Archive pour la catégorie 'c.CARDINALI'

MONS. GIANFRANCO RAVASI : MONS. GIANFRANCO RAVASI

dal sito: 

http://www.novena.it/ravasi/2003/202003.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI 

BARNABA, FIGLIO DELL’ESORTAZIONE (Atti 9, 26-31; 4,36; 4,37; 11, 23-26; 15, 22; 15, 3-7-40; 1Cor 9,6) 

«Paolo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo. Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù».

Inizia così il brano degli Atti degli Apostoli (9,26-31) che verrà proclamato come prima lettura in questa domenica. A emergere in primo piano, oltre a Paolo neo-convertito, c’è la figura di cui ora vorremmo tracciare un ritratto essenziale, Barnaba.

In realtà, questo era un soprannome che gli Atti degli Apostoli (4,36) interpretano come “figlio dell’esortazione”, anche se forse il suo significato originario era pagano e babilonese, “figlio del dio Nabu” (lo stesso dio presente nel nome del re Nabucodonosor). Il suo vero nome era, però, Giuseppe ed era un levita di origine cipriota. Il primo suo atto, ricordato sempre dal libro degli Atti, era stato un gesto di generosità per i fratelli più poveri: «Egli era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l’importo deponendolo ai piedi degli apostoli» (4,37). Veniva, così, incontro alla scelta della comunità cristiana di Gerusalemme, quella cioè della condivisione totale dei beni.

La svolta della sua esperienza cristiana avvenne, però, soprattutto col suo incontro con Paolo. Inviato come delegato della Chiesa-madre di Gerusalemme ad Antiochia per verificare il nuovo metodo pastorale ivi praticato, aperto anche ai pagani, Barnaba, «da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede, si rallegrò ed esortava tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore» (Atti 11,23-24, si noti l’allusione al suo soprannome nella menzione della sua “esortazione”). Egli, allora, «partì alla volta di Tarso per cercare Saulo e, trovatolo, lo condusse ad Antiochia. Rimasero insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta gente e ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (11,25-26).

Da quel momento i due procederanno insieme, tenendo i rapporti con Gerusalemme, anche quando la questione dell’ingresso diretto dei pagani nel cristianesimo, senza un previo passaggio attraverso il giudaismo e le sue osservanze, aveva creato discussioni, tant’è vero che si era deciso di indire un “concilio” proprio nella città santa. 11 decreto di quell’assise, sostanzialmente favorevole alla prassi “aperturista” seguita da Paolo e da Barnaba, fu portato e comunicato ad Antiochia, proprio da loro e da altri due delegati, Giuda Barsabba e Sila-Silvano (15,22). È da ricordare che allora Antiochia di Siria (ora in Turchia) era una metropoli cosmopolita con una presenza viva dei cristiani, come sopra si è detto.

Venne, però, anche il momento della tensione con Paolo. Erano in procinto di partire per il secondo grande viaggio missionario e «Barnaba voleva prendere insieme anche Giovanni, detto Marco», probabilmente il futuro evangelista.

Ma Paolo non ne condivideva la scelta perché lo riteneva incostante. «Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro e Paolo scelse invece Sila-Silvano e partì» (15, 3, 7-40).
Come si vede, anche nella gloriosa Chiesa delle origini non mancavano difficoltà e punti di vista differenti. Paolo, però, ricorderà con ammirazione il suo antico collega scrivendo ai Corinzi (I Cor 9,6).

MONS. GIANFRANCO RAVASI (2003): Silvano, Fratello fedele

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2003/082003.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI (2003) 

Silvano, Fratello fedele (2Cor 1,19; Atti 15,22; Atti, 15,40; Atti 16; Atti 18, 5;) 

Nella nostra galleria di ritratti biblici abbiamo escluso i personaggi più celebri (Abramo, Davide, Salomone, Isaia, Pietro, Paolo, tanto per fare qualche esempio) e siamo andati alla ricerca finora di figure forse di secondo piano, anche se di notevole rilievo storico e religioso. Questa volta, invece, faremo emergere una figura decisamente minore che è anzi, persino presentata con due nomi in variazione. Nel brano che la liturgia di questa domenica ritaglia dalla seconda Lettera di Paolo ai Corinzi si legge: «Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo predicato tra voi, io, Silvano e Timoteo, non fu “sì” e “no”, ma in lui c’è Stato il “SÌ”» (1,19).

Ecco, parleremo ora di questo collaboratore di san Paolo nella predicazione cristiana, Silvano, altre volte chiamato anche Sila (c’è chi pensa che “Silvano” sia il nome latino, Sila sarebbe la forma aramaica del nome ebreo Saul). Egli entra in scena per la prima volta negli Atti degli Apostoli in un momento particolarmente rilevante per la Chiesa delle origini. Il primo “concilio”, tenutosi a Gerusalemme per dirimere la questione dell’ammissione diretta dei pagani nel cristianesimo (senza transitare prima dal giudaismo), ha emesso un documento che dev’essere reso noto alla comunità cristiana che più sentiva questo problema, quella della città di Antiochia di Siria (ora è Antakia in Turchia).

«Allora gli apostoli, gli anziani e tutta la Chiesa decisero di eleggere alcuni e di inviarli ad Antiochia insieme a Paolo e Barnaba: Giuda chiamato Barsabba e Sila, uomini tenuti in grande considerazione tra i fratelli» (Atti 15,22). Ecco, dunque, apparire sulla ribalta Sila-Silvano che poi fu scelto da Paolo come suo compagno di missione (15,40). Con l’Apostolo si inoltrerà in un viaggio avventuroso che lo condurrà in Macedonia, fino alla città di Filippi, allora divenuta una colonia romana. Là Sila conobbe anche il carcere perché il padrone di una giovane schiava dotata di poteri magici aveva denunciato Paolo che l’aveva convertita al cristianesimo, togliendo così una fonte di guadagno al suo padrone.

Il racconto vivacissimo dell’episodio, che comprende anche una reazione della folla contro Paolo e Sua, è da leggersi nel capitolo 16 degli Atti degli Apostoli. Gettati in carcere, i due trascorsero la notte in preghiera e in canti. All’improvviso, un terremoto scardinò le porte della prigione; il custode, impressionato da questo evento, si fece istruire nella fede in Gesù Cristo, curò le ferite che i due avevano subìto a causa della flagellazione ordinata dal magistrato, li rifocillò e si fece battezzare con tutta la sua famiglia.

Espulsi da Filippi, Paolo e Sila raggiunsero l’altra città maggiore della Macedonia, Tessalonica, e da lì — dopo varie vicende e un viaggio del solo Paolo ad Atene — si ritrovarono nella metropoli di Corinto. Qui, con Timoteo, Sua e Paolo si dedicarono alla predicazione del Vangelo (Atti 18,5). Ritorniamo, così, al testo da cui siamo partiti. Silvano è ricordato da Paolo in apertura alle sue due Lettere ai Tessalonicesi, perché avevano fondato insieme quella Chiesa. Ma, a sorpresa, Silvano fa capolino anche presso l’apostolo Pietro che nella finale della sua prima Lettera annota: «Vi ho scritto brevemente per mezzo di Silvano, fratello fedele…» (5,12)

Mons. Gianfranco Ravasi: Rapito in estasi dalla terra al cielo (ITess)

dal sito: 

http://www.novena.it/ravasi/2002/482002.htm

Mons. Gianfranco Ravasi

Rapito in estasi dalla terra al cielo –  2002 (1Tessalonicesi)

Siamo nell’anno 51. San Paolo è a Corinto. Alle spalle ha il ricordo delle settimane trascorse a Tessalonica, capitale della Macedonia, dell’accoglienza festosa dei pagani, della dura reazione degli Ebrei là residenti, della sommossa da loro ordita e della fuga a cui è stato costretto, il discepolo Timoteo gli reca ora notizie della neonata Chiesa tessalonicese e delle sue prime incertezze.
Paolo decide, allora, di inviare un messaggio a quella comunità, «da leggersi a tutti i fratelli»: è la prima Lettera ai Tessalonicesi, il primo scritto paolino a noi giunto, quasi certamente il primo testo del Nuovo Testamento.

Proponiamo ora questa Lettera anche perché ben s’adatta al clima dell’Avvento che sta iniziando. Serpeggia, infatti, nelle pagine di quest’opera una specie di brivido d’attesa: la Chiesa di quella città sentiva come imminente la nuova e definitiva venuta del Signore per suggellare la storia.
L’Apostolo cerca di contrastare questa tensione eccessiva che, come si vedrà, svaluta l’impegno nel presente e, usando un’immagine introdotta da Gesù, elimina ogni tentazione di avere oroscopi sulla fine del mondo: «Il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte» (5,2).

È, certo, necessaria la vigilanza e la veglia, senza però fanatismi e ossessioni perché «Dio non ci ha destinati all’ira ma a ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (5,9). Anzi, contro l’eccitazione di coloro che si dimettono dalle responsabilità quotidiane per decollare idealmente verso quell’alba eterna di luce, Paolo raccomanda come «punto d’onore quello di vivere in pace, di attendere ai propri impegni, di lavorare con le proprie mani così da condurre una vita dignitosa di fronte agli estranei e da non aver bisogno di nessuno» (4,11-12).

Tuttavia anche l’Apostolo vuole gettare uno sguardo su quell’orizzonte atteso ma ignoto, forse per non sembrare troppo evasivo. Egli cerca, però, di risolvere solo un quesito secondario avanzato dai cristiani di Tessalonica: nell’istante supremo, coloro che saranno ancora in vita alla seconda venuta del Cristo quale sorte avranno? Ecco la risposta paolina intrisa del linguaggio simbolico apocalittico, linguaggio che abbiamo già imparato a conoscere a suo tempo leggendo il libro dell’Apocalisse: «I morti in Cristo risorgeranno. Poi, noi ancor vivi e superstiti, saremo rapiti insieme con loro nella morte per andare incontro al Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore» (4,16-17).

Scenari cosmici, dunque, per un passaggio indolore dal tempo all’eterno, dallo spazio terreno all’infinito celeste. Una visione che l’Apostolo nella prima Lettera ai Corinzi in qualche modo varierà, introducendo la necessità di una metamorfosi radicale anche dei viventi in quel transito estremo: «Non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati» (15,51). La risposta di Paolo, a quanto pare, non basterà a calmare i Tessalonicesi. Ci sarà una seconda Lettera a loro indirizzata, più tesa e di più ardua lettura, segno comunque di un cristianesimo che non si perde e disperde nelle pieghe della storia, ma che neppure migra verso i cieli mitici e mistici dell’alienazione religiosa. 

Mons. Gianfranco Ravasi: Il primato di Cristo unico mediatore (1 Col)

dal sito: 

http://www.novena.it/ravasi/2002/472002.htm

 MONS. GIANFRANCO RAVASI – 2002 (Colossesi 1) 

Il primato di Cristo unico mediatore 

Chi va oggi a cercare l’antica Colossi, «città grande, fiorente, con molti abitanti», come la definiva lo storico greco Senofonte, s’imbatte in una ristretta area archeologica nei pressi del villaggio di Honez, nella Turchia centrale. È solo un cumulo di pietre su cui regna il silenzio; eppure il nome antico di questa ex città risuona ancor oggi per merito di san Paolo, che però mai si recò a Colossi di Frigia, la cui Chiesa fu fondata da un suo discepolo, Epafra, originario di quella regione. A quei cristiani, infatti, l’Apostolo inviò una lettera, così originale per stile e contenuti da aver fatto ipotizzare a molti studiosi una mano diversa, quella di un suo discepolo.

Noi scegliamo di fermarci sulla pagina d’apertura di questo scritto. Reagendo a certe stravaganze dei cristiani colossesi che erano tentati da forme rischiose di fede (si condanna in 2,18 un’eccessiva «venerazione degli angeli», ma anche si denunciano varie degenerazioni religiose), l’autore della Lettera vuole quasi operare una bonifica spirituale, riproponendo l’unicità della figura di Gesù Cristo come Salvatore. E lo faceva evocando o creando un inno solenne che è posto appunto all’inizio dello scritto. Forse è da considerarsi — come quello di Filippesi 2, presentato la scorsa settimana, e come quello che apre la Lettera agli Efesini (1,3-14) — la citazione di un canto in uso nelle Chiese dell’Asia Minore, sia pure con qualche ritocco e aggiunta.

Nei versi che ora leggeremo, scanditi dalla ripetizione del termine greco che indica la totalità, panta, emerge grandiosa la figura di Cristo, Signore di tutto l’essere cosmico e storico, Sapienza creatrice e pienezza di ogni vita e salvezza, sorgente di armonia e di pace universale. Questo inno, perciò, ben s’adatta alla solennità di Cristo re che celebriamo questa domenica e ben esorcizza le tentazioni dei Colossesi di ridurre Gesù forse al primo degli angeli, una specie di guida preminente in mezzo ad altri mediatori tra l’umanità e Dio. Egli, invece, è l’unico mediatore tra terra e cielo e non ci sono salvatori concorrenti.

L’inno si svolge in due movimenti. Il primo, in modo molto nitido, esalta il primato di Cristo come creatore dell’essere. Ascoltiamo questi versi potenti e incisivi. «Cristo è immagine del Dio invisibile, primogenito di ogni creazione poiché in lui sono state create tutte le realtà, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili… Tutto è stato creato per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutto e tutto in lui sussiste» (1,15-17).

Al secondo movimento del canto è assegnato, invece, il compito di delineare la funzione storica di Cristo, cioè quella di Salvatore dell’umanità, attraverso la Chiesa che è il suo corpo continuamente presente e operante nel tempo e nello spazio, del quale egli costituisce il capo. Con questa azione di salvezza egli riesce a riconciliare l’umanità in sé stessa e con Dio. Lasciamo la parola all’inno: «Cristo è il capo del corpo, cioè la Chiesa, il principio, il primogenito dei risorti dai morti, così da primeggiare su tutti. Poiché piacque a Dio di far abitare in lui ogni pienezza e per mezzo suo di riconciliare tutta la realtà in lui, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, sia le realtà della terra sia quelle del cielo» (1,18-20). 

MONS. GIANFRANCO RAVASI: Io Paolo, anziano e in catene…

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2002/262002.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI  - 2002  (Filemone) 

Io, Paolo, anziano e in catene………….. 

Accanto a Pietro nella liturgia del 29 giugno è associato Paolo, l’altra colonna della Chiesa di Roma, come diceva san Clemente agli inizi del II secolo. Ci siamo spesso interessati delle Lettere dell’Apostolo perché esse costituiscono un patrimonio fondamentale non solo della fede cristiana ma anche della stessa cultura dell’Occidente. Ora, però, vorremmo presentare un documento molto personale e fin curioso di Paolo, forse il suo ultimo scritto. Si tratta di un commovente biglietto che egli, ormai «anziano e in catene», indirizza a Filemone, un amico ricco e generoso, «collaboratore» nell’annunzio del Vangelo, nella cui casa si radunava una comunità di cristiani, anche se ci è ignota la città (versetti 1-2).

A lui l’Apostolo chiede un favore piuttosto inatteso. Durante la sua carcerazione — forse si tratta degli arresti domiciliari a Roma agli inizi degli anni ‘60, descritti nella finale degli Atti degli Apostoli (28,30-31) — Paolo aveva avuto l’occasione di incontrare e «generare» alla fede e quindi battezzare uno schiavo di nome Onesimo (versetti 10-11). Costui era fuggito proprio dalla casa di Filemone: secondo il diritto romano, egli doveva essere restituito al padrone che ne avrebbe deciso la sorte come meglio gli fosse gradito.

La proposta che, invece, Paolo avanza è significativa per illustrare la nuova visione che il cristianesimo stava introducendo nelle relazioni sociali. Ascoltiamo l’Apostolo in un brano di questa Lettera a Filemone: «Ti rimando Onesimo, lui che è il mio cuore (in greco si ha splànchna, cioè «viscere», segno di amore «viscerale»)… È stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre, non più come schiavo, ma come fratello amato tanto da me ancor più date, sia secondo la natura umana sia per la fede nel Signore. Se, dunque, mi consideri come amico, accoglilo come me stesso… Sì, fratello, che io possa ottenere da te favore nel Signore. Dà questo sollievo al mio cuore in Cristo! Ti scrivo fiducioso nella tua docilità, sapendo che farai anche più di quanto chiedo…» (versetti 12-2 1).

Tra l’altro, è suggestivo notare che Paolo si permette di aggiungere anche un tocco di ironia, quando scrive: «Se in qualcosa Onesimo ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Scrivo questo di mio pugno, io, Paolo: io stesso pagherò! Anche se vorrei dirti che mi sei debitore e proprio di te stesso!» (versetti 18-19). La tradizione popolare posteriore farà di Filemone un vescovo della città di Colossi nell’Asia Minore, alla cui Chiesa — come è noto — Paolo aveva già indirizzato una lettera, e naturalmente lo farà anche santo.

Ciò che affiora in queste righe è, comunque, la dimensione umana di Paolo, sensibile all’amicizia e lontano dallo stereotipo del freddo teorico, dell’arido teologo, privo di relazioni profonde e intime. L’Apostolo esce di scena, invece, proprio con un delizioso biglietto molto personale, segno di amore e di libertà. C’è nel saluto finale un bagliore di attesa riguardo al futuro: «Intanto preparami un alloggio perché spero — grazie alle vostre preghiere — di esservi felicemente restituito» (versetto 22).
Chissà se il desiderio di Paolo si realizzò prima della sua morte sotto Nerone imperatore! 

Publié dans:Card. Gianfranco Ravasi |on 26 mars, 2008 |Pas de commentaires »

Mons. Gianfranco Ravasi: « Svuotò se stesso facendosi schiavo »

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2002/art2002.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI (Fil 2,17; 1,20-21) 

Svuotò sé stesso facendosi schiavo 

Nelle nostre memorie scolastiche la città macedone di Filippi — che portava il nome del suo fondatore, Filippo II, il padre di Alessandro Magno (IV sec. a.C.) — forse ritorna per la battuta: «Ci rivedremo a Filippi», riferita dallo storico Plutarco nella sua Vita di Giulio Cesare. Là si era svolta nel 42 a.C. la battaglia di Ottaviano e Marco Antonio contro Bruto e Cassio. Là si era recato Paolo ad annunziare il Vangelo di Cristo nel 50 d.C. e a quei cristiani a lui tanto cari aveva indirizzato nel 55-56 una lettera serena e molto affettuosa, pur essendo scritta da un carcere duro, col rischio della morte: «Anche se il mio sangue dev’essere versato in libagione…, io sono felice e lo sono con voi… Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che muoia.
Per me, infatti, il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Filippesi 2,17;l,20-2 1).

Di questo scritto — in cui, come ha detto uno studioso, Jerome Murphy O’Connor, «si sente battere il cuore di Paolo» — noi ora sceglieremo solo una pagina celebre.
Si tratta di un inno incastonato nel capitolo 2 (vv. 6-1 1), forse citazione di un canto battesimale, ritrascritto e adattato dall’Apostolo.
L’elemento fondamentale di questo testo, denso teologicamente e vigoroso poeticamente, è in un contrasto.

Da un lato, c’è la discesa umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna: egli precipita fino allo “svuotamento” (in greco c’è una parola divenuta significativa nella teologia, kénosis) di tutta la sua gloria divina nella morte in croce, il supplizio dello schiavo, cioè l’ultimo degli uomini, per poter essere in tal modo vicino e fratello dell’intera umanità. D’altro lato, però, ecco l’ascesa trionfale che si compie nella Pasqua, quando Cristo si presenta nello splendore della sua divinità, nell’esaltazione gloriosa che è celebrata da tutto il cosmo e da tutta la storia ormai redenti. Si ha così, attraverso questo contrasto discensionale – ascensionale, la rappresentazione della morte e della risurrezione, dell’umanità e della divinità di Gesù Cristo. Possiamo a questo punto seguire i due movimenti dell’inno.

Il primo è quello dello “svuotarsi” che Cristo fa della sua gloria divina, divenendo povero e debole uomo ebreo, votato alla crocifissione, considerata allora come una morte infamante. Ecco le parole dell’inno: «Gesù Cristo, pur avendo la condizione di Dio, non volle approfittare dell’essere uguale a Dio, ma svuotò sé stesso, assumendo la condizione di schiavo. Divenuto simile agli uomini e presentatosi in forma umana, umiliò sé stesso, facendosi obbediente fino alla morte di croce» (2,6-8).

Il secondo movimento di questo canto — che, a distanza di due millenni, è ancor oggi usato dalla liturgia — dipinge invece la grande svolta pasquale che parte da quella tragica morte sul Golgota. Per tre volte si ripete il termine “nome” che, nel mondo biblico, designa la persona e la sua dignità. Ebbene, il Cristo glorioso riottiene il suo “nome” divino che lo rivela Signore di tutto l’essere, luminoso nello splendore della divinità.
Ecco le parole dell’inno: «Dio lo ha sovraesaltato, gratificandolo con un nome che supera ogni altro nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio degli esseri celesti, terrestri e sotterranei e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre» (2,9-11). 

Mons. Gianfranco Ravasi: La santa radice d’Israele

dal sito: 

http://www.novena.it/ravasi/ravasi13.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI 

LA SANTA RADICE DI ISRAELE 

Il testo apocrifo cristiano della fine del II secolo intitolato Atti di Paolo e Tecla ci offre questo curioso e realistico ritratto di Paolo: «Era un uomo di bassa statura, la testa calva, le gambe arcuate, il corpo vigoroso, le sopracciglia congiunte, il naso alquanto sporgente, pieno di amabilità: a volte aveva le sembianze di un uomo, a volte l’aspetto di un angelo».
Al di là della finale un po’ “aureolata”, questo profilo rivela i tratti di un uomo dell’Oriente.
Egli, infatti, pur proclamando con orgoglio la cittadinanza romana che gli derivava dall’essere nato a Tarso, una colonia romana dell’attuale Turchia, non esitava a marcare le sue radici ebraiche.
«Sono un ebreo di Tarso in Cilicia», dichiarava al tribunale romano che gli chiedeva le generalità al momento dell’arresto a Gerusalemme (Atti 21,39).
In polemica coi suoi detrattori ebrei di Corinto rivendicava le sue origini: «Sono essi ebrei? Lo sono anch’io! Sono israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io!» (2 Corinzi 11,22).
Agli amati cristiani greci di Filippi ribadiva vigorosamente di essere «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo secondo la legge (Filippesi 3,5).
Ebbene, nella lettera ai Romani che ci ha accompagnato nelle nostre puntate durante questa Quaresima ci sono ben tre capitoli – dal 9 all’11 – dedicati proprio al popolo ebraico.
Essi si aprono con questa appassionata dichiarazione:
«Vorrei essere io stesso maledetto, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono israeliti e a loro appartengono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi.
Da essi proviene Cristo secondo la carne» (9,3-5).
Pur ribadendo che gli Ebrei come i pagani hanno bisogno di essere salvati in Cristo dal loro peccato, Paolo ne esalta la grandezza e il destino di gloria.
La Chiesa, che comprende anche i non-ebrei, deve sentirsi innestata alla “santa radice” di quell’olivo che è Israele.
L’immagine vegetale e agricola dell’olivo è usata però dall’Apostolo in modo paradossale:
l’innesto lo si compie su un albero selvatico con un pollone fruttifero:
nella storia della Chiesa è avvenuto il contrario.
Infatti sull’olivo, che è Israele, è stato innestato un oleastro che «partecipa della radice e della linfa dell’olivo», cioè i pagani convertiti al cristianesimo (11,16-24).
E anche se gli Israeliti si sono ridotti a essere rami e polloni piantati altrove, essi potranno sempre riconnettersi alla loro radice e al loro tronco sano.
Conclude, infatti, Paolo la sua parabola dell’olivo così:
«Se tu, pagano, sei stato reciso dal tuo oleastro per essere innestato — sia pure contro natura — su un olivo buono, quanto più essi (gli Ebrei) potranno essere di nuovo innestati sul proprio olivo secondo la loro natura! » (11,24).

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