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GIANFRANCO RAVASI – LE SETTE PAROLE DI PAOLO

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GIANFRANCO RAVASI – LE SETTE PAROLE DI PAOLO   
      
  Avevamo lascialo Paolo che nella prima parte del suo capolavoro teologico, la lettera ai Romani, descriveva la drammatica situazione dell’uomo, dominato da tre stelle oscure: la sarx-carne, l’hamartía-peccato, il nómos legge.
Ma quest’uomo non è abbandonato a sé stesso.
Entrano in scena – soprattutto nella seconda parte dello scritto paolino (capitoli 6-8) – quattro stelle luminose che incarnano la salvezza offerta da Dio.
La prima è espressa con la parola greca cháaris, « grazia », un termine che è rimasto nel nostro « caro-carezza », nel francese « charme » e nell’inglese « charm » (« fascino »): è l’apparire gioioso e amoroso di Dio nella notte dell’anima.
Egli squarcia la nostra solitudine, mettendosi lui per primo alla nostra ricerca, incamminandosi sulle nostre strade.
In principio c’è l’amore divino che non abbandona l’uomo a sé stesso.
È questo il senso del grido finale del celebre romanzo Diario di un curato di campagna di Georges Bemanos (1888-1948): «Tutto è grazia!».
Illuminato dalla grazia, l’uomo deve rispondere con la sua libertà di adesione o di rifiuto.
Ecco allora la seconda stella luminosa, la pístis, « fede ».
Essa è simile a braccia aperte che accolgono la cháris, cioè l’amore divino donato.
È afferrare una mano sicura che ci impedisce di sprofondare nel terreno molle della nostra carne e del nostro peccato.
È a questo punto che s’accende la terza stella, quella del pneuma, lo « Spirito ».
Ora, questo vocabolo può indicare anche il respiro della vita.
Potremmo, perciò, dire che, con l’abbraccio d’amore tra la grazia divina e fede umana sopra descritto, Dio infonde in noi il suo stesso respiro, il suo Spirito, cioè la sua vita.
È per questo che noi lo possiamo considerare come padre e ci possiamo sentire come fratelli di suo figlio, Gesù Cristo.
Tra lui e noi corre la stessa vita: «Voi avete ricevuto uno spirito (pneuma) di figli adottivi per mezzo del quale gridiamo Abba’, padre» (8,16).
L’uomo che, attraverso la fede, ha accolto la grazia e ha ricevuto lo Spirito della vita divina acquista una nuova condizione che è descritta con la quarta e ultima parola greca che Paolo usa in modo originale, la dikaiosyne, la « giustificazione ».
Essa è la stella terminale che sigilla la vicenda della nostra salvezza, partita dalle tenebre e approdata alla luce: l’uomo è ora « giustificato’, cioè reso giusto e perfetto: è – per usare un’immagine paolina – una « creatura nuova ». Le opere giuste che egli compirà saranno il frutto della salvezza ottenuta.
Attraverso sette parole, usate dall’Apostolo in modo creativo, abbiamo così ricostruito l’avventura della redenzione compiuta da Cristo e che Paolo precisa nelle pagine molto dense della lettera ai Romani. Ricordiamole ora in finale, distribuendole nei due ambiti. Innanzitutto quello negativo: sarx-carne, hamartía-peccato, nómos-legge.
Poi quello positivo: cháris-grazia, pístis-fede, pneuma-Spirito, dikaiosyne-giustificazione.
  
  

LA TRASFIGURAZIONE DI PAOLO – CARLO MARIA MARTINI

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LA TRASFIGURAZIONE DI PAOLO – CARLO MARIA MARTINI

Partendo dall’episodio storico della sofferenza nella vita di Paolo, riflettiamo sulla trasfigurazione a cui l’ha portato l’interiore purificazione, per meditare poi sulla trasfigurazione del pastore. Come grazia di questa meditazione chiediamo di potere, attraverso la conoscenza dell’ Apostolo, giungere alla conoscenza di Cristo, la cui gloria risplende sul suo volto e vuole risplendere in noi. Ti ringraziamo, Padre, per il dono di gloria luminosa, affascinante, che hai posto sul volto del tuo Figlio Risorto. Questa gloria l’hai mostrata alla tua Chiesa, nel tuo servo Paolo, come l’avevi mostrata interiormente a Maria, Madre di Gesù, a Pietro e agli Apostoli. Ti ringraziamo perché continui a mostrare questa gloria nella storia della Chiesa attraverso i santi. Ti ringraziamo per i santi che abbiamo conosciuto, per tutti coloro i cui scritti, le cui parole ci edificano, per tutti coloro la cui vita ci è di sostegno. Manifesta la gloria del volto di Cristo anche a noi, perché qualcosa di quello splendore risplenda in noi stessi e, interiormente trasformati, possiamo conoscere il tuo Figlio Gesù e farlo conoscere come sorgente di trasformazione della vita di ogni uomo. Te lo chiediamo, Padre, per Cristo nostro Signore. Amen.

Quanto abbiamo detto della sofferenza di Paolo per la rottura con Barnaba può essere esteso ad altri conflitti, che hanno segnato la vita di quest’uomo straordinario: i conflitti con le comunità, soprattutto quelli a cui fanno riferimento la seconda lettera ai Corinti e la lettera ai Galati. In esse Paolo ei appare chiaramente in contrasto con certi modi di agire e in situazioni di tensione, di dolore, di solitudine. Emblematico è il conflitto con Pietro ad Antiochia, in cui Paolo si trova in una situazione estremamente imbarazzante e difficile. Innanzitutto ciò che dobbiamo ricavare da queste considerazioni è che non ei si deve stupire di queste cose: nella storia della Chiesa questi conflitti nascono. Le difficoltà di collaborazione tra preti, le difficoltà di collaborazione tra parroco e coadiutore sono di origine apostolica, cioè le troviamo già nel Nuovo Testamento. È una realtà sulla quale dobbiamo, come Paolo, continuamente riflettere per purificarci e per trovarne la soluzione in un approfondimento delle cose e non in una semplice rassegnazione. Non stupirei, ma crescere nella comprensione di noi stessi e degli altri. Se nella vita di Paolo sono entrati, in qualche momento, dei personalismi, quanto più in noi. Bisogna sapersi conoscere, sapere comprendere come nei conflitti che viviamo non sempre è in gioco soltanto l’onore e la gloria di Dio, ma qualche volta anche la nostra personalità. Bisogna saper crescere nella misericordia che è l’atteggiamento con cui Dio considera la storia e le realtà umane.

Cosa si intende per trasfigurazione Diamo alla meditazione il titolo di « trasfigurazione » perché il punto di riferimento è la Trasfigurazione di Cristo: «Mentre pregava, il suo volto cambiò di aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (Lc 9, 29). È interessante osservare che il verbo usato qui è lo stesso che Luca userà nel descrivere la luce nella quale Paolo entra nel momento dell’apparizione di Damasco: anche Paolo vive il riflesso del Cristo trasfigurato. Per descrivere la stessa scena il Vangelo di Marco parla di trasformazione: «Si trasformò, si trasfigurò» (cf. Mc 9, 2 ss). Il verbo greco è: «metamorfòthe: si trasformò», tradotto « si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime ». Questo verbo è il medesimo che Paolo usa nella lettera scritta ai Corinti per descrivere il processo di trasformazione che lui – e ogni apostolo e pastore dietro di lui ~ esperimentano, riflettendo la gloria di Cristo: «Noi tutti – è chiaro che esprime una sua esperienza che poi vuole condividere con noi – a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3, 18). È la descrizione di quanto stiamo considerando: Paolo investito della gloria del Signore a Damasco, si trasforma. Ma il verbo è al presente per indicare una azione di continua trasformazione, di gloria in gloria, per la forza dello Spirito di Dio. Si trasforma ad immagine di Gesù, acquista la luminosità di Cristo. Non dimentichiamo che la festa e l’episodio della Trasfigurazione è ampiamente usato nella liturgia della Chiesa greca per indicare ciò che avviene nel cristiano attraverso l’integrazione progressiva che egli fa dei doni battesimali e, per noi, della grazia dell’Ordinazione. Parlando di «trasfigurazione» di Paolo voglio riferirmi al crescendo di luminosità e di trasparenza che avviene in lui lungo il suo cammino pastorale e che si riflette in maniera inimitabile nelle grandi lettere. Leggendole siamo affascinati dalla chiarezza e dallo splendore della sua anima e dopo duemila anni sentiamo che dietro alle parole scritte c’è una persona viva, ricca, palpitante e illuminante. Il suo aspetto trasfigurato attraeva la gente e costituiva uno dei segreti della sua azione apostolica. Era il risultato del lungo cammino di prova, di sofferenza, di preghiere incessanti, di confidenza rinnovata. Anche il pastore, come Paolo, è chiamato a diventare, attraverso l’esperienza, le sofferenze, le fatiche, i doni di Dio, luminoso e trasparente. Nelle sue parole e nella sua azione la gente deve trovare quel sentimento di pace, di serenità, di confidenza, che è indescrivibile ma che si percepisce senza alcun ragionamento. Ciascuno di noi ha avuto modo, per grazia di Dio, di conoscere preti che sono stati così nella loro vita: irradiavano ciò che Paolo lascia trasparire abbondantemente da tutto il suo modo di parlare e di esprimersi. Vediamo di descriverlo analiticamente perché possa essere specchio ideale del pastore su cui confrontarci. – Quali sono le caratteristiche della luminosità di Paolo? Possiamo ricavarle da tre atteggiamenti interiori tipici di questa trasfigurazione e da due più esteriori. – Come raggiungere e mantenere in noi qualcosa di simile a questa trasfigurazione, che è dono di Dio anche per noi?

Gli atteggiamenti interiori della trasfigurazione a) Il primo atteggiamento, che troviamo in tutte le lettere, anche le più conflittuali, è una grande gioia interiore e pace: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4). Paolo mette chiaramente insieme le sue moltissime tribolazioni con la gioia, anzi con una gioia sovrabbondante. Che non sia forzata o idealistica lo ricaviamo dalle stesse lettere: «Abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2 Cor 4, 7). Paolo riconosce che questa gioia straordinaria viene da Dio: da sé non potrebbe averla. È tipica della trasfigurazione, non frutto di buon carattere, non dote naturale, non umana. «Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo»(2 Cor 4, 8-10). Non è una situazione di tranquillità; è una gioia vera che fa i conti con tutti i tipi di pesantezze, di difficoltà, di cose spiacevoli che gli avvengono; coi malintesi, coi malumori nei quali vive la sua giornata. Come la viviamo noi. Paolo era un po’ nevrastenico di carattere e perciò soggetto a depressioni e a momenti di sconforto. Egli sperimenta gradualmente nella sua vita che non c’è momento di sconforto in cui non appaia qualcosa di più forte dentro di lui. Ancora, è una gioia che guarda intorno a sé, è per la sua comunità, non è privata; è gioia per ciò che succede intorno a lui, per le comunità che sta seguendo. « Siamo i collaboratori della vostra gioia» (2 Cor 1, 24). E scrivendo ai Filippesi definisce le comunità come « mia gioia e mia corona» (Fil 4, 1). Non illudiamoci che fosse una comunità ideale, perfetta: anzi dalla lettera sappiamo che Paolo deve scongiurarli, quasi in ginocchio, di non litigare, di non mordersi, di non dividersi: «Non fate nulla per spirito di rivalità, per vanagloria» (Fil 2, 3). Vuole dire che c’erano rivalità e vanagloria, che la comunità non era facile, che gli creava problemi e molestie. Eppure riesce a considerarla come la sua gioia perché gli è stata donata una visuale di fede che va aldilà della considerazione delle cose puramente pragmatica, abituale, di routine. È un vero dono soprannaturale, potenza dello Spirito che era in lui ormai in grado eminente. b) Il secondo atteggiamento interiore conseguente al primo è la capacità di riconoscenza. Esorta i suoi a ringraziare con gioia il Padre (Coll, 12). È tipico dell’Apostolo unire la gioia al ringraziamento. Tutte le lettere cominciano con una preghiera di ringraziamento, eccetto quella ai Galati perché è di rimprovero. Paolo sa ringraziare e le sue parole non sono un formulario vuoto ma esprimono ciò che sente. D’altra parte lo stesso Nuovo Testamento incomincia con una preghiera di ringraziamento: infatti, con ogni probabilità, lo scritto più antico del Nuovo Testamento, quello che ha preceduto anche la stesura definitiva dei Vangeli, è la prima lettera ai Tessalonicesi. Quindi, la prima parola del Nuovo Testamento è: «Grazia a voi e pace. Ringraziamo sempre Dio per tutti voi ». All’opposto, non troviamo mai in Paolo la deplorazione sterile. C’è il rimprovero, non la rassegnata amarezza. Come dono di Dio, nella sua trasfigurazione apostolica ha la capacità di vedere sempre per prima cosa il bene. Cominciare ogni lettera col ringraziamento, vuol dire saper valutare innanzitutto il positivo che c’è nella comunità a cui scrive, anche se poi ci saranno cose gravissime, negative. All’inizio della prima lettera ai Corinti la comunità è lodata come piena di ogni dono, di ogni sapienza; poi vengono i rimproveri; ma non è un’incongruenza. Gli occhi della fede gli permettono di vedere che un briciolo di fede dei suoi poveri pagani convertiti è un dono talmente immenso da fargli lodare Dio senza fine. Il pastore maturo ha la capacità di riconoscere il bene che c’è intorno e di esprimerlo con semplicità.

c) Il terzo atteggiamento è la lode.In Paolo abbiamo quelle lodi meravigliose che continuano la tradizione giudaica delle benedizioni. Egli le sa ampliare per tutto quello che riguarda la vita della comunità, nel Cristo. Per esempio: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» (Ef 1, 3). La preghiera di Paolo, così come la conosciamo nelle lettere, è prima di tutto di lode: diventa anche di intercessione ma spontaneamente la prima espressione che gli viene è di lode. Così può valorizzare i suoi momenti più oscuri: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio» (2 Cor 1, 3). Potremmo usare le sue frasi come specchio per domandarci se possiamo dirle in prima persona come espressione di ciò che c’è in noi di più profondo (o se invece sentiamo la fatica di dire queste cose). La grazia da chiedere a Dio è che questi atteggiamenti tipici del pastore trasfigurato dal Cristo risorto, diventino nostra esperienza abituale. Il demonio ci tenta continuamente per farci ricadere nelle forme mondane della vita: la tristezza è caratteristica dell’uomo che vive nella chiusura delle prospettive. E la tristezza di fondo poi cerca l’evasione, il divertimento, tutto ciò che sembra rendere allegra la vita pur di non affrontare la tristezza.

Gli atteggiamenti esterni di Paolo trasfigurato nel Cristo a) Il primo atteggiamento esterno è l’instancabile ripresa che ha davvero del prodigioso. Fin dal primo giorno della sua conversione: predica a Damasco e deve fuggire; va a Gerusalemme, predica e lo fanno partire; a T arso rimane finché la provvidenza non lo richiama; quando lo richiama, dimenticati i risentimenti passati, riparte. Nel suo viaggio missionario praticamente ogni stazione è un ricominciare da capo; predica ad Antiochia di Pisidia, viene cacciato e va a Iconio; a Iconio minacciano un attentato contro di lui, tentano di lapidarlo e va a Listra. A Listra è sottoposto a una gragnuola di sassi. È interessante notare l’impassibilità con cui Luca descrive la scena: «Giunsero da Antiochia e da Iconio alcuni Giudei, i quali trassero dalla loro parte la folla; essi presero Paolo a sassate e quindi lo trascinarono fuori della città, credendolo morto. Allora gli si fecero attorno i discepoli ed egli, alzatosi, entrò in città. Il giorno dopo partì con Barnaba alla volta di Derbe. Dopo aver predicato il Vangelo in quella città e fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia» (At 14, 19-21). È così un po’ tutta la sua vita: da Atene esce umiliato, preso in giro dai filosofi, eppure va a Corinto e ricomincia, anche se ha l’animo pieno di timore. Questa ripresa non è umana: un uomo dopo alcuni tentativi falliti, umanamente resta fiaccato. Noi non possediamo la sua instancabilità, nemmeno lui la possedeva: è un riflesso di quella che chiamerà «la carità ». «La carità non si stanca mai» (1 Cor 13, 7). È la carità di Dio: «La carità di Dio è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). Il suo modo di agire è riversato dall’alto, è un dono, ed è quello che fa sì che la delusione non sia mai definitiva. «Siamo addirittura orgogliosi delle nostre sofferenze» (Rm 5, 3), «perché sappiamo che la sofferenza produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 3-5). Se queste parole fossero dette da un neo-convertito ai primi inizi dell’entusiasmo, potremmo pensare che parli senza esperienza. Dette da un missionario che ha vissuto vent’anni di prove, acquistano un suono diverso e ci fanno profondamente riflettere. Nessuno sforzo umano può giungere a questo atteggiamento: è la carità di Dio diffusa nei nostri cuori per lo Spirito che ci è dato. La trasfigurazione di Paolo è, ancora una volta, la forza del Risorto che entra nella sua debolezza e vive in lui. b) Il secondo atteggiamento esterno è la libertà dello spirito. Sente di avere raggiunto una situazione in cui non agisce più per costrizione o per conformazione volontaristica a modelli esterni: agisce perché è ricco dentro. Può allora assumere atteggiamenti arditi che sarebbe temerario imitare. Vediamo questa libertà di spirito nella lettera ai Galati quando dice che umanamente sarebbe stato più prudente circoncidere Tito secondo le richieste dei giudeo-cristiani: «Ad essi però non cedemmo per riguardo neppure un istante perché la verità del V angelo continuasse a rimanere salda tra di voi» (Gal 2, 5). Paolo è libero da ogni giudizio o opinione corrente: è molto difficile perseverare isolati di fronte ad una mentalità comune, ad una cultura avversa. Lo fa con estrema libertà, senza vittimismi, perché la ricchezza che sente dentro non è paragonabile in peso all’opinione altrui. Questa sua forza gli permette, a un certo punto, di opporsi addirittura a Cefa. È un caso-limite di libertà: «(Ad Antiochia) anche gli altri Giudei imitarono Pietro nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia» (Gal 2, 13). Quella che chiama ipocrisia evidentemente per Barnaba era il desiderio di mediare tra le parti. Paolo non accetta e di qui la sua resistenza che chiarisce la situazione. Una libertà che non è arbitrio o presunzione ma senso di assoluta e totale appartenenza come schiavo, come servo di Cristo. Lui stesso mette talora in parallelo l’essere servo di Cristo con l’essere libero da tutte le altre opinioni umane. In questa luce la libertà diventa una forma rigorosissima di servizio: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato a osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia. Noi infatti pei virtù dello Spirito attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità. Correvate così bene; chi vi ha tagliato la strada che non obbedite più alla verità? Questa persuasione non viene sicuramente da colui che vi chiama! Un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta. Io sono fiducioso per voi nel Signore che non penserete diversamente; ma chi vi turba, subirà la sua condanna, chiunque egli sia. Quanto a me, fratelli, se io predico ancora la circoncisione, perché sono tuttora perseguitato? È dunque annullato lo scandalo della croce? Dovrebbero farsi mutilare coloro che vi turbano. Voi fratelli, siete stati chiamati a libertà… Purché questa libertà non divenga pretesto» – e noi sappiamo che sotto la parola libertà c’è molto spesso un pretesto – « per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5, 1-13). È uno dei pochi passi in cui essere a servizio – in greco essere schiavi – si applica gli uni agli altri. L’assolutezza del servizio di Cristo rende l’uomo libero al punto di non temere di farsi schiavo del fratello. Questa libertà quindi è fonte di servizio umilissimo ed è la radice di quel «con tutta umiltà»che è la caratteristica dell’apostolato di Paolo. È difficile esprimere queste cose a parole perché si rimpiccioliscono, si banalizzano: il tentativo serve da invito a riprendere i testi di Paolo e a lasciare che agiscano su di noi come parola ispirata, in tutta la loro forza.

La trasfigurazione di Paolo è modello della trasfigurazione del pastore Ci proponiamo di riflettere quale sia la metodologia per raggiungere e mantenere questa condizione di trasfigurazione. Paolo incomincia a diventare un pastore secondo il cuore di Cristo dopo quindici anni di fatiche e sofferenze. Lo diventa per dono di Dio, non per sua conquista. Riconoscere che Dio nella sua misericordia ci trasfigura è la metodologia fondamentale. – Il primo modo per ricevere il dono divino è la contemplazione del cuore di Cristo crocifisso, che effonde lo Spirito. Contemplazione che potremmo chiamare eucaristica: prendere sul serio la duplice mensa della Parola di Dio e dell’Eucaristia, lasciarsi nutrire dalla Parola di Dio come forza che chiarisce il significato storico-salvifico del cibo che è Cristo morto e risorto. Questo cibo diventa nostro nutrimento e ci inserisce nella storia di salvezza di cui la Parola di Dio ci comunica la realtà, l’ampiezza, la direzione. Come per Paolo, anche per noi questa contemplazione è la via della Trasfigurazione. L’Apostolo ha vissuto la preghiera incessante e prolungata che è la contemplazione del Cristo morto e risorto. – Il dono del cuore trasfigurato nella gioia, nella lode, nella riconoscenza, nella perseveranza, nella libertà, viene per intercessione di Maria. Maria, come mistero di Dio nella storia della Chiesa e della salvezza, è colei che sostiene e che alimenta in noi la luminosità della fede. Una esperienza cristiana matura sa scoprire il posto .della Vergine come modello e intercessione per raggiungere l’umile dipendenza dalla Parola di Dio che ci trasfigura, assicurando la nostra continua apertura alla forza rinnovatrice dello Spirito. Maria ci richiama a vivere autenticamente quel livello di contemplazione e di ascolto che è il livello che essa occupa nella Chiesa. – Il dono della trasfigurazione pastorale viene anche dalla condivisione} dalla capacità di mettere la mano nel buio sulla spalla di colui che vede la luce. È questa la nostra comunione ecclesiale e presbiteriale: tenere la mano sulla spalla di chi ha visto la lucei a vicenda. Si innesta qui il tema della direzione spirituale, del colloquio penitenziale che sono molto importanti perché significano il tenerci la mano gli uni gli altri, la maniera pratica di aprirci e conservare in noi i doni di trasfigurazione che ammiriamo in Paolo. – Il dono della trasfigurazione ha bisogno della vigilanza evangelica. «Vegliate e pregate per non cadere in tentazione»; «lo spirito è pronto ma la carne è debole»; «vegliate e resistete saldi nella fede». Questo invito ripetuto è l’espressione esortativa della intuizione fondamentale che l’uomo è un essere storico, che si stanca, che di natura sua non è capace di perseveranza. Ogni cristiano, ogni vescovo, ogni prete deve convincersi che nessuno è assicurato nella perseveranza e che il maggior rischio è in coloro che pensano di aver raggiunto un grado di stabilità tale che le precauzioni non sono più necessarie. La vigilanza neotestamentaria ci dice che fino all’ora della morte il demonio cerca di togliere in noi la gioia, la fede, la lode. Siamo sempre attaccati su questi atteggiamenti fondamentali. Occorre vigilare sapendo che non c’è tregua in questa lotta e che rapidamente possiamo ritrovarci tristi, stanchi, nervosi, irritati, oppure dissipati in gioie esteriori che infiacchiscono la fede. Paolo ritorna più volte sul tema della vigilanza e della insistenza nella preghiera. Chiediamo per intercessione di Maria, di poter vigilare con lei, con Gesù e con Paolo perché si compia in noi la trasfigurazione apostolica che assicura una vita pastorale in cui – malgrado le difficoltà, le sofferenze, le delusioni – il fondo di noi è afferrato da Cristo e saldamente posseduto dalla mano di Dio.

 

EBREI E CRISTIANI UN SOLO DESTINO. 40° ANNIVERSARIO DELLA NOSTRA AETATE (JEAN-MARIE LUSTIGER) (2006)

http://dimensionesperanza.it/ebraismo/dialogo-cristiano-ebraico.html?start=5

EBREI E CRISTIANI UN SOLO DESTINO. 40° ANNIVERSARIO DELLA NOSTRA AETATE (JEAN-MARIE LUSTIGER)

SABATO 03 GIUGNO 2006

Quale cammino sorprendente abbiamo percorso, ebrei e cristiani, da oltre mezzo secolo! Il quarantesimo anniversario della dichiarazione Nostra aetate coincide con il sessantesimo dell’arrivo delle truppe sovietiche al campo di Auschwitz. Mentre si stanno manifestando nuove forme di antisemitismo, questa doppia commemorazione ci permette di misurare l’enorme peso di dolore e di vergogna che grava sulle coscienze per la memoria della Shoah, «questo crimine inaudito e fino a quel momento anche inimmaginabile», così come lo ha qualificato Benedetto XVI alla sinagoga di Colonia . Qui bisognerebbe fermarsi e rendere grazie per tutti coloro che hanno lavorato a stabilire tra ebrei e cattolici una nuova relazione di fiducia, di stima e di rispetto che fonda le vere amicizie. Essi sono numerosi da una parte e dall’altra. Permettetemi di citarne uno solo, papa Giovanni Paolo II. Ho voluto, per questa occasione, riflettere sull’appello che ci ha lanciato papa Benedetto XVI al termine della sua allocuzione alla sinagoga di Colonia. Ci invita a «spingersi anche in avanti, verso i compiti di oggi e di domani» per «dare insieme una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico». In effetti è frequente al giorno d’oggi sentir parlare in Occidente di civiltà «giudaico-cristiana», il più delle volte per criticarla e per liberare gli individui dagli obblighi che essa farebbe pesare sui costumi e sulla società. Così, osservatori che si presentano lontani tanto dal cristianesimo quanto dall’ebraismo li mettono entrambi sullo stesso piatto della bilancia. Individuare nel cuore della nostra civiltà una Weltanschauung giudaico-cristiana non soddisferà certo tutti gli ebrei né tutti i cristiani, ma attesta dall’esterno due fatti essenziali dal nostro punto di vista: primo, ebrei e cristiani esercitano insieme una responsabilità rispetto alla civiltà e a tutta l’umanità; secondo, ebrei e cristiani portano insieme il peso della rivelazione biblica. In questo quarantesimo anniversario della Nostra aetate vi propongo di lasciarci interpellare da questo sguardo esterno e di riflettere sulla nostra comune responsabilità. Che cosa può e deve apportare al mondo l’incontro degli ebrei e dei cristiani, o piuttosto la loro riconciliazione, o meglio ancora la loro reciproca riscoperta in un’epoca in cui si sta delineando una civiltà planetaria fatta di conflitti e opposizioni, convergenze e scambi, ma anche di ripiegamenti? Non è senza significato che la ‘riscoperta’ tra ebrei e Chiesa cattolica avvenga in questo periodo critico e magnifico di grandi sconvolgimenti dalle imprevedibili conseguenze. 1. Esiste indubbiamente una convergenza tra ebrei e cristiani – almeno per quel tanto che sono coerenti con la propria fede – nel fare appello alla necessità di una morale per il bene della vita della società. Durante l’ultimo secolo, essi si sono ritrovati concordi nel criticare i poteri totalitari. Questi ultimi, in quanto «dettavano legge», si sono eretti ad arbitri del bene e del male. Certo, ogni potere è tentato di farlo. Ma ebrei e cristiani hanno in comune una visione molto chiara: la legge che s’impone alla coscienza umana ha una fonte più alta dell’uomo, il bene non è definito dall’arbitrio dei voleri o delle opinioni ma s’impone in questo mondo relativo e si propone come un assoluto alle scelte della libertà; e questa norma irrecusabile nella gestione degli affari temporali rende la politica una realtà degna della condizione umana. La saggezza della legge umana e la sua forza rispetto alle coscienze non emerge solamente dalle sanzioni che l’accompagnano, ma innanzi tutto dalla giustizia che essa introduce nei rapporti umani. Questa legge, ogni legge giusta, giace nel solco, per la maggior parte del tempo invisibile, della volontà santa di Dio,rivelata sul Sinai. In un modo o nell’altro la legge trae da Dio un certo carattere sacro che qualifica anche l’uomo a cui è rivolta. Questa convinzione comune agli ebrei e ai cristiani si dispiega in un discorso razionale che ha costituito il corpus del diritto naturale e ha permesso l’affermazione della dignità inalienabile della persona umana sulla quale si fondano in definitiva i diritti dell’uomo. Permettetemi di citare qui un retroscena poco conosciuto della redazione della costituzione Gaudium et spes del Vaticano II. Per superare le formulazioni classiche del diritto naturale l’arcivescovo Karol Wojtyla, sulla scia di Max Scheler, propose la propria prospettiva personalista, in cui un vescovo riconobbe il pensiero di Martin Buber… Questa prospettiva etica sulla politica ne contesta dall’interno l’arbitrarietà; essa mira a chiarire l’esercizio del potere, non a distruggerlo ma a situarlo come uno dei più nobili servizi da rendere. Essa è il testimone dell’autentica saggezza che la Bibbia ci dice venire da Dio. Non c’è qui un altissimo ideale di umanità? Il ruolo di sentinella e testimone del regno di Dio che hanno sia il popolo ebraico sia i cristiani sfida e relativizza ogni impero umano. Insieme, ebrei e cristiani, non abbiamo forse la responsabilità e l’obbligo rispetto all’intera umanità di questa ragione politica? Non si trova forse qui la saggezza necessaria alle istituzioni mondiali fondate per regolare la pace tra le nazioni, ma che i conflitti di forza e di interesse non lasciano funzionare secondo la giustizia e il diritto (cf. Gen 18,19), e cioè con efficacia? 2. Questa convinzione ha la propria origine nella rivelazione del Sinai. Consideriamo come ebrei e cristiani ricevono il dono della Legge o dei comandamenti. Non spetta a me affrontare la questione centrale dell’osservanza dei precetti commentata dalle tradizioni rabbiniche. Mi sembra tuttavia necessario far presente di continuo ai cristiani che cosa significa l’osservanza di 613 comandamenti. Codificati dalla tradizione, essi abbracciano la totalità della vita dell’ebreo religioso, dalla preghiera e dallo studio personale e comunitario a tutti gli altri ambiti dell’esistenza: morale, vita familiare, professionale ecc. Essi sono tutti recepiti come provenienti espressamente dalla volontà divina. Il migliore paragone della vita ebraica così concepita sarebbe, nel cristianesimo, la vita monastica, benché si tratti qui di una vita familiare con tutti gli obblighi propri della vita laica… E per un cristiano? Sorprenderò forse quelli fra voi che conoscono poco la dottrina cattolica, siano essi cristiani o ebrei, ricordando che, sostanzialmente, questi comandamenti sono recepiti dai cristiani come rivelazione divina contenuta nella Bibbia stessa. Sfogliate il Catechismo della Chiesa cattolica promulgato da papa Giovanni Paolo II. La morale vi è esposta nel quadro delle dieci parole, all’interno delle quali si situa la riflessione morale sull’agire umano personale e sociale. Certo, come discepoli di Gesù differiamo senz’altro sulla maniera d’intendere e applicare questi comandamenti. Per un cristiano il commentario autorizzato dei comandamenti è la maniera in cui Gesù li ha vissuti e in cui ci chiede di vivere. È un’interpretazione determinata da «Shemà, Israele (…) amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze» (Dt 6,4; cf. Mt 22,37). La prima regola dell’agire ricapitola la Legge e i profeti nel comandamento dell’amore di Dio e dell’amore fraterno (cf. Lv 19,18; Mt 22,39), immagine e retaggio dell’amore insegnato da Gesù ai suoi discepoli: amatevi «gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Uno sguardo miope potrebbe vedere tra queste due visioni delle differenze inconciliabili. Uno sguardo più profondo vedrà che la loro fonte è comune: è in Dio. Le conseguenze sull’agire umano sono analoghe, anche quando la giustizia e la pace si dispiegano secondo modalità diverse e sono vissute facendo appello a distinte risorse spirituali. Certo, queste differenze non sono trascurabili. Esse sono ugualmente essenziali alla nostra esperienza. Tuttavia la convergenza di ebrei e cristiani permette loro di affermare con più forza e rispetto la propria missione di vigilanza e di testimonianza nei confronti dell’umanità. L’esperienza cristiana ha potuto a volte introdurre una certa relativizzazione dei comandamenti in nome della carità. Certo, l’amore di Dio e del prossimo è, per il cristiano come per l’ebreo, la pienezza della Legge: l’espressione non potrebbe essere più esatta, forte e bella. Rimane imprescindibile che le esigenze dell’amore siano rigorosamente comprese e strutturate dal rispetto delle volontà divine. Un incontro fecondo potrebbe ricordare ai cristiani che essi non possono tralasciare quello che Dio comanda e, agli ebrei, che il comandamento dell’amore posto all’inizio dello Shemà anima tutti gli atteggiamenti che ne derivano, nei rapporti umani come nei riguardi di Dio.

L’universalismo cristiano ha fatto conoscere a tutte le nazioni del mondo, a volte in una forma secolarizzata, quello che è stato dato a Israele sul Sinai. Israele ne resta il garante, senza dubbio assieme ai cristiani, per il bene comune di tutta l’umanità. 3. Dobbiamo dunque ora interrogarci sull’universalismo della rivelazione. Che significato può avere per l’insieme dell’umanità il riavvicinamento di ebrei e cristiani? Evidentemente non voglio rispondere a questa domanda limitandomi a esporre l’opinione corrente. Alcuni potrebbero temere un risultato disastroso per la messa a rischio dell’indipendenza e della libertà delle identità particolari nazionali o religiose. Altri, forse gli stessi, si domanderanno come delle religioni che la storia ha fino a questo punto separato possano unire le proprie forze per contribuire a una convergenza delle culture e delle religioni. In effetti questa relazione con l’insieme dell’umanità è inscritta nell’origine stessa dell’ebraismo. Ricordate la benedizione data ad Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3) e anche l’annuncio profetico secondo cui tutte le nazioni verranno ad adorare nel suo tempio l’unico Signore del cielo e della terra. Per i cristiani, gli ebrei apostoli di Gesù hanno obbedito, non senza grande fatica, a questo oracolo profetico scoprendo, quasi loro malgrado e con stupore, che il dono dello Spirito era ugualmente accordato ai pagani. L’ordine di Gesù dato ai suoi di andare a insegnare a tutte le nazioni (goim) per formare tra esse dei discepoli che riceveranno il battesimo (cf. Mt 28,19) fa in realtà partecipi i cristiani della speranza ebraica per il mondo. Nello stesso tempo gli atteggiamenti spirituali e le speranze degli uni e degli altri restano opposti su questo punto. Infatti, il popolo ebraico vive una situazione paradossale. Esso rimane un popolo, continua a rivendicare questo nome. La domanda di sapere se sia un popolo simile agli altri oppure diverso è stata posta fin dalle origini. Siamo un popolo differente dalle nazioni, perché formato da Dio per servirlo; e una nazione simile alle altre allorché reclama un re e un potere come gli altri popoli. Rimane il fatto che nell’attuale processo di globalizzazione gli ebrei e le comunità ebraiche disperse nel mondo intero sono, a tutti gli effetti, parte integrante della diversità delle culture e delle nazioni, senza che per questo cessi l’appartenenza al ‘popolo ebraico’. Allo stesso modo – si può concludere – il fatto d’essere cristiani incorpora ciascuna persona e ciascuna comunità nell’esistenza comune della Chiesa del Messia, presente attraverso i tempi della storia in tutte le nazioni e in tutte le culture. Il problema che tento qui di circoscrivere è sollevato dalla globalizzazione. Può una solidarietà unificare l’intera umanità? E a prezzo della negazione o dell’oblio delle particolarità considerate fino a oggi come ricchezze, ma che possono apparire ormai come delle sopravvivenze o degli ostacoli? Certamente no. Eppure, la responsabilità affidata dalla parola di Dio agli ebrei e ai cristiani, ciascuno secondo la propria chiamata e tradizione, è di condurre l’umanità alla consapevolezza della sua unità e della sua vocazione unica. Ciò riguarda la sua origine. L’umanità, come dicono le prime pagine della Genesi, è stata creata da Dio a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26). Esistono, in seno alla diversità umana, delle sentinelle e dei testimoni della luce dell’origine, non per imporla ma per aiutare l’umanità a decifrare il proprio destino. Gli ebrei sono consapevoli della propria particolarità storica poiché questa rivelazione ha loro affidato per primi una fede assolutamente irrevocabile. E nell’esperienza di un popolo forgiato da questa elezione che la storia santa si è incarnata nella storia umana. La tentazione per il popolo ebraico è, evidentemente, di chiudersi in questa particolarità e quindi di vuotarla della sua portata salvifica universale. I cristiani sono diventati a propria volta beneficiari di questa primi genia benedizione poiché, fin dall’origine della Chiesa, nata dagli ebrei, anche i pagani ottengono di aver parte con loro a questa benedizione e alla sua promessa. Nel corso dei secoli i cristiani saranno anch’essi tentati di ricreare dei particolarismi di tipo nazionale o religioso; essi rischiano di perdere così il senso delle proprie radici, dell’origine che garantisce la loro speranza. Ma ebrei e cristiani, rincontrandosi e misurando le differenze reciproche, possono meglio comprendere quello che è stato loro dato come evidenza fondatrice e scopo primordiale: rivelare a un’umanità frazionata il richiamo all’unità più forte e più grande delle sue immense diversità. 4. Evocare tali prospettive non significa minacciare né l’originalità ebraica né l’identità cristiana. Mi spiego. «La salvezza viene dai giudei», insegna Gesù alla samaritana nel Vangelo secondo san Giovanni (Gv 4,22). Senza gli ebrei l’universalità cristiana potrebbe dissolversi in un umanesimo astratto. L’esperienza cristiana mostra che la diversità delle culture, attraverso ostacoli e ambiguità a volte considerevoli, può essere rispettata e ogni cultura esaltata attraverso il riconoscimento dell’unità dell’umanità, figlia dell’Uno. Senza i cristiani l’ebraismo, portatore della benedizione promessa a tutte le nazioni, può forse realizzare il proprio compito senza riassorbirsi nella razionalità universale dei Lumi e senza vuotare di sostanza la storia che l’ha generato? Dalla riflessione su queste aporie possiamo ricavare una lezione: l’incontro tra ebrei e cristiani è necessario a entrambi per comprendere quel che forse Dio esige da ciascuno di essi. La loro esperienza comune, al pari delle loro percezioni divergenti della benedizione divina, rivela il volto dell’unità e della comunione universale radicato nella promessa fatta ad Abramo, annunciato dai profeti e attestato dalla Chiesa cattolica così come essa lo crede con umile audacia. Forse il passaggio vi apparirà forzato, ma esso rende conto della difficoltà con cui ciascuno di noi, in questo tempo di globalizzazione, è portato a misurarsi. Per gli ebrei, qual è la loro identità? È l’identità nazionale israeliana o è quella della diaspora? Su che cosa si fonda? Quel che è possibile dire alla luce della fede cattolica è stato espresso in maniera sorprendente da papa Giovanni Paolo II nella sua preghiera sulla Umschlagplatz di Varsavia. Ascoltiamola: ‘Dio di Abramo, Dio dei profeti, Dio di Gesù Cristo, in te tutto è contenuto, verso di te tutto si dirige; tu sei il termine di tutto. Esaudisci la nostra preghiera per il popolo ebraico che, in grazia dei suoi padri, tu continui a prediligere. Suscita in esso il desiderio sempre più vivo di penetrare profondamente la tua verità e il tuo amore. Assistilo perché, nei suoi sforzi rivolti alla pace e alla giustizia, sia sostenuto nella sua grande missione di rivelare al mondo la tua benedizione. Che esso incontri rispetto e amore presso coloro che non comprendono ancora le sue sofferenze, come presso coloro che provano compassione per le ferite profonde che gli sono state inferte, con il sentimento del rispetto reciproco degli uni verso gli altri. Ricordati delle nuove generazioni, dei giovani e dei bambini: che essi persistano nella fedeltà verso di te in quel che costituisce l’eccezionale mistero della loro vocazione. Ispirali affinché l’umanità comprenda, attraverso la loro testimonianza, che tutti i popoli hanno una sola origine e un solo fine: Dio, il cui disegno di salvezza si estende a tutti gli uomini. Amen’. Così, per la fede cattolica l’identità ebraica è fondata sul dono di Dio, dono irrevocabile, secondo l’espressione di san Paolo, dono che precede, nella storia, ogni altra determinazione sociologica, culturale o politica. Questo dono di Dio costituisce, in qualche modo, la vocazione del popolo ebraico di rivelare al mondo la benedizione divina. E per quel che riguarda i cristiani, il loro messaggio universale non è forse solo una maschera dell’imperialismo prima romano e poi occidentale? Come può espandersi nelle culture del mondo senza per questo perdere la propria forza e il proprio contenuto? Il problema si pone in maniera acuta quando i cristiani portano il messaggio biblico, compresa la Torah, a nazioni come l’Asia e quando queste, alla maniera di Gandhi, pur disposte ad accogliere i valori di Gesù Cristo come un messaggio di liberazione, dichiarano di non aver nulla a che fare con la Bibbia poiché hanno le proprie scritture e storie sacre. Pur esponendosi al rischio di perdersi perdendo la propria universalità, il cristianesimo non può accettare questo sradicamento fuori di Israele, vale a dire fuori dall’alleanza, dalla scelta primigenia di Dio. L’incontro – il legame – degli ebrei e dei cristiani, nella tensione perenne verso un pieno rispetto reciproco, offre all’intera umanità il suo volto originale e conforta la sua speranza di un’unità pacifica. 5. Qual è dunque il fondamento del riavvicinamento tra ebrei e cristiani? Cosa c’è di comune agli uni e agli altri che giustifica un’alleanza reciproca? La risposta è inscritta nella prima pagina del Nuovo Testamento. Esso comincia con una genealogia, di cui vi cito le prime righe: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli» (Mt 1,2). Queste parole introducono, come ha detto il primo evangelista, ‘la genealogia di Gesù Cristo (Messia), figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1, 1). Il cristiano riceve dal popolo ebraico la totalità della Scrittura: la Legge, i profeti e gli altri scritti. Noi la riceviamo per quel che è: parola di Dio. E questo è vero per tutti i cristiani – protestanti, cattolici, ortodossi -, quali che siano stati i crimini commessi e le vicissitudini della storia. Questa Scrittura santa è inseparabile da coloro a cui è stata rivolta e dalle lingue in cui è stata dapprima formulata. La Chiesa riceve ognuna di queste parole come ispirate dallo Spirito di Dio. Vuole rimanere fedele a esse. Anzi, non può allontanarsene mentre certuni, come Marcione, avrebbero voluto una rottura radicale che avrebbe eliminato dalla fede dei discepoli di Gesù la Scrittura biblica, la storia, l’alleanza e l’elezione. Ma non si è avuta forse una simmetrica riduzione da parte ebraica per delle ragioni che a noi a volte paiono fin troppo evidenti e che sarebbe superfluo ricordare? E la legge del silenzio che ha prevalso. Molto spesso gli ebrei hanno detto, in passato, di non aver affatto bisogno dei cristiani dal punto di vista religioso. In effetti in questi atteggiamenti opposti noi riconosciamo la rottura che si instaurò molto presto davanti al messaggio di Gesù di Nazaret, segno di contraddizione. Ebrei e cristiani o cattolici condividono contemporaneamente una radice comune e un conflitto. Ma questo conflitto, agli occhi stessi dei cristiani, s’inscrive nell’attesa che la storia umana si compia secondo la volontà di Dio; questo è un orizzonte familiare anche per il pensiero ebraico. Gli ebrei, come i cristiani, sono tesi verso una speranza. Essi hanno in comune la rivelazione ricevuta e trasmessa, che porta il loro sguardo verso quel compimento i cui tratti sono per ciascuno segnati dall’esperienza dei secoli, delle culture e dei popoli, per quel tanto che ciascuno accetta o rifiuta dell’altro. Chi non avverte qui che le tensioni possono essere tanto più forti e dolorose quanto più i punti d’accordo e di comunione sono solidi? Dal momento che apparteniamo alla stessa radice ogni tensione è vissuta come l’insorgere di una ferita, di un rifiuto; ma può essere anche vissuta nella speranza di una luce sempre più grande. Oggi, alla luce della storia, senza che il riavvicinamento possa rendere meno acute le divergenze, l’urgenza dell’appello ricevuto alle origini obbliga i fratelli separati, il fratello maggiore e il minore, a rispondere, ciascuno per la parte che gli spetta, alla missione assegnatagli. Nessuno dei due può adempierla senza l’altro, senza contemporaneamente fare violenza all’altro o penalizzarlo. L’aspetto attuale dell’umanità anticipa, in modo ancora oscuro e a volte contraddittorio, la speranza portata dai profeti e proclamata dal Nuovo Testamento. Sarebbe illusorio e menzognero negare le nostre differenze e la nostra fede personale al fine di realizzare questa speranza comune. Ciò sarebbe un errore mortale e in effetti una rinuncia. Piuttosto, ciascuno è chiamato a progredire nel dovere di giustizia e di pace assegnatogli dalla Provvidenza. Il legame comune tra ebrei e cristiani fonda la loro riscoperta reciproca in questo secolo, garantendo l’opera che essi debbono compiere, pena una loro mancanza verso l’umanità. Sono in gioco l’equilibrio e la pace nel mondo. L’avvenire comune tra ebrei e cattolici non si riduce a limitare il possibile contenzioso. Non può accontentarsi di una pacifica comprensione reciproca, e neppure di una solidarietà a servizio dell’umanità. Questo avvenire richiede un lavoro su quel che è comune, come su quel che separa, lavoro ormai possibile perché fondato sulla certezza di un’amicizia voluta da Dio. Che le differenze e le tensioni divengano uno stimolo per un approfondimento sempre più attento e docile del mistero, di cui la storia ci costituisce gli eredi indivisi.

Roma, 27 ottobre 2005.

* Cardinale, Arcivescovo emerito di Parigi.

LE VENTIDUE PAROLE DELLA CREAZIONE – GIANFRANCO RAVASI

http://www.alfredochiappori.it/introravasibereshit.htm

LE VENTIDUE PAROLE DELLA CREAZIONE – GIANFRANCO RAVASI

Alfredo Chiappori continua la sua ricerca all’interno delle pagine più alte delle Scritture Sacre. Dopo aver percorso l’Apocalisse, il Cantico dei Cantici e il Salterio, ora si rivolge all’incipit assoluto della Bibbia e dell’essere, la Genesi, arrestandosi alla prima pagina, il capitolo d’apertura, e lambendo solo alcuni versetti della seconda. Come è noto, questi due fogli d’ingresso del libro biblico della creazione e dei patriarchi sono nati in epoche differenti e da inchiostri letterari diversi: il capitolo 1 è stato composto al tempo dell’esilio ebraico lungo i fiumi di Babilonia e perciò nel VI sec. a.C., mentre il secondo è da ricondurre a un racconto simbolico-sapienziale forse dell’èra salomonica (X secolo a.C.).

Una cabala di parole “numerate” Ci soffermeremo ora sul foglio ritagliato da Chiappori che ha come perimetro il primo versetto del primo capitolo, da un lato, e il versetto settimo del secondo capitolo della Genesi, dall’altro. In capite risuona quel Bereshît, “In principio”, che è la sigla dell’intero libro della Genesi ma è anche il titolo ideale di questo volume e del suo contenuto. Da quel foglio il pittore ha estratto ventidue parole, tante quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico. Esse scandiscono la grande suprema avventura della creazione. Elenchiamo quelle parole solenni prima di penetrare nel senso globale del loro disporsi a testo, cioè a “tessuto”, come appunto dice l’etimologia originaria di textus. Obbligatorio e fondamentale è il primo termine, Bereshît, “in principio”, a cui segue l’“abisso”-tehôm, simbolo del nulla. Su di esso passa la rûah, cioè lo “Spirito” creatore. Ed ecco sbocciare la rosa della “luce”, ’ôr, che ricaccia hosheq, cioè la “tenebra”, mentre si apre sopra l’orizzonte la volta del “firmamento”, raqia‘. Sotto di essa si agitano le “acque” primordiali, majîm, il cui colore riflette quello del “cielo”, shamajîm. Dalle acque emergono i continenti, cioè l’“asciutto”, jabashah: è la “terra”, ’eres, alla cui riva si muovono con veemenza i “mari”, jammîm. Ecco, però, ramificarsi lentamente sulla superficie terrestre i “germogli” vegetali, deshe’, mentre scende la “notte”, lajlah, a cui si alterna il “giorno”, jôm. La tenebra notturna è trapuntata di kokabîm, di “stelle”, destinate “ad illuminarla” (leha’îr). Giunge così il grande momento in cui appare la nefesh hajjah, cioè “l’essere vivente”, costituito dai “volatili”, ‘of, dai “mostri”, animali possenti e terrificanti, i tannînim. Siamo, così, in presenza di tutta la gamma zoologica secondo la varietà della specie (mînah). Ma, al vertice della creazione, entra in scena ha’adam, “l’uomo”, che da Dio non riceve solo la vita fisica ma anche un dono unico, la nishmat hajjîm, cioè un alito vitale misterioso che lo raccorda direttamente a Dio. E’ una “fiaccola del Signore che scruta tutti i recessi segreti del cuore”, si spiega nel libro biblico dei Proverbi (20, 27). E’, dunque, la coscienza. Queste ventidue parole sono scelte all’interno di una trama lessicale costruita in modo raffinato, una specie di cabala ieratica, ritmata soprattutto sul numero “sette” della settimana liturgica, numero di pienezza e di perfezione che occupa l’intera prima pagina ebraica della Genesi. Siamo, infatti, in presenza di sette giorni all’interno dei quali si distendono otto opere divine, scandite in due gruppi di quattro; sette sono le formule fisse usate per costruire la trama del racconto; sette volte risuona il verbo bara’, “creare”; trentacinque volte (7×5) è scandito il nome divino; ventun volte (7×3) entrano in scena “terra e cielo”, il primo versetto ha sette parole e quattordici (7×2) il secondo…

La creazione come evento sonoro A questo punto non resta a noi che gettare uno sguardo d’insieme sulla pagina sacra della creazione. E’ suggestivo notare che l’atto creativo nella Bibbia è concepito come un evento affidato alla parola. Lo sterminato silenzio del nulla è squarciato da un imperativo possente: Jehî’or… Wajjehî’or, “Sia la luce… E la luce fu”(1, 3). Forse è necessario commentare queste parole affidandoci alla Creazione di Haydn con la sua prodigiosa generazione di un celestiale e solare Do maggiore dal caos d’una modulazione infinita. O evocare la sfida di Wagner, di Holst e di Schönberg, ossessionati dall’idea di cogliere in battute il risveglio dell’universo. O inseguire lo sforzo di conquista della sonorità cosmica da parte della Sagra della primavera di Stravinskij, dove le sette note della scala, avvinghiate nell’accordo di tutti gli accordi possibili, percuotono dal cielo la terra per ridestarne l’impulso vitale e popolarne di vita la superficie. O creare la lacerazione dei suoni di Licht, l’opera cosmologica in sette parti di Stockhausen. Mentre la Genesi di Battiato sembrerebbe suggerirci una comparazione tra fedi diverse sempre attorno allo stesso tema. Per la Bibbia la creazione è sostanzialmente un evento sonoro: è la voce divina a dar origine all’essere. Anche nella cultura indiana il Prajapati, “il Signore delle creature”, fa sbocciare l’essere da una cellula sonora che dilagherà negli spazi infiniti per riaggregarsi poi nei canti dei fedeli. La parola è da subito decisiva, e lo è soprattutto per un popolo come Israele, che ha optato per il silenzio delle immagini: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo né di ciò che è quaggiù in terra né di ciò che è nelle acque sotto terra” imporrà il Decalogo (Esodo 20, 4). L’essere non è sospeso su un gorgo fatale, come immaginavano, prima ancora dei Greci, gli antichi Sumeri, che pensavano al dio creatore Enlil come a un “arruffio di fili di cui non si conosce il bandolo”. La creazione non è neppure frutto di una lotta teogonica e intradivina, come aveva cantato il poema accadico-babilonese Enuma Elish, nel quale un dio vincitore, Marduk, riduceva a materia l’antagonista Tiamat, la divinità “abissale” negativa sconfitta, trasformata dalla Bibbia nel citato tehôm, l’abisso sotterraneo acquatico-infernale. Per la Bibbia noi siamo, invece, “appesi” a una Parola primordiale: “In principio c’era il Logos”, cioè il Verbo, la Parola efficace, come scriverà Giovanni l’evangelista. In essa si concentrano tutti i sensi che il Faust di Goethe vorrà dissociare proprio commentando il testo giovanneo: il Wort-parola è anche Kraft-potenza, Sinn-significato e Tat-azione. In principio ci fu, dunque, un suono, un’armonia. Ne è convinto un altro antico autore d’Israele, colui che ha messo in bocca alla Sapienza divina creatrice uno splendido inno, racchiuso nel capitolo 8 del libro dei Proverbi. Raffigurata come ’amôn, “architetto” o “giovane” – difficile è decidere il valore di quel vocabolo ebraico -, la Sapienza alla fine della creazione si abbandona a una danza, a una specie di ebbrezza festosa espressa con un verbo ebraico che implica delizia, allegria, abbandono gioioso, ballo: “Io ero con Lui come ’amôn,/ ero la sua delizia ogni giorno,/ danzando davanti a Lui in ogni istante,/ danzando sulla distesa terrestre,/ trovando la mia allegria tra i figli dell’uomo” (Proverbi 8, 30-31). Catturato da questa immagine sarà anche il poeta di Giobbe che farà entrare sulla scena del cosmo in formazione il Creatore, accompagnato da una corale angelica: “Le stelle del mattino acclamavano in coro/ e tutti i figli di Dio gridavano la loro gioia” (Giobbe 38, 7). Resterà sempre una sfida per l’uomo cogliere quel canto primordiale che echeggia nel tempo e nello spazio se è vero, come dice Shakespeare nel Mercante di Venezia, che “fin la più piccola orbe che tu ammiri, compiendo il suo moto, canta come un angelo (like an angel sings)”. Persino la scienza moderna è ricorsa a un analogo simbolismo, il “Big Bang” – certamente più volgare e brutale – per descrivere quel Bereshît affidato alla Parola suprema.

La creazione come evento visivo C’è, però, nella prima pagina della creazione un’altra dimensione che idealmente si sposa con l’opera del pittore. Il creato è contemplato come un dato estetico e visivo. Per sette volte, infatti, risuona una formula fissa: Wajjar’ ’elohîm… kî tôb, “Dio vide che (il creato) era bello/ buono” (Genesi 1, 4.10.12.18.21.25.31). Il tardo libro biblico greco della Sapienza esorterà l’umanità a risalire da questa epifania di bellezza, che già affascina lo stesso Creatore, al suo Autore: “Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore” (Sapienza 13, 5). Il vocabolo “estetico” tôb, destinato a definire la creazione e l’esperienza visiva che di essa ha l’uomo, è di sua natura simbolico: abbraccia, infatti, una sensazione di piacere fisico ma anche di esaltazione spirituale e morale. Le stesse versioni possibili della frase citata evocano questa molteplicità di esperienze: “Dio vide che era cosa buona… Dio vide che era bello… Dio vide: Era bello!… And God saw, how beautiful/good it was…!” Un esegeta, Claus Westermann, giustamente osservava che “la bellezza/ bontà di ciò che è stato creato non è qualcosa di aggiunto dopo la sua creazione ma appartiene allo statuto della creazione”. Già il citato libro della Sapienza, che era convinto della “bellezza delle realtà visibili” (13, 7), identificava la ragione di questo fascino nel fatto che Dio “ha disposto tutto con misura, calcolo e peso” (11, 20). Il vertice di questa percezione visiva della bellezza è raggiunto quando la creazione approda alla sua pienezza con la creazione dell’uomo e della donna. Allora l’autore sacro usa il superlativo ebraico tôb me’od: “Dio vide che era bellissimo” (Genesi 1, 31). E’ quasi un atto contemplativo perfetto che il riformatore Giovanni Calvino così commentava: “Ogni giorno della creazione ha una semplice approvazione; ma ora che l’opera del mondo è compiuta in tutte le sue parti e che Dio vi ha messo l’ultima mano per rifinirla e connetterla, egli dichiara che è perfettamente buona perché comprendiamo che nella proporzione e nel rapporto reciproco delle opere di Dio c’è una perfezione somma alla quale nulla può essere aggiunto”. In sintesi potremo, allora, affermare che la creazione è un evento visivo e artistico oltre che sonoro, tant’è vero che non pochi esegeti riconducono la frase citata alla reazione soddisfatta dell’artista di fronte al suo capolavoro. Così Dio reagirebbe dopo aver plasmato l’universo. Un sapiente biblico del II sec. a.C., il Siracide, esclamava: “Quanto sono amabili tutte le sue opere! Eppure appena una scintilla noi ne possiamo osservare… Tutte le realtà sono a coppia, una di fronte all’altra, nulla Egli ha fatto d’incompleto. L’una conferma i pregi dell’altra: chi si sazierà di contemplare la sua gloria?” (Siracide 42, 22-25). Immerso in questo orizzonte di colori e di vita il pittore deve quasi essere il liturgo che svela il segreto armonico del creato. Come scriveva Borges nella Metamorfosi della tartaruga, “l’arte vuole sempre irrealtà visibili”. Essa, cioè, scende nel grembo segreto del sogno di Dio sotteso alla realtà e lo rende epifania, svelandoci il senso ultimo del creato. Proprio come suggeriva Paul Valéry nei Cattivi pensieri: “Il pittore non deve dipingere quello che vede ma quello che si vedrà”, la realtà nella sua pienezza escatologica, cantata dall’Apocalisse di Giovanni. E’ così che si compie quanto aveva intuito nei Guermantes Proust quando aveva sospettato che “il mondo non è stato creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale”. E forse è proprio per questo che si usa parlare di “creazione” per l’opera dell’artista.

GIANFRANCO RAVASI

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 12 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

PAOLO – UN SANTO SULLE FRONTIERE DELLA CULTURA (2008) – Intervista a Ravasi

http://www.stpauls.it/jesus/0801je/0801je12.htm

PAOLO  – UN SANTO SULLE FRONTIERE DELLA CULTURA (2008)

di Giovanni Ferrò 

Secondo alcuni, è stato «l’inventore» del cristianesimo, perché avrebbe trasformato una piccola setta ebraica in una nuova, contagiosa, religione. Altri preferiscono definirlo «l’apostolo delle genti», perché ha dato respiro missionario alla Chiesa nascente, ancora ripiegata su se stessa. A duemila anni dalla sua nascita, Paolo di Tarso resta una delle figure più emblematiche e, a tratti, persino misteriose del Nuovo Testamento. Di certo, è stato un grande pastore, in grado di fondare comunità cristiane ovunque mettesse piede; ma anche un robusto teorico, l’uomo che ha prodotto un’originale sintesi tra la radice religiosa ebraica e la cultura greca, all’interno della cornice istituzionale della civitas latina. Per ricordare la figura e l’opera di questo santo, senza di cui il cristianesimo non sarebbe forse ciò che è, Benedetto XVI ha indetto, a partire dal giugno 2008, uno speciale Anno Paolino. Ma qual è stato lo stile di Paolo? Quale il suo insegnamento? E in che modo è possibile, oggi, tentare una nuova sintesi culturale, facendo i conti con un mondo diventato «adulto» e che cambia così rapidamente, prendendo a modello l’esempio di san Paolo? Siamo andati a chiederlo a monsignor Gianfranco Ravasi, biblista raffinato, per 18 anni prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, e soprattutto – da alcuni mesi – nuovo presidente del Pontificio Consiglio per la cultura, il dicastero vaticano che più di tutti ha il dovere di confrontarsi con l’universo del pensiero laico. Di seguito, l’intervista che monsignor Ravasi ci ha rilasciato..

L’intelligenza e l’amore di un uomo capace di rischiare Nei nobili corridoi della Biblioteca Ambrosiana, monsignor Gianfranco Ravasi si muove con la leggerezza e l’agio di chi si sente a casa. Nominato presidente del Pontificio Consiglio per la cultura il 3 settembre scorso, il più famoso biblista d’Italia ha lasciato l’incarico di prefetto di questa autorevole istituzione culturale milanese, fondata dal cardinale Federico Borromeo, e si è trasferito, armi e bagagli, in Vaticano. Però alla guida dell’Ambrosiana ha trascorso 18 anni. Comprensibile, dunque, che tra le « sue » mura tappezzate di libri antichi torni volentieri e con un pizzico di nostalgia. Per parlare di san Paolo, « teorico del cristianesimo » e santo del dialogo tra le culture, nonché delle sfide che la cultura contemporanea pone oggi alla Chiesa, siamo dunque venuti qui all’Ambrosiana, in piazza Pio XI, a due passi dal Duomo, dove monsignor Ravasi ci accoglie in un’enorme sala con piccoli banchi di legno che la rendono simile allo scriptorium di un antico monastero benedettino. Le coste di migliaia di volumi preziosi che raggiungono il soffitto e i ritratti di austeri personaggi alle pareti inducono una soggezione che il neoarcivescovo, con eleganza casual e colta bonomia, provvede subito a dissipare. Cosa vuol dire fare cultura per un’istituzione come la Santa Sede? «Prima di tutto c’è la questione piuttosto ardua di riuscire a definire che cosa è « cultura ». Indubbiamente, dopo un lungo periodo razionalistico che pensava alla cultura solo come a un fenomeno accademico, adesso sempre di più la si considera come una sorta di grande anima cosciente e coerente che attraversa tutto l’agire umano. Per questo motivo il Pontificio Consiglio ha un orizzonte vastissimo davanti a sé, che interseca anche il lavoro di altre strutture ecclesiali. Faccio qualche esempio: prendiamo il problema « scienza e fede », oppure il tema dei linguaggi, che personalmente ritengo capitale; o ancora il rapporto tra etica ed economia, un ambito su cui vorrei incrementare l’impegno del dicastero: l’economia non è soltanto un fenomeno tecnico-finanziario, è invece – come dice Amartya Sen – una scienza umanistica. Altro capitolo: il dialogo interreligioso, per il quale esiste un dicastero specifico, ma che presuppone una riflessione di matrice culturale. In questo senso, il Consiglio per la cultura è più un dicastero di prospettiva che non un organismo operativo in senso stretto. Fare cultura nella Chiesa diventa, insomma, una componente costante che attraversa, orienta e interpreta tutte le scelte pastorali». Di questi tempi si parla moltissimo di dialogo tra le fedi, ma anche – al contrario – di scontro tra culture e tra civiltà. Qual è il suo giudizio su questo quadro, tratteggiato così spesso a tinte fosche? «Nel dialogo tra le culture ci sono sempre state, nella storia, delle oscillazioni. Ci sono periodi in cui è quasi istintivo lo scontro, pensiamo per esempio alle guerre mondiali; e altri – magari immediatamente successivi – in cui prevale il desiderio di dialogo, il sogno dell’unità: è il caso della nascita dell’Onu nel 1945. Oggi siamo indubbiamente in un periodo di « caduta » nello scontro, ma mi pare si intraveda uno slancio verso la ripresa del dialogo. Comunque, non bisogna mai rassegnarsi ai meccanismi della storia. Credo quindi che la registrazione che ha fatto Huntington parlando di « scontro di civiltà », alla fine, è solo una sorta di accettazione dello status quo, non una proposta per affrontarlo o superarlo. Tanto è vero che il suo libro è stato molto apprezzato dai fondamentalisti islamici. La mera registrazione del fenomeno non è fare cultura. Per questo credo non ci si debba rassegnare alla logica dello scontro. E si debbano offrire proposte alternative di dialogo. Purtroppo, per quanto riguarda il campo religioso, il dialogo oggi è diventato difficile. Se guardiamo all’Ottocento, notiamo che il confronto-scontro avveniva tra grandi sistemi di pensiero. Il marxismo era una vera e propria Weltanschauung, così come il cristianesimo e il liberalismo. Si trattava di veri scontri tra opposte visioni dell’uomo, con pensatori di livello eccelso sui diversi fronti. Oggi invece, per via della modesta temperie culturale in cui viviamo, lo scontro avviene sul piano dell’ironia, del sarcasmo, dello sbeffeggio da una parte; e dall’altra, con insorgenze altrettanto modeste di tipo fondamentalista-apologetico. Questa è l’altra malattia che si aggiunge alla sindrome dello scontro: non è più uno scontro nobile e alto, è quasi un gioco di società». Il dialogo con il mondo della cultura è sempre più dialogo con un mondo laico, aconfessionale, distante dalla fede e dalla Chiesa. Come si fa a entrare in dialogo oggi con il mondo laico? «Uno dei capitoli su cui vorrei impegnarmi di più, come presidente del Pontificio Consiglio per la cultura, è quello che un tempo era la stessa ragion d’essere del dicastero, il cui nome originale era « Consiglio per il dialogo con i non credenti ». Il confronto con la laicità è quindi un tema da rinverdire e da riportare a un livello nobile. Su questo abbiamo tanta strada da fare. Ho alcune idee e progetti, però sarà un lavoro arduo e molto lento. Il problema, infatti, è che il nostro orizzonte non può e non deve essere soltanto il mondo europeo o occidentale, ma deve abbracciare tutti i continenti. E qui lo scenario si fa complesso e diversificato. Si affacciano sullo scenario internazionale culture come quella cinese o indiana che sono molto caratterizzate. Per confrontarcisi, occorre un’elaborazione complessa. D’altra parte, anche queste culture così forti e tipizzate risentono del processo di globalizzazione trionfante che investe l’intero pianeta. Bisogna quindi trovare un modello di confronto con la cultura « globale » dominante che però non penalizzi le identità particolari, che non possono essere semplicemente ignorate: perché, come si vede bene, le identità risorgono. Insomma, è fondamentale l’impegno al confronto con la laicità e la non credenza, ma con una laicità che oggi è il mondo intero». Di questo dialogo con la laicità, qui a Milano, è stato maestro il cardinale Martini. Quello stile dell’ex suo arcivescovo che cosa le ha insegnato? «La « Cattedra dei non credenti » è stata un’esperienza molto importante ma è stata figlia di un periodo particolare. A mio parere, ha insegnato una cosa fondamentale: l’ascolto dell’altro. E non è una cosa banale: ascoltare è un’attività che costa tanto quanto il parlare. Vuol dire non scegliersi l’interlocutore compiacente, vuol dire anche lasciarsi ferire dalle domande che vengono poste. Questo è un atteggiamento importantissimo. D’altro canto, la Cattedra ha avuto anche un punto debole, a causa del quale quell’esperienza alla fine è morta: è stato un evento che, sostanzialmente, non è entrato in un programma pastorale effettivo». Quanto sarà complicato introdurre uno stile del genere in una struttura come il Pontificio Consiglio? «Non sarà facile. È facile organizzare grandi incontri e grandi convegni a livello internazionale. Di questi ce ne sono tanti. La cosa più complicata è invece elaborare delle visioni, dei progetti, dei percorsi, che poi vanno verificati nella realtà concreta, a livello locale». Un disegno di san Paolo realizzato su pergamena, risalente al X secolo e conservato alla Biblioteca capitolare di Vercelli. Benedetto XVI ha indetto per il 2008 uno speciale Anno Paolino. Perché san Paolo è così importante nella Chiesa primitiva, e dunque nel farsi stesso della comunità cristiana? «Il discorso che abbiamo fatto finora va proprio a confluire su Paolo: intanto, Paolo è sì un pastore, ma è anche un grande teorico. Non è il « Lenin del cristianesimo », come lo definiva Gramsci. Però, certo, è colui che ha un grande progetto ermeneutico. Paolo vuole dare una interpretazione coerente del cristianesimo, un’interpretazione che sia interculturale, anzi inculturata: con lui inizia la grande operazione di trasmissione della fede con le categorie del pensiero greco, che durerà per 4-5 secoli e che culmina nei grandi Concili di Nicea e Costantinopoli. Paolo intuisce insomma che, se il cristianesimo non vuole essere una setta, deve riuscire a fare i conti con la cultura del proprio tempo: da qui la scelta di riscrivere – senza perderla – la propria radice ebraica. Infine, Paolo è anche un pastore: costruisce delle Chiese e le modella secondo paradigmi diversi. Noi abbiamo sicuramente almeno 3-4 modelli diversi di « Chiesa paolina ». Paolo d’altronde è stato un uomo di tre culture: quella ebraica, greca e romana. Quindi è vissuto in continuo ascolto e attenzione a questi mondi». Paolo, dunque, rompe le catene che rischiavano di rinchiudere la prima comunità nell’ambito angusto di una piccola setta ebraica e apre al cristianesimo un orizzonte universale? «Sì, rompe le catene di un cristianesimo solo giudaico. Però non rinuncia mai all’eredità ebraica, la considera una delle componenti insostituibili. Certo, non teme il confronto con la laicità, che allora voleva dire il paganesimo. E mette in conto il rischio dello scacco. È il caso emblematico dell’Areopago di Atene: un tentativo di dialogo e di incontro con un mondo del tutto « altro », usando lo stesso linguaggio e la stessa strumentazione culturale dell’ »altro ». Poi però Paolo si accorge dell’ »eccedenza » del messaggio cristiano, si accorge che non è possibile giungere a un accordo sulla base del semplice sincretismo. Se non è accettabile il fanatismo che « nega » l’altro, non è neppure sufficiente il sincretismo. E questo è un altro problema fondamentale del dialogo con il mondo laico: il confronto deve essere sempre civile, però alla fine c’è una « eccedenza » della fede che non posso non riconoscere». Che cosa intende con « eccedenza »? «L’eccedenza ha a che fare con la tutela della specificità della teologia. Altrimenti è una filosofia. In questo senso, per me, il libro fondamentale è Giobbe: un libro che è un continuo atto d’accusa contro gli « amici », cioè contro i sistemi di pensiero onnicomprensivi, anche quelli che difendono Dio. Tanto è vero che Giobbe alla fine abbandona la via del luogo comune, del sentito dire, e prende la via della visione. Questa è l’eccedenza. A questo dovremmo educare un po’ anche i nostri fedeli: bisogna ricordare che la fede non è spiegare o imparare poche cose, e non è praticare poche cose. È sempre un di più, molto di più. Come la salvezza è molto di più che la semplice « sanazione » del limite». Ultimamente, con il Motu proprio sull’antica liturgia, la lingua latina è tornata d’attualità. Indubbiamente, il latino ha svolto un ruolo fondamentale nella storia della Chiesa. Ma oggi è ancora vitale? «A mio parere, bisogna evitare in tutti i modi una delle grandi malattie del nostro tempo: la smemoratezza. In questa chiave, al di là della questione del suo ruolo nella liturgia, il latino – come stendardo – è importante: a livello generale, pensiamo cosa ha significato per l’elaborazione delle categorie teologiche, e del pensiero in generale, occidentali. Nella liturgia, poi, recuperare il latino significa recuperare anche la possibilità di comprensione di tutto il patrimonio musicale. Il punto ovviamente non è ripetere, ma comprendere e far vivere il passato. Coltivare la memoria del latino deve essere, in qualche modo, un’operazione innovativa». San Paolo è stato un grandissimo comunicatore. Oggi che viviamo nella società delle comunicazioni, perché invece la Chiesa fa così fatica a parlare al mondo? «Un tempo il mondo era mosso dalla Chiesa. A partire dall’Ottocento, ha preso a muoversi da solo, è diventato « adulto », come dice Bonhoeffer. E la Chiesa si è trovata a inseguirlo. Il problema centrale è quello del linguaggio: in passato i linguaggi erano coniati all’interno della Chiesa. Pensiamo al linguaggio artistico, musicale, alla stessa letteratura. Oggi non è più così. E la Chiesa, per tutelare la sua identità, si è aggrappata alle formulazioni che già conosceva. Oppure le ha rielaborate, cercando di restare al passo: è il caso, ad esempio, dei catechismi. Ma nel frattempo il mondo era già andato avanti, era passato oltre. Il punto è che, quando si muta il linguaggio, si muta la struttura del pensiero. In questo caso, dunque, la soluzione non sta nel rincorrere il medium, con un semplice aggiornamento tecnico: l’homo telematicus non è solo colui che è capace di usare il computer, è proprio un fenotipo antropologico differente. E la comunicazione telematica non è soltanto un fenomeno tecnico, è un fenomeno esistenziale. Questa realtà non si può soltanto deprecarla, rimanendo aggrappati al passato. Il punto è riuscire a « comunicare » in questo mondo, riuscire a parlare a questo uomo contemporaneo, senza però rassegnarsi all’esito che l’uomo contemporaneo ha raggiunto». In sintesi, qual è il segreto di un evangelizzatore così grande come Paolo? «Il segreto mi sembra questo: per annunciare in maniera autentica bisogna saper coniugare l’intelligenza e l’amore. Non basta solo l’intellettualismo, come non basta solo la partecipazione passionale. Le due cose si devono sposare. E Paolo, in questo senso, è stato un maestro. Bisogna quindi recuperare l’idea di una Chiesa « calda », ma al tempo stesso non perdere il rigore intellettuale. Talvolta oggi, invece, la teologia se ne va per suo conto, la catechesi è affidata alla buona volontà, mentre certa pastorale – in particolare nei movimenti – esalta solo la dimensione spiritualistica. Un’ultima cosa che ci insegna Paolo è la necessità di porsi sulle frontiere, anche le più difficili: non accontentarsi dei propri orti, ma affrontare anche il mare aperto, gli spazi apparentemente più ostili. E, in questo apostolato di frontiera, non temere di adottare tutti i mezzi e gli stili a disposizione, anche i più moderni e « alieni ». Però, senza perdere l’anima, cioè il radicamento indiscutibile nella grandezza di un messaggio. Cosa di cui non sono consapevoli, tante volte, i cristiani». E dove è oggi Paolo, nella Chiesa? In quale luogo ecclesiale è più vicino il suo spirito? Nei movimenti? Nei monasteri? Nelle piccole parrocchie? «Ci sono due frasi di Paolo significative a questo proposito. Una è « esaminate tutto, tenete ciò che è buono ». E l’altra: « Io mi sono fatto tutto per tutti ». Voglio dire: la concezione di Chiesa propria di Paolo – una Chiesa non monolitica e non anarchica, ma vivente, « somatica » – ci fa capire che il modello cristiano è quello della molteplicità, della diversità nell’unità. Nessuno può dire: « Questo è l’unico, vero cristiano ». Il cristianesimo nasce nella sua ecclesialità, nel suo essere tutti partecipi, pronti a prendere dall’altro gli aspetti positivi, in una continua osmosi. Per questo non bisogna avere mai disprezzo di qualsiasi tipo di esperienza ecclesiale. Però bisogna condannarla quando diventa integralista, arrogante, autosufficiente e pretende di affermare di essere l’unica: l’unità vitale del Corpo di Cristo è decisiva, ma può esistere solo nell’efficacia e nell’armonia dei suoi membri, dal capo ai piedi, come ricorda Paolo ai Corinzi».

Giovanni Ferrò  

IL REALISMO DI NASCERE NELLA STORIA – GIANFRANCO RAVASI

http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5038

GIANFRANCO RAVASI NE RIPROPONE UNA SINTESI E LA PRESENTA COME « IL REALISMO DEL NASCERE NELLA STORIA »!!! IL SUO ARTICOLO – A CURA DI FEDERICO LA SALA

IL REALISMO DI NASCERE NELLA STORIA

Dio abbandona gli edifici simbolici e sceglie una residenza carnale: il grembo. Gesù a Betlemme è il trionfo della maestà della vita. Così il Natale illumina e consacra tutte le esistenze. di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2010)

Una decina d’anni dopo la pubblicazione, avvenuta nel 1982, lo scrittore lombardo Giovanni Testori – a seguito di un incontro pubblico milanese, dedicato a un libro su Maria Maddalena a cui entrambi avevamo collaborato – mi inviò una sua opera poco nota intitolata La maestà della vita. Di lì a poco egli sarebbe morto (nel 1993). Ora, sfogliando di nuovo quelle pagine, m’imbatto in questo paragrafo: «lI Natale è la nascita assoluta che riflette e assume, illumina e redime, benedice e consacra tutte le nascite di prima e tutte le nascite di poi. Ogni uomo che venga alla luce ripete il miracolo del Natale di Cristo; perché è Dio che decide quella nascita; è Lui che vuole quella vita. È proprio ciascuna di quelle nascite, ciascuna di quelle vite, nessuna esclusa, che l’ha spinto da sempre a incarnarsi». Sono parole che invitano spontaneamente a riflettere proprio su quel verbo finale così tipico del cristianesimo, l’«incarnarsi» di Dio. Non per nulla si ripete spesso che l’«incarnazione» è nel cuore stesso dell’annuncio cristiano, ne è – assieme alla risurrezione – quasi il vessillo tematico.

La definizione immediata, spoglia di tecnicismi teologici, potrebbe essere così formulata sulla scia delle righe di Testori: il Figlio di Dio è nato, ha voluto avere un inizio nel tempo lui che era e che rimane eterno, proprio per condividere realmente con noi la storia, la « carne ». Come tutti noi, ha anche avuto una fine nel tempo, una morte. Con questo ingresso nella sequenza temporale ha deposto in tutte le nascite e in tutte le morti un seme divino, trascendente il tempo stesso. Come scrive Testori, il Natale del Figlio di Dio, «riflette e assume, illumina e redime, benedice e consacra tutte le nascite», tutte le vite. L’«incarnazione» è incisa nella memoria di tutti, anche di chi è agnostico, con una frase lapidaria del celebre prologo del Vangelo di Giovanni, un testo che è stato definito «una parabola teandrica», proprio per l’intreccio inestricabile che propone tra divinità e umanità. Da un lato, infatti, c’è il Logos che è «in principio» – come si dice del Creatore nell’incipit stesso della Bibbia (Genesi 1,1: «In principio Dio creò il cielo e la terra…») -, egli è «presso Dio» ed è Dio. D’altro lato, però, questo Logos divino, perfetto, creatore, assoluto – che è Wort, Parola, Kraft, Potenza, Sinn, Significato, Tat, Atto, per usare la famosa resa semantica offerta da Goethe nel suo Faust – si insedia nell’orizzonte contingente e mutevole del tempo e dello spazio: «Il Logos divenne carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14). Il Verbo eterno e divino assume la sarx, ossia la caducità temporale, divenendo ospite nomadico del nostro spazio: come è noto, il testo originario giovanneo usa, infatti, il verbo greco eskénosen che è il termine dell’«attendarsi», dell’accamparsi tra gli uomini che migrano di luogo in luogo. Naturalmente, l’allusività di Giovanni non ignora il valore simbolico della « tenda » che era il santuario mobile dell’Israele pellegrino nel Sinai, «tenda dell’incontro» tra Dio e Israele, ma al tempo stesso tenda della « presenza » divina: in ebraico « presenza » è shekinah, vocabolo curiosamente fondato sulle stesse tre consonanti (s-k-n-) dell’«attendarsi» greco (skenoun). Resta, comunque, grandioso il paradosso. Non è più di scena un telo o un edificio simbolico: questa nuova residenza divina è « carnale ». Tenendo conto che la sarx, « carne », è la resa ideale dell’ebraico basar, l’ambito in cui Dio si insedia e di cui diventa pienamente partecipe è la condizione umana, terrestre, carica di caducità e finitudine. Essa è assunta senza riserve, ha nella nascita il suo emblema, ma presuppone anche l’intero arco dell’esistere, fatto di un impasto di riso e lacrime, speranza e delusione, salute e malattia, sentimenti e umori, atti e parole, affetti e tradimenti, esperienze e silenzi. In questa luce è suggestiva la ripresa del tema che Jorge Luis Borges ha proposto nella sua poesia emblematicamente intitolata Giovanni 1,14, presente nella raccolta Elogio dell’ombra (1969): «Io che sono l’È, il Fu e il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo… / Vissi stregato, prigioniero di un corpo / e di un’umile anima… / Appresi la veglia, il sonno, i sogni, / l’ignoranza, la carne, / i tardi labirinti della mente, / l’amicizia degli uomini / e la misteriosa dedizione dei cani. / Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce». A lungo si potrebbe riflettere attorno a questo nodo d’oro nel quale «anche il soprannaturale è carnale», come affermava Charles Péguy nel suo poema Eva (1913). Là il Figlio di Dio diventa «frutto di un ventre carnale», assumendo e riassumendo in sé tutta l’umanità fatta di carne e di sangue. Si potrebbe, inoltre, individuare il tessuto delle allusioni e dei rimandi evocati da Giovanni nel suo testo: egli attinge alle categorie « Parola » e « Sapienza », care all’Antico Testamento, senza però escludere del tutto ammiccamenti al Logos greco, che si era infiltrato nello stesso giudaismo di Filone d’Alessandria d’Egitto, celebre pensatore giudeo-ellenistico del I secolo. Così, sarebbe pure possibile ritrovare una sottile ma efficace punta polemica contro l’affacciarsi, nella cristianità delle origini, di tentazioni gnostiche o docetiche. Esse – come ben si evince dagli stessi termini di matrice greca che evocano la « gnosi », la conoscenza alta e pura, e l’ »apparenza », il dokéin – rifiutavano la « pesantezza » della « incarnazione », di quel «diventare carne». Al massimo l’accettavano come metafora dell’epifania del Logos nel suo mostrarsi esteriore, del suo « apparire », oppure come espressione mitica dell’agire atemporale di Dio, mero rivestimento simbolico dell’Essere trascendente. L’evangelista Giovanni non cesserà di contrastare questa visione che estenua la presenza storica di Dio e che rende esangue il volto di Cristo, e lo farà soprattutto nelle sue Lettere, ribadendo che è possibile un’esperienza uditiva, visiva e tattile del «Verbo della vita» (1 Giovanni 1, 1-3), per cui la discriminante dell’autentica teologia cristiana è netta: «Ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio e ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Anzi, questo è lo spirito dell’Anticristo» (4,2-3). «Sono, infatti, apparsi nel mondo molti seduttori che non riconoscono Gesù venuto nella carne» (2 Giovanni 7). Il realismo dell’ »incarnazione » diventa, quindi, una sorta di carta di tornasole dell’autenticità della stessa professione di fede cristiana, anche se il termine greco specifico sárkosis, « incarnazione », non appare direttamente nel Nuovo Testamento e sarà adottato per la prima volta nel II secolo dal Padre della Chiesa Ireneo nella sua opera Contro le eresie (3, 18,3; 19, 1-2) e diverrà comune a partire solo dal IV secolo, quando si accentueranno le discussioni e le diatribe cristologiche. Noi ora vorremmo accennare brevemente solo a due questioni contestuali, simili a cerchi che si aprono attorno a questo tema teologico giovanneo. Il primo cerchio che isoliamo è il più ristretto, ed è quello che rimanda al resto del Nuovo estamento, antecedente al quarto Vangelo a livello cronologico. Certo, non vi possiamo identificare l’esplicitazione che Giovanni fa del tema, ma i prodromi sono del tutto evidenti. Per quanto riguarda gli altri Vangeli, cioè i Sinottici, la loro stessa impostazione narrativa, che parte dalla genealogia e dal racconto della nascita di Gesù (Matteo e Luca) e si sviluppa secondo una trama storica di eventi per approdare a una morte, è l’attestazione più limpida del legame intimo di Cristo con la « carne » fatta appunto di avvenimenti, tempo, spazio, esistenza. Egli è per eccellenza l’Emmanuele, Dio-con-noi, che procede spalla a spalla con l’umanità, rimanendo «con noi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (si vedano Matteo 1,23 e 28,20). Interessante, a livello più teorico, risulta – sempre in questo cerchio – il pensiero di san Paolo. Non possiamo, ovviamente, approfondire i percorsi tematici che al riguardo egli ci offre e che sono sempre uno specchio della complessità e della ricchezza del suo pensiero. È, comunque, facile reperire nel suo corpus epistolare alcune dichiarazioni indirette: «Dio ha mandato il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato» (Romani 8,3); «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Galati 4,4); «uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo…; egli fu manifestato nella carne umana» (1 Timoteo 2,5; 3,16); «in lui abita corporalmentetutta la pienezza della divinità» (Colossesi 2,9); «il Figlio di Dio è nato dal seme di Davide secondo la carne… e dagli Israeliti proviene Cristo secondo la carne» (Romani 1,3; 9,5). Questa sequenza testuale parla da sola. Riserviamo, però, un cenno specifico all’inno – forse prepaolino – che l’Apostolo incastona nella sua Lettera agli amati cristiani della città greca di Filippi. In quel testo, l’elemento capitale per il nostro discorso è in un contrasto tratteggiato dall’Apostolo. Da un lato, c’è la discesa umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna: egli precipita fino allo « svuotamento » (in greco kénosis) di tutta la sua gloria divina nella morte di croce, il supplizio dello schiavo, cioè l’ultimo degli uomini per poter essere, in tal modo, vicino e fratello dell’intera umanità. D’altro lato, ecco l’ascesa trionfale che si compie nella Pasqua quando Cristo si ripresenta nello sfolgorare della sua divinità, nell’ »esaltazione » gloriosa celebrata da tutto il cosmo e da tutta la storia ormai redenti. Questa visione grandiosa presenta innicamente sia l’umanità sia la divinità di Cristo, ed «enfatizza con solenne immediatezza – come scrive il teologo Giuseppe Mazza della Pontificia Università Gregoriana – lo scandaloso movimento dello svuotamento che si fa spoliazione, abbassamento e autoumiliazione» così che il Figlio di Dio possa «partecipare della natura umana, dissimile da quella divina». Citiamo, comunque, le parole della descrizione paolina del movimento « discensionale » dell’Incarnazione: «Cristo, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Filippesi 2,6-8). C’è, tuttavia, un eventuale secondo cerchio contestuale più ampio e fluido che sarebbe quello anticotestamentario, legato a categorie rilevanti come le citate Parola e Sapienza di Dio, le quali sono realtà trascendenti che entrano e operano nelle coordinate della storia e del cosmo. Noi, però, vorremmo anche accennare al cerchio ancor più largo e dai contorni vaghi, quello delle culture religiose dell’antico Vicino Oriente e della classicità greca. L’epifania della divinità sotto forme o apparenze umane è nota anche a esse, ma ignoto rimane il concetto esplicito di « incarnazione ». Detto in altri termini, nessuna divinità greca diventa « un uomo » nel senso vero della parola. Adone, Tammuz, Osiride discendono nell’oltretomba e vi riemergono senza, però, assumere la natura e la condizione umana, ma solo per rappresentare miticamente il cielo naturistico stagionale. L’ »incarnazione » resta, perciò, un unicum cristiano, lontana anche da un parallelo remoto, talora evocato, quello induista degli avatara che sono l’assunzione di una forma corporea umana o animale da parte della divinità, assunzione varia e molteplice, ritmica e ciclica secondo il succedersi delle ere. Manca, quindi, in questa visione ogni puntuale e diretta immissione nella trama del tempo e nella realtà di una persona umana, propria dell’evento Gesù Cristo. Scriveva significativamente nel suo Diario il filosofo Ludwig Wittgenstein: «Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell’anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo».

SEMPLICITÀ DEL NATALE – CARLO MARIA MARTINI SJ

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SEMPLICITÀ DEL NATALE – CARLO MARIA MARTINI SJ

«Il presepio è qualcosa di molto semplice, che tutti i bambini capiscono». Una meditazione da Gerusalemme del cardinale Carlo Maria Martini

del cardinale Carlo Maria Martini sj

Gerusalemme, dicembre 2006

Il presepio è qualcosa di molto semplice, che tutti i bambini capiscono. È composto magari di molte figurine disparate, di diversa grandezza e misura: ma l’essenziale è che tutti in qualche modo tendono e guardano allo stesso punto, alla capanna dove Maria e Giuseppe, con il bue e l’asino, attendono la nascita di Gesù o lo adorano nei primi momenti dopo la sua nascita. Come il presepio, tutto il mistero del Natale, della nascita di Gesù a Betlemme, è estremamente semplice, e per questo è accompagnato dalla povertà e dalla gioia. Non è facile spiegare razionalmente come le tre cose stiano insieme. Ma cerchiamo di provarci. Il mistero del Natale è certamente un mistero di povertà e di impoverimento: Cristo, da ricco che era, si fece povero per noi, per farsi simile a noi, per amore nostro e soprattutto per amore dei più poveri. Tutto qui è povero, semplice e umile, e per questo non è difficile da comprendere per chi ha l’occhio della fede: la fede del bambino, a cui appartiene il Regno dei cieli. Come ha detto Gesù: «Se il tuo occhio è semplice anche il tuo corpo è tutto nella luce» (Mt 6, 22). La semplicità della fede illumina tutta la vita e ci fa accettare con docilità le grandi cose di Dio. La fede nasce dall’amore, è la nuova capacità di sguardo che viene dal sentirsi molto amati da Dio. Il frutto di tutto ciò si ha nella parola dell’evangelista Giovanni nella sua prima lettera, quando descrive quella che è stata l’esperienza di Maria e di Giuseppe nel presepio: «Abbiamo veduto con i nostri occhi, abbiamo contemplato, toccato con le nostre mani il Verbo della vita, perché la vita si è fatta visibile». E tutto questo è avvenuto perché la nostra gioia sia perfetta. Tutto è dunque per la nostra gioia, per una gioia piena (cfr. 1Gv 1, 1-3). Questa gioia non era solo dei contemporanei di Gesù, ma è anche nostra: anche oggi questo Verbo della vita si rende visibile e tangibile nella nostra vita quotidiana, nel prossimo da amare, nella via della Croce, nella preghiera e nell’eucaristia, in particolare nell’eucaristia di Natale, e ci riempie di gioia. Presepe, Luca della Robbia il Giovane, XVI secolo, convento domenicano di Santa Maria Maddalena, Caldine, Firenze Presepe, Luca della Robbia il Giovane, XVI secolo, convento domenicano di Santa Maria Maddalena, Caldine, Firenze Povertà, semplicità, gioia: sono parole semplicissime, elementari, ma di cui abbiamo paura e quasi vergogna. Ci sembra che la gioia perfetta non vada bene, perché sono sempre tante le cose per cui preoccuparsi, sono tante le situazioni sbagliate, ingiuste. Come potremmo di fronte a ciò godere di vera gioia? Ma anche la semplicità non va bene, perché sono anche tante le cose di cui diffidare, le cose complicate, difficili da capire, sono tanti gli enigmi della vita: come potremmo di fronte a tutto ciò godere del dono della semplicità? E la povertà non è forse una condizione da combattere e da estirpare dalla terra? Ma gioia profonda non vuol dire non condividere il dolore per l’ingiustizia, per la fame del mondo, per le tante sofferenze delle persone. Vuol dire semplicemente fidarsi di Dio, sapere che Dio sa tutte queste cose, che ha cura di noi e che susciterà in noi e negli altri quei doni che la storia richiede. Ed è così che nasce lo spirito di povertà: nel fidarsi in tutto di Dio. In Lui noi possiamo godere di una gioia piena, perché abbiamo toccato il Verbo della vita che risana da ogni malattia, povertà, ingiustizia, morte. Se tutto è in qualche modo così semplice, deve poter essere semplice anche il crederci. Sentiamo spesso dire oggi che credere è difficile in un mondo così, che la fede rischia di naufragare nel mare dell’indifferenza e del relativismo odierno o di essere emarginata dai grandi discorsi scientifici sull’uomo e sul cosmo. Non si può negare che può essere oggi più laborioso mostrare con argomenti razionali la possibilità di credere, in un mondo così. Ma dobbiamo ricordare la parola di san Paolo: per credere bastano il cuore e la bocca. Quando il cuore, mosso dal tocco dello Spirito datoci in abbondanza (cfr. Rm 5, 5; Gv 3, 34), crede che Dio ha risuscitato dai morti Gesù e la bocca lo proclama, siamo salvi (cfr. Rm 10, 8-12). Tutte le complicazioni, tutti gli approfondimenti che talora ci confondono, tutto ciò che è stato sovrimposto attraverso il pensiero orientale e occidentale, attraverso la teologia e la filosofia, sono riflessioni buone, ma non ci devono far dimenticare che credere è in fondo un gesto semplice, un gesto del cuore che si butta e una parola che proclama: Gesù è risorto, Gesù è Signore! È un atto talmente semplice che non distingue fra dotti e ignoranti, tra persone che hanno compiuto un cammino di purificazione o che devono ancora compierlo. Il Signore è di tutti, è ricco di amore verso tutti coloro che lo invocano. Giustamente noi cerchiamo di approfondire il mistero della fede, cerchiamo di leggerlo in tutte le pagine della Scrittura, lo abbiamo declinato lungo vie talora tortuose. Ma la fede, ripeto, è semplice, è un atto di abbandono, di fiducia, e dobbiamo ritrovare questa semplicità. Essa illumina tutte le cose e permette di affrontare la complessità della vita senza troppe preoccupazioni o paure. Per credere non si richiede molto. Ci vuole il dono dello Spirito Santo che egli non fa mancare ai nostri cuori e da parte nostra occorre fare attenzione a pochi segni ben collocati. Guardiamo a ciò che successe accanto al sepolcro vuoto di Gesù: Maria Maddalena diceva con affanno e pianto: «Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l’hanno posto». Pietro entra nel sepolcro, vede le bende e il sudario piegato in un luogo a parte e ancora non capisce. Capisce però l’altro discepolo, più intuitivo e semplice, quello che Gesù amava. Egli «vide e credette», riferisce il Vangelo, perché i piccoli segni presenti nel sepolcro fecero nascere in lui la certezza che il Signore era risorto. Non ha avuto bisogno di un trattato di teologia, non ha scritto migliaia di pagine sull’evento. Ha visto piccoli segni, piccoli come quelli del presepio, ma è stato sufficiente perché il suo cuore era già preparato a comprendere il mistero dell’amore infinito di Dio. Talora noi siamo alla ricerca di segni complicati, e va anche bene. Ma può bastare poco per credere se il cuore è disponibile e se si dà ascolto allo Spirito che infonde fiducia e gioia nel credere, senso di soddisfazione e di pienezza. Se siamo così semplici e disponibili alla grazia, entriamo nel numero di coloro cui è donato di proclamare quelle verità essenziali che illuminano l’esistenza e ci permettono di toccare con mano il mistero manifestato dal Verbo fatto carne. Sperimentiamo come la gioia perfetta è possibile anche in questo mondo, nonostante le sofferenze e i dolori di ogni giorno.

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