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La Legge e il suo spirito (Paolo Apostolo)

http://www.messiev.altervista.org/spiritolegge.html

(sono tre parti – Lo studio è della Chiesa Evangelica, per la maggior parte è condivisibile, ma bisogna fare attenzione alla differenza di mentalità e teologica, vedere su Agostino per esempio)

La Legge e il suo spirito

Al tempo di Paolo il Tanak, cioè la Torah, i Profeti e gli Scritti dell’Antico Testamento, costituivano tutta la Scrittura disponibile.

Ci si pone la domanda: che cosa della Legge Paolo ha attaccato nelle sue epistole? Tutte le lettere di Paolo sono state indirizzate ad assemblee prevalentemente Gentili, che per quanto riguarda la salvezza non avevano nulla a che fare con i 613 comandamenti di Mosè, che invece erano lo stile di vita del popolo ebraico. È comprensibile che Paolo, l’apostolo delle genti, si arrabbiasse con quei pochi giudaizzanti che cercavano costantemente di ostacolare il suo lavoro, imponendo alle assemblee dei Gentili a tenere usanze ebraiche a garanzia della salvezza. Ma sia Gesù che Paolo non hanno mai smesso di pensare che gli ebrei dovevano continuare a mantenere lo stile di vita prescritto dalla Legge in quanto popolo dell’alleanza. Va notato che versi come Mar.7:15, in cui sembra che Gesù non sia d’accordo con le leggi alimentari ebraiche (quando sottolinea la differenza tra contaminazione fisica e spirituale) non dimostrano affatto che aveva abbandonato le leggi sul cibo date a tutti gli ebrei. Si dovrebbe anche notare che degli studiosi ebrei del Nuovo Testamento, come David Flusser nel suo libro Jesus conclude che « Gesù come Ebreo è stato fedele alla Legge ». Il problema a capire le lettere di Paolo si può paragonare a un gioco dove si conoscono solo le risposte ma non si hanno le domande. Siccome le sue lettere sono state scritte per raddrizzare i problemi dei suoi convertiti Gentili, che non avevano familiarità con le vie e leggi di Dio, il lettore superficiale riceve l’impressione che egli era contro la Legge. In realtà, Paolo indirizza i suoi commenti apparentemente negativi in merito alla Legge, verso due gruppi: (1) I non-ebrei che credevano necessario osservare la Legge (in particolare la circoncisione) per la salvezza, e (2) alcuni ebrei fondamentalisti che cercavano di mettere come prerequisito che i non-ebrei dovevano osservare la Legge (in particolare la circoncisione) se volevano essere salvati.
Quando certi cristiani si mettono subito sulla difensiva al sentir parlare della Legge di Dio, viene la tentazione di chiedere: « Quale legge vi fa sentire a disagio? » Questa è una reazione piuttosto allarmante poiché la Legge condanna solo chi viola la legge. Purtroppo, la Chiesa sin dal primo secolo ha frainteso quella Legge che sia Gesù che Paolo avevano amato e vissuto. Ci sono almeno tre fondamentali ragioni per questa carenza d’informazione riguardo la Legge nella chiesa di oggi:
In primo luogo, quando la chiesa primitiva si è gradualmente espansa da Gerusalemme verso Occidente, molti dei convertiti greci e romani che divennero leader della chiesa hanno conservato alcune delle loro pratiche culturali pagane. Di conseguenza, hanno letto le Scritture Ebraiche con la loro mentalità greca. Hanno imposto al testo biblico uno schema interpretativo straniero che ha immesso un’informazione inesatta nella teologia della chiesa riguardo la Legge di Dio, la quale è in contrasto con la Parola di Dio conosciuta da Gesù e Paolo.
Secondo, per Paolo la Legge era Parola di Dio, ed egli non aveva di certo intenzione di dare inizio a una nuova religione opposta alla Scrittura. Le polemiche di Paolo, che sembrano essere dirette contro la Legge, erano in realtà rivolte contro il cattivo uso della Legge da parte di quelli che cercavano di mettere le chiese gentili sotto la schiavitù dell’insegnamento che la Legge serviva loro per la salvezza.
Terzo, l’insegnamento che la Legge è stata sostituita o è in opposizione alla grazia non ha avuto origine con Paolo, ma si è sviluppata a seguito dell’interpretazione eretica che Marcione ha fatto degli scritti di Paolo. Marcione, che morì verso il 160 d.C. respinse completamente l’Antico Testamento. Egli credeva, attraverso l’influenza dello gnosticismo, a una nozione demiurgica che il Dio dell’Antico Testamento era un Dio crudele e diverso. Era così preso dalla convinzione che il messaggio di grazia predicato da Paolo era contro la Legge di Dio che considerava testo ispirato del Nuovo Testamento solo gli scritti di Paolo, cioè quelli che erano in accordo con la sua teologia. Le idee di Marcione erano così estranee alla Parola di Dio che il pastore Policarpo, discepolo diretto di Giovanni, lo chiamò il « primogenito di Satana ». Marcione si recò a Roma verso il 139 d.C. facendo un generoso dono alla chiesa, la quale, dopo aver esaminato le sue idee restituì il denaro e lo scomunicò. Marcione fondò una sua propria chiesa la quale mischiò gnosticismo e cristianesimo, creando una teologia fortemente dualistica e antagonistica al giudaismo, rigorosamente ascetica, celibe, che ha avuto un’influenza distruttiva sulla cristianità. Purtroppo, molti cristiani moderni hanno inconsapevolmente accolto le sue idee.
In seguito Agostino ha sostenuto le idee di Marcione sulla grazia in opposizione alla Legge, e ne ha fatto una parte importante della teologia della chiesa. Al tempo della Riforma, uomini come John Wycliffe con il suo primo manoscritto inglese della Bibbia, e Miles Coverdale il traduttore della prima Bibbia stampata in inglese, sono stati fortemente influenzati da Agostino. Nel 1514 Coverdale fu ordinato sacerdote ed entrò nel Monastero Agostiniano di Cambridge. Il concetto della grazia contro la Legge ha subito un’accelerazione quando il riformatore francese Giovanni Calvino ha approvato questa posizione nella sua « Istituzione della religione cristiana », che divenne la guida delle Chiese Riformate del protestantesimo.

La Legge è durata fino a Giovanni
È comune sentire qualcuno che riporta, fraintendendola, la frase di Luca 16:16, chiedendo poi: « Il Nuovo Testamento non dice che la Legge e i profeti hanno durato solo fino a Giovanni? » Insieme con l’altra domanda: « Oggi non siamo forse sotto l’era della grazia? » Questo versetto è spesso male interpretato. Luca 16 sta semplicemente affermando che era iniziata una nuova epoca nel piano redentivo di Dio (da quel tempo è annunziata la buona novella del regno di Dio…), ma non sta dicendo che con la venuta di Giovanni la Torah è stata abolita o ha perso la sua autorità. Anzi, fino a Giovanni Battista la Torah e i Profeti hanno dato la loro testimonianza predittiva della venuta del regno di Dio; ora, in aggiunta alla loro testimonianza, il regno di Dio viene proclamato direttamente, prima da Giovanni e poi da Gesù.
Inoltre il Vangelo di Luca non poteva significare che la Legge di Dio è stata superata, perché si è continuato ad osservarla anche dopo questa dichiarazione di Gesù. È chiaro che Gesù Cristo, come anche Paolo, non hanno mai contemplato la sostituzione della Legge eterna di Dio (Mat.5:17-20; Rom.3:31).

Gesù andò oltre la lettera della Legge
Spesso Gesù è andato oltre la lettera della Legge e ha istruito i suoi discepoli nello spirito della Legge. Alcuni esempi possono essere visti quando egli ha ammonito che guardare in maniera lussuriosa una donna equivale ad aver commesso adulterio, e chi dice al proprio fratello di essere pazzo merita di andare nella geenna del fuoco (Mat.5:19-30). Ciascuno degli esempi di cui sopra vanno ben al di là della lettera della Legge.
Qual era l’intenzione di Paolo quando ha insegnato che la lettera della Legge uccide? È ovvio che non voleva dire che la Legge di Dio è cattiva e che rende le persone schiave, come qualcuno oggi suggerisce. Paolo ha rispettato la Legge e ha incoraggiato gli ebrei a fare lo stesso (1Cor.7:18). Dovremmo anche ricordare che queste parole sono state scritte per i gentili di Corinto, non per i credenti ebrei (2Cor.3:6). Il fatto è che uno degli obiettivi della Legge è quello di mostrare e definire il peccato. Per i convertiti Gentili cercare di osservare uno stile di vita ebraico senza un disciplinato retroterra di devozione, sarebbe diventata una schiavitù né necessaria né corretta. In questo contesto Paolo dice che la lettera della Legge uccide, ma poi ha continuato dicendo che lo spirito della Legge vivifica. Paolo stava parlando della salvezza dei Gentili e su questo argomento la lettera della Legge è morte ed è solo attraverso il suo spirito che può venire la vita. La sintesi del pensiero di Paolo lo troviamo nella sua dichiarazione ai Romani: «La legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù mi ha affrancato dalla legge del peccato e della morte…affinché il comandamento della legge fosse adempiuto in noi, che camminiamo non secondo la carne, ma secondo lo spirito» (Rom.8:2-4).
Il tributo più significativo alla Legge di Dio è venuto dal Salvatore stesso quando disse: «chi li avrà messi in pratica ed insegnati [i comandamenti di Dio], esso sarà chiamato grande nel regno dei cieli» (Mat.5:19). La triste verità è che ben presto, diverse nuove idee hanno preso il posto della Legge di Dio.

Alcuni scopi della Legge
1 – Istruire i credenti su come servire, rendere il culto e piacere a Dio (Sal.19:7,9).
2 – Istruire i credenti su come trattare i loro simili ed avere tra di loro sane relazioni (Lev.19:18; Gal.5:14; 6,2).
3 – Istruire i credenti sul modo di essere felici e prosperare qui sulla terra e manifestare la potenza e l’autorità del regno di Dio nella loro vita (Gios.1:8; Sal.1:1-3; Luca 12:32).
4 – La Legge è stata data, non per salvare, ma per misurare le opere dell’uomo verso Dio e verso il suo prossimo, raddrizzare tutte le questioni contrarie alla sana dottrina (1Tim.1:8-10; 2Tim.2:5; 1Cor.6:1-12; 3:13; Rom.2:12; Apoc.20:12,13).
5 – La Legge è un maestro che ci mostra la nostra colpevolezza e quindi ci conduce a Cristo, la nostra giustificazione messianica (Gal.3:21-24; Rom.3:19).
6 – La Legge ci dà la conoscenza e la profondità del nostro peccato (Rom.3:20; 4:15; 7:7,8).
7 – La Legge rivela la buona, santa, giusta, e perfetta natura di Dio, nonché la sua volontà (Sal.19:7,9; Rom.7:12).
8 – La Legge deve essere confermata o compiuta dalla nostra fede, perciò è chiamata la «legge della fede» (Rom.3:27,31).
9 – La stessa Legge oggi è scritta nei nostri cuori, e per mezzo dello Spirito di Dio possiamo prendere diletto in essa (Rom.7:22).

Le dieci parole del Signore: prima tavola (Dietrich Bonhoeffer)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano3/bonhoeffer2.htm

DIETRICH BONHOEFFER 

Le dieci parole del Signore: prima tavola

Interpretazione dei primi tre comandamenti

(il commento agli altri comandamenti non lo trovo)

In mezzo a tuoni, lampi, dense nubi, terremoti e terrificante squillare di tromba Dio manifesta al suo servo Mosè sul Monte Sinai i dieci comandamenti. Non si tratta del risultato di lunghe riflessioni di uomini saggi ed esperti della vita umana e dei suoi ordini: è la Parola rivelata di Dio, al cui suono la terra trema e gli elementi si scatenano. Non si tratta di una saggezza universale, offerta ad ogni uomo pensante, ma di un avvenimento sacro, al quale persino il popolo di Dio non può avvicinarsi pena la morte; di una rivelazione di Dio nella solitudine della vetta di un vulcano fumante: ecco come i dieci comandamenti entrano nel mondo. Non è Mosé a dadi; li dà Dio; non è Mosé a scriverli; li scrive Dio stesso con il suo dito su tavole di pietra, come ripetutamente ed energicamente sottolinea la Bibbia: «E non aggiunse altro» (Deut. 5,19), cioè Dio in persona scrisse solo queste parole; in esse è compresa tutta la volontà di Dio. La preminenza dei dieci comandamenti di fronte a tutte le altre parole di Dio è messa in rilievo con la massima chiarezza dal fatto che le due tavole vengono conservate nell’arca nel Santo dei santi. I dieci comandamenti hanno il loro posto nel santuario; bisogna cercarli qui, nel luogo della benevola presenza di Dio nel mondo, e da qui sempre di nuovo essi si diffondono nel mondo (Is. 2,3 ).
In ogni tempo gli uomini si sono chiesti qual è il principio fondamentale della loro vita, ed è un fatto assai strano che i risultati di queste riflessioni concordano quasi sempre tra di loro e per lo più con i dieci comandamenti. Ogni volta che le situazioni umane sono scosse da profondi rivolgimenti e disordini esteriori o interiori, gli uomini che sanno mantenere la chiarezza e l’avvedutezza della riflessione e del giudizio riconoscono che senza timor di Dio, senza rispetto dei genitori, senza protezione della vita, del matrimonio, della proprietà e dell’onore – qualunque sia la forma di questi beni – non è possibile che gli uomini vivano insieme. Per riconoscere queste leggi della vita non è necessario essere cristiani, basta seguire la propria esperienza e la propria sana ragione. Il cristiano prova piacete ad avere in comune con altri uomini questi concetti così importanti. È pronto a collaborate e a lottate con loro dove si tratta di realizzare scopi comuni. Non si meraviglia che in ogni tempo certi uomini abbiano raggiunto le stesse conclusioni sulla vita umana, che, per lo più, coincidono con i dieci comandamenti; infatti i comandamenti sono stati dati appunto dal creatore e conservatore della vita. Ma ciononostante il cristiano non dimentica mai la differenza fondamentale che c’è tra queste leggi della vita e i comandamenti di Dio. In quelle è la ragione a parlare, in questi Dio. La ragione umana predice al trasgressore delle leggi della vita che la vita stessa si vendicherà su di lui portandolo, dopo un iniziale apparente successo, al fallimento ed all’infelicità. Ma Dio non parla della vita, dei suoi successi o fallimenti, Egli parla di se stesso. La prima Parola di Dio nei dieci comandamenti è ‘Io’. L’uomo deve trattare con questo « io », non con una legge generale, non con un « si deve fare questo o quello », ma col Dio vivente. In ogni parola dei dieci comandamenti, in fondo, Dio parla di se stesso; e questo, nei comandamenti, è la cosa più importante. Sono, infatti, la rivelazione di Dio. Nei dieci comandamenti non obbediamo a una legge ma a Dio; e la nostra trasgressione non è un fallimento di fronte alla Legge, ma di fronte a Dio stesso. Non solo disordine e insuccesso colpiscono il trasgressore, ma l’ira stessa di Dio. Non è solo stoltezza trasgredire il comandamento di Dio, ma è peccato, ed il salario del peccato è la morte. Perciò il Nuovo Testamento chiama i dieci comandamenti « Parole di vita » (Atti 7,38).
Forse invece di dire « dieci comandamenti » sarebbe meglio parlare delle « dieci parole » di Dio, come si esprime la Bibbia (Deut. 4,13). Così, non li confonderemmo tanto facilmente con le leggi umane, e non metteremmo tanto facilmente da parte le prime parole: «Io sono il « Signore, l’Iddio tuo», come se si trattasse di un preambolo che veramente non fa parte dei dieci comandamenti e non sta bene nel contesto. In realtà, invece, proprio queste prime parole sono le più importanti, la chiave dei dieci comandamenti; ci fanno vedere in che cosa il comandamento di Dio si distingue per tutta l’eternità dalle leggi umane. Nei dieci comandamenti Dio parla altrettanto della sua grazia quanto del suo comandamento. Non si tratta di un brano che in certo qual modo potremmo considerare volontà di Dio, separatamente da Dio; in essi al contrario si manifesta tutto il Dio vivente quale è veramente. Questa è la cosa fondamentale.
I dieci comandamenti, come li conosciamo noi, sono un’abbreviazione del testo biblico. Chi ci dà il diritto di allontanarci in questo modo dalla Bibbia in un passo così decisivo? La chiesa cristiana universale ascolta i dieci comandamenti in forma diversa dal popolo di Israele. Ciò che riguarda Israele quale popolo dotato di una realtà politica, non è vincolante per la chiesa cristiana, che è popolo spirituale in mezzo a tutti i popoli. Perciò la chiesa, nella libertà della sua fede nel Dio dei comandamenti, ha osato sostituire la traduzione letterale del testo biblico con una traduzione che è esegesi ecclesiastica del testo. «Io sono il Signore, l’Iddio tuo»: quando Dio dice « Io », allora si tratta di rivelazione. Dio potrebbe anche lasciare che il mondo vada per la sua strada, e tacere. Perché Dio dovrebbe aver bisogno di parlare di se stesso? Se Dio dice « Io », questo è grazia. Quando Dio dice « Io », dice semplicemente tutto, la prima cosa e l’ultima; quando Dio dice « Io », vuol dire: «tienti pronto a comparire davanti al tuo Dio, o Israele» (Amos 4,10).
«Io sono il Signore». Non un Signore, ma il Signore! Con ciò Dio pretende di essere l’unico Signore. Ogni diritto di comandare e di pretendere obbedienza appartiene a lui solo. Dio, rivelandosi come Signore, ci libera da ogni assoggettamento umano. C’è e noi abbiamo un solo signore e «nessuno può servire due padroni». Serviamo solo Dio e non serviamo nessun uomo. Anche quando eseguiamo ordini di signori terreni, in realtà serviamo solo Dio. È un grave errore di molti cristiani credere che Dio durante la nostra vita terrena ci abbia sottomesso a molti altri signori accanto a lui, e che la nostra vita sia posta in continuo conflitto tra gli ordini di questi signori terreni e il comandamento di Dio. Abbiamo un solo Signore a cui obbedire; i suoi ordini sono chiari e non ci pongono in balìa di conflitti. È vero che Dio ha dato a genitori e superiori il diritto ed il potere di darci degli ordini, ma ogni autorità terrena è fondata solamente sulla signoria di Dio, in questa trova la sua autorità ed il suo onore; altrimenti è usurpazione e non ha diritto a pretendere obbedienza.
Obbedendo solo al comandamento di Dia, obbediamo anche ai nostri genitori e superiori. La nostra obbedienza a Dio ci impone anche l’ obbedienza a genitori e superiori. Ma non ogni obbedienza a genitori e superiori è anche obbedienza a Dio. La nostra obbedienza non ha valore in quanto è resa a uomini, ma solo in quanta è resa a Dio. «Qualunque cosa fate, agite di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini» (Col. 3,23). «Siete stati riscattati a gran prezzo, non vogliate diventar schiavi degli uomini» (1Cor. 7,23).
Solo l’obbedienza a Dio è il fondamento della nostra Libertà. Ma il Signore Iddio non solo è l’unico ad avere il diritto di comandare, ma anche il solo ad avere il potere di far valere il suo comandamento; ha a disposizione tutti i mezzi per farlo. Chi vuole erigersi a Signore accanto a lui, necessariamente precipita. Chi disprezza il suo comandamento deve morire. Ma chi serve lui solo e confida in lui, viene da lui sostenuto e preservato; a costui farà godere ogni bene ora ed in eterno.
«Il tuo Dio». Dio parla al suo popolo eletto, alla comunità che lo ascolta nella fede. Per lei il Signore irraggiungibilmente lontano e potente è allo stesso tempo vicino, presente e misericordioso. «Qual è quella nazione che abbia gli dei così vicini a sé, com’è vicino a noi il nostro Dio quando lo invochiamo?» (Deut. 4,7). Non è un estraneo, un tiranno, né un cieco destino che ci carica di pesi insopportabili, sotto i quali dobbiamo crollare; ma è Dio, il Signore, che ci ha eletto, creato e amato, che ci conosce e vuol essere accanto a noi, con noi e per noi. Ci dà i comandamenti perché possiamo essere e restare accanto a lui, per lui e con lui. Si mette dalla nostra parte, facendoci conoscere il suo comandamento come Signore e amichevole aiuto: «Così non agisce verso nessun pagano» (Salmo 147,20). Dio è tanto grande, che anche la cosa più piccola non è troppo piccola per lui; egli è a tal punto il Signore, da sapersi porre accanto a noi per sostenerci. Se Dio è accanto a noi, allora i suoi comandamenti non sono difficili, allora la sua legge è la nostra consolazione (Salmo 119, 92), il suo giogo è soave, il suo peso leggero. «Io corro la via dei tuoi precetti, poiché tu consoli il mio cuore» (Salmo 119,32). Nell’arca dell’alleanza che è il trono della benevola presenza di Dio, sono deposte le due tavole, rinchiuse, avvolte, circondate dalla grazia di Dio.
Chi vuol parlare dei dieci comandamenti, deve cercarli nell’arca dell’alleanza, e così deve allo stesso tempo parlare della grazia di Dio. Chi vuole annunziare i dieci comandamenti, deve contemporaneamente annunziare la libera grazia di Dio.

Il primo comandamento
«Non avere altri dei nel mio cospetto». L’imperativo negativo che ora segue per ben dieci volte è solo la spiegazione della precedente testimonianza che Dio dà di se stesso. In dieci brevi frasi è espresso qui che cosa significa per la nostra vita che Dio è il Signore Iddio nostro. Il contesto acquista la massima chiarezza se davanti ad ognuna di queste proposizioni introduciamo un «perciò»: «Io sono il Signore, Iddio tuo»… e perciò non… È per bontà che Dio, mediante questi divieti, ci vuol preservare da errori e trasgressioni e ci indica i limiti, entro i quali possiamo vivere in comunione con lui.
«Non avere altri dei nel mio cospetto». Non è affatto una cosa ovvia. In ogni tempo i popoli con civiltà progredite hanno conosciuto un cielo popolato da varie divinità, ed era segno della grandezza e dignità di un dio, se non era geloso del posto che un altro dio occupava nel cuore devoto degli uomini. La virtù umana della generosità e della tolleranza veniva attribuita anche agli dei. Ma Dio non ammette altro dio accanto a sé; vuol essere l’unico Dio. Vuole essere e fare tutto per l’uomo; perciò vuole anche essere adorato come unico Dio. Accanto a lui non c’è posto per null’altro; sotto di lui si pone la creazione. Dio vuole essere l’unico Dio, perché egli soltanto è Dio.
Qui non si tratta di altri dei che potremmo adorare al posto di Dio, ma del fatto che potremmo pensare di porre qualcosa accanto a Dio. Ci sono dei cristiani che dicono che accanto alla fede in Dio, che non lascerebbero per nulla al mondo, hanno ragion d’essere anche il mondo, lo stato, il lavoro, la famiglia, la scienza, l’arte, la natura. Dio dice che nulla, assolutamente nulla ha il diritto di esistere accanto a lui, ma solo al di sotto di lui. Ciò che noi poniamo accanto a lui è un idolo.
Si è soliti dire che i nostri idoli sono il denaro, là voluttà, l’onore, altri uomini, noi stessi. Più appropriato sarebbe dire che nostri idoli sono lo spiegamento delle nostre forze, il potere, il successo. Ma, in fondo, gli uomini nella loro debolezza hanno sempre amato tutte queste cose, e nulla di tutto quanto è stato detto sopra è ciò che veramente intende il primo comandamento parlando di « altri dei ». Per noi il mondo è stato privato dei suoi dei; non adoriamo più nulla. Troppo chiaramente abbiamo provato la debolezza e nullità di tutte le cose, per poterle ancora divinizzare. Troppo abbiamo perso la fiducia in tutto ciò che esiste, per poter essere ancora in grado di avere dei e di adorarli. Se per noi c’è ancora un idolo, questo è forse il nulla, la fine, l’insensatezza di tutto. E il primo comandamento ci chiama al solo vero Dio, l’onnipotente, il giusto e misericordioso, che ci salva dalla rovina, dal nulla, e ci fa rimanere nella sua comunità.
Ci furono tempi in cui l’autorità profana puniva severamente il rinnegamento di Dio e l’idolatria. Se anche lo faceva per proteggere la comunità dal traviamento e dal disonore, tuttavia non rendeva un servizio a Dio, perché, in primo luogo, Dio vuole essere servito in piena libertà; poi, le forze della seduzione, secondo il piano di Dio, devono servire a mettere alla prova i credenti e a rinvigorirli; terzo, il rinnegamento aperto di Dio nonostante tutto è in noi più promettente che una confessione di fede ipocrita, ottenuta con un ricatto. Le autorità profane devono concedere protezione esteriore alla fede nel Dio dei dieci comandamenti; ma la lotta con l’incredulità deve essere lasciata solo alla potenza della Parola di Dio.
Non è sempre facile fissare il momento in cui la partecipazione ad un atto ordinato dallo stato diviene idolatria.
I primi cristiani rifiutavano di contribuire anche solo con un granello di incenso al sacrificio che serviva al culto dell’imperatore romano, e per questo sopportavano il martirio. I tre uomini nel libro del profeta Daniele (cap. 3) rifiutarono di inginocchiarsi, secondo gli ordini del re, davanti all’idolo d’oro che simboleggiava la potenza del re e del suo regno. D’altro canto il profeta Elia permise espressamente al capo dell’esercito siriano Naaman di inginocchiarsi, accompagnando il suo re, nel tempio pagano (2 Re 5,12). La maggior parte dei cristiani in Giappone di recente ha dichiarato che la partecipazione al culto statale dell’imperatore è lecita.
In tutte le decisioni di questo genere si dovrà considerare quanto segue: 1) l’ordine di partecipare a simili atti politici richiede univocamente l’adorazione di altri dei? allora è preciso dovere del cristiano rifiutarsi. 2) ci sono dei dubbi se si tratta di un atto religioso o politico? allora nella decisione si dovrà considerare se partecipandovi si dia scandalo alla comunità di Cristo e al mondo; se cioè si susciti anche minimamente l’impressione del rinnegamento di Gesù Cristo. Se per il giudizio comune dei cristiani non è così, nulla impedisce la partecipazione; ma se è così, anche qui si dovrà rifiutare la partecipazione.
La chiesa luterana ha fatto rientrare il secondo comandamento biblico, la proibizione di farsi delle immagini, nel primo. Non è vietato alla chiesa la rappresentazione figurativa di Dio. Dio stesso in Gesù Cristo ha preso forma umana e si è offerto alla vista degli uomini. È solo proibito adorare o venerare le immagini come se in esse fosse insita una potenza divina. Sotto lo stesso divieto cade h superstiziosa venerazione di amuleti, immagini protettive ecc., come se avessero un particolare potere di proteggere da disgrazie.
«Ascolta, o Israele, Jahve è il nostro Dio; Jahve è uno solo. Ama Jahve tuo Dio con tutto il cuore, con tutto l’animo, con tutta la forza» (Deut. 6,4). Gesù Cristo ci ha insegnato a rivolgerei fiduciosi in preghiera a questo nostro Dio: «Padre nostro, che sei nel cielo».

Il secondo comandamento
«Non usare il nome dell’Eterno, che è il tuo Dio, invano; perché l’Eterno non terrà per innocente chi avrà usato il suo nome invano». « Dio » non è per noi un concetto generale, con cui indicare quanto di più alto, di più santo, di più potente si possa pensare. « Dio » è un nome. È ben diverso se dei pagani dicono « dio », o se lo diciamo noi, ai quali Dio stesso ha parlato. Dio è per noi il nostro Dio, il Signore, il vivente. « Dio » è un nome e questo nome è la cosa più santa che possediamo, poiché in esso non abbiamo qualcosa di immaginario, ma Dio stesso in tutto il suo essere, nella sua rivelazione. Se ci è concesso dire « Dio », lo è solo perché Dio, nella sua incommensurabile grazia, si è fatto conoscere da noi. Se diciamo « Dio », è come se lui stesso ci parlasse, ci chiamasse, ci consolasse e ci comandasse. Avvertiamo la sua vicinanza a noi nella sua azione, nella sua creazione, nel suo giudizio, nel suo ammonimento. «Ti ringrazio, o Signore, perché il tuo nome ci è così vicino» (Salmo 75,2). «Il nome di Jahve è una torre fortissima; il giusto vi si rifugia ed è al sicuro» (Prov. 18,10).
La parola « dio » è nulla; il nome « Dio » è tutto.
Gli uomini, per lo più, oggi intuiscono bene che Dio non è solo una parola, ma un nome. Perciò cercano di evitare di dire « Dio »; e dicono invece « divinità », « destino », « provvidenza », « natura », « l’onnipotente ». « Dio » suona quasi come una confessione di fede. E questo non lo vogliono. Vogliono la parola, non il nome. Il nome, infatti, è impegnativo.
Il secondo comandamento ci invita a santificare il nome di Dio. Il secondo comandamento, veramente, possono violarlo solo coloro che conoscono il nome di Dio. La parola « dio » non vale né più né meno di altre parole umane, e chi ne abusa disonora solo se stesso ed i propri pensieri. Ma chi conosce il nome di Dio e ne abusa, disonora e profana Dio. Il secondo comandamento non parla di bestemmia del nome di Dio, ma del suo abuso, così come il primo comandamento non parlava del rinnegamento di Dio, ma di altri dei accanto a Dio. I credenti non corrono pericolo di bestemmiare Dio, ma di usare male del suo nome.
Noi, che conosciamo il nome di Dio, lo usiamo male se lo pronunciamo come se fosse solo una parola, come se in questo nome non fosse sempre Dio stesso a parlarci. C’è un abuso del nome di Dio nel bene e nel male. È veramente difficile immaginare che i cristiani possano abusare del nome di Dio nel male; eppure succede. Se nominiamo Dio e lo invochiamo coscientemente per far apparire buona e pia dinanzi al mondo una causa empia e malvagia, se chiediamo la benedizione di Dio per una causa malvagia, se nominiamo Dio in un contesto che lo disonora, allora noi ne abusiamo per il male. Sappiamo bene che in tal caso Dio stesso sarebbe senz’altro contrario alla causa per cui lo invochiamo; ma, dato che il suo nome ha un potere anche di fronte al mondo, noi ci richiamiamo a Lui.
Più pericoloso, perché più difficile da riconoscere, è l’abuso del nome di Dio nel bene. Accade quando noi cristiani pronunciamo il nome di Dio così spesso, così semplicemente, così scorrevolmente, in modo così confidenziale da pregiudicare la santità e il miracolo della sua rivelazione. È un abuso se a ogni problema ed a ogni necessità umana rispondiamo sempre prontamente con la parola Dio o con un versetto biblico, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo che Dio debba risolvere subito tutti i nostri problemi umani ed essere già lì pronto ad accorrere in nostro aiuto ad ogni difficoltà. È abuso se noi facciamo di Dio un tappabuchi per ogni nostra minima difficoltà. È abuso se mettiamo semplicemente a tacere ogni sincero sforzo scientifico o artistico con la parola Dio. È abuso se gettiamo la « perla ai porci ». È abuso parlare di Dio senza essere coscienti della presenza vivente nel suo nome. È abuso parlare di Dio come se lo avessimo sempre a nostra disposizione e come se ci fossimo seduti con lui a consiglio. In tutti questi modi noi abusiamo del nome di Dio e ne facciamo una vuota parola umana e chiacchiere inefficaci. Con ciò noi lo profaniamo più di quanto potrebbero fare tutti i bestemmiatori.
Al pericolo di un tale abuso del nome di Dio gli Israeliti ovviarono col divieto di pronunciarlo in genere. Dal rispetto che questa regola mette in luce non possiamo che trarre un insegnamento. È certo meglio non pronunciare affatto il nome di Dio che abbassarlo a semplice parola umana. Ma noi abbiamo l’obbligo sacro e il fondamentale diritto di testimoniare di Dio gli uni agli altri e di fronte al mondo. E questo lo facciamo solo se pronunciamo il nome di Dio in modo tale che in esso la Parola del Dio vivente, presente, giusto e pieno di grazia renda testimonianza a se stessa. Ciò accade solo se noi preghiamo ogni giorno come ci ha insegnato Gesù Cristo: «Sia santificato il tuo nome».
Le autorità profane dell’occidente hanno sempre punito la bestemmia in pubblico. Con ciò hanno testimoniato di essere chiamate a proteggere la fede in Dio e il servizio di Dio da disprezzo e oltraggio. Ma esse non furono mai in grado di soffocare da sole i movimenti spirituali, dalle cui aberrazioni, bene o male intese, nascono tali oltraggi; e non può nemmeno essere loro compito. La soppressione violenta dei movimenti spirituali non aiuta la chiesa. Questa non pretende altro che di poter liberamente annunziare il suo messaggio e liberamente vivere, e confida che il nome di Dio correttamente annunziato riesca a imporsi e a incutere rispetto da solo.
È abuso giurare nel nome di Dio? Per il contenuto del parlare di un cristiano non c’è differenza se egli parla sotto giuramento o no, se usa il testo del giuramento così detto religioso o quello non religioso. Il suo sì è sì ed il sua no è no, non imparta quali giuramenti vi si aggiungano. Tra cristiani non c’è giuramento, ma solo un sì o un no. Solo per via degli altri uomini e per via della menzogna che regna nel mondo il cristiano può rendere la sua parola – non certo più vera – ma più credibile, servendosi della formula di giuramento richiesta dallo stato; e per lui è di secondaria importanza se in questa formula è nominato Dio o no. Il giuramento per il cristiano è solo una conferma esteriore, di ciò che, in ogni caso, per lui è un dato di fatto, cioè che la sua parola è stata detta al cospetto di Dio.

Il terzo comandamento
«Ricordati del giorno del riposo per santificarlo». È difficile per noi comprendere che questa comandamento occupa un posto di pari dignità accanto al divieto di adorare idoli o anche a quello di non uccidere, che chi viola questo comandamento non è meno colpevale di chi disprezza i genitori, del ladro, dell’adultero, del calunniatore. La nostra vita è fatta di giorni feriali riempiti di lavoro, in mezzo alla gente. A noi sembra che il giorno del riposo sia un piacevole permesso, ma è divenuto per noi un pensiero alquanto estraneo che in esso sia contenuta tutta la serietà del comandamento di Dio.
Dio comanda il giorno di festa. Comanda il riposo e la santificazione della festa.
Il decalogo non contiene nessun ordine di lavorare, ma uno di riposare dal lavoro sì. È proprio il contrario di quanto siamo soliti pensare. Nel terzo comandamento il lavoro è presupposto come stato naturale; ma Dio sa che l’opera che l’uomo compie acquista un tale potere su di lui, che egli non riesce più a liberarsene, e si aspetta ogni cosa dalla propria opera, e così dimentica Dio. Perciò Dio comanda di riposare dal proprio lavoro. Non è il lavoro a mantenere l’uomo, ma solo Dio; non del suo lavoro può vivere l’uomo, ma solo di Dio. «Se l’Eterno non edifica la casa, invano s’affaticano gli edificatori; se l’Eterno non guarda la città, invano vegliano le guardie. Egli dà altrettanto ai suoi diletti, mentre essi dormono» (Salmo 127,12); così la Bibbia parla contro tutti quelli che del lavoro fanno la loro religione. Il riposo festivo è il segno visibile che l’uomo vive della grazia di Dio e non delle proprie opere.
Durante il giorno del riposo dovrebbe regnare il silenzio esteriore ed interiore. Nelle nostre case si lascino da parte tutti i lavori non strettamente necessari per la vita; il decalogo include espressamente in questo comandamento anche servi, estranei, animali. Non dobbiamo cercare una distrazione disordinata, ma tranquillità e raccoglimento. Poiché questo non è facile, poiché, anzi, l’inoperosità spinge facilmente a vuoto ozio, a distrazione e divertimenti stancanti, ci deve essere espressamente comandato il riposo. Si richiede forza per obbedire a questo comandamento.
Il riposo festivo è la premessa indispensabile per la santificazione della festa. L’uomo abbassato ad essere una macchina da lavoro e sovraffaticato ha bisogno di riposo, perché il suo pensiero possa chiarirsi, i suoi sentimenti possano purificarsi, la sua volontà possa ricevere una nuova direzione.
La santificazione del giorno festivo è il contenuto del riposo in esso. Il giorno di festa viene santificato mediante l’annunzio della Parola di Dio nel culto e mediante l’ascolto pronto e rispettoso di questa Parola. La dissacrazione del giorno di festa inizia col decadimento della predicazione cristiana. È, perciò, in primo luogo, colpa della chiesa e soprattutto dei suoi ministri. Il rinnovamento della santificazione della festa parte dal rinnovamento della predicazione.
Gesù ha infranto le leggi ebraiche del riposo del sabato. Lo fece per richiamare alla vera santificazione del sabato. Il giorno del riposo viene santificato non da quello che fanno o non fanno gli uomini, ma dall’azione di Gesù Cristo per la salvezza degli uomini. Perciò i primi cristiani hanno sostituito il sabato con il giorno della risurrezione di Gesù Cristo e lo hanno chiamato giorno del Signore. A ragione, perciò, Lutero non traduce letteralmente la parola ebraica con « sabato » ma ne dà un’interpretazione spirituale come «giorno festivo». La nostra domenica è il giorno in cui lasciamo che Gesù Cristo agisca in noi e negli uomini. Veramente questo dovrebbe accadere ogni giorno, ma la domenica riposiamo dal nostro lavoro per poter essere più aperti a questa azione di Cristo in noi.
« Il riposo domenicale è lo scopo della santificazione della domenica. Dio vuole condurre il suo popolo alla sua quiete, a riposare dal lavoro quotidiano in terra. «Cuore, rallegrati, sarai liberato dalla miseria di questa terra e dal lavoro del peccato». Liberato dall’operare umano imperfetto, il popolo di Dio guarderà la pura e perfetta opera di Dio e vi parteciperà. Il cristiano che santifica la domenica può trovare in questo riposo domenicale un riflesso e una promessa del riposo eterno presso il Creatore, il Redentore, Colui che porta a compimento il mondo.
Agli occhi del mondo la domenica ha la funzione di mettere in evidenza, che i figli di Dio vivono della grazia di Dio e che gli uomini sono chiamati al suo Regno. Perciò preghiamo: «Venga il tuo Regno».

Parole di vita nella morte (liberati dalla schiavitù del’Egitto, presentazione mia del tema)

http://camcris.altervista.org/br_prlvita.html

Parole di vita nella morte
(liberati dalla schiavitù del’Egitto)

tratto da un libro del pastore Roberto Bracco
(Pastore della comunità L’Assemblea cristiana evangelica di Roma)

Il popolo d’Israele, dopo aver compiuto il proprio pellegrinaggio nel deserto e dopo aver esperimentato l’amore e la potenza di Dio, giunse alle soglie del paese promesso. Canaan era là, soltanto a pochi passi, e Canaan voleva dire riposo, gioia, abbondanza; ma il popolo dubitò della fedeltà di Dio e rimase fuori della terra che stillava latte e miele e che produceva frutti che non si erano mai veduti in altri paesi.
L’incredulità edificò un muro di separazione fra il popolo e le promesse di Dio, e quelle preziosissime benedizioni, che erano soltanto a breve distanza, furono perdute di vista e furono perdute per sempre. Eppure Iddio aveva liberato Israele dalla schiavitù d’Egitto per condurlo in Canaan; Iddio aveva accompagnato il suo popolo nel deserto per introdurlo in Canaan, Iddio aveva cibato Israele, aveva guidato Israele, aveva ristorato Israele per condurlo al compimento della sua promessa. Tutto l’amore di Dio e tutta la fedeltà di Dio furono resi inutili dall’incredulità del popolo. Questo episodio è una figura ed una lezione per me e per te: Iddio vuole che crediamo alle sue promesse e, soprattutto, vuole che desideriamo il compimento di esse. Quando Iddio parla di « promesse » si riferisce a tutte le promesse che ci ha fatte nella sua parola, ma in maniera particolare alle promesse relative a quella « terra di gloria e benedizione » che Egli ha preparata per noi al termine del nostro pellegrinaggio terrestre.
Anche noi siamo stati liberati dalla schiavitù di Egitto ed anche verso noi Iddio ha profuso i tesori della sua fedeltà, del suo amore e della sua potenza. Non dobbiamo mai dimenticare che Iddio ha compiuto quest’opera non tanto per renderci felici in questa vita, quanto per condurci nelle stanze della gloria. Veramente la salvezza che ci è stata donata da Dio ci rende felici « eternamente » e quindi non dovremmo neanche parlare della nostra vita in questa terra e della nostra vita nel cielo, perché per i credenti non esistono due vite, anzi una vita sola che si muove già nell’infinito e nell’eterno; ma poiché l’anima nostra è ancora imprigionata nell’involucro della carne dobbiamo necessariamente distinguere fra la vita che viviamo nella polvere e la vita che vivremo liberi, sereni, nelle sfere celesti.
Iddio ci ha adottato a sé affinché possiamo abitare con Lui ed essere i suoi figlioli nell’eternità. Nelle stanze della sua gloria, davanti al trono bianco c’è un posto per noi perché il nostro nome è scritto nel cielo assieme al nome di ogni figliolo di Dio, di ogni membro della sua grande famiglia che è uscita dalla « volontà e dall’amore di Dio ».
Queste promesse devono vivere nel nostro cuore e devono suscitare in noi entusiasmo e fede; mentre i nostri passi si muovono sulla sabbia infuocata di questo mondo, i nostri occhi si devono posare pieni di speranza sull’orizzonte dorato che sta davanti a noi e che ci parla di quella terra priva di cordoglio, di lacrime, di gemiti, di peccato.
Il cammino che si abbrevia non ci deve spaventare e i confini che si avvicinano non ci devono sgomentare; dopo il pellegrinaggio c’è il riposo e dopo le prove ci attende il refrigerio. L’anima può trovare perfetta felicità soltanto in Dio e lì, oltre quei confini, noi possiamo incontrare Iddio pienamente, perché pienamente liberati dalle difficoltà del cammino e totalmente sciolti dai legami della nostra carne
Vorrei invitarti, fratello amato, a posare, per un istante solo, lo sguardo della fede sopra il paese di Canaan. Guarda il paese perché è davanti a te: mira le strade d’oro e contempla il brillare dei suoi palazzi! Non è un luogo che ti promette felicità perfetta?
Nel paese che ci attende vibra una primavera eterna; tutto è tepore e tutto è canto, l’aria stessa è melodia ed il lieve sussurrar della brezza muove le onde di una musica celeste. Mira, mira i mille zampilli argentini delle sue fonti e guarda verso il dolce ondeggiare dei suoi ruscelli; non è acqua, ma sono i diamanti che sfavillano al calore e alla luce di un astro che non acceca, ma illumina; non brucia, ma riscalda.
Prova, fratello, mentre miri per fede, a respirare profondamente, perché forse la brezza porta fino a te gli effluvi di Canan. Non ti accorgi che l’aria del « paese » che ti sta davanti è impregnata dal profumo delle resine e dei balsami dei boschi di Dio?
Respira, si, respira perché puoi avvertire il profumo dei cedri, dell’incenso, della mirra, della cassia, ma puoi soprattutto avvertire quanto sia dolce, leggera, l’aria di quel luogo che non è contaminato dai miasmi di una civiltà corrotta e non è turbato dalla presenza degli spiriti del male. Tutto è puro, incontaminato; tutto, tutto è soave e benefico.
Puoi scorgere, oltre quelle mura preziose, gli spettacoli offensivi che turbano, in questo deserto, quotidianamente gli occhi tuoi e la tua coscienza? Puoi forse udire accenti che oltraggiano il vero ed il bene?
No, fratello, tutto quello che puoi vedere è poesia, tutto quello che puoi udire è gloria. Ma guarda, ti esorto, alla fonte del bene; non vedi per fede il Luminare del paese?
Sì, è Dio che illumina, che riscalda, che vivifica. Egli è lì ad attendere te, ad attendere me; e lì, con tutta la sua gloria, con tutto il suo amore, con tutta la sua potenza. Non desideri incontrarLo? Non desideri congiungerti con Lui per l’eternità?
Forse sei giunto con la tua malattia o la tua vecchiaia al termine del pellegrinaggio; stai compiendo l’ultima durissima tappa, la sabbia è infuocata e il terreno è aspro; ti sembra di camminare nella valle dell’ombra della morte e le potenze del male cercano di popolare di fantasmi e di spaventi le tenebre che ti circondano. Odi mille voci e tutte ti ricordano le sofferenze, la malattia e tutte ti parlano dello spavento della morte e del freddo e del buio del sepolcro; neanche una delle voci che giungono al tuo orecchio t’invita a guardare avanti, a guardare in alto… e tu soffri!
La tua mente pensa alla fine e si turba; ti sembra di non aver forza di lasciare questo mondo e, peggio ancora, ti sembra che le promesse divine non sono reali per te. Il tentatore cerca di seminare disperazione ed incredulità per amareggiarti l’ultima tappa del pellegrinaggio e, se possibile, per farti perdere per sempre le benedizioni gloriose ed eterne del paese di Dio.
Ti sembra di essere come ogni altro ammalato, come ogni altro vecchio e istintivamente cerchi di lottare, di aggrapparti per stringere almeno altri pochi giorni di vita, sia pure nella debolezza della senilità o nella sofferenza della malattia. Fratello, risvegliati, tu sei un figliolo di Dio, non hai motivo di temere il sepolcro e non hai ragione di rammaricarti della fine della tua vita quaggiù.
Ricordati che se guardi avanti e guardi con fede esultante, fra poco « sarai assente dal corpo, ma presente con il Signore ». I tuoi occhi si chiuderanno ad uno spettacolo di sofferenze, di debolezze, di peccato e si riapriranno ad uno spettacolo di gaudio, di potenza, di santità. Forse vedrai per l’ultima volta coloro che hai amato per i vincoli del sangue e subito dopo vedrai finalmente quel Salvatore benedetto che ti ha amato e ti ama di un amore che vive sopra tutti i vincoli contingenti e fallaci.
Ricordati: soltanto fra poche ore, forse fra pochi istanti abbandonerai un fardello che ormai è divenuto pesante di debolezze e di dolori, dopo essere stato pesante di passioni e di peccati, e potrai librarti leggero, eppur potente, nelle sfere del vero e del bene, ove non avvertirai più le limitazioni e i dolori dell’involucro della tua carne.
Giovane di una giovinezza imperitura e forte di una forza divina tu starai con Cristo, oltre il confine. Allora vedrai quanto è stato entrare nelle promesse di Dio e quanto è stato dolce quel trapasso tanto paventato dagli uomini.
La morte, l’inferno, la malattia non susciteranno più emozioni disordinate nel tuo cuore perché saprai di averle lasciate fuori dalle mura preziose della città e ti accorgerai anche che nessun rimpianto cercherà di condurre la tua mente ai luoghi che ti sembrava duro abbandonare, perché ti sentirai completamente felice, completamente appagato in Dio.
Potrai udire « cose ineffabili » e lì, in mezzo alle miriadi degli angeli osannanti, anche tu potrai aggiungere la tua voce per cantare l’inno della gloria. I frutti di quel paese saranno i tuoi, la tua mano potrà coglierli e i fiori di quella terra potranno intrecciare le tue ghirlande, e tu gusterai sapori deliziosi e respirerai profumi soavi. No, non è una bella fiaba tanto fantastica quanto irreale ed irrealizzabile, è la più solida delle realtà perché è fondata sull’immutabile parola di Dio.
Perché dunque dovresti temere di varcare quella soglia che si chiama la morte? Ricordati che è vero per te e per me quello che era vero per l’apostolo Paolo, cioè che il « morire è guadagno ». Anche noi abbiamo vivere con il « desiderio » di partire da questo corpo per andare con Cristo. « Con Cristo »! Pensa seriamente, profondamente a questa realtà: « andare con Cristo »!
Puoi bramare un incontro più desiderabile? Cristo, il tuo Salvatore; Colui che è morto per te, che è risorto per te, che è asceso per te; Colui che ha dato diritto a te e a me di chiamarci figlioli di Dio, ti accoglierà. Potrai gettarti fra le sue braccia, vederlo da vicino, udire la sua parola dolcissima; potrai sederti, come Maria ai suoi piedi, e rimanere come discepolo riverente, in adorazione ed ascolto.
O morte, quanto sei desiderabile! Ancella dei servitori di Dio, apri anche davanti a me i drappeggi che nascondono la gloria; introducimi nelle stanze eterne del mio Signore! Non dovrebbe essere questo il nostro anelito? In questo anelito non c’è la disperazione del suicida o il ragionamento cupo del fatalista; non c’è lo sprezzo dell’audace o la rassegnazione del vinto; no, c’è la consapevolezza gioiosa della fede, c’è il palpito dell’amore, c’è il calore della speranza.
È l’anelito di colui che ha trovato vita in Dio, ha vissuto con Dio, e vuol vivere assieme a Dio. Egli brama che le catene si rompano, i lacci si spezzino e libero, finalmente libero, possa elevarsi nelle sfere serene della luce, della gloria, della vita per tutta l’eternità.

Ripetiamo per questi: « Beati i morti che muoiono nel Signore »!

Romani 11: La radice dell’ulivo

http://www.messiev.altervista.org/Ro11Laradicedellulivo.html

Romani 11: La radice dell’ulivo

(Chiesa Evangelica)

La metafora dell’albero d’ulivo espressa dall’apostolo Paolo è una delle più fraintese, ed ha procurato grandi dolori alla chiesa.
«E se la radice è santa, anche i rami son santi. E se pure alcuni dei rami sono stati troncati, e tu, che sei olivastro, sei stato innestato in luogo loro e sei divenuto partecipe della radice e della grassezza dell’ulivo, non t’insuperbire contro ai rami; ma, se t’insuperbisci, sappi che non sei tu che porti la radice, ma la radice che porta te. Allora tu dirai: Sono stati troncati dei rami perché io fossi innestato. Bene: sono stati troncati per la loro incredulità, e tu sussisti per la tua fede; non t’insuperbire, ma temi» (Romani 11:16b-20)
Anche la letteratura rabbinica ha utilizzato la metafora dei Gentili che vengono innestati come dei rami nell’albero d’Israele. C’è un detto che dice:
«I due bei rami che Dio ha innestato in Abrahamo sono Ruth e Naamah, i quali hanno scelto di essere piantati in Israele come proseliti». Rabbi Eleazar disse (T.Bab. Yevamot 63a): «Qual è il significato di: “in te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Genesi 12:3)? Il santo, Benedetto Egli sia, disse ad Abrahamo: “Io ho due rami da innestare in te: Ruth la Moabita e Naamah l’Ammonita”. La frase “tutte le famiglie della terra” significa che anche le altre famiglie della terra sono benedette per mezzo d’Israele…».
Leggendo Romani 11 con occhi ebraici, possiamo dire che l’apostolo Paolo utilizza la metafora dell’innesto per dimostrare graficamente il piano di Dio di benedire tutte le nazioni del mondo attraverso Abrahamo.
Paolo ha affermato in Romani 11:1 che Dio non ha rigettato il suo popolo. Parlando metaforicamente, egli ha paragonato il popolo d’Israele ad un ulivo domestico (naturale). A causa dell’incredulità, alcuni rami dell’albero, ma non tutti, sono stati tagliati, ed al loro posto sono stati innestati dei rami selvatici. Paolo ha anche sottolineato, comunque, che reinnestare i rami naturali nell’albero coltivato, sarebbe stato un compito molto più semplice che innestare in esso dei rami selvatici.
L’apostolo ha parlato d’Israele come di un « ulivo domestico » le cui radici erano nei patriarchi, in particolare Abrahamo (Romani 11:28 conferma che Paolo aveva in mente i patriarchi). Qualche commentatore biblico, tuttavia, ha interpretato la radice dell’ulivo come Cristo o il suo vangelo (nei tempi antichi, i padri della Chiesa; nei tempi moderni, Karl Barth per esempio). Questa è un’idea molto pericolosa, molto vicina all’altra, vecchia e marcia, che la radice rappresenta il Nuovo Israele, cioè la Chiesa.
Una volta che un esegeta collega la metafora della radice di Paolo alla Chiesa, non può evitare facilmente la successiva e più perniciosa conclusione: l’Israele carnale ha cessato di esistere tanto tempo fa. Rigettando l’Israele carnale, Dio ha ceduto il suo posto ad un altro. Quell’altro sarebbe la Chiesa.
Ci sono sostanzialmente due motivi per cui la radice dell’ulivo è stata erroneamente interpretata come simboleggiante il Messia. Il primo è dovuto alla parola greca riza (radice) che ricorre in Romani 11:16. Riza sembra essere in parallelo con la parola greca aparche (primizia), la quale rimanda a 1Corinzi 15:20,23 dove Paolo si è riferito a Gesù, il Messia, come all’aparche – «la primizia di quelli che dormono».
Le due parti di Romani 11:16, tuttavia, dovrebbero essere lette sia insieme che indipendentemente. Il Nuovo Testamento è stato diviso in versi nel 1551. Questa divisione è molto utile per cercare un verso, ma nello stesso tempo può influire sull’interpretazione. Nel nostro caso, il verso 16a («e se la primizia è santa, anche la massa è santa») appartiene principalmente alla discussione precedente, dove aparche si riferisce ai primi seguaci ebrei di Gesù. Paolo usa il termine in questo senso sia in Romani 16:5 («Epeneto, che è la primizia dell’Asia»); sia in 1Corinzi 16:15 («la famiglia di Stefana…la primizia dell’Acaia»). In Romani 16:11 Paolo chiede: «Hanno essi così inciampato da cadere?». Il verso 16a serve come argomento aggiuntivo che questo non era il caso.
Il ragionamento di Paolo riguardo al suo popolo include un’allusione a Numeri 15:17-21: «L’Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo: Parla ai figliuoli d’Israele e di’ loro: Quando sarete arrivati nel paese dove io vi conduco, e mangerete del pane di quel paese, ne preleverete un’offerta da presentare all’Eterno. Delle primizie della vostra pasta metterete da parte una focaccia come offerta; la metterete da parte, come si mette da parte l’offerta dell’aia. Delle primizie della vostra pasta darete all’Eterno una parte come offerta, di generazione in generazione».
Agli Israeliti era stato ordinato di presentare come offerta un pane ottenuto dalla primizia del raccolto del grano. Questo pane rappresentava l’intero raccolto della stagione, e dunque l’intero raccolto sarebbe stato santificato. Il numero relativamente piccolo di Giudei che hanno accettato Gesù come Messia era, parlando figurativamente, la primizia della nazione d’Israele. Proprio come l’offerta del pane, la primizia della nazione era garanzia della santificazione di tutta la nazione. Per Paolo, questa minoranza che aveva creduto al messaggio del vangelo dimostrava che la nazione ebraica non era stata rigettata. La sua « caduta » non era né completa né definitiva. Dio non aveva abbandonato il popolo in favore di un altro.
Paolo conclude i suoi pensieri sulla situazione d’Israele con questa prima metafora della massa. Malgrado Israele sia inciampata, la fedeltà di una parte della nazione aveva delle implicazioni spirituali che facevano da garanzia per tutta la nazione, ovvero, la fedeltà dei credenti Giudei in Gesù è una garanzia per tutto il popolo giudaico! Se la primizia è santa, anche la massa è santa (v.16a). A questo punto, Paolo sposta la discussione in una nuova direzione.
Egli volge la sua attenzione ai credenti Gentili, nel tentativo di metterli in guardia contro un inappropriato orgoglio. Probabilmente esisteva un mascherato sentimento anti-giudaico tra i membri Gentili della Chiesa di Roma. Questi credenti avrebbero volentieri sfruttato il vantaggio dei privilegi garantiti dal governo Romano alla religione giudaica, ma nello stesso tempo desideravano essere considerati diversi da quella comunità (ciò che in effetti è avvenuto non molti anni dopo).
Paolo introduce l’immagine degli ulivi, quello domestico e quello selvatico, e in tale immagine, i rami naturali che sono rimasti rappresentano i credenti Giudei. Nel suo pensiero, sia i Giudei che avevano accettato Gesù come Messia, sia quelli che non lo avevano accettato, erano figli di Abrahamo; i primi attraverso la fede e l’eredità fisica, i secondi solo per l’eredità fisica. La radice era santa, e, quindi, anche tutti i rami naturali lo sarebbero stati. Ma alcuni di essi sono stati troncati ed al loro posto sono stati innestati dei rami selvatici, i quali hanno poi tratto beneficio dalla radice e, come i rami naturali, ora anch’essi sono santi.
Il secondo e più influente motivo che ha condotto ad interpretare erroneamente la metafora della «radice» come se fosse il Messia, si trova in un altro brano messianico a cui Paolo fa riferimento: «la radice di Iesse». In Romani 15:12, l’apostolo cita Isaia 11:10 dalla versione Septuaginta: «Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili». Il testo Masoretico legge: «In quel giorno, verso la radice d’Isai, issata come vessillo dei popoli, si volgeranno premurose le nazioni, e il luogo del suo riposo sarà glorioso». A sua volta Giovanni, nell’Apocalisse, si riferisce a Gesù come alla «radice [rampollo] di Davide» (Apocalisse 5:5; 22:16).
In Isaia 11 la «radice d’Isai» ricorre due volte, una nel v. 1 e l’altra nel v. 10. Paolo ha scelto di citare dal meno chiaro v. 10 d’Isaia, che sembra indicare che la «radice d’Isai» s’innalzerà per diventare un Vessillo sopra le nazioni. Probabilmente il v. 10 ha attirato l’attenzione di Paolo a causa della parola «nazioni» o «Gentili», che invece non ricorre nel v.1. Egli ha voluto sottolineare che il Messia era venuto sia per i Giudei che per i Gentili. Romani 15:9-12 è un insieme di testi profetici che enfatizzano la venuta del Messia per i Gentili.
Isaia 11:10 non può essere letto indipendentemente da Isaia 11:1. I commentatori ebraici sia tradizionali che moderni hanno fatto frequente menzione di questo fatto. Ad esempio, il Radak (un acronimo per Rabbi David Kimchi, un famoso esegeta biblico che visse in Francia tra il XII e il XIII secolo), dice riguardo «la radice d’Isai» del v.10:
«questi è colui che esce dalla radice d’Isai, come è scritto: e un rampollo spunterà dalle sue radici (v. 1), poiché Isai è la radice». Sia il Targum Onkelos che quello di Jonathan hanno reso il v.1: «E un re uscirà dai figli d’Isai, e il Messia dai figli dei suoi figli sarà unto». La frase «radice d’Isai» è una forma abbreviata di «un germoglio della radice d’Isai». È il ramo (h?oter) o il rampollo (nes?er) e non il tronco o la radice, che simboleggia la futura figura messianica.
Paolo ha inteso Isaia 11:10 nello stesso senso degli esegeti ebrei tradizionali. Egli ha fatto un’allusione al brano d’Isaia anche mentre predicava in una sinagoga di Antiochia di Pisidia (Atti 13:22,23), descrivendo Gesù come il Salvatore discendente dalla progenie di Iesse (Isai). Qui la progenie corrisponde alla radice di Iesse, dalla quale è spuntato il germoglio Gesù.
Leggere Romani 11:16b-24 insieme a Rom.15:12 senza considerare correttamente Isaia 11:1,10 può condurre facilmente a delle conclusioni sbagliate. La «radice di Iesse» non dovrebbe essere paragonata con la radice santa dell’albero dell’ulivo. Benché Isaia 11:10 parli metaforicamente della «radice d’Isai», questo verso deve essere letto alla luce di Isaia 11:1. «La radice d’Isai» del v. 10 si riferisce al ramo che esce dalla radice (tronco) d’Isai.
Ma se Paolo, quando scriveva Romani 11:16b-24, non pensava ad Isaia 11:10, da dove ha ricavato la sua metafora? Proviamo a considerare Geremia 11:16, dove il profeta parlava di un bello e verdeggiante ulivo i cui rami correvano il pericolo di essere infranti. La Riveduta traduce:
«L’Eterno t’aveva chiamato Ulivo verdeggiante, adorno di bei frutti. Al rumore di un gran tumulto, egli v’appicca il fuoco e i rami ne sono infranti».
La CEI che qui si avvicina di più alla versione greca della Septuaginta legge diversamente:
«Ulivo verde, maestoso, era il nome che il Signore ti aveva imposto. Con grande strepito ha dato fuoco alle sue foglie, i suoi rami si sono bruciati».
Indipendentemente da quale testo, ebraico o greco, Paolo aveva in mente, la metafora è coerente con quella di Romani 11:17. Nell’allegoria di Geremia, l’ulivo simboleggiava chiaramente il popolo d’Israele. Il profeta ha metaforicamente parlato dell’albero per indicare la casa d’Israele (Geremia 11:10), il popolo (Geremia 11:14) e l’amato di Dio (Geremia 11:15). In Romani 11:28, Paolo ha parlato d’Israele come amato da Dio, e sembra aver seguito la guida del profeta Geremia nel paragonare il popolo ebraico ad un ulivo. Paolo non era stato dunque il primo a fare un tale confronto. Geremia aveva fatto lo stesso nel sesto secolo a.C.
Scrive Marvin R. Wilson: «Così la Chiesa, fermamente piantata nel terreno ebraico, trova la sua vera identità, collegata ad Israele. La Chiesa viene nutrita, sostenuta e sorretta da questa relazione» (Marvin R. Wilson, Abrahamo nostro padre, p. 45). Ed ancora: «Perciò, l’insolito tipo di innesto qui descritto, prendere ciò che è selvatico per natura e unirlo intimamente a qualcosa di scelto e di coltivato, sottintende che, ciò che è ritenuto indegno e non ha nulla di che vantarsi, improvvisamente riceve valore da questa nuova connessione… I gentili, che semplicemente stanno «ritti per la fede» (Rom.11:20) senza pretesa di merito umano o di superiorità, ricevono ora nuova vita e vigore grazie al popolo ebraico… Fermamente sostenuti dalla robustezza della radice dell’ulivo, i gentili non possono far spazio a uno spirito di arroganza, di orgoglio o di autosufficienza. Dipendono dagli Ebrei per la salvezza e per l’esistenza spirituale… Dal tempo di Paolo fino ad oggi, la chiesa ha considerato la sua esistenza indipendentemente da Israele. Nella concezione paolina, qualsiasi chiesa che esistesse indipendentemente da Israele, cessava di far parte del piano di salvezza di Dio e diventava semplicemente un’altra società religiosa… Si potrebbe dire che affinché un gentile abbia una giusta relazione con Dio, egli deve accettare e apprezzare umilmente un Libro ebraico, credere in un Signore ebreo, ed essere innestato nel popolo ebraico, conformandosi, di conseguenza a quell’ambiente… In breve, la questione fondamentale è riuscire a comprendere se noi che prima non eravamo il Suo popolo, e che lo siamo diventati solo per grazia, possiamo imparare qualcosa da quello che fin dall’antichità è stato il Suo popolo» (Marvin R. Wilson, op. cit., pp. 47-49).

Riflessioni storiche
Bisogna guardare con apprensione l’erronea associazione che alcuni “cristiani” hanno fatto nel corso della storia tra Romani 11:17 e Giovanni 15:6: «Se uno non dimora in me, è gettato via come il tralcio, e si secca; cotesti tralci si raccolgono, si gettano nel fuoco e si bruciano». Questi due versi condividono la comune immagine dei rami. In Giovanni, i rami (tralci) rappresentano il popolo che non dimora in Cristo. Essendo stati gettati via, questi rami vengono raccolti e bruciati. I rami di Romani 11 non sono stati bruciati, ma aspettano di essere nuovamente innestati.
Introdotta da Papa Innocenzo III (1198-1216) ed eseguita principalmente dai Domenicani e dai Francescani, l’Inquisizione ha raggiunto il suo zenit in Spagna tra il 1474 e 1504, durante il regno del re “cristiano” di Castiglia, Ferdinando V e della sua regina Isabella, gli stessi che hanno finanziato il viaggio di Cristoforo Colombo (di sospetta origine ebraica). Tranne brevi intervalli, l’Inquisizione è continuata fino al 1820!
Nel 1483 Ferdinando ed Isabella hanno nominato il loro confessore, Tommaso de Torquemada (1420-1498), un priore dell’Ordine dei Domenicani, come Grande Inquisitore. È stato Torquemada ad organizzare l’Inquisizione spagnola, costituendo corti ecclesiastiche in diverse città con lo scopo di dare la caccia agli eretici (di solito verso i Giudei che erano stati costretti a convertirsi al cristianesimo ma che avevano mantenuto i contatti con la comunità giudaica) e lasciare direttive per i prosecutori, o inquisitori. Fu sempre Torquemada ad essere il principale responsabile della cacciata dei Giudei dalla Spagna nel 1492.
Le corti dell’Inquisizione confiscavano le proprietà dei condannati per eresia. Inizialmente, i beni confiscati diventavano di proprietà dello Stato, ma, poiché l’attività si prolungava nel tempo, essi venivano convogliati sempre di più verso le corti stesse. Questa ricchezza riforniva la macchina dell’Inquisizione, dando ai tribunali una potenza tremenda. Siccome i tribunali ricavavano un grande vantaggio finanziario se l’accusato veniva condannato, era sempre più difficile per l’accusato ottenere l’assoluzione. Infatti, in breve tempo, difficilmente chiunque fosse portato davanti a queste corti veniva assolto – specialmente i benestanti!
L’accusato veniva condannato con la minima prova. I capi famiglia venivano imprigionati e le loro proprietà confiscate. Le famiglie venivano ridotte alla povertà dalla sera alla mattina. Dal 16° al 18° secolo l’economia una volta prosperosa della Penisola Iberica, fu devastata a causa delle misure draconiane delle corti dell’Inquisizione. Fino ad oggi, Spagna e Portogallo non hanno mai più recuperato la loro precedente gloria.
La forma più grave di punizione assegnata dai tribunali dell’Inquisizione era il rogo. Tuttavia, come braccio della chiesa, alle corti non era permesso di eseguire queste esecuzioni. Quindi, esse ricorrevano ad una finzione legale: il condannato a morte veniva consegnato alle autorità secolari accompagnato da un appello scritto col quale si chiedeva di fare clemenza, ed al quale veniva aggiunta una raccomandazione, che, se le autorità si sentissero in dovere di eseguire la condanna, dovevano farlo «senza spargimento di sangue». In altre parole, essi avrebbero dovuto dare fuoco alla vittima. Questo tipo di esecuzione è stato giustificato con Giovanni 15:6.
Per quelli che conducevano l’Inquisizione, chi «non dimorava in Cristo» era da bruciare. Se quei falsi cristiani erano «i tralci che si gettano nel fuoco» di Giovanni 15:6, essi indubbiamente erano anche i rami «troncati» di Romani 11:17. Poiché Dio stesso aveva troncato i rami menzionati in Romani 11, sicuramente, gli inquisitori devono aver pensato, era volontà di Dio che questi ingannatori confessassero la loro eresia e subissero la punizione.
La storia dell’orrenda interpretazione di Giovanni 15:6 dovrebbe guidare tutti i cristiani a considerare l’importanza di una sana cultura biblica e dei pericoli enormi inerenti ad una erronea interpretazione della Scrittura.
Questa riflessione storica su Giovanni 15:6 è un sollecito ad essere vigilanti affinché non ripetiamo i peccati dei nostri antenati. Credo che, come cristiano, non ho il coraggio di dire: «Se fossimo stati ai giorni dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nello spargere il sangue dei profeti» (Matteo 23:30). Piuttosto, dobbiamo accettare la responsabilità per i peccati dei nostri antenati, fare voto di non ripeterli, esprimere il nostro dispiacere al popolo ebraico e fare il possibile per far dimenticare quei peccati.
Mi rendo conto che è facile oggi, che viviamo in un’età più illuminata, criticare i nostri predecessori, ma so che è nostra responsabilità denunciare l’anti-semitismo cristiano, quello passato e quello presente. Gli atteggiamenti e le azioni anti-semite di questi antenati, sono stati più orribili di quanto siamo in grado di descrivere ed è nostro dovere, nel nostro piccolo, riparare al danno fatto. Non sono esenti da colpe, anzi sono da condannare, i padri della Chiesa come Ignazio, Giustino Martire, Origene, Giovanni Crisostomo, ed altri.
L’inumanità e la corruzione dell’anti-semitismo cristiano non possono essere scusate – meglio condannare con forza piuttosto che tentare l’impossibile compito di giustificarlo. Dobbiamo sentirci scandalizzati e messi in imbarazzo dalle espressioni di anti-semitismo cristiano come l’Inquisizione, le Crociate, l’esplosione dei pogrom nel 18°, 19° ed anche 20° secolo in Russia ed Ucraina, ed infine l’Olocausto. Deploriamo con forza le parole e gli atti anti-semitici dei nostri antenati che dicevano di professare il cristianesimo. La mia speranza è che possiamo apprendere dalla storia e, con l’aiuto di Dio, migliorare e cercare di ripristinare per quanto ci è possibile, i rapporti rotti tra la chiesa e la sinagoga. Amen!

Articolo tratto dal libro di Quintavalle Argentino: “ELEMENTI ESSENZIALI DELLA FEDE GIUDEO-CRISTIANA”.

Publié dans:CHIESA EVANGELICA, Lettera ai Romani |on 16 janvier, 2012 |Pas de commentaires »

L’elmo della salvezza (Efesini 6:11-18).

dal sito:

http://camcris.altervista.org/medelmo.html

L’elmo della salvezza

(Chiesa Evangelica Pentecostale)

da uno scritto di Giacinto Butindaro

« Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate star saldi contro le insidie del diavolo; il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti.
Perciò prendete la completa armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio, e restare in piedi dopo aver compiuto tutto il vostro dovere.
State dunque saldi: prendete la verità per cintura dei vostri fianchi; rivestitevi della corazza della giustizia; mettete come calzature ai vostri piedi lo zelo dato dal vangelo della pace; prendete oltre a tutto ciò lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infocati del maligno.
Prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio; pregate in ogni tempo, per mezzo dello Spirito, con ogni preghiera e supplica » (Efesini 6:11-18).

Abbiamo letto: « Prendete anche l’elmo della salvezza » (verso 17). Siccome l’elmo, il soldato se lo mette sul capo, e Paolo dice che dobbiamo prendere « per elmo la speranza della salvezza » (1 Tess. 5:8), noi credenti, che abbiamo creduto al Vangelo di Cristo, ci dobbiamo armare di questo pensiero, e cioè che noi siamo stati salvati in speranza. Ora, fermo restando che noi che abbiamo creduto siamo stati salvati dai nostri peccati ed abbiamo la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore rimane il fatto che ancora non abbiamo ottenuto « la redenzione del nostro corpo » (Rom. 8:23); questa è la ragione per cui noi diciamo di aspettare quella che Paolo chiama « la piena redenzione di quelli che Dio s’è acquistati » (Ef. 1:14), la quale sarà manifestata quando il nostro Signore Gesù apparirà dal cielo. È proprio così fratelli; per questo noi figliuoli di Dio in questa tenda, che è la nostra dimora terrena, « gemiamo » (Rom. 8:23), perchè desideriamo che ciò che è mortale (il nostro corpo) sia sopravvestito della nostra abitazione che è celeste. Noi sappiamo che questo nostro buon desiderio sarà esaudito alla risurrezione dei giusti, quando al suono della tromba di Dio i morti in Cristo risusciteranno ed i santi che saranno trovati viventi saranno mutati in un batter d’occhio per andare insieme ai risorti ad incontrare il Signore nell’aria. Quello è il giorno della nostra salvezza che noi vediamo avvicinarsi in gran fretta e che abbiamo speranza di vedere. È vero che quando parliamo della nostra redenzione parliamo di qualche cosa che non vediamo ma d’altronde non può essere altrimenti perchè « la speranza di quel che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perchè lo spererebbe egli ancora? » (Rom. 8:24); ma noi abbiamo la fede che Dio ci ha dato, la quale è certezza di cose che si sperano, e sorretti da questa fede, con la pazienza prodotta dalle nostre afflizioni e mediante la consolazione delle Scritture noi aspettiamo ciò che non vediamo, sicuri che il Signore Gesù ci salverà dall’ira a venire quando in quel giorno verrà con gli angeli della sua potenza a prendere tutti i suoi eletti, per portarci nel cielo. Per entrare nel Paradiso di Dio dobbiamo possedere un corpo immortale ed incorruttibile perchè « carne e sangue non possono eredare il regno di Dio » (1 Cor. 15:50), e per ottenerlo dobbiamo aspettare quel giorno: Dio ha stabilito così, è il suo disegno, quindi fratelli continuiamo ad attendere il Signore perchè di certo Egli al tempo fissato da Dio apparirà dal cielo « a quelli che l’aspettano per la loro salvezza » (Ebr. 9:28) e ci darà un corpo glorioso e potente con il quale potremo ereditare il Regno eterno del nostro Signore Gesù Cristo.

2° Corinzi 13 : 11-13 – (commento della Chiesa Evangelica)

dal sito:

http://www.chiesaevangelicadivolla.it/11-13.html

2° Corinzi 13 : 11-13

(commento della Chiesa Evangelica)

I versetti proposti concludono questa epistola di Paolo e probabilmente costituiscono una espressione liturgica. Tale è per noi quella del v. 13 presente in (quasi) tutte le liturgie del culto evangelico come dossologia conclusiva di carattere ternario/trinitario. Ancora una presentazione di Dio quale “Dio dell’amore” – locuzione che ricorre solo in questo testo – e “Dio della pace”. Al termine del v.11 viene menzionato Iddio come Colui che sarà ‘operativamente presente’ innanzitutto là ove v’è il senso della gioia (Fil 3:1 e 4:4); non quella vuota, propria di tante spiritualità rumorose e disincarnate, bensì come contras-segno di una serenità che deriva da una oculata fede in Lui.
 
Il credente sa anche che deve ‘gioire’, ‘rallegrarsi’ con chi gioisce ma anche ‘piangere’ in modo solidale ed empatico con chi piange; condividere il suo dolore, la sua sofferenza, essergli accanto nelle svolte e nelle problematiche difficoltà esisten-ziali (Rm 12:15 “Rallegratevi con quelli che sono allegri; piangete con quelli che piangono”. Una tale “gioia” sarà vera solo se si è in cammino verso la “perfezione”.
Dio è presente là ove esiste una tensione viva verso la ‘perfezione’ alla quale si tende con gli altri e mai senza di loro (1 Cor 1:2 con 13:10a). La perfezione prima di essere escatologica (1Cor 13:10) è ‘storica’, è a nostra misura anche se nei limiti delle nostre possibilità, perciò l’apostolo scrive: “ricercate la perfezione”, cioè “cercate di mettervi in ordine” nel senso che “i membri della chiesa devono aiutarsi vicendevolmente nell’educa-zione così da rafforzarsi l’un l’altro, anche se il successo finale (quello escatologico) è e rimane opera di Dio, 1 Pt 5:10). Cosa occorre fare? Le condizioni per esperire tale ‘perfe-zione’ sono (a) l’incoraggiamento vicende-vole (“siate consolati”, cioè ‘esortatevi a vicenda’), (b) unità (“abbiate un medesimo sentimento”, lett.: ‘pensate la stessa cosa’, cfr Mt 18:20 con At 1:14, 2:46, 4:24, 5:12 testi ove si legge di un ‘pari consentimento’); (c) pace (« vivete in pace »): l’invito a vivere in pace è tipico di Paolo, altrove lo si trova solo in Mc 9:50. Il credente serio, il discepolo di Gesù, deve sforzarsi di vivere in pace con tutti (condominio, vicini di casa, ambiente di lavoro, ecc.) per quanto dipende da lui (Rm 12:18), ma a maggior ragione deve farlo con i propri fratelli e sorelle di fede (« Vivete in pace tra di voi! », 1 Ts 5:13b). Già prima, 1 Ts 4:11 recita « Vi esortiamo .a cercare di vivere in pace, di curare i vostri beni – o i vostri affari (Per Diodati: ‘di fare i fatti vostri’), di lavorare con le vostre mani come vi abbiamo ordinato, affinché camminiate dignitosamente verso quelli di fuori.).
La vita di una comunità deve risultare para-digmatica, esemplare per quanti non vivono la realtà del dettato evangelico. Non si è ‘chiesa’ se non si vive una evangelicità mondana, pre-sente efficacemente nel mondo, nella società del nostro tempo, ben ricordando che “la creazione – e l’umanità con essa – aspetta con impazienza la manifestazione (= apocalisse, rivelazione) dei figli di Dio” (Rm 8:19).
Il risultato o il frutto di tale condotta sarà la presenza del “Dio dell’amore e della pace”. Nessuno si scandalizzi o si offenda se da queste parole paoliniche apprendiamo che possiamo pur avere dei culti affollati e rumo-rosi o piccole aggregazioni cultuali ordinate e borghesi, ma senza che vi sia la presenza di Dio. Si avranno degli happening religiosi ma non il coagulo di credenti come ‘corpo di Cristo’ intorno al Dio presente e operante.
* »La grazia del Signor nostro Gesù Cristo. ». E’ imprescindibile vivere il favore di Colui che è morto ed è risuscitato solo per venirci incontro. Ricordiamoci e ricordiamo che solo per grazia, e grazia permanente, siamo salvati e non per alcun merito nostro. “L’amore di Dio…” di Colui che ab aeterno si è preoccupato in prima per-sona della salvezza di tutti gli uomini. “La comunione dello Spirito” che, mandato nella nostra storia, per la sua propria onticità, mantiene e conserva un rapporto pieno ed inglobativo tra la nostra umanità ed il Dio Uno e Trino.
Dio è fedele, ma è anche ‘trinitario’ Dio d’amore e di pace.

Mario Affuso

da: La grazia a caro prezzo (Dietrich Bonhoeffer)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/bonhoeffer_sequela2.htm

Dietrich Bonhoeffer

da SEQUELA:

Parte prima

La grazia a caro prezzo

La grazia a buon prezzo è il nemico mortale della nostra Chiesa. Noi oggi lottiamo per la grazia a caro prezzo.

Grazia a buon prezzo è grazia considerata materiale da scarto, perdono sprecato, consolazione sprecata, sacramento sprecato; grazia considerata magazzino inesauribile della Chiesa, da cui si dispensano i beni a piene mani, a cuor leggero, senza limiti; grazia senza prezzo, senza spese. L’essenza della grazia, così si dice, è appunto questo, che il conto è stato pagato in anticipo, per tutti i tempi. E così, se il conto è stato saldato, si può avere tutto gratis. Le spese sostenute sono infinitamente grandi, immensa è quindi anche la possibilità di uso e di spreco. Che senso avrebbe una grazia che non fosse grazia a buon prezzo?
Grazia a buon prezzo è grazia intesa come dottrina, come principio, come sistema; è perdono dei peccati inteso come verità generale, come concetto cristiano di Dio. Chi la accetta, ha già ottenuto il perdono dei peccati. La Chiesa che annunzia questa grazia, in base a questo suo insegnamento è già partecipe della grazia. In questa Chiesa il mondo vede cancellati, per poco prezzo, i peccati di cui non si pente e dai quali tanto meno desidera essere liberato. Grazia a buon prezzo, perciò, è rinnegamento della Parola vivente di Dio, rinnegamento dell’incarnazione della Parola di Dio.
Grazia a buon prezzo è giustificazione non del peccatore, ma del peccato. Visto che la grazia fa tutto da sé, tutto può andare avanti come prima. «È inutile che ci diamo da fare». Il mondo resta mondo e noi restiamo peccatori «anche nella migliore delle vite». Perciò anche il cristiano viva come vive il mondo, si adegui in ogni cosa al mondo e non si periti in nessun modo – a scanso di essere accusato dell’eresia di fanatismo – di condurre, sotto la grazia, una vita diversa da quella che conduceva sotto il peccato. Si guardi bene dall’infierire contro la grazia, dall’offendere la grande grazia data a buon prezzo, dall’erigere una nuova schiavitù dell’interpretazione letterale, tentando di condurre una vita in obbedienza ai comandamenti di Gesù Cristo! Il mondo è giustificato per grazia, e perciò – in nome della serietà di questa grazia! per non opporsi a questa insostituibile grazia! ~ il cristiano viva come vive il resto del mondo! Certo, il cristiano desidererebbe fare qualcosa di straordinario; è senza dubbio la rinuncia più difficile quella di non farlo, ma di dover vivere come il mondo! Ma il cristiano deve accettare questo sacrificio, essere pronto a rinunciare a se stesso e a non distinguersi, nel suo modo di vivere, dal mondo. Deve lasciare che la grazia sia veramente grazia, in modo da non distruggere la fede del mondo in questa grazia a buon prezzo. Il cristiano sia, nella sua vita secolare, in questo sacrificio inevitabile che deve compiere per il mondo – anzi, per la grazia! – tranquillo e sicuro nel possesso di questa grazia che fa tutto da sé. Il cristiano, dunque, non segua Cristo, ma si consoli della grazia! Questa grazia a buon prezzo, che è giustificazione del peccato, e non giustificazione del peccatore penitente che si libera dal suo peccato e torna indietro; non perdono del peccato che separa dal peccato. Grazia a buon prezzo è quella grazia che noi concediamo a noi stessi.
Grazia a buon prezzo è annunzio del perdono senza pentimento, è battesimo senza disciplina di comunità, è Santa Cena senza confessione dei peccati, è assoluzione senza confessione personale. Grazia a buon prezzo è grazia senza che si segua Cristo, grazia senza croce, grazia senza il Cristo vivente, incarnato.
Grazia a caro prezzo è il tesoro nascosto nel campo, per amore del quale l’uomo va e vende tutto ciò che ha, con gioia; la perla preziosa, per il cui acquisto il commerciante dà tutti i suoi beni; la Signoria di Cristo, per la quale l’uomo si cava l’occhio che lo scandalizza, la chiamata di Gesù Cristo che spinge il discepolo a lasciare le sue reti e a seguirlo.
Grazia a caro prezzo è « l’Evangelo che si deve sempre di nuovo cercare, il dono che si deve sempre di nuovo chiedere, la porta alla quale si deve sempre di nuovo picchiare.
È a caro prezzo perché ci chiama a seguire, è grazia, perché chiama a seguire Gesù Cristo; è a caro prezzo, perché l’uomo l’acquista al prezzo della propria vita, è grazia, perché proprio in questo modo gli dona la vita; è cara, perché condanna il peccato, è grazia, perché giustifica il peccatore. La grazia è a caro prezzo soprattutto perché è costata molto a Dio; a Dio è costata la vita del suo Figliolo – «siete stati comperati a caro prezzo» – e perché per noi non può valere poco ciò che a Dio è costato caro. È soprattutto grazia, perché Dio non ha ritenuto troppo caro il suo Figlio per riscattare la nostra vita, ma lo ha dato per noi. Grazia cara è l’incarnazione di Dio.
Grazia a caro prezzo è la grazia ritenuta cosa sacra a Dio, che deve essere protetta di fronte al mondo, che non deve essere gettata ai cani; è grazia perché Parola vivente, Parola di Dio, che lui stesso pronuncia come gli piace. Essa ci viene incontro come misericordioso invito a seguire Gesù, raggiunge lo spirito umiliato ed il cuore contrito come parola di perdono. La grazia è a caro prezzo perché aggioga l’uomo costringendolo a seguire Gesù Cristo, ma è grazia il fatto che Gesù ci dice: «Il mio giogo è soave e il mio peso leggero».
Due volte è stata rivolta a Pietro la chiamata: seguimi!
È stata la prima e l’ultima parola di Gesù al suo discepolo (Mc 1,17; Gv. 21,22). Tutta la vita di questo è posta tra queste due chiamate. La prima volta Pietro ha sentito l’invito di Gesù sul lago di Genezaret ed ha abbandonato le sue reti, la sua professione, e lo ha letteralmente seguito. L’ultima volta il Risorto lo trova di nuovo nella sua professione di prima, sul lago di Genezaret, ed ancora una volta gli dice: seguimi! Frammezzo c’è stata tutta una vita di discepolato al seguito di Cristo; al centro la sua professione di fede in Gesù come il Cristo (l’unto) di Dio. Tre volte a Pietro fu annunziata la stessa cosa: al principio e alla fine a Cesarea di Filippo, che, cioè, Cristo è il suo Dio e il suo Signore. È la stessa grazia di Dio che lo chiama: seguimi! e che si manifesta nella sua professione di fede nel Figlio di Dio.
Per tre volte la grazia si è fermata sulla via di Pietro: una grazia annunziata tre volte in maniera diversa; e così fu la grazia di Cristo stesso, e non certo una grazia che il discepolo si annunziava da se stesso. Fu la stessa grazia di Cristo che vinse il discepolo e lo indusse ad abbandonare tutto per seguirlo, la stessa che operò in lui la professione di fede, che a tutto il mondo doveva apparire una blasfemia, la stessa che richiamò l’infedele Pietro alla comunione del martirio e gli perdonò così tutti i peccati. Grazia e seguire Cristo, nella vita di Pietro, sono indissolubilmente legati. Egli aveva ricevuto la grazia a caro prezzo.
Con la diffusione del cristianesimo e la progressiva secolarizzazione della Chiesa, a poco a poco la conoscenza della grazia a caro prezzo andò perduta. Il mondo era cristianizzato; la grazia era divenuta un bene comune a tutto il mondo cristiano. La si poteva ottenere a poco prezzo. Ma la chiesa romana conservò un resto della sua conoscenza primitiva. Fu un fatto di importanza decisiva che il monachesimo non si separò dalla Chiesa e che la prudenza della chiesa sopportò il monachesimo. Qui, ai margini della Chiesa, era il luogo dove si manteneva ancora viva la conoscenza del prezzo della grazia, dove si sapeva che la grazia è a caro prezzo, che la grazia include la necessità di seguire Gesù. Ci furono uomini che per amore di Cristo abbandonavano tutto ciò che possedevano e cercavano di seguire, in quotidiano esercizio, i severi comandamenti di Gesù. E la vita monastica divenne una protesta vivente contro la secolarizzazione del cristianesimo, contro il rinvilimento del1a grazia. Ma la Chiesa, sopportando questa protesta e non permettendo che scoppiasse completamente, non solo la relativizzò, ma, anzi, ne trasse persino la giustificazione della sua propria vita secolarizzata; perché così la vita monastica divenne una particolare opera meritoria di singoli, alla quale il popolo non poteva essere impegnato in massa. La fatale limitazione dei comandamenti di Gesù, ritenuti validi solo per un determinato gruppo di persone particolarmente qualificate, portò alla distinzione in prestazione massima e prestazione minima dell’obbedienza cristiana.
E così ad ogni ulteriore attacco contro la secolarizzazione della Chiesa si poteva rispondere rimandando alla vita monastica entro la Chiesa, accanto alla quale l’altra possibilità di una via più facile era senz’altro giustificata. Così il rinvio al concetto di grazia a caro prezzo com’era inteso nella chiesa primitiva e come fu mantenuto nella chiesa di Roma mediante il monachesimo, servì paradossalmente a sua volta a dare l’ultima giustificazione alla secolarizzazione della Chiesa. In tutto ciò l’errore fondamentale del monachesimo non consisteva nel fatto che – con tutti i malintesi di contenuto di fronte alla volontà di Gesù – esso aveva scelto la via della grazia nella severa imitazione di Gesù; il monachesimo, piuttosto, si allontanava fondamentalmente dal cristianesimo per il fatto che permise che la sua via divenisse un’opera particolare di alcuni pochi e pretendeva che si vedesse in questa via un particolare merito. Quando il Signore risvegliò, mediante il suo servitore Martin Lutero, nella Riforma, l’Evangelo della grazia pura, a caro prezzo, egli fece passare Lutero per il monastero. Lutero fu monaco. Aveva abbandonato tutto e voleva seguire il Cristo in assoluta obbedienza. Rinunciò al mondo e si dedicò all’opera cristiana. Imparò a obbedire a Cristo e alla sua Chiesa, perché sapeva che solo chi obbedisce può credere. La vocazione ad entrare nel convento costò a Lutero l’impegno totale della sua vita. Lutero naufragò in questa sua via «andando a sbattere» contro Dio stesso. Dio, tramite la Sacra Scrittura, gli mostrò che seguire Cristo non è una particolare opera meritoria di alcuni singoli, ma comandamento divino rivolto a tutti i cristiani. L’umile atto di seguire Cristo era divenuto, nel monachesimo, opera meritoria dei santi. La rinuncia al proprio io di chi seguiva Cristo si svelò qui come estrema affermazione spirituale di se stessi da parte degli uomini pii. Con questo il mondo aveva fatto irruzione nel monachesimo stesso e agiva di nuovo nella maniera più pericolosa. L’evasione del mondo lontano dal mondo si era svelata come il più raffinato modo di amare il mondo. In questo naufragio dell’ultima possibilità di condurre una vita devota Lutero afferrò la grazia. Nel crollo del mondo monastico egli riconobbe la mano salvatrice di Dio tesa in Cristo. Egli l’afferrò convinto nella sua fede che «tutte le nostre opere sono inutili, anche nella migliore delle vite». Era una grazia a caro prezzo quella che gli si offriva, e spezzò tutta la sua esistenza. Egli dovette abbandonare un’altra volta le sue reti e seguire. La prima volta, quando entrò in convento, aveva lasciato dietro di sé tutto tranne se stesso, tranne il suo pio ‘io’; questa volta gli fu tolto anche questo. Seguì non per un suo qualche merito proprio, ma per la grazia di Dio. Non gli fu detto: «hai, sì, peccato, ma ora tutto è perdonato; resta pure dove eri prima e consolati con il perdono!». Lutero dovette abbandonare il convento e tornare nel mondo, non perché il mondo fosse buono e sacro in sé, ma perché anche il convento non era altro che mondo.
Il ritorno di Lutero dal convento nel mondo era l’attacco più grave condotto contro il mondo dopo i primordi del cristianesimo. La rinuncia al mondo da parte del monaco era una cosa da niente di fronte alla rinuncia che il mondo ebbe a subire da parte di chi tornava nel mondo. Ora l’attacco era frontale. Si doveva seguire Gesù in mezzo al mondo, ora. Ciò che si compiva come opera meritoria nelle particolari situazioni e facilitazioni della vita monastica era ora divenuto necessità, comandamento rivolto ad ogni cristiano nel mondo. L’assoluta obbedienza al comandamento di Gesù doveva ora essere messa in atto nella vita quotidiana e nella professione. Così il conflitto tra la vita del cristiano e la vita del mondo si aggravò in maniera imprevedibile. Il cristiano incalzava il mondo. Ora era una lotta «corpo a corpo».

Non si può fraintendere in maniera peggiore l’atto di Lutero che credendo che egli, con la scoperta dell’Evangelo della pura grazia, abbia proclamato la dispensa dall’obbedienza al comandamento di Gesù nel mondo, che la scoperta della Riforma sia stata la canonizzazione, la giustificazione del mondo mediante la grazia che perdona tutto. La professione laica del cristiano per Lutero trova la sua giustificazione solo nel fatto che in essa la protesta contro il mondo viene espressa in tutto il suo rigore. Solo in quanto il cristiano esercita la sua professione seguendo Gesù, questa ha acquistato un nuovo diritto basato sull’Evangelo. Non la giustificazione del peccato, ma la giustificazione del peccatore fu la ragione del ritorno di Lutero dal convento nel mondo. A Lutero era stata donata una grazia a caro prezzo: grazia perché era acqua per il campo assetato, consolazione per la paura, liberazione dalla schiavitù della via scelta da lui stesso, perdono di tutti i peccati; ma questa grazia era a caro prezzo, perché non dispensava dall’agire, anzi, rendeva infinitamente più rigorosa l’invito a seguire Gesù. Proprio, però, lì dove era a caro prezzo, era la grazia, e dove era grazia lì era a caro prezzo. Ecco il segreto dell’Evangelo della Riforma, il segreto della giustificazione del peccatore.

Eppure non è la grazia, come era stata conosciuta da Lutero, a trionfare nella ,storia della Riforma, ma il vigile istinto religioso dell’uomo, sempre pronto a trovare il luogo dove si può ottenere la grazia a minor prezzo. Bastò un leggerissimo, appena percettibile spostamento di accento, perché si compisse l’opera più perniciosa e pericolosa. Ll1tero aveva insegnato che l’uomo non può giustificarsi davanti a Dio nemmeno con le sue vie e le sue opere migliori, perché, in fondo, egli cerca sempre se stesso. In questa sua situazione così misera egli aveva afferrato per fede la grazia del perdono libero e incondizionato di tutti i suoi peccati. E Lutero sapeva che questa grazia gli era costata, e gli costava ogni giorno, la vita, poiché la grazia non lo dispensava dal seguire Cristo, ma anzi ve lo spingeva ancor più. Quando Lutero parlava della grazia, intendeva sempre riferirsi anche alla vita che solo tramite la grazia era stata sottoposta pienamente all’obbedienza a Cristo. Non poteva parlare della grazia se non in questo modo. È la grazia sola ad agire, aveva detto Lutero, ed i suoi discepoli lo ripetevano alla lettera, con la sola differenza che ben presto lasciarono da parte, sia nel pensiero che nelle parole, ciò che era sempre stato pensiero ovvio per Lutero, cioè la necessità di seguire Gesù; Lutero non aveva bisogno di esprimere questo pensiero, perché parlava sempre come uno che dalla grazia era stato condotto per la via più difficile del discepolato. L’insegnamento dei suoi seguaci, quindi, proveniva senz’altro dall’insegnamento di Lutero, eppure questo insegnamento segnò la fine e la rovina della Riforma in quanto manifestazione della grazia a caro prezzo di Dio in terra. La giustificazione del peccatore nel mondo fu mutata in giustificazione del peccato e del mondo. La grazia a caro prezzo fu mutata in grazia a buon prezzo senza la necessità di seguire Cristo.
Se Lutero diceva che tutte le nostre opere sono vane anche nella migliore delle vite e che presso Dio non vale altro che «la sua grazia e la sua benevolenza pronte a perdonare i peccati», lo diceva come uno che fino a quel momento, e nello stesso momento di nuovo, si sapeva chiamato ad abbandonare tutto quello che aveva e a seguire Gesù. La conoscenza della grazia fu per lui l’ultimo netto e radicale taglio col peccato della sua vita e certo non la sua giustificazione. Affermare il perdono significava per lui ultima radicale rinuncia alla propria vita, alla propria volontà; e proprio in ciò la grazia era veramente un serio invito a seguire il Signore. Era sempre il ‘risultato’, certo un risultato divino, non uno umano. Ma questo risultato presso i suoi seguaci divenne il presupposto per principio di un calcolo. Ecco in che cosa consisteva il male. Se la grazia è il ‘risultato’ di una vita cristiana, donato da Cristo stesso, questa vita non è dispensata nemmeno un attimo dal seguirlo. Se la grazia è, invece, presupposto per principio della mia vita cristiana, allora i peccati che commetto durante la mia vita in terra sono giustificati in partenza. E allora in base a questa grazia posso peccare, dato che il mondo, per principio, è giustificato per grazia. lo, allora, continuo a vivere la mia vita secolare-borghese; nulla cambia nella mia esistenza, eppure sono sicuro di essere coperto dalla grazia divina. Tutto il mondo, sotto questa grazia, è divenuto ‘cristiano’, ma il cristianesimo, sotto questa grazia, è divenuto mondo come mai in precedenza. Il conflitto fra la vita professionale cristiana e quella secolare-borghese è superato. La vita cristiana consiste appunto nel fatto che io vivo nel mondo come il mondo, che non mi distinguo in nulla da esso, anzi, non devo nemmeno – per amore della grazia! – distinguermi da esso, ma che al momento opportuno dall’ambiente ‘mondo’ mi reco nell’ambiente ‘chiesa’ per ricevervi l’assicurazione del perdono dei peccati. Sono dispensato dalla necessità di seguire Cristo mediante la grazia a buon prezzo, che deve essere il nemico più accanito della volontà di seguirlo, che deve odiare e disprezzare l’impegno a seguirlo. veramente. La grazia come presupposto è una grazia di nessun valore; la grazia come risultato è una grazia a caro prezzo. È terribile riconoscere quanto è importante il modo con cui una verità evangelica viene espressa e messa in atto. È la stessa parola che esprime la giustificazione per sola grazia, eppure l’uso errato della stessa frase porta alla distruzione totale della sua essenza.
Se Faust, alla fine della sua vita spesa nello sforzo di conoscere, dice: «Riconosco che non possiamo sapere nulla», questo è un risultato ed ha un senso ben diverso che se uno studente di primo anno si arroga tale frase per giustificare con essa la sua pigrizia (Kierkegaard). Come risultato l’affermazione è vera, come presupposto è un autoinganno. Il che significa che non si può separare ciò che è stato riconosciuto dall’esistenza che ha portato a tale constatazione. Solo chi si trova al seguito di Gesù, dopo aver rinunciato a tutto ciò che aveva, può affermare di essere giustificato per sola grazia. Egli riconosce nell’invito stesso a seguire Gesù la grazia, e nella grazia questo invito. Chi, però, pensa di essere dispensato per via della grazia dal seguirlo inganna se stesso.

Ma Lutero non ha corso lui stesso questo grav1ssimo pericolo di fraintendere completamente il concetto di grazia? Che significano le sue parole: «pecca fortiter, sed fortius fide et gaude in Christo» – pecca coraggiosamente, ma credi tanto più coraggiosamente e gioisci in Cristo * -? Dunque, sei, sì, un peccatore e non riuscirai mai a liberarti dal peccato; che tu sia monaco o laico, che voglia essere pio o malvagio, non riesci a sfuggire alle catene del mondo, pecchi comunque. E allora pecca coraggiosamente – e questo proprio perché la grazia è un fatto! – Sarebbe la proclamazione manifesta della grazia a buon prezzo, la franchigia per il peccato, l’annullamento della necessità di seguire Gesù? Sarebbe il blasfemo invito a peccare temerariamente basandosi sulla grazia? Chi potrebbe mostrare un disprezzo della grazia più diabolico di colui che pecca richiamandosi alla grazia donata da Dio? Il catechismo cattolico non ha forse ragione se vede in questo il peccato contro lo Spirito Santo?
Per poter comprendere ciò è assolutamente necessario fare una netta distinzione tra risultato e presupposto. Se la frase di Lutero diviene presupposto di una teologia della grazia, si proclama la grazia a buon prezzo. Ma la frase di Lutero non può, appunto, essere intesa come principio, ma esclusivamente come fine, come risultato, come chiave di volta, come ultima parola. Inteso come presupposto, il «pecca fortiter» diventa un principio etico; ad un principio della grazia corrisponde necessariamente il principio del «pecca fortiter». Questo è giustificazione del peccato. E così la frase di Lutero viene mutata nel suo contrario. «Pecca coraggiosamente» per Lutero non poteva essere che proprio l’ultima parola, il conforto per chi, sul suo cammino al seguito di Gesù, riconosce che non può liberarsi dal peccato e, atterrito dal peccato, dispera della grazia di Dio. Per lui il «pecca coraggiosamente» non è una ratificazione di fatto della sua vita peccaminosa, ma è l’Evangelo della grazia divina, di fronte al quale siamo, sempre ed in qualunque situazione, peccatori, Evangelo che ci cerca e giustifica proprio in quanto peccatori. Confessa pure coraggiosamente di essere peccatore, ma «credi ancora più coraggiosamente». Tu sei un peccatore, quindi sii peccatore, non voler essere diverso da quello che sei; anzi, sii pure ogni giorno di nuovo peccatore e comportati coraggiosamente come tale. Ma a chi può essere rivolto questo invito se non a colui che, ogni giorno, ricusa il peccato, che, ogni giorno, ricusa tutto ciò che gli impedisce di seguire Gesù e che pure è sconsolato per la sua quotidiana infedeltà e per il suo peccato? Chi può ascoltare questa parola senza pericolo per la sua fede se non colui che, confortato da questo incoraggiamento, sa di essere nuovamente chiamato a seguire Cristo? Così la frase di Lutero, intesa come risultato, diviene la grazia a caro prezzo, la sola vera grazia.
Grazia come principio, «pecca fortiter» come principio, grazia a buon prezzo, in fondo, non è altro che una nuova legge che non aiuta e non libera. Grazia come parola viva, «pecca fortiter» come conforto nella tentazione e chiamata a seguire Gesù, grazia a caro prezzo, è la sola grazia pura, che veramente perdona i peccati e libera il peccatore.
Ci siamo raccolti come corvi attorno al cadavere della grazia a buon prezzo, da essa abbiamo ricevuto il veleno che fece morire tra noi l’obbedienza a Gesù. La dottrina della grazia pura conobbe, sì, un’apoteosi senza pari, la dottrina pura della grazia divenne Dio stesso, la grazia stessa. Erano, in tutto, le parole di Lutero, eppure erano tramutate dalla verità in un autoinganno. Si diceva una volta che, se la nostra Chiesa ha la dottrina della giustificazione, è certo anche una Chiesa giustificata. La vera eredità di Lutero doveva, dunque, essere riconosciuta nel fatto che la grazia era resa accessibile ad un prezzo quanto mai minimo. Si considerava atteggiamento luterano lasciare che seguissero Gesù i legalisti, i riformati, i fanatici, – tutto per amore della grazia -, giustificare il mondo e dichiarare eretici i cristiani che seguivano Gesù. Un popolo era divenuto cristiano, luterano, ma sacrificando il desiderio di seguire Gesù; lo era divenuto a poco prezzo. La grazia a buon prezzo aveva vinto.
Ma lo sappiamo che questa grazia a buon prezzo è stata estremamente spietata verso di noi? Il prezzo che oggi dobbiamo pagare con la rovina delle chiese istituzionali non è forse la conseguenza necessaria della grazia acquistata troppo a buon prezzo? Predicazione e sacramenti venivano concessi ad un prezzo troppo basso; si battezzava, si cresimava, si dava l’assoluzione a tutto un popolo senza porre domande e senza mettere condizioni; per amore umano le cose sacre venivano dispensate a uomini sprezzanti e increduli; si distribuivano fiumi di grazia senza fine, mentre si udiva assai raramente l’invito a seguire Gesù con impegno. Dove restava ciò che aveva riconosciuto la Chiesa primitiva la quale, durante il catecumenato, vigilava tanto attentamente sulle frontiere tra Chiesa e mondo, sulla grazia cara? Dove restavano gli ammonimenti di Lutero di guardarsi dall’annunziare un Evangelo che tranquillizzasse gli uomini nella loro vita senza Dio? Quando mai il mondo fu cristianizzato in maniera più orrenda e funesta? Che cosa sono le tre migliaia di Sassoni uccisi da Carlo Magno fisicamente di fronte ai milioni di anime uccise oggi? Si è realizzato sopra di noi l’ammonimento che i peccati dei padri saranno puniti sopra i figli fino alla terza e quarta generazione. La grazia a buon prezzo si è mostrata alquanto spietata verso la nostra chiesa evangelica.
E spietata la grazia a buon prezzo lo è stata pure verso la maggior parte di noi personalmente. Non ci ha aperta la via verso Cristo, ma anzi l’ha bloccata. Non ci ha invitati a seguirlo, ma ci ha induriti nella disobbedienza. O non era forse spietato e duro se, dopo aver sentito l’invito a seguire Gesù come invito della grazia, dopo aver, forse, osato una volta fare i primi passi sulla via che ci portava a seguirlo nella disciplina dell’obbedienza al suo comandamento, fummo colti dalla parola della grazia a buon prezzo? Quale senso poteva avere per noi questa parola se non quello di un richiamo ad una sobrietà assai umana, inteso a fermare il nostro cammino, a soffocare in noi il piacere di seguire Gesù, con l’affermazione che questa era una via scelta solo da noi stessi, un impiego di forze, una fatica e una disciplina non solo inutili, ma addirittura dannosi? Infatti nella grazia tutto era già pronto e compiuto! Il lucignolo fumante fu spento in maniera spietata. Era spietato parlare in questo modo ad un uomo, perché egli, turbato da un’offerta così a buon prezzo, necessariamente lasciava la via alla quale era chiamato da Gesù, perché ora voleva afferrare la grazia a buon prezzo che gli precludeva per sempre la possibilità di riconoscere la grazia a caro prezzo. Non poteva essere diversamente; l’uomo debole, ingannato, possedendo la grazia a buon prezzo doveva sentirsi improvvisamente forte, mentre, in realtà, aveva perduto la forza di obbedire, di seguire Gesù. La parola della grazia a buon prezzo ha rovinato più uomini che non qualunque comandamento di buone opere.
Nelle pagine seguenti vogliamo parlare per coloro che sono tentati appunto, perché la parola della grazia è divenuta per loro terribilmente vuota. Per amore di sincerità si deve parlare per quelli tra noi che confessano che con la grazia a buon prezzo hanno perduto la vocazione di seguire Cristo, e seguendo Cristo, invece, la comprensione per la grazia a caro prezzo. E appunto perché non vogliamo negare che non seguiamo più Gesù come dovremmo, che siamo, sì, membri di una Chiesa che conserva la dottrina della grazia in maniera pura e ortodossa, ma non più altrettanto membri di una Chiesa che segue il suo Signore, dobbiamo tentare di comprendere di nuovo il senso della grazia e della vocazione a seguire Gesù nel loro giusto rapporto reciproco. Non possiamo più, oggi, eludere il problema. Diviene sempre più evidente che la difficoltà della nostra chiesa ,sta solo nel problema di come vivere, oggi, da veri cristiani.
Beati coloro che si trovano già alla fine del cammino che noi vogliamo percorrere, e che comprendono, pieni di meraviglia, quello che veramente non pare comprensibile, cioè che la grazia è a caro prezzo proprio perché è grazia pura, perché è grazia di Dio in Gesù Cristo. Beati coloro che, seguendo semplicemente Gesù Cristo, sono vinti da questa grazia, così che possono lodare con cuore umile la grazia di Cristo che sola agisce. Beati coloro che, avendo conosciuto questa grazia, possono vivere nel mondo senza perdersi in esso, che, seguendo Gesù Cristo, hanno acquistato una tale certezza della loro patria celeste, che sono veramente liberi per la vita in questo mondo. Beati coloro, per i quali seguire Gesù Cristo non ha altro significato che vivere della grazia, e per i quali grazia non ha altro significato che seguire Gesù Cristo. Beati coloro che sono divenuti cristiani in questo senso, coloro dei quali la grazia ha avuto misericordia.

* Enders III, p. 208, 118ss.

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