agape. Questa spiritualizzazione già è cominciata, dice Paolo: se voi vi fate condurre dallo Spirito non vivete più secondo la carne, siete i figli di Dio, vivete in Cristo. La speranza non riguarda qualcosa di totalmente nuovo, non si riferisce ad una realtà assolutamente assente dalla storia, ma tende alla pienezza di una realtà già iniziata nella storia. La pneumatizzazione della triplice realtà, che é al presente ancora precaria perché il dinamismo della carne continua ad agire e c’è un ritorno del passato dentro di noi, sarà piena con la risurrezione.
La spiritualizzazione del soma umano è data dallo Spirito vivificante di Cristo, a immagine di Cristo, l’uomo pienamente trasformato dallo Spirito. Cristo è il primo risuscitato, che ci risuscita a sua immagine.

Filippesi 3, 20-21: a immagine del suo corpo glorioso
Dice: « La nostra cittadinanza (politeuma) è nei cieli da cui aspettiamo che venga il Salvatore nostro Gesù Cristo », ‘cieli’ è il simbolo del mondo trasfigurato pienamente dallo Spirito « il quale trasfigurerà il nostro misero corpo a immagine del suo corpo glorioso ». La nostra triplice relazionalità che già é stata investita dalle forze dello Spirito sarà totalmente investita dallo Spirito di Cristo il quale ci trasfigurerà, opererà la metamorfosi piena in modo che il nostro corpo sia
glorioso, investito dello splendore divino dei risorti ad immagine sua.

Romani 8,12-25: anche la natura partecipa della risurrezione
Il testo più nuovo da questo punto di vista è Romani 8,18-25. Già parlando della risurrezione dei corpi Paolo introduce anche la natura, il mondo, dentro il processo di trasformazione perché una delle tre relazioni è verso il mondo. Però in questo testo  »ktisis » (creazione) è solo il mondo creato naturale, a differenza del mondo umano. Dice: quello che è avvenuto avviene e avverrà di noi, passato presente e futuro, è avvenuto avviene e avverrà per la natura. Paolo mette in parallelismo la nostra vicenda di soggetti storici con la natura. E’ interessante la solidarietà tra il mondo umano ed
il mondo inanimato ed animale. Al presente, dice Paolo, noi gemiamo e viviamo una esperienza dolorosa e drammatica, viviamo la durezza del cammino umano nella storia; anche il mondo inanimato geme nella sofferenza. Noi gemiamo ed il mondo geme. Nel futuro noi aspettiamo il riscatto dei figli di Dio, la risurrezione, la pneumatizzazione piena o anche la glorificazione (nei testi biblici, gloria – « doxa » in greco e « kabòd » in ebraico – non è mai l’onore, come per noi, ma esprime lo splendore della presenza di Dio). Similmente la natura dovrà essere glorificata e liberata per partecipare della libertà dei figli di Dio. Nel passato condividiamo il peccato, la corruzione nostra e del mondo. La creazione segue il
destino dell’uomo. La storia della salvezza coglie direttamente l’uomo e coglie la natura per partecipazione all’uomo.

dalla fede sgorga la speranza nella trasformazione dell’umanità e del mondo
Primo punto importante di questi testi è la connessione tra speranza e fede, la speranza nasce dalla fede nella risurrezione di Cristo e noi risorgeremo per influsso suo e ad immagine sua. Secondo: la speranza riguarda la sorte di questa umanità e di questo mondo, non ci sarà sostituzione ma trasfigurazione, assumerà una nuova forma restando se stessa. I cieli nuovi e la terra nuova di cui parla Isaia sono questi cieli, questa terra, ma in una nuova forma; il futuro riguarda i nostri corpi attuali, non corpi nuovi creati ad hoc. Questo è importante perché la speranza non ci fa uscire da
questo mondo, ma si tratta di essere attivi nella trasformazione di questo mondo. Terzo: il futuro finale già è iniziato; la comunione indefettibile è già nella comunione non ancora salda con Cristo. Il riscatto futuro già è iniziato. Il mondo sta partorendo nei dolori, nei contrasti, nelle contraddizioni della storia, nella crocifissione dell’esistenza. I dolori ci sono, ma sono i dolori di una nuova vita. La nuova nascita è già iniziata perché sono iniziate le doglie. La storia e l’escatologia sono mescolate, le forze del nuovo mondo sono già presenti, ma sono ancora in lotta con le forze del vecchio mondo, con la « sarx ». La nuova nascita avviene nella minaccia di impedire l’uscita del nuovo: non si tratta di un pacifico possesso. Questo nostro presente ha già in parte la configurazione del futuro; nel deserto sono già germinate
le nuove pianticelle, in attesa della piena fioritura.

un mondo da non adorare
Questo è importante anche per i rapporti tra storia ed escatologia, e non solo tra creazione ed escatologia. Paolo, anche se non aveva i nostri problemi, è interessato alla natura. Nel mondo di allora era molto presente una tendenza alla divinizzazione della natura e delle sue forze. Le religioni immanentistiche divinizzano la natura, le sue forze vitalistiche, oppure le forze astrali. L’imperatore Amenofi IV in Egitto aveva sostituito la religione ufficiale del dio Amon con quella del dio Aton, il disco solare. Invece la concezione creazionistica della Bibbia e di Paolo è contro la divinizzazione
della natura che non è la grande madre da adorare. Chi ha una concezione divinizzata della natura, ritiene che la natura non possa essere violata. Sarebbe empio trasformare la natura, intervenire nei suoi sacri meccanismi. Chi divinizza la natura ha un atteggiamento idolatrico nei suoi confronti ed adora le cose, divenendone schiavo. Invece, chi ha una concezione creazionistica si serve delle cose. Paolo dice: « tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio ».

un mondo di cui godere con gratitudine
La concezione creazionistica è anche contro il disprezzo spiritualistico-dualistico della natura e delle cose. Lo spiritualismo era presente oltre che nella filosofia greca, in tutto lo gnosticismo. Nello gnosticismo l’uomo era visto come una scintilla divina, che per un caso drammatico è caduta dagli altissimi cieli in questo mondo. L’uomo è quindi una scintilla divina rivestita della corazza materiale, che nell’assumere la mondanità non ricorda più la sua origine divina e si ritiene una cosa del mondo. Non ha più coscienza di sé, è totalmente alienata, si ritiene parte di questo mondo
opaco. Ma ecco che viene, dagli spazi celesti, il logos, anch’esso scintilla divina, che assume il corpo come un vestito puramente esterno, per non dar troppo nell’occhio. Viene a ricordare alle scintille smemorate ed alienate la loro origine divina. Esse riacquistano la coscienza di sé e si liberano dalle corazze materiali con la « gnosi ». Questa coscienza di sé provoca un grande desiderio della morte come liberazione non solo interiore ma anche esteriore, al fine di potersi ricongiungere al grande fuoco divino. In questa concezione il mondo è visto come un carcere, che rende abietto e
alienato l’uomo. La concezione creazionistica invece è contro ogni visione dualistica e quindi la natura è « ktisis », è
creatura, è dono, è grazia da accogliere, da godere, da usare con gratitudine dice Paolo nella 1Corinzi 10,25-26 o in Romani 14,6. Questo uso deve essere fatto senza assolutizzazioni, con un distacco interiore, come se non ne usassimo. Da questo punto di vista si può inserire il discorso dell’uso corretto della natura, delle forze, delle energie, senza abusarne.

un mondo da condividere
Una terza considerazione: questo uso della natura, secondo la visione biblica e paolina, non solo deve avvenire ll’insegna della parsimonia, ma soprattutto secondo la logica della condivisione. La preoccupazione dominante della visione biblica è la giustizia. A questo proposito Paolo si esprime in 1 Corinzi 11. Nella comunità si riunivano per la cena del Signore, al termine della quale si celebrava l’eucarestia. L’eucarestia era il punto terminale di un pranzo comune che era segno della commensalità, della solidarietà fra i credenti. Ci si riuniva intorno ad una tavola imbandita da chi aveva cibi e bevande. A Corinto la maggioranza erano schiavi, nullatenenti, oltre a scaricatori di porto, e a artigiani. Succedeva che i più ricchi, giunti con le loro provviste, mangiavano tra loro, bevevano e si ubriacavano, mentre i poveracci, impegnati nel lavoro, giungevano alla fine. Tutti insieme quindi celebravano l’eucarestia. Paolo dice che alcuni erano rimpinzati ed ubriachi e gli altri non avevano niente, ma questo afferma « non è celebrare il pranzo del Signore perché non fate il pranzo comune, anzi la vostra celebrazione è una condanna per voi ». Paolo dice che l’eucarestia è espressione della commensalità, dell’essere insieme alla stessa tavola sia con quelli che la imbandiscono perché hanno da portare cibi e bevande, sia con quelli che non hanno niente da portare se non lo stomaco da riempire. Questo è l’aspetto maggiormente sottolineato in tutta la Bibbia, tutta pervasa dalla sete di giustizia e quindi dalla logica della condivisione. Il movimento ecologista dovrebbe essere molto attento oltre che ad un uso corretto, non rapace dei beni, ad un uso condiviso, perché ancor prima dell’uso rapace c’è il problema dell’uso ingiusto e discriminante. Oltre l’uso opulento dei saccheggiatori c’è la rapacità solo per sé sulla pelle degli altri. Paolo sottolinea il tema della commensalità, della
partecipazione, come aveva fatto Gesù con i suoi discepoli alla vigilia della morte nel segno della commensalità umana.

una natura coinvolta nella storia della salvezza
Un quarto filone di riflessione riguarda la natura in quanto coinvolta nella storia dell’uomo nel bene e nel male, perché la natura è una dimensione essenziale dell’uomo. L’essere dell’uomo al mondo caratterizza la storia della salvezza. Il mondo senza l’uomo non è immaginabile come non è immaginabile nella concezione creazionistica l’uomo senza il mondo. La natura non è soggetto della storia della salvezza, dato che l’unico soggetto è l’uomo, ma se l’uomo ha una dimensione mondana, la natura viene coinvolta in questa storia, sia nel bene che nel male. E’ coinvolta nel male quando la relazione uomo natura si concretizza in un atteggiamento di idolatria o di disprezzo o di rapina o di possesso esclusivo del mondo. E’ coinvolta nel bene quando la relazione uomo natura avviene nella logia del rispetto e della condivisione.

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – GIUSEPPE BARBAGLIO – PDF II PARTE

http://www.giuseppebarbaglio.it/Articoli/finesettimana130190.pdf

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – PDF II PARTE

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

VERBANIA PALLANZA, 13-14 GENNAIO 1990

LE DOMANDE DELL’UOMO TRA NATURA E STORIA E LE RISPOSTE IN PAOLO

la creazione in prospettiva cristologica Paolo caratterizza la creazione in senso cristologico, inserendo fin dalle origini Gesù Cristo nel rapporto tra « ktisis » e « ktisas », tra creatura e creante, con diverse formule: in Cristo, mediante Cristo, verso Cristo; sono modi per indicare la mediazione di Gesù Cristo nella creazione. Il rapporto « ktisis »- »ktisas » non è più un rapporto diretto, ma mediato da un terzo, Gesù di Nazareth. Dire che tutta la creazione è avvenuta in Cristo, mediante Cristo ed è finalizzata a Cristo, vuol dire che Gesù costituisce il senso di tutto. Uscendo dalle formule che riecheggiano il discorso della causalità – la causalità strumentale o efficiente, la causalità formale, finale – potremmo dire che Gesù Cristo è il senso del mondo, di « ta panta », ed è impressionante che sia una persona individuo che dà senso alla totalità. Potremmo dire che Gesù è la chiave di lettura di « ta panta », è il centro aggregante per cui « ta panta » non è un insieme di cose, ma è un’unità unificata da lui. Gesù è la luce rivelante il senso della totalità, è il traguardo verso cui corre la totalità, è la forza traente: sono tutti modi per dire che Gesù di Nazereth, morto e risorto, é il senso del mondo. Gesù, che è un uomo qualunque, un uomo debole, un uomo impotente, uno degli ultimi, uno dei vinti della storia, è il centro: lui, il crocifisso e il risorto. « Ta panta », il tutto, riflesso nell’uno Gesù di Nazareth. Però l’uno Gesù di Nazareth non è un individuo chiuso in sé, è il prototipo dell’umanità. Paolo questo l’ha visto chiaramente quando nel cap. 5,12 di Romani parla di Cristo come del secondo Adam, il secondo prototipo dell’umanità, oppure in 1 Corinti 15,20-29.45-49. L’uno Gesù non è separato dalla totalità dell’umanità, ma è il primo tipo e immagine nel quale c’è tutta l’umanità. La totalità trae senso dall’uomo qualunque, debole, fragile. gli ultimi al centro della creazione e della storia Il « ta panta » é fatto da Dio per gli ultimi, per i crocifissi, per i vinti: questo è il progetto di Dio creatore, un progetto che viene contestato dalla storia che mette in croce Gesù di Nazareth, che mette in croce gli ultimi, i deboli, gli impotenti. Il progetto di Dio viene contestato dagli uomini forti che creano la società dei violenti, dei privilegiati. Gesù di Nazareth crocifisso e risorto è segno di contraddizione nella storia: Dio ha risuscitato, rendendogli giustizia, colui che, rappresentativo degli ultimi, è stato messo in croce. In questo modo Gesù, benché l’umile, il debole, l’ultimo, il vinto, è il centro del creato. Ecco allora la dialettica drammatica della storia: il progetto di Dio, che Dio può solo proporre e non imporre, di mettere Gesù al centro è rigettato dall’umanità, che rifiuta che gli ultimi siano al centro e li rimette al margine e crea la società dei forti, dei violenti, dei privilegiati; ma Dio risuscitando Gesù ricolloca al centro quelli che sono stati estromessi. L’interpretazione che dà Paolo di Gesù come centro sconvolge il senso comune che attribuisce il centro ai violenti e ai potenti. La crocifissione nasce dall’esperienza della violenza coalizzata. I violenti fanno solidarietà fra loro a danno dei deboli. Nei testi della passione si legge che tutti sono coalizzati: le autorità giudaiche di vertice, gli anziani, i sommi sacerdoti, Pilato, la folla stessa: si crea la società dei violenti che violenta l’indifeso che è Gesù. Ma Dio risuscita il debole, il violentato, il crocifisso. Dio ricolloca al centro quelli che sono stati discriminati, contestando la società dei violenti che occupa il centro della storia. Oggi nel dialogo fra le religioni si tende a sottacere che Gesù è il centro, però questo vuol dire non riconoscere che è il figlio di Dio e farlo diventare uno dei tanti profeti. Ma se lo confessiamo figlio di Dio, se per noi è l’unico Signore, come dice Paolo, non dobbiamo avere delle remore, ben sapendo che è al centro come il crocifisso, come il prototipo dei crocifissi. Si ribalta la logica dei forti e dei violenti che si coalizzano per espungere i deboli. Paolo dice che Gesù è l’Adam, ha senso per l’umanità, un senso che noi cogliamo nella fede. Siamo liberi di coglierlo o no, ma se è l’Adam vuol dire che è il prototipo di ogni uomo, sia esso indiano, cinese, africano, occidentale, orientale. Come questo debba essere interpretato secondo le varie culture è un altro discorso, ma non è che avendo delle difficoltà dobbiamo negare i punti di partenza che sono l’oggetto elementare della nostra fede. Per noi c’è un solo Dio, il Padre, ed un solo Signore, Gesù Cristo. Si può rinunciare a credere in questo, ma è in gioco il centro della fede non un elemento periferico. Gesù è il centro non in quanto Gesù di Nazareth, ma in quanto morto e risorto. Dire il risorto vuol dire esattamente l’universalizzazione del senso che ha Gesù di Nazareth per tutta l’umanità. E’ certo incarnato nella cultura, paga un debito alla cultura, c’è un problema di superamento della cultura, ma proprio per questo diciamo che è al centro in quanto crocifisso e risorto. Se dicessimo infatti che è solo Gesù di Nazareth, il problema sarebbe complicato perché bisognerebbe mettere al centro anche la sua cultura. Se invece è Gesù morto e risorto, risorto vuol dire la capacità di Gesù di essere il simbolo di tutta l’umanità al centro della storia come essere debole, fragile, secondo il progetto di Dio.
animati dallo Spirito del risorto Paolo dice inoltre che noi siamo « ktisis kainé » – nuova creatura – se siamo in Cristo, cioè se siamo animati dallo Spirito del risorto, se siamo investiti dalle forze nuove di questo Spirito vivificante. Spirito vivificante non vuol dire qualcosa che è immateriale nei confronti di ciò che è materiale, ma qualcosa che è vita nei confronti di ciò che è morte. l’antitesi è tra vita e morte, non tra immaterialità e materialità. Lo Spirito del risorto, con il suo dinamismo, viene donato a tutti e da questo punto di vista Gesù è simbolo per tutta l’umanità. Lo Spirito non è monopolio di alcuni gruppi o di alcune culture. Su questo ha visto molto bene Giovanni quando dice: « lo Spirito soffia dove vuole », come il vento, giocando sul doppio significato di « pneuma » e « ruah » in ebraico. Lo Spirito non ha confini. Cristo è universalizzabile, è simbolo di tutta l’umanità in quanto dona il suo Spirito a tutti gli uomini. Tutti gli uomini ricevono lo Spirito se sono in Cristo. Il dinamismo delle scelte allora diventa dinamismo dell’agape, dell’amore oblativo, comunicativo, costruttivo. Da questo punto di vista (Galati 5,16-25, Romani 8,1-17) la nuova creatura nasce là dove c’è l’uomo « pneumatikos », animato dallo « pneuma », spirituale, non nel senso di uomo dedito alla vita del pensiero, immateriale, ma dedito ad una vita umana condotta secondo il dinamismo dello Spirito che è alternativo al dinamismo della « sarx », all’egocentrismo che induce a costruirsi un mondo chiuso in se stesso, un microcosmo senza porte e senza finestre, autosufficiente. La creazione nuova, dice Paolo, è già presente dove l’uomo si lascia animare dal dinamismo dello Spirito che è donato a tutti. L’uomo può rifiutare lo Spirito, contrastandolo, facendosi guidare dall’altro dinamismo che è dentro di noi, il dinamismo della « sarx ». La nuova creazione a livello personale vuol dire l’uomo che vive eticamente non guidato da leggi esterne, da norme, da comandamenti – questa è la grande rivoluzione di Paolo – ma guidato dallo Spirito che è dentro di noi, dal dinamismo dell’agape. Docilità al dinamismo dello Spirito: questa è la spiritualità. In Matteo la spiritualità non ha questo senso, è semplicemente una vita condotta nell’obbedienza alla legge di Dio che è manifestata attraverso Cristo. Paolo ha sostituito ad una guida esterna dell’uomo – le leggi, le norme, le autorità, le parole – il dinamismo interno donato dallo Spirito di Cristo. « Vi dico però, – scrive Paolo Galati 5,l6 – camminate (agite) nello Spirito e in questo modo voi non porterete a compimento le cupidigia della carne ». La « sarx » per Paolo è l’uomo che vive nella cupidigia (epitsumìa) delle cose, del possedere per sé, nello strappare agli altri, nelle gelosie, nelle invidie. Già nella tradizione biblica e giudaica del tempo c’era l’equiparazione tra peccato e cupidigia. « La « sarx » nelle sue cupidigie si oppone allo Spirito e lo Spirito ha impulsi contrari alla carne. Queste cose sono antitetiche le une alle altre, affinché voi non facciate quello che desiderate fare nella cupidigia. Se voi vi lasciate condurre dallo Spirito non siete sotto la legge ». La nuova creatura, resa possibile dal dono del risorto e che si realizza alla condizione di lasciarsi guidare dallo Spirito, manifesta la presenza dell’escatologia. Non c’è da una lato la vecchia creazione vigente e dall’altro la nuova creazione che verrà, ma già esiste la « kainé ktisis ». E’ la nuova e originale concezione che Cristo e poi Paolo hanno portato: la fine è dentro la storia, il traguardo è già dentro il cammino, l’oggi è pieno delle forze vivificanti del mondo ultimo, futuro. Sullo sfondo c’è la concezione del mondo creato che si è alienato negando la propria creaturalità, seguendo i percorsi della « sarx ». Il mondo creato alienato è ora in via di riscatto. La nuova « ktisis », creazione, è condizionata: si rende presente se e nella misura in cui siete in Cristo, in cui vi lasciate guidare dallo Spirito, in cui contrastate il dinamismo della carne. Il riscatto è soltanto incominciato, la sua realizzazione piena è oggetto di speranza; ma ciò che noi attendiamo per il futuro già lo possiamo anticipare e vivere nell’oggi se siamo in Cristo. La svolta è già avvenuta nel dono dello Spirito che dà il principio del nuovo mondo. Importante è che questo principio attivo e creativo abbia spazio, non sia contrastato, negato, soffocato. Il futuro, la nuova creazione, è una possibilità aperta che possiamo realizzare attraverso la solidarietà con Cristo risorto, sia pure incoativamente e precariamente perché permane il peso di quell’altro dinamismo. L’AT era approdato, attraverso il filone profetico che inventa l’escatologia – il salto di qualità nella storia – alla soluzione apocalittica: Dio ha fatto due mondi perché questo mondo si è corrotto a tal punto da essere irrecuperabile e quindi destinato alla distruzione. Alla fine sarà sostituito, verrà gettato come una zavorra e scenderà dal cielo un nuovo mondo bello e fatto. In queste nuova scialuppa che verrà data all’umanità entreranno quelli che sono fedeli alla legge mentre gli altri saranno estromessi una volta per sempre. Gesù e Paolo non hanno accolto questa visione apocalittica, perché non ammettono il principio dei due mondi creati. Questo mondo è l’oggetto di tutte le loro speranze però non rimandate al futuro: la svolta ha inizio nella risurrezione di Cristo in cui è dato il principio del nuovo mondo. Questa situazione dialettica di storia ed escatologia, di presente e futuro ultimo, di fine e cammino, è la soluzione cristiana. Il rapporto tra creazione ed escatologia si colloca dentro questa concezione: non sono due realtà separate, ma l’escatologia è dentro la creazione. E’ l’escatologia di questo mondo, di questa storia, e non di un altro mondo, di un’altra storia. Questa è la risposta fornita da Paolo alle domande iniziali su chi siamo? donde veniamo? dove andiamo? 1 Tessalonicesi 4,13-18: una vita nella speranza In 1Tessalonicesi 4,13-18 Paolo dice che la vita cristiana è una vita nella speranza e in essa non deve aver spazio la tristezza di fronte alla morte, l’ombra sinistra della morte che aleggia sulla vita come ultima parola sull’esistenza. Il fondamento della speranza è la risurrezione di Cristo, una speranza che poggia sulla fede. Paolo fa una distinzione tra quei credenti che sono vivi alla venuta di Cristo (riteneva prossima la fine del mondo) che non passeranno attraverso la morte, ma entreranno nel mondo nuovo per rapimento sull’immagine di Elia o del patriarca Enoch che sono stati rapiti da Dio, e i credenti che sono già morti, che saranno risuscitati. Però sia i rapiti che i risuscitati andranno incontro a Cristo, per essere sempre con lui. Il traguardo della speranza, il traguardo finale dell’esistenza cristiana, già iniziato, consiste nella comunione indefettibile con il Signore Gesù oltre la morte o la fine dell’uomo.
1 Corinzi 7,29-31: il tempo si è contratto C’è un altro testo caratteristico in 1 Corinzi 7,29-31 in cui Paolo fa una raccomandazione: « Questo vi dico fratelli: il tempo si è fatto conciso, dunque quelli che hanno mogli siano come se non le avessero, e quelli che piangono come se non piangessero, e quelli che godono come se non godessero, e quelli che acquistano come se non possedessero, e quelli che usufruiscono del mondo come se non ne usassero appieno; perché sta passando la figura di questo mondo ». E’ da rimarcare questa concezione del tempo: « il tempo si è fatto conciso ». Nel mondo greco il tempo era considerato come un fiume che fluisce lentamente e indefinitamente, che va e ritorna. Per Paolo invece il tempo si è rattrappito, si è fatto una breve linea segnata dal passare di questo mondo sulla scena. Paolo pensa ancora alla fine imminente del mondo, la cui caducità viene vissuta in modo altamente drammatico e anche illusorio. In questa precarietà il nostro esistere, le nostre esperienze fondamentali non devono essere assolutizzate: bisogna viverle « os me », « come se ». Non sono cose indifferenti, ma sono esperienze da relativizzare. Gli stoici proclamavano l’epateia, l’essere emotivamente indifferenti di fronte alla realtà. Paolo dice che le esperienze umane non sono il tutto, non sono un assoluto. Questo mondo non è qualcosa di permanente ed eterno e pertanto le esperienze umane di questo mondo risentono della transitorietà. Sullo sfondo di questa visione c’è una certa escatologia e una conseguente etica.

1 Corinzi 15: Cristo primizia e risuscitatore E’ la trattazione più completa e più profonda della escatologia in Paolo. Paolo parte dalla risurrezione di Cristo per fondare la speranza nella risurrezione nostra. Dice: se Cristo è risuscitato vuol dire che anche noi risusciteremo. In 1 Tessalonicesi si limitava a dire che se Cristo è risuscitato anche noi risusciteremo, senza approfondire le motivazioni. Nella prima lettera ai Corinzi invece Paolo riesce a trovare la spiegazione profonda. Cristo non è risuscitato come caso unico, ma come « aparché », come primizia. E’ un termine che ha una tradizione alle spalle: « aparché » erano i primi covoni raccolti che dovevano essere offerti al tempio come riconoscimento del dono di Dio. Inoltre Paolo aggiunge un’altra formula: Cristo è risuscitato come nuovo Adam, come prototipo di una nuova umanità di risorti. Come il primo Adamo era il prototipo della prima umanità, Cristo è il prototipo, principio attivo della nuova umanità. E’ risuscitato come risuscitatore di altri. Paolo dice alla fine del cap. 8 « è il figlio in mezzo a tanti fratelli ». Questo è il disegno di Dio: Cristo centro della storia con tanti fratelli intorno, che siamo noi. La seconda cosa da notare in questo testo è la risurrezione dei corpi su cui Paolo insiste molto. A Corinto dicevano che noi siamo già risuscitati nella nostra anima, erano degli spiritualisti; Paolo invece dice che la risurrezione riguarda i corpi. Per corpo Paolo intende non la parte materiale, ma la struttura basica dell’uomo, per cui se c’è il corpo c’è l’uomo e se non c’è il corpo non c’è l’uomo. Questa struttura basica è una struttura relazionale, è la relazionalità verso Dio, verso gli altri e verso il mondo; se togliamo una di queste relazionalità non c’è l’uomo. La risurrezione coglie l’uomo in questa sua triplice relazionalità. Questa relazionalità ontologica, dice Paolo, noi la possiamo vivere esistenzialmente in termini negativi o in termini positivi. Posso viverla in termini negativi negando la mia creaturalità, considerando gli altri i miei schiavetti o assumendo un atteggiamento idolatrico o rapace nei confronti del mondo. In questo modo, vivendo in modo egocentrico la triplice relazionalità, per Paolo divento carnale (negando che Dio sia il nostro Dio, che gli altri siano i nostri fratelli, negando che il mondo sia l’habitat dell’uomo). Per Paolo la risurrezione dei corpi è la trasformazione piena di questa triplice relazionalità vissuta in modo positivo, secondo il dinamismo dello Spirito per cui l’uomo accoglie Dio come il Padre suo, gli altri come suoi fratelli ed il mondo come l’habitat suo e di tutta la famiglia umana. Questa triplice relazionalità vissuta positivamente fa sì che il corpo sia pneumatico, spirituale, animato totalmente dallo Spirito, secondo il dinamismo dell’agape. Questa spiritualizzazione già è cominciata, dice Paolo: se voi vi fate condurre dallo Spirito non vivete più secondo la carne, siete i figli di Dio, vivete in Cristo. La speranza non riguarda qualcosa di totalmente nuovo, non si riferisce ad una realtà assolutamente assente dalla storia, ma tende alla pienezza di una realtà già iniziata nella storia. La pneumatizzazione della triplice realtà, che é al presente ancora precaria perché il dinamismo della carne continua ad agire e c’è un ritorno del passato dentro di noi, sarà piena con la risurrezione. La spiritualizzazione del soma umano è data dallo Spirito vivificante di Cristo, a immagine di Cristo, l’uomo pienamente trasformato dallo Spirito. Cristo è il primo risuscitato, che ci risuscita a sua immagine. Filippesi 3, 20-21: a immagine del suo corpo glorioso Dice: « La nostra cittadinanza (politeuma) è nei cieli da cui aspettiamo che venga il Salvatore nostro Gesù Cristo », ‘cieli’ è il simbolo del mondo trasfigurato pienamente dallo Spirito « il quale trasfigurerà il nostro misero corpo a immagine del suo corpo glorioso ». La nostra triplice relazionalità che già é stata investita dalle forze dello Spirito sarà totalmente investita dallo Spirito di Cristo il quale ci trasfigurerà, opererà la metamorfosi piena in modo che il nostro corpo sia glorioso, investito dello splendore divino dei risorti ad immagine sua. Romani 8,12-25: anche la natura partecipa della risurrezione Il testo più nuovo da questo punto di vista è Romani 8,18-25. Già parlando della risurrezione dei corpi Paolo introduce anche la natura, il mondo, dentro il processo di trasformazione perché una delle tre relazioni è verso il mondo. Però in questo testo  »ktisis » (creazione) è solo il mondo creato naturale, a differenza del mondo umano. Dice: quello che è avvenuto avviene e avverrà di noi, passato presente e futuro, è avvenuto avviene e avverrà per la natura. Paolo mette in parallelismo la nostra vicenda di soggetti storici con la natura. E’ interessante la solidarietà tra il mondo umano ed il mondo inanimato ed animale. Al presente, dice Paolo, noi gemiamo e viviamo una esperienza dolorosa e drammatica, viviamo la durezza del cammino umano nella storia; anche il mondo inanimato geme nella sofferenza. Noi gemiamo ed il mondo geme. Nel futuro noi aspettiamo il riscatto dei figli di Dio, la risurrezione, la pneumatizzazione piena o anche la glorificazione (nei testi biblici, gloria – « doxa » in greco e « kabòd » in ebraico – non è mai l’onore, come per noi, ma esprime lo splendore della presenza di Dio). Similmente la natura dovrà essere glorificata e liberata per partecipare della libertà dei figli di Dio. Nel passato condividiamo il peccato, la corruzione nostra e del mondo. La creazione segue il destino dell’uomo. La storia della salvezza coglie direttamente l’uomo e coglie la natura per partecipazione all’uomo. dalla fede sgorga la speranza nella trasformazione dell’umanità e del mondo Primo punto importante di questi testi è la connessione tra speranza e fede, la speranza nasce dalla fede nella risurrezione di Cristo e noi risorgeremo per influsso suo e ad immagine sua. Secondo: la speranza riguarda la sorte di questa umanità e di questo mondo, non ci sarà sostituzione ma trasfigurazione, assumerà una nuova forma restando se stessa. I cieli nuovi e la terra nuova di cui parla Isaia sono questi cieli, questa terra, ma in una nuova forma; il futuro riguarda i nostri corpi attuali, non corpi nuovi creati ad hoc. Questo è importante perché la speranza non ci fa uscire da questo mondo, ma si tratta di essere attivi nella trasformazione di questo mondo. Terzo: il futuro finale già è iniziato; la comunione indefettibile è già nella comunione non ancora salda con Cristo. Il riscatto futuro già è iniziato. Il mondo sta partorendo nei dolori, nei contrasti, nelle contraddizioni della storia, nella crocifissione dell’esistenza. I dolori ci sono, ma sono i dolori di una nuova vita. La nuova nascita è già iniziata perché sono iniziate le doglie. La storia e l’escatologia sono mescolate, le forze del nuovo mondo sono già presenti, ma sono ancora in lotta con le forze del vecchio mondo, con la « sarx ». La nuova nascita avviene nella minaccia di impedire l’uscita del nuovo: non si tratta di un pacifico possesso. Questo nostro presente ha già in parte la configurazione del futuro; nel deserto sono già germinate le nuove pianticelle, in attesa della piena fioritura.

un mondo da non adorare Questo è importante anche per i rapporti tra storia ed escatologia, e non solo tra creazione ed escatologia. Paolo, anche se non aveva i nostri problemi, è interessato alla natura. Nel mondo di allora era molto presente una tendenza alla divinizzazione della natura e delle sue forze. Le religioni immanentistiche divinizzano la natura, le sue forze vitalistiche, oppure le forze astrali. L’imperatore Amenofi IV in Egitto aveva sostituito la religione ufficiale del dio Amon con quella del dio Aton, il disco solare. Invece la concezione creazionistica della Bibbia e di Paolo è contro la divinizzazione della natura che non è la grande madre da adorare. Chi ha una concezione divinizzata della natura, ritiene che la natura non possa essere violata. Sarebbe empio trasformare la natura, intervenire nei suoi sacri meccanismi. Chi divinizza la natura ha un atteggiamento idolatrico nei suoi confronti ed adora le cose, divenendone schiavo. Invece, chi ha una concezione creazionistica si serve delle cose. Paolo dice: « tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio ». un mondo di cui godere con gratitudine La concezione creazionistica è anche contro il disprezzo spiritualistico-dualistico della natura e delle cose. Lo spiritualismo era presente oltre che nella filosofia greca, in tutto lo gnosticismo. Nello gnosticismo l’uomo era visto come una scintilla divina, che per un caso drammatico è caduta dagli altissimi cieli in questo mondo. L’uomo è quindi una scintilla divina rivestita della corazza materiale, che nell’assumere la mondanità non ricorda più la sua origine divina e si ritiene una cosa del mondo. Non ha più coscienza di sé, è totalmente alienata, si ritiene parte di questo mondo opaco. Ma ecco che viene, dagli spazi celesti, il logos, anch’esso scintilla divina, che assume il corpo come un vestito puramente esterno, per non dar troppo nell’occhio. Viene a ricordare alle scintille smemorate ed alienate la loro origine divina. Esse riacquistano la coscienza di sé e si liberano dalle corazze materiali con la « gnosi ». Questa coscienza di sé provoca un grande desiderio della morte come liberazione non solo interiore ma anche esteriore, al fine di potersi ricongiungere al grande fuoco divino. In questa concezione il mondo è visto come un carcere, che rende abietto e alienato l’uomo. La concezione creazionistica invece è contro ogni visione dualistica e quindi la natura è « ktisis », è creatura, è dono, è grazia da accogliere, da godere, da usare con gratitudine dice Paolo nella 1Corinzi 10,25-26 o in Romani 14,6. Questo uso deve essere fatto senza assolutizzazioni, con un distacco interiore, come se non ne usassimo. Da questo punto di vista si può inserire il discorso dell’uso corretto della natura, delle forze, delle energie, senza abusarne. un mondo da condividere Una terza considerazione: questo uso della natura, secondo la visione biblica e paolina, non solo deve avvenire ll’insegna della parsimonia, ma soprattutto secondo la logica della condivisione. La preoccupazione dominante della visione biblica è la giustizia. A questo proposito Paolo si esprime in 1 Corinzi 11. Nella comunità si riunivano per la cena del Signore, al termine della quale si celebrava l’eucarestia. L’eucarestia era il punto terminale di un pranzo comune che era segno della commensalità, della solidarietà fra i credenti. Ci si riuniva intorno ad una tavola imbandita da chi aveva cibi e bevande. A Corinto la maggioranza erano schiavi, nullatenenti, oltre a scaricatori di porto, e a artigiani. Succedeva che i più ricchi, giunti con le loro provviste, mangiavano tra loro, bevevano e si ubriacavano, mentre i poveracci, impegnati nel lavoro, giungevano alla fine. Tutti insieme quindi celebravano l’eucarestia. Paolo dice che alcuni erano rimpinzati ed ubriachi e gli altri non avevano niente, ma questo afferma « non è celebrare il pranzo del Signore perché non fate il pranzo comune, anzi la vostra celebrazione è una condanna per voi ». Paolo dice che l’eucarestia è espressione della commensalità, dell’essere insieme alla stessa tavola sia con quelli che la imbandiscono perché hanno da portare cibi e bevande, sia con quelli che non hanno niente da portare se non lo stomaco da riempire. Questo è l’aspetto maggiormente sottolineato in tutta la Bibbia, tutta pervasa dalla sete di giustizia e quindi dalla logica della condivisione. Il movimento ecologista dovrebbe essere molto attento oltre che ad un uso corretto, non rapace dei beni, ad un uso condiviso, perché ancor prima dell’uso rapace c’è il problema dell’uso ingiusto e discriminante. Oltre l’uso opulento dei saccheggiatori c’è la rapacità solo per sé sulla pelle degli altri. Paolo sottolinea il tema della commensalità, della
partecipazione, come aveva fatto Gesù con i suoi discepoli alla vigilia della morte nel segno della commensalità umana. una natura coinvolta nella storia della salvezza Un quarto filone di riflessione riguarda la natura in quanto coinvolta nella storia dell’uomo nel bene e nel male, perché la natura è una dimensione essenziale dell’uomo. L’essere dell’uomo al mondo caratterizza la storia della salvezza. Il mondo senza l’uomo non è immaginabile come non è immaginabile nella concezione creazionistica l’uomo senza il mondo. La natura non è soggetto della storia della salvezza, dato che l’unico soggetto è l’uomo, ma se l’uomo ha una dimensione mondana, la natura viene coinvolta in questa storia, sia nel bene che nel male. E’ coinvolta nel male quando la relazione uomo natura si concretizza in un atteggiamento di idolatria o di disprezzo o di rapina o di possesso esclusivo del mondo. E’ coinvolta nel bene quando la relazione uomo natura avviene nella logia del rispetto e della condivisione.

SENZA ANIMALI NON C’È PARADISO – DI PAOLO DE BENEDETTI

http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa201203/120307debenedetti.pdf

SENZA ANIMALI NON C’È PARADISO

DI PAOLO DE BENEDETTI

in “Qol” n. 150 dell’ottobre, novembre, dicembre 2011

Una delle immagini dell’attesa messianica che più mi turbano è — non ci si scandalizzi — quella di una mosca che si agita contro un vetro. È veramente il simbolo di una salvezza che non arriva. E vorrei dire, proprio partendo da questa minuscola e frequente esperienza, che l’attesa è forse lo stato d’animo che unisce tutti gli esseri viventi: non solo l’uomo, non solo gli animali, ma anche le piante, con i loro germogli protesi verso la luce. È un’attesa, diciamo pure una speranza, che trova la sua realizzazione talvolta nella vita, talvolta nella morte, che fa dell’uomo il messia impotente a cui guardano gli animali, quel messia che, nell’Odissea, appare negli occhi del cane di Ulisse, Argo: « [...] Argo, il cane del costante Odisseo, che un giorno lo nutrì di sua mano (ma non doveva goderne) [...]ma ora giaceva là, trascurato, partito il padrone,/ sul molto letame di muli e buoi, che davanti alle porte ammucchiavano, perché poi lo portassero / i servi a concimare il grande terreno d’Odisseo; là giaceva il cane Argo, pieno di zecche. E allora, come sentì vicino Odisseo, / mosse la coda, abbassò le due orecchie, ma non poté correre incontro al padrone. E il padrone, voltandosi, si terse una lagrima [...] E Argo la moira di nera morte afferrò / appena rivisto Odisseo, dopo vent’anni » (Canto XVII, versione di Rosa Calzecchi Onesti).

Forse, il rapporto uomo-animale raggiunge la sua forma più sublime proprio nella morte: « Agnello di Dio » è l’immagine che meglio rappresenta l’unione tra il divino e l’animale attraverso la morte. Ma sono innumerevoli, nella Bibbia, i riferimenti, i precetti, i simboli legati al mondo animale, a partire dal racconto della creazione, in cui Dio, dopo aver creato « tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati, secondo la loro specie, [...] vide che era cosa buona. Dio li benedisse: `Siate fecondi e moltiplicatevi [...] » (Gen 1,21- 22). Si potrebbe dire che la benedizione divina degli animali perdurerà dalla creazione fino alla fine dei tempi, quando ritroveremo gli animali nella vita eterna. Perché – anche se la teologia ha gravemente trascurato questo aspetto – occorre riconoscere « con fede piena » la resurrezione di tutto ciò che ha avuto la vita, animali e piante. Se ciò non avvenisse, bisognerebbe riconoscere che la morte è più potente di Dio, che la morte vince in eterno la vita. Come scrisse Giovanni Calvino, « non vi è alcun elemento né alcuna particella del mondo che, quasi consapevole della sua presente miseria, non speri nella resurrezione ». Anche sotto questo aspetto, c’è una comunione di origine e destino tra l’uomo e gli animali, che deve essere vissuta nell’esistenza quotidiana. Ecco perché sono fondamentali tutti i precetti che nella Bibbia riguardano il nostro rapporto con gli animali, e che non sono soltanto affermazioni teologiche, ma regole per la vita di ogni giorno. Alcuni esempi: « Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui ad aiutarlo » (Es 23,45; cf. Dt 22,13). »Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero che sta entro le tue porte… » (Dt 5,1314; Cf. Es 20,10). »Quando nascerà un vitello o un agnello o un capretto, starà sette giorni sotto la madre; dall’ottavo giorno in poi, sarà gradito come vittima da consumare con il fuoco per il Signore » (Lv 22,26-27; Cf. Es 22,28-29). « Non scannerete vacca o pecora lo stesso giorno con il suo piccolo » (Lv 22, 28). »Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre » (Es 23,19; cf. Es 34, 26; Dt 14,21). « Non devi arare con un bue e con un asino aggiogati insieme » (Dt 22,10). »Non metterai la museruola al bue, mentre sta trebbiando » (Dt 25,4). Queste e molte altre norme contenute nella Torà mostrano un rispetto per gli animali che tuttavia non ne esclude l’uso alimentare. Però la Torà e tutta la tradizione ebraica successiva vietano nel modo più assoluto l’uso del sangue degli animali: « Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe. Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue » (Gen 9,3-4). Poiché il sangue, come qui è detto, contiene la vita, cioè l’anima, è riservato a Dio: ciò significa che, pur consentendo dopo il diluvio di cibarsi di carne (e questo è un segno del pessimismo divino verso l’uomo), Dio si riprende l’anima degli animali macellati. Anche per essi c’è dunque un’altra vita. Ma occorre anche aggiungere che la macellazione deve compiersi senza la sofferenza dell’animale: in caso contrario è vietato nutrirsene. E l’uomo non deve comunque consumare il proprio pasto senza prima aver dato da mangiare all’animale (Berakhot 40a). E proprio il nutrire gli animali, secondo un midrash (al salmo 37), è stato, per Noè e la sua famiglia nell’arca, il merito che ne ha determinato la salvezza. Secondo una leggenda, Noè è uscito salvo dall’arca per la carità praticata verso gli animali da lui ospitati: « Non dormivamo, ma davamo a ciascuno il suo cibo durante tutta la notte ». Ma che tutta la Torà ci spinga a considerare gli animali (e le piante, aggiungo io) come nostro prossimo, emerge anche da un passo talmudico, in cui gli animali sono non solo nostro prossimo, ma nostri maestri: « Se non ci fosse stata data come guida la Torà, avremmo potuto imparare la modestia dal gatto, l’onestà dalla formica, la castità dalla colomba, le buone maniere dal gallo » (Eruvin 100b). Del resto, in Romani 8,19 ss., San Paolo afferma cne tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto »: e proprio per questo il Paradiso è una meta per tutto ciò che respira, per la mosca contro il vetro come per il mistico, per il fiore come per la colomba (a sua volta immagine divina). Mi sia consentito concludere citando una breve poesia che ho scritto per la morte di un cane malato:

« Bobi, che su nel cielo / muovi la coda a Dio, / essere amato e amare / è stata la tua sorte / in vita come in morte / Ora, ti prego, insegnaci / a varcar quella porta / mentre si fa più corta / la nostra attesa; e un filo / di luce dal tuo pelo / ci guidi a ritrovarti / nel prato di asfodelo« .

Publié dans:ANIMALI, DOCENTI - |on 13 janvier, 2014 |Pas de commentaires »

“L’ARCOBALENO È UN PROMEMORIA” DI PAOLO DE BENEDETTI

http://www.betmidrash.it/debenedetti_7.html

“L’ARCOBALENO È UN PROMEMORIA” DI PAOLO DE BENEDETTI

“Quando radunerò
le nubi sulla terra
E apparirà l’arco sulle nubi
Ricorderò la mia alleanza
Che è tra me e voi
E tra ogni essere che vive in ogni carne
E non ci saranno più le acque
Per il diluvio, per distruggere ogni carne.
L’arco sarà sulle nubi
Ed io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna
Tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne
Che è sulla terra” (Genesi 9, 14-16)

Forse Dio ha bisogno dell’arcobaleno come un promemoria? Le sue parole in realtà ci fanno pensare che qualche volta Dio debba essere aiutato a ricordare. E sono numerose le preghiere che iniziano proprio con l’imperativo “ricorda”. Un imperativo che in realtà esprime soprattutto la nostra fede nella memoria di Dio. Infatti, se anche Dio ci confida qui il suo bisogno di non dimenticare, in primo luogo la memoria di Dio è il ponte infrangibile che unisce Lui a noi e noi a Lui. Quindi l’arcobaleno è anche per noi un invito, direi un “sacramento”, che attraverso un evento naturale ci unisce a Dio. E ci insegna a costruire quotidianamente piccoli arcobaleni per il nostro rapporto con il prossimo e con tutto il creato.

Publié dans:DOCENTI -, EBRAISMO - STUDI |on 12 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

ISAIA 6: VISIONE E MISSIONE

 http://www.cjconroy.net/pr-it/pr2-t06a.htm

 (Profezia e apocalittica: secondo semestre 2006-07)

CHARLES CONROY

ISAIA 6: VISIONE E MISSIONE

La presentazione di questo testo molto conosciuto ci occuperà eccezionalmente per due lezioni (che non basteranno certamente a vedere tutte le questioni che si potrebbero porre), e la sintesi che segue vale per ambedue le lezioni. La maggior parte del tempo sarà dedicata ad una lettura letteraria e teologica della forma finale del testo. Alla fine vedremo brevemente alcune questioni che si pongono nella fase di studio diacronico. I punti principali sono:
Lettura della forma finale del testo
Studio diacronico

La bibliografia della lezione si trova qui.

1.   FORMA FINALE DEL TESTO
Dividiamo la presentazione in quattro punti: (1.1) delimitazione e strutturazione del brano; (1.2) determinazione del suo contesto letterario immediato; (1.3) una lettura commentata; (1.4) il problema del genere letterario.

(IL TESTO NELLA TRADUZIONE CEI, prima edizione)
[6,1a] Nell’anno in cui morì il re Ozia,
[6,1b] io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato;
[6,1c] i lembi del suo manto riempivano il tempio.
[6,2a] Attorno a lui stavano dei serafini, ognuno aveva sei ali;
[6,2b] con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava.
[6,3a] Proclamavano l’uno all’altro:
[6,3b] «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti.
[6,3c] Tutta la terra è piena della sua gloria».
[6,4a] Vibravano gli stipiti delle porte alla voce di colui che gridava,
[6,4b] mentre il tempio si riempiva di fumo.
[6,5a] E dissi: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono
[6,5b] e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito;
[6,5c] eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti».
[6,6a] Allora uno dei serafini volò verso di me;
[6,6b] teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare.
[6,7a] Egli mi toccò la bocca e mi disse:
[6,7b] «Ecco, questo ha toccato le tue labbra,
[6,7c] perciò è scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato».  
[6,8a] Poi io udii la voce del Signore che diceva:
[6,8b] «Chi manderò e chi andrà per noi?».
[6,8c] E io risposi: «Eccomi, manda me!».
[6,9a] Egli disse: «Và e riferisci a questo popolo:
[6,9b] Ascoltate pure, ma senza comprendere,
[6,9c] osservate pure, ma senza conoscere.
[6,10a] Rendi insensibile il cuore di questo popolo,
[6,10b] fallo duro d’orecchio
[6,10c] e acceca i suoi occhi
[6,10d] e non veda con gli occhi
[6,10e] né oda con gli orecchi
[6,10f] né comprenda con il cuore
[6,10g] né si converta in modo da esser guarito».
[6,11a] Io dissi: «Fino a quando, Signore?».
[6,11b] Egli rispose: «Finché non siano devastate le città, senza abitanti,
[6,11c] le case senza uomini, e la campagna resti deserta e desolata».
[6,12a] Il Signore scaccerà la gente
[6,12b] e grande sarà l’abbandono nel paese.
[6,13a] Ne rimarrà una decima parte,
[6,13b] ma di nuovo sarà preda della distruzione
[6,13c] come una quercia e come un terebinto,
[6,13d] di cui alla caduta resta il ceppo.
[6,13e] Progenie santa sarà il suo ceppo.

1.1    DELIMITAZIONE E STRUTTURAZIONE
Come nel caso di Is 5,1-7, anche qui per il cap. 6 la delimitazione del brano non crea nessun problema (formule iniziali nel 6,1 e grande differenza di tema con gli ultimi versetti del cap. 5, da una parte, e il fatto evidente che 7,1 segnala l’inizio di un altro racconto, dall’altra). Perciò possiamo passare subito ad una considerazione della struttura del cap. 6.
Due verbi di percezione in prima persona (v. 1b « io vidi », e v. 8a « io udii ») sembrano suggerire la divisione primaria del capitolo in due parti: vv. 1-7 (visione del Signore tre volte santo) e 8-13 (parole udite sulla missione di Isaia).
Le due parti poi si possono suddividere secondo uno schema comune composto da tre elementi: descrizione / reazione di Isaia / risposta divina alla sua reazione.
In forma schematica dunque la proposta di strutturazione è come segue:
Lo scenario della visione e gli avvenimenti iniziali nella visione (vv. 1-7)
Descrizione della visione (vv. 1-4)
Reazione di Isaia (v. 5)
Risposta dal mondo divino, cioè le azioni e le parole di uno dei Serafini (vv. 6-7)
Le parole di YHWH sulla missione di Isaia e le risposte del profeta (vv. 8-13)
Descrizione della missione (vv. 8-10)
Reazione di Isaia (v. 11a)
Risposta di YHWH (vv. 11b-13)                                                  
Volendo spingere avanti l’analisi, si potrebbe notare la tendenza di articolare le piccole unità (per esempio, vv. 1-4 oppure 8-10) anche in tre parti.

VOLENDO SPINGERE AVANTI L’ANALISI, SI POTREBBE NOTARE LA TENDENZA DI ARTICOLARE LE PICCOLE UNITÀ (PER ESEMPIO, VV. 1-4 OPPURE 8-10) ANCHE IN TRE PARTI.
Una serie di osservazioni porta alla conclusione che l’unità maggiore alla quale appartiene Is 6 è 6,1–9,6, perchè questo blocco si trova circondato da testi che hanno stretti rapporti fra loro (5,1-7 + 5,8-30 da una parte, e 9,7–10,4 dall’altra parte) cosicchè 6,1–9,6 resti come isolato in mezzo a questi testi.
[N.B.  Si noterà che qui (e sempre altrove nel corso) si usa la numerazione dei versetti come nelle edizioni del testo ebraico. Qualche volta certe traduzioni moderne hanno una numerazione diversa (è il caso per i primi versetti del cap. 9 qui); normalmente le differenze vengono menzionate nelle note della traduzione in questione.]
Abbiamo già visto come il canto della vigna (5,1-7) funge come introduzione ad una serie di brani di critica sociale nel 5,8ss. Aggiungiamo adesso che questi oracoli iniziano con la parola tradotta « Guai »: 5,8-10; 5,11-17; 5,18-19; 5,20; 5,21; 5,22-24. Dopo l’ultima unità bisogna andare avanti fino a 10,1-4 per trovare la prossima unità di critica sociale che inizia con « Guai ». C’è un’altra unità con « Guai » in 10,5 ma il tema non è più quello di critica sociale bensì di critica politica.
Nell’ultima unità di critica sociale (10,1-4) notiamo la frase finale del brano: « Con tutto ciò non si calma la sua ira / e ancora la sua mano rimane stesa » (10,4). La stessa frase si trova prima a 5,25 e poi alla fine delle unità 9,7-11; 9,12-16; 9,17-20. Di nuovo un legame fra il cap. 5 e la sezione 9,7–10,4.
Nella sezione 6,1–9,6 al contrario non si trova nè un oracolo di « Guai » con tema di critica sociale nè il ritornello conclusivo (« ira » e « mano stesa »).
Sembra proprio che i compositori del libro abbiano voluto costruire una struttura di tipo A (cap. 5) — B (6,1–9,6) — A′ (9,7–10,4).
Conseguentemente se nell’interpretazione del cap. 6 cerchiamo luce dal contesto immediato, dobbiamo appellarci in primo luogo ai testi che seguono nel 7,1–9,6. L’utilità di questo risultato si vedrà più avanti, soprattutto per la lettura dei versetti difficili 6,9-10.

1.3    LETTURA COMMENTATA
1.3.1    La visione (vv. 1-8)
Non avendo il tempo per un commento dettagliato versetto-dopo-versetto, scegliamo una presentazione sintetica incentrato sui tre personaggi della visione: YHWH, i serafini, e Isaia.
1.3.1.1    YHWH re santissimo
Tutta la presentazione di YHWH qui comunica un forte senso di trascendenza che provoca un atteggiamento di umile adorazione da parte di Isaia nel testo e poi del lettore credente.
Il titolo « re » occorre esplicitamente nel v.5 nella bocca di Isaia, ma l’immagine è chiara dall’inizio (YHWH, immensamente grande, seduto in trono nel v. 1, circondato dai suoi servi i serafini nei vv. 2-3). L’uso del titolo « re » per una divinità si trova spesso nelle culture intorno a Israele (a Ugarit, per esempio, verso la fine del secondo millennio a.C. il dio supremo « El » viene spesso chiamato « re » or « re eterno »). Nei testi biblici l’uso del titolo è particolarmente frequente in testi che provengono dalle tradizioni di Gerusalemme (cf. Sal 93; 96; 97). Nel libro di Isaia il sostantivo « re » viene applicato a YHWH cinque volte (6,5; 33,22; 41,21; 43,15; 44,6) e YHWH è soggetto del verbo « regnare » due volte (24,23; 52,7).
La santità di YHWH viene sottolineata dalla triplice acclamazione dei serafini « Santo, santo, santo » (v. 3). Qui incontriamo una caratteristica della presentazione di Dio in tutto il libro di Isaia. Il titolo « il Santo di Israele » (che come tale non ricorre nel cap. 6) è tipico del libro, dove si trova 25 volte (mentre in tutto il resto dell’AT si trova solo 6 volte); di queste 25 ricorrenze 12 si trovano nei capp. 1-39, 11 nei capp. 40-55, e 2 nei capp. 56-66. Applicato a YHWH il concetto di santità ha due aspetti: (1) quello « ontologico », cioè, connotando l’altereità di YHWH di fronte a ogni altro essere, la sua trascendenza; (2) l’aspetto etico di santità morale, l’opposto di ogni imperfezione etica. Ambedue gli aspetti si trovano nel cap. 6: quello ontologico soprattutto nei vv. 3-4, quello etico nella reazione di Isaia nel v. 5.
1.3.1.2    I serafini
Is 6 è l’unico testo nell’AT dove i serafini sono presentati in stretta relazione con YHWH (non sono da confondere con i cherubini di Ezech 10 e altri testi). Vediamo che funzione hanno nel testo (il punto più importante) e poi che si possa dire sulla loro maniera di apparire.
Chiaramente la funzione principale dei serafini in Is 6 è quella di creare un’atmosfera di maiestà e soprattutto di santità intorno a YHWH (vv. 1-4) e anche di mostrare come Isaia è piccolo e impuro nella presenza di YHWH (vv. 5-7).
Per quanto riguarda la loro figura, il testo li presenta come esseri alati (sei ali a ciascuno) ma anche con tratti umani (acclamano a gran voce la santità di Dio; hanno mani cf. v. 6). La parola « serafino » viene da un verb ebraico che significa « bruciare », dunque « essere bruciante » in qualche modo. A parte Is 6, il sostantivo si trova in due altri testi di Isaia (14,29 e 30,6), dove sono presentati con delle ali (CEI « drago alato » e « draghi volanti »). Sono pertinenti anche i testi di Num 21 (vv. 6 e 8), dove si tratta dei serpenti che mordevano gli israeliti e del serpente di bronzo. Poi le ricerche archeologiche hanno trovato in diversi siti di Giuda negli strati del 8º sec. a.C. un numero considerevole di sigilli con l’immagine di un serpente alato. Ciò porta a pensare che nella religiosità popolare c’era una venerazione per queste figure, appunto i serafini, forse con funzioni di guarire le persone malate. Se ciò fosse, allora si potrebbe concludere che il testo di Is 6 si preoccupa di subordinare tali serafini venerati nella religiosità popolare a YHWH, presentandoli come suoi servitori e adoratori.
1.3.1.3    Isaia
La reazione di Isaia di fronte alla visione maiestosa di YHWH circondato dai serafini inizia nel v. 5 con un verbo ebraico che può essere tradotto in due modi: « sono perduto » (cioè, sono in pericolo di morte) oppure « devo stare zitto » (cioè, la mia impurità non mi consente di aprire bocca e associarmi al canto dei serafini). In ogni caso, due aspetti sono da sottolineare nella presentazione di Isaia nei vv. 5-7.
Primo, l’insistenza sulla sua impurità, non solo rituale ma anche morale, una impurità poi che lo associa con il suo popolo. Una solidarietà nella colpa. Il testo non si interessa di specificare la natura di questa colpevolezza di Isaia (la tradizione esegetica, già nell’antichità, ha offerto varie ipotesi, ma la questione non ha importanza). Centrale qui invece è l’iniziativa del santo Dio che manda uno dei serafini a purificare le labbra di Isaia con un carbone ardente (fuoco simbolo di santità!), una purificazione dolorosa s’intende (anche se il testo non lo dice esplicitamente). La colpevolezza non dev’essere un peso che paralizza e porta alla morte, ma può diventare l’occasione di manifestare la santa volontà di YHWH di comunicare la santità alle sue creature. La purificazione specificamente delle labbra è particolarmente adatta per un profeta che deve comunicare le parole del santo Dio.
Secondo, lo sgomento di Isaia per aver « visto Dio con i suoi occhi » (v. 5) potrebbe collegare il testo con altri testi biblici che asseriscono che nessuno può vedere Dio e rimanere in vita (per es. Es 33,20; Gdc 6,22-23). Però è stato notato che ci sono altri testi che parlano di « vedere Dio » in una visione senza conseguenze negative (1 Re 22,19; Am 7,7; 9,1). Forse bisogna riconoscere l’esistenza di diverse tradizioni nella Bibbia a proposito.
1.3.2    La missione (vv. 8-13)
Questi versetti fanno parte ancora della visione, si capisce, ma dal v. 8 in poi l’attenzione si sposta al dialogo fra YHWH e Isaia ormai purificato e reso capace di ascoltare le parole del Dio santo che gli affida una missione.
1.3.2.1    Scenario: corte celeste
Nel v. 8b si nota l’uso di una prima persona plurale nelle parole di YHWH: « chi manderò e chi andrà per noi? Questo plurale probabilmente implica uno scenario di corte celeste, in cui il sovrano Dio circondato dai suoi ministri li associa con sé nelle sue decisioni. Anche la presenza dei serafini nei vv. 1-7 appoggia questa tesi. (Altri invece sostengono che si tratta di un semplice « plurale di maiestà ».)
Il concetto di corte celeste era ben noto nelle religioni politeistiche della Mesopotamia e di Ugarit (per non parlare della religione greca e altrove), dove si trattava di un vero consesso di divinità sotto la presidenza del capo del panteon. Il concetto passò anche nella letteratura di Israele con addattamenti, dove lo troviamo in una trentina di testi biblici; a parte Is 6, si veda specialmente 1 Re 22,19-23; Ger 23,18.21-22; Am 3,7; Sal 82; 89,6-8; Gb 1-2. Nei testi biblici YHWH è il capo incontestato dell’assemblea; gli altri membri possono essere descritti come « figli dei dei » o « figli dell’Altissimo » (cf. Sal 82; 89; Gb 1–2), o « serafini » (Is 6), o « l’esercito del cielo » (1 Re 22,19). Svolgono varie funzioni subordinate: dare consiglio o aiutare nell’esecuzione delle decisioni di YHWH (Is 6; Gb 1–2); lodare e glorificare YHWH (Is 6; Sal 19,2; 29,1-2; 89,7-8); aiutare gli umani poveri e oppressi (Sal 82). In un certo numero di testi c’è l’idea che un profeta vero ha accesso alla corte celeste, dove sente le decisioni di YHWH e riceve la sua missione (Is 6; Ger 23,18.21-22; Am 3,7.20).
In questo scenario, dunque, Isaia si offre volontario per una missione che verrà subito precisata. Alcuni studiosi sottolineano il contrasto fra l’atteggiamento di Isaia qui e le esitazioni di Geremia di fronte alla sua missione (Ger 1,6), ma i due contesti sono ben diversi e il paragone probabilmente non è molto corretto (soprattutto se viene fatto in chiave psicologico!)
1.3.2.2    Compito del profeta: indurire il popolo (vv. 9-10)
Si annunzia che « questo popolo » (di Giuda: cf. v. 5) non comprenderà il messaggio del profeta (v. 9). Più duro ancora il v. 10 che con una serie di imperativi nell’ebraico dice che Isaia deve « rendere insensibile, indurire, e accecare » il popolo in modo che non si converta e venga guarito (e si noti l’enfasi creata dalla struttura ternaria concentrica all’interno del v. 10: A – B – C – C′ – B′ – A′). Un compito durissimo e di difficile comprensione. Già nell’antichità si vede che il testo ebraico ha creato disagio: la versione greca (la Settanta) infatti non ha forme imperative nel v. 10 ma verbi nell’indicativo aoristo che descrivono uno stato di cose già avvenuto, il che è molto meno difficile a capire (e perciò sospetto come lettura in sede di critica testuale).
Con la quasi totalità degli studiosi rimaniamo col testo ebraico, dove sembra che la missione di Isaia è proprio quella di indurire il popolo di Giuda. Come capire una tale missione che pare l’esatto contrario di ciò che si aspetta da un profeta?
Come prima cosa, dobbiamo uscire dalla mentalità moderna che volentieri trasferisce la problematica in chiave psicologica (come Isaia si sarebbe sentito di fronte a un tale commando? ecc.). Il testo biblico qui non si interessa granchè di tali analisi ma guarda soprattutto la realtà delle relazioni fra YHWH e « questo popolo ». Allora già nel cap. 5 abbiamo letto dell’intenzione del padrone della vigna di esporre la sua amata vigna alla devastazione e alla rovina a causa dell’ingiustizia che pervade Giuda e Gerusalemme. Adesso manda Isaia come profeta a proclamare una parola che il popolo, che si è già chiuso alle attenzioni di Dio, non capirà, cosicchè la parola di Dio produrrà l’effetto paradossale di rendere il popolo ancora più chiuso di fronte a Dio. Un indurimento che vedremo poi portato in atto nel contesto immediato seguente: nel cap. 7 leggeremo dell’indurimento del re Acaz di fronte all’invito di Dio comunicato da Isaia (7,10-17), e poi nel cap. 8 leggeremo dell’indurimento di « questo popolo » che « ha rigettato le acque di Siloe » (8,6) che stanno per indicare la protezione salvifica per Gerusalemme offerta da YHWH. Re e popolo dunque hanno rigettato YHWH e perciò la devastazione arriverà (cioè, l’invasione degli Assiri e dopo di loro dei Babilonesi). Ma la chiusura, l’indurimento non è totale. C’è già un piccolo gruppo di fedeli, simboleggiati da Isaia e i suoi discepoli (8,16-18), che aspettano fiduciosi anche se YHWH sembra aver nascosto la sua faccia da Gerusalemme. E poi nel futuro (9,1-6) dopo le tenebre ci sarà un re davidico che reggerà il popolo « con il diritto e la giustizia » (9,6) sul trono di Davide in un’era di pace e benessere. La vigna verrà ristabilita (cf. 27,2-5).
Letto dunque nel contesto immediato, come si trova nella forma finale del libro, l’indurimento del popolo da realizzare dal profeta dev’essere visto come una tappa, uno stadio, in un processo più grande di purificazione del popolo anche tramite le calamità storiche (cf. il testo programmatico di Is 1,21-28).
1.3.2.3    Dialogo conclusivo (vv. 11-13)
La domanda fatta da Isaia nel v. 11a (« Fino a quando, Signore? ») probabilmente non vuole solo chiedere un’informazione temporale sulla durata dell’indurimento del popolo. In vista degli altri casi di intercessione profetica (cf. per es. Am 7,2.5), e dell’uso nei Salmi della frase « fino a quando » con la connotazione di una supplica a Dio per la fine di uno stato di sofferenza (cf. Sal 74,10; 79,5; 90,13; 94,3), c’è da sentire qualcosa del genere anche nella reazione di Isaia qui. Il profeta mostra la sua solidarietà con il popolo (cf. 6,5).
Comunque la risposta del Signore (vv. 11b-13) non offre nessuna consolazione per l’immediato. La calamità dovrà arrivare: devastazione e desolazione nel paese e deportazione degli abitanti di Giuda (11b-12b). Poi nel v. 13 (dove il testo ebraico è assai difficile, soprattutto in 13c-d, con molte differenze di comprensione nelle traduzioni e nei commentari) si dice che anche la decima parte che rimane (= il regno del sud, Giuda, dopo la fine del regno del Nord?) soffrirà anch’essa una devastazione (= l’invasione dei Babilonesi?) e solo una minima parte resterà. Da questa « progenie santa » (cf. Esdra 9,2) verrà un ceppo di nuova vita. Una piccola luce come prospettiva dopo le grandi tenebra, che costituiscono il messaggio centrale del capitolo.
1.4    GENERE LETTERARIO: RACCONTO DI VOCAZIONE?
La domanda potrebbe sorprendere a prima vista, in quanto quasi tutte le traduzioni intitolano Is 6 « La vocazione di Isaia » o qualcosa di equivalente. Però ci sono indizi nel testo che rendano incerto, o almeno problematico, un tale titolo. Per questo discutiamo la questione nell’ambito della lettura di forma finale del libro. Dopo nella fase di studio diacronico ci sarà modo di ritornare alla questione.
1.4.1    Argomenti in favore della lettura di Is 6 come « racconto di prima chiamata »
La solennità del testo (scenario di corte celeste ecc.) servirebbe molto bene per sottolineare il momento decisivo della prima chiamata e della prima missione profetica.
Specificamente il riferimento alle labbra impure di Isaia e al rito di purificazione delle labbra sembra presupporre che Isaia non fungeva da profeta prima (un profeta con labbra impure?!).
1.4.2    Difficoltà per la lettura come « racconto di prima chiamata »
Prima di tutto la posizione del capitolo nel libro: perchè il racconto si trova al cap. 6, e non al cap. 1 (come sarebbe normale e come è il caso infatti per i racconti della prima chiamata di Geremia e di Ezechiele)?
Se la nota cronologica a 6,1 (« nell’anno in cui morì il re Ozia ») vuole situare la visione dopo la morte di questo re (come è certamente il senso della frase analoga a Is 14,28 – l’unico testo parallelo nel libro di Isaia), allora non si vede come può essere la prima chiamata in visto del fatto che il lettore sa già da Is 1,1 che Isaia era attivo come profeta durante il regno di Ozia.
Ci sono poi dei paralleli impressionanti fra Is 6 e il racconto della visione del profeta Michea in 1 Re 22,19ss. Quest’ultimo testo però non è un racconto di prima chiamata di Michea, che è già profeta, ma presenta una missione particolare data da YHWH nella corte celeste.
Sommando queste osservazioni, diversi studiosi hanno proposto che Is 6 così come sta nel contesto della forma finale del libro non è da leggere come racconto della prima chiamata di Isaia bensì come racconto di una missione molte particolare ed importante data a Isaia, già profeta, in vista della situazione particolare di Giuda (cf. i legami con i capp. 7-8).

1.4.3    CONCLUSIONE
Non è facile offrire una conclusione a questo dibattito, in quanto ambedue le parti sembrano avere delle buone ragioni per le rispettive tesi. Si può comunque notare che gli argomenti per la tesi della « prima chiamata » sono tirati dall’interno del testo di Is 6, mentre alcuni degli argomenti per la tesi della « missione particolare » vengono dal contesto intorno a Is 6.
Per adesso dunque si potrebbe forse dire che nell’orizzonte di una lettura della forma finale del libro sembra preferibile una lettura che privilegi l’orientamento dato dal contesto del libro e che dunque leggerà Is 6 come un racconto di una « missione particolare » solennemente data a Isaia già profeta (cf. i capp. 1-5!). Gli argomenti contro questa lettura però ci obbligano a ritornare alla questione nella fase di studio diacronico del testo.

2.   STUDIO DIACRONICO
Qui vedremo molto sinteticamente la questione della genesi del testo di Is 6 (2.1) e su questa base esamineremo la questione del rapporto fra il testo e l’esperienza del Isaia storico (2.2).

2.1    STORIA REDAZIONALE DI IS 6
C’è un accordo pressochè generale fra gli studiosi nel sostenere che ci sono degli indizi testuali che ci orientano a distinguere diacronicamente in Is 6 uno strato originale e delle aggiunte attualizzanti posteriori. Come spesso capita in tali questioni non c’è accordo fra tutti quanto ai dettagli di questa distinzione, ma sulla necessità della distinzione, sì.
Non è possibile nel tempo a disposizione presentare tutto il dibattito, perciò in seguito verrà presentata solo una tesi assai comune, anche se non viene accettata da tutti.
Secondo questa tesi ci sono buoni indizi per sostenere che i vv. 12 e 13 siano stati aggiunti al testo-base in epoche posteriori. Il testo-base, che riflette in qualche modo il tempo di Isaia del VIII sec., l’abbiamo nei vv. 1-11 (a parte forse v. 10g). Vediamo adesso le ragioni per questa tesi.
Per quanto riguarda il v. 12, si nota prima che ripete praticamente il contenuto del v. 11b-c, solo che insiste più esplicitamente su una deportazione dal paese. Poi si constata che non è chiaro se i vv. 12-13 debbano essere letti come la continuazione della risposta di YHWH nel v. 11 (e in questo caso YHWH parlerebbe di sé stesso in terza persona in v. 12a: cosa un po’ sorprendente anche se non impossibile) o se i vv. 12-13 debbano essere letti come dei commenti alle parole di YHWH nel v. 11 fatti dal narratore del testo, cioè Isaia (e in questo caso ci si chiede perchè l’autore non abbia espresso questo cambiamento di voce più chiaramente). Tutto diventa più comprensibile se si propone che il v. 12 sia stato scritto da un altro autore che non si curava molto di questioni di estetica letteraria ma che aveva la preoccupazione dominante di attualizzare il testo per la situazione di una deportazione dal paese, attribuendo la causalità ultima di questa deportazione ad una decisione di YHWH stesso. In altre parole, il v. 12 offre una giustificazione teologica della deportazione. Quale deportazione? Potrebbe essere quella avvenuta alla caduta del regno del Nord nel 722/721, ma più probabilmente (visto l’orizzonte di Gerusalemme e di Giuda nel testo) si tratta della prima deportazione da Giuda effettuata dai Babilonesi nel 597.
Quest’ultima ipotesi diventa ancora più probabile quando notiamo che le parole del v. 13a-b (una decima parte rimane ma sarà anch’essa preda di distruzione) si applicano benissimo alla seconda deportazione da Giuda nel 587/586. Purtroppo il testo del v. 13d è troppo oscuro per permettere un’identificazione sicura del « ceppo » (la gente rimasta in Giuda dopo il 597 oppure quelli rimasti dopo il 587/586?). In ogni caso, non è chiaro se il senso di questo riferimento a un ceppo nel v. 13c-d sia positivo (salvifico) o negativo (il ceppo sarebbe la « decima parte » del v. 13a e sarà preda di nuova distruzione).
Solamente nel v. 13e abbiamo un riferimento certo ad una prospettiva positiva; il « ceppo » del v. 13d viene identificato con una « progenie santa », un sintagma che ricorre altrove in un solo testo, cioè Esdra 9,2 (testo postesilico). Si può capire perchè molti studiosi ritengono che la menzione salvifica del v. 13e è da attribuire a un commentatore postesilico, che voleva introdurre una nota positiva in un testo che è quasi del tutto di tonalità negativa e minacciosa.
Se dunque i vv. 12-13 siano delle aggiunte al racconto originale della visione di Isaia, bisogna concludere che lo strato originale del testo che adesso si trova in Is 6 non conteneva nessuna espressione di speranza; il messaggio era solamente di giudizio per il popolo indurito.
2.2    Contesto dello strato originale di Is 6, e conseguenze per il problema dell’indurimento
Abbiamo visto che nella forma finale del testo ci sono buone ragioni per sostenere che il blocco 6,1–9,6 abbia una sua identità specifica, diversa dai testi prima e dopo. Molti studiosi hanno concluso che questa conclusione sincronica deve valere anche a livello diacronico, e cioè che storicamente esisteva una piccola raccolta (una volta indipendente) di testi comprendenti una buona parte dei materiali che adesso leggiamo fra 6,1 e 9,6. A questa raccolta viene dato spesso il nome « Memoriale » (« Denkschrift ») di Isaia. Non tutti i sostenitori di questa tesi estendevano questa raccolta fino a 9,6; molti vedevano la fine originale della raccolta nel brano 8,16-18. Anche diversi altri versetti all’interno dei capp. 7 e 8 potrebbero essere delle aggiunte alla raccolta originale (come lo sono probabilmente 6,12-13).
L’interesse di questa tesi sta anche nel fatto che secondo essa il racconto della visione di Isaia nel cap. 6 stava all’inizio della piccola raccolta. Cade, cioè, una della ragioni principali per negare che il testo possa essere letto come racconto di prima chiamata. In altre parole, nell’ipotesi della piccola raccolta originalmente indipendente (6,1–8,18*) si può benissimo leggere il testo del cap. 6* come racconto della vocazione di Isaia, presentato per autorizzare i suoi interventi nella crisi della guerra Siro-Efraimita (capp. 7–8).
Ciò detto, bisogna però andare molto cauti nel voler tirare delle conclusioni psicologiche riguardo all’esperienza personale di Isaia dal testo anche nel suo strato originale. Le lunghe discussioni esegetiche del passato su come il profeta abbia potuto esortare alla fedeltà (cf. 7,9) se sapeva dall’inizio che doveva invece indurire il popolo, sono probabilmente da scartare come problematiche estranee all’orizzonte del testo anche a livello del suo strato originale. La discussione fra gli studiosi però continua su questo punto.

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