Archive pour la catégorie 'c.CARDINALI'

Cardinal John Henry Newman: La nostra vita « ormai nascosta con Cristo in Dio » (Col 3,3)

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=05/04/2008#

Cardinal John Henry Newman (1801-1890), sacerdote, fondatore di una comunità religiosa, teologo
Lectures on Justification, n
°
9,9
La nostra vita « ormai nascosta con Cristo in Dio » (Col 3,3)Cristo che aveva promesso di fare dei suoi discepoli una cosa sola in Dio insieme a lui, che aveva promesso che saremmo stati in Dio e Dio in noi, ha realizzato questa promessa. In un modo misterioso ha compiuto per noi questa grande opera, questo privilegio stupendo. E sembra che l’abbia compiuto proprio salendo al Padre, che la sua ascensione corporea sia stata la sua discesa spirituale, che la sua assunzione della nostra natura in Dio sia stata allo stesso tempo la discesa di Dio fino a noi. Potremmo dire che ci ha veramente, benché in modo nascosto, portati fino a Dio, e che ha condotto Dio fino a noi, secondo il punto di vista che adottiamo.Così dunque, quando san Paolo dice che «la nostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3) possiamo intendere che vuole dire che il nostro principio di esistenza non è più un principio mortale e terreno, tale quello di Adamo dopo la caduta, bensì che siamo battezzati e nascosti nuovamente nella gloria di Dio, in questa pura luce della sua presenza che avevamo persa durante la caduta di Adamo. Siamo creati nuovamente, trasformati, spiritualizzati, glorificati nella natura divina. Attraverso Cristo riceviamo come attraverso un canale, la vera presenza di Dio, dentro di noi e fuori di noi; siamo impregnati di santità e di immortalità.E questa è la nostra giustificazione: la nostra salità mediante Cristo fino a Dio o la discesa di Dio mediante Cristo fino a noi, possiamo dirlo in un senso o nell’altro… Siamo in lui e lui in noi; Cristo è «il solo mediatore» (1 Tm 2,5), «La Via, la verità e la vita» (Gv 14,6), unendo il cielo e la terra. Questa è la nostra vera giustificazione non soltanto il perdono o il favore, non soltanto una santificazione interiore – bensì proprio l’abitazione in noi del nostro Signore glorificato. Questo è il grande dono di Dio.

PAOLO, UN’AUTOBIOGRAFIA IN GAL 1,11-24

PAOLO, UN’AUTOBIOGRAFIA IN GAL 1,11-24

 

questo è il titolo che la BJ edizione italiana da a questa parte della lettera ai Galati, l’interpretazione di questa lettera non è facile, a detta anche di Mons. Ravasi – sto leggendo il suo commento ai Galati – quello che mi interroga è proprio questa presentazione molto personale, questo annuncio del vangelo che Paolo fa in questa parte della lettera; ho in mano una, abbastanza breve, spiegazione di Mons. Ravasi, la propongo, stralciandola dall’intero commento alla lettera paolina, perché sembra una sorta di autobiografia che Paolo fa, una autobiografia nella quale il protagonista non è più Paolo con la sua storia: la nascita gli studi, la conversione ecc., i luoghi dove è nato, cresciuto, ma una biografia che parte da Gesù, il primo personaggio di questa non è più Paolo stesso, ma Gesù il primo protagonista, Paolo non si mette al centro della sua storia, ma mette Gesù Cristo al centro della sua storia, e questo a me sembra un passaggio particolarmente importante, sia delle lettere, sia della persona di Paolo, della sua fede; come un indicare a chi ascolta la sua parola, legge le sue lettere, chi è veramente al centro della vita dell’uomo; questo il mio pensiero, ora ascoltiamo ciò che dice Ravasi:

 

un breve passaggio dall’ introduzione a questa parte:

 

« Teniamo… presente che Paolo, come apostolo e pastore, è profondamente coinvolto nel messaggio che annuncia e che da noi viene richiesta l’apertura del cuore, perchè tocchiamo le radici del nostro credere cristiano, perché diventi anche in noi efficace e non rimanga « 

 

commento a Gal 1,11-24, il commento prosegue fino a 2,14 considerando un’unica unità, ma io mi fermo a questo breve, ma intenso scritto, la parola a Mons. Ravasi:

 

« IL VANGELO ANNUNCIATO DA PAOLO (Gal 1,11-2,14 – lettura solo di 1,11-24)

… che con la parola Paolo non intende il testo scritto, ma la persona stessa di Gesù Cristo che è tutt’uno con il suo messaggio. Sappiamo anche che Paolo ripete che non esiste altro vangelo al di fuori di quello da lui annunciato.

a) Origine del vangelo annunciato da Paolo

Paolo puntualizza l’origine, la genesi del vangelo. Vediamo come egli esprime ciò nella lingua greca, usufruendo della potenzialità espressiva di tre preposizioni che nella traduzione italiana va un po’ perduta. In 1,11-12 egli scrive:

<Vi dichiaro, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo>

Innanzitutto l’espressione è una parafrasi; in greco c’è semplicemente Katà ànthropon, , .

Dice poi: , in greco parà anthrópou,cioè non l’ha ricevuto , per derivazione (parà) umana. Da una lato quindi un vangelo che non è fondato su ragionamenti umani, dall’altro la sua trasmissione che non è avvenuta attraverso la comunicazione normale da uomo a uomo, il dialogo intraumano.

Infine Paolo dice: , in greco: dià apokalýpseos, che Gesù Cristo ha fatto.

Il movimento indicato delle tre proposizioni originali è comprensibile anche a chi non sappia il greco: si parte dal basso con katà in riferimento alla fondazione non umana; parà esprime lo scorrimento orizzontale, il canale umano; ambedue le cose vengono escluse; infine dià indica la vera mediazione, che è verticale, viene dall’alto, è rivelazione.

Usando ora il linguaggio teologico possiamo dire che Paolo sottolinea il carattere trascendente del vangelo da lui predicato: non sboccia da terreno umano, ma scende dal cielo di Dio.

b) Forza dell’evangelo

Dopo averne esposto l’origine, Paolo passa a considerare la forza del vangelo, realtà divina efficacie, potente, che non nasce da semplici meccanismi o dinamismi umani, che non è prodotto del nostro volere, della nostra esperienza, del nostro desiderio, ma si compie come dono dall’alto. Lui stesso, Paolo, ne è una prova, un testimone: il vangelo ha distrutto ogni sua opposizione istantaneamente con un’irruzione dall’esterno. In questo contesto, Paolo riprende la parola apokálypsis, che aveva usato poco prima, e specifica , . Paolo racconta in prima persona con poche pennellate la sua conversione, narrata anche negli Atti degli apostoli, con gli interventi stilistici tipici di luca, per ben tre volte (c. 9, 22 e 26). Qui vi è messa alla radice la forza stessa del vangelo, il messaggio di salvezza del Cristo.

<Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri> (1,11-15)

È il passato di Paolo, l’orizzonte lascito alle spalle dopo esservi stato profondamente immerso, avvolto in esso come in una ragnatela che lo possedeva integralmente.

<Ma (ecco il ‘ma’ delle grandi svolte) quando colui che mi scelse fin dal senso di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me (in greco abbiamo en emòi, quindi non ‘a me’, ma ‘dentro di me’ ) suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare uomo...> (1, 16-17).

Le poche volte in cui Paolo accenna alla sua conversione, alla chiamata e all’ in lui del Cristo, usa lo schema: ; al centro si inserisce la lama che trafisse la sua esistenza.

c) Sviluppo nella biografia di Paolo del vangelo da lui annunciato

Qui Paolo si lascia prendere dal filo autobiografico che lentamente si configura come elemento teologico. Ci interesseremo, ora, di una questione storica, cioè della vicenda personale di Paolo, perché essa ha continui riverberi, connotati e qualità di tipo teologico. È il messaggio che dobbiamo con attenzione scoprire e non la semplice informazione storica.

1) IL RITIRO NEL DESERTO

Paolo dice: . È un breve cenno autobiografico nei vv. 16-17:

<...senza consultare nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi tornai a Damasco.>

Dopo l’evento sulla via di Damasco, la conversione, egli non va a Gerusalemme, si ritira in Arabia. Col termine Arabia si indicava una regione sterminata, Paolo intende probabilmente la zona meridionale dell’attuale Giordania, L’Arabia Nabatea, dove passavano le carovane dei famosi mercanti nabatei che diedero origine a quella singolare, unica e stupenda città che è Petra. »

 

il testo di Ravasi prosegue da 2,1 quando Paolo, in seguito va a Gerusalemme.

Mons. Gianfranco Ravasi: Il matrimonio

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2006/332006.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI

IL “MATRIMONIO”
Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato sé stesso per lei. (Efesini 5,25)

Dio creò l’uomo a sua immagine, « a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27). L’”immagine” di Dio si riflette nella bipolarità sessuale: attraverso la sua fecondità generativa, la coppia continua la creazione e quindi collabora col Creatore nel far procedere la storia della salvezza. La vicenda matrimoniale nella sua forma esemplare e archetipica è tratteggiata nel capitolo 2 della Genesi, quel testo a cui rimanderà anche Gesù nella sua visione dell’amore nuziale: l’uomo si sente incompleto, privo di un aiuto che gli sia kenegdò, in ebraico “che gli stia di fronte”, in un dialogo paritario. Ecco, allora, la creazione della donna che partecipa della stessa realtà dell’uomo rappresentata simbolicamente dalla costola, ossia dalla medesima carne, come dice il bel canto d’amore di 2,23: «Questa volta essa è carne dalla mia carne, e osso dalle mie ossa».

Non per nulla i due nomi in ebraico hanno la stessa origine: ‘ish, “uomo”, al maschile, e ‘isshah, “donna”, al femmmile. «L’uomo abbandona suo padre e sua madre e i due sono una carne sola» (2,24). Siamo di fronte al matrimonio nella sua anima profonda di unità di vita e d’amore. Naturalmente la legislazione biblica successiva registrerà anche i fallimenti di questo modello, introdurrà norme sulla dote (il mohar), sul divorzio (Deuteronomio 24,1-4), sull’adulterio e così via. Ma resterà sempre vivo quel progetto ideale divino, vera stella polare a cui riferirsi.

Significativo è, al riguardo, il Cantico dei cantici che esalta l’amore nella sua bellezza legata alla passione, all’eros, al sentimento, ma anche nella sua reciprocità totale di donazione: «11 mio amato è mio e io sono sua», dice la donna protagonista con l’uomo di questo poemetto; «io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3). Anche la profezia ricorrerà al simbolismo matrimoniale per celebrare l’alleanza che intercorre tra il Signore e il suo popolo: «Così dice il Signore: mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto…» (Geremia 2,2; vedi Osea 2).

È a questo modello alto che rimanda Cristo nei passi ove parla del matrimonio che egli vede come una donazione totale, assoluta ed eterna nello spirito primordiale della Genesi. In questa luce egli esclude il ripudio-divorzio: «Io vi dico: chiunque ripudia sua moglie — eccetto il caso di pornéia — la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata commette adulterio» (Matteo 5,32;19,9). L’eccezione che viene introdotta è probabilmente legata alla prassi della Chiesa di Matteo e per alcuni riguarderebbe il concubinato (e non sarebbe in questo caso un’eccezione in senso stretto), oppure certe forme matrimoniali vietate dalla tradizione giudaica (come le nozze tra consanguinei). Rimane, comunque, ferma nel messaggio di Gesù la concezione indissolubile del matrimonio cristiano.

È in questa prospettiva che esso diventa un segno efficace del Vamore di Dio che si dona. San Paolo, che delinea a più riprese la relazione marito-moglie (spesso riflettendo il diritto e la cultura del tempo), non ha esitazione nel trasformare il matrimonio in un grande simbolo cristologico ed ecclesiologico. È ciò che avviene in Efesini 5,25-33, ove la donazione piena d’amore tra i due è messa in parallelo a quella tra Cristo e la Chiesa. La conclusione è significativa: «Questo mistero [nuzialej è grande: Io dico per Cristo e per la Chiesa». La parola “mistero” nella versione latina di san Girolamo era tradotta con sacramentum e così il passo divenne un’affermazione sulla sacramentalità del matrimonio che è, comunque, espressa implicitamente nella pagina paolina.

LE PAROLE PER CAPIRE

SERVIRE – Il verbo, oltre all’accezione comune che parla di servitù, servizio e persino sdiiavitù, ha nella Bibbia un altro significato più alto: rimanda, infatti, all’atto di culto (“servizio religioso”), all’adesione fedele ai comandamenti del Signore (si legga Giosuè 24, ove il verbo “servire” risuona 14 volte). “Servo del Signore” diventa, allora, un titolo onorifico che è applicato anche al Messia e allo stesso Cristo.

SCANDALO – In greco skandalon, indica l”inciampo” che fa cadere chi sta camminando. In senso morale è la realtà che tenta al male o che genera sconcerto interiore. Per questo Gesù condanna aspramente chi “scandalizza” coscientemente (Matteo 18,6-9), ma sa anche di essere lui stesso principio di scandalo per chi deforma il suo messaggio (Giovanni 6,61).

Mons. Gianfranco Ravasi : La « Pace »

dal sito: 

http://www.novena.it/ravasi/2006/282006.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI (2006)

LA “PACE”
Cristo è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un popolo solo, abbattendo il muro di separazione. (Efesini 2,14)
Il Regno di Dio non è questione di « cibo o di bevanda ma è giustizia, pace e gioia nello Spinto Santo»: così scriveva Paolo ai cristiani di Roma (14,17). Purtroppo, però, la storia umana è striata costantemente dal sangue di guerre e di violenze e la Bibbia, che è la rivelazione di Dio nella storia e sulla storia, non può non essere segnata dalle battaglie e dalle ingiustizie: ben 600 passi evocano guerre e uccisioni e 1.000 descrivono l’ira divina giudicatrice sul male perpetrato dall’umanità. Eppure il progetto divino, descritto nel capitolo 3 della Genesi comprendeva una triplice e perfetta armonia dell’uomo con Dio, con la natura e col proprio simile (la donna).

Anzi, la meta verso cui converge l’intero itinerario della storia è, per la Bibbia, la pace messianica, in ebraico shalòm (donde l’arabo salam), in greco eirène. Nel Talmud, il testo delle tradizioni giudaiche, si legge che «la pace è per il mondo quello che è il lievito per la pasta». La concezione dello shalòm è poliedrica, perché il vocabolo nella sua radice suppone qualcosa di ‘compiuto, perfetto” e, allora, la pace biblica comprende non solo l’assenza della guerra ma anche benessere, prosperità, giustizia, gioia, pienezza di vita. Come diceva il Salmo 85, «giustizia e pace si baceranno» (v. 11), e il filosofo ebreo olandese Baruch Spinoza affermava giustamente che «la pace non è assenza di guerra soltanto, è una virtù, uno stato d’animo che dispone alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia».

Emblematica in questo senso è la proclamazione angelica del Natale di Gesù: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Luca 2,14). Terra e cielo sono uniti in un’armonia d’amore, come aveva annunziato Isaia in quell’affresco in cui gli animali tra loro ostili si rappacificano con l’arrivo del re-Emmanuele messianico (11,6-8). Il volere della parola di Dio è, infatti, che tutti i popoli abbiano a «forgiare le loro spade in vomeri, le loro lance in falci e che un popolo non alzi più la spada contro un altro popolo e non si esercitino più nell’arte della guerra» (Isaia 2,4). Il re messianico per primo è colui che fa sparire carri e cavalleria, infrange l’arco di guerra e «annunzia pace a tutte le genti» (Zaccaria 9,10).

Nasce, così, una visione di pace universale che il Nuovo Testamento esalta in Cristo, «nostra pace, che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia…, per creare in sé stesso dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due in un solo corpo… distruggendo in sé stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Efesini 2,14-15). Cristo, dunque, è colui che abbatte le divisioni, sorgenti di odio e di conflitti. Egli, infatti, nel Discorso della montagna, non aveva esitato a invitare i suoi discepoli ad «amare i nemici e a pregare per i persecutori» (Matteo 5,43-45).

È, così, che la Chiesa diventa segno di unità e di pace tra i popoli, come appare nella scena di Pentecoste allorché in tutte le lingue e culture si cancella la divisione babelica (Atti 2; Genesi 11), e come si fa balenare per la meta ultima della storia umana, quando «una moltitudine immensa di ogni nazione, razza, popolo e lingua» intonerà insieme l’inno della salvezza (Apocalisse 7) e tutti finalmente ascolteranno «ciò che dice il Signore Dio: egli parla di pace» (Salmo 85,9).

LE PAROLE PER CAPIRE

GERMOGLIO – Questo suggestivo simbolo vegetale è applicato — con vocaboli ebraici diversi — al re-Messia. Spunta dal tronco arido di lesse, il padre di Davide, simbolo della dinastia gerosolimitana (Isaia 11,1), diventa in Geremia «il germoglio giusto» (23,5; 33,15) e il profeta Zaccaria lo usa come nome proprio simbolico del sovrano messianico futuro (3,8).

GIUDA – È il quarto figlio che il patriarca Giacobbe ebbe dalla prima moglie ha. Egli dette il nome alla tribù dalla quale discendettero sia Davide sia lo stesso Gesù. Per questo il regno meridionale ebraico fu chiamato “di Giuda”, anche perché la tribù più importante era appunto quella di Giuda: essa abitava la Giudea, la regione ove era situata la capitale Gerusalemme.

Mons. Gianfranco Ravasi: « Predestinazione »

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2006/272006.htm

MONS GIANFRANCO RAVASI (2006)

“ PREDESTINAZIONE ”
Ci ha scelti prima della creazione de! mondo…, predestinandoci a essere suoifig!i adottivi. (Efesini 1,4-5)


La parola “predestinazione” trascina spontaneamente nella convinzione comune il rimando a uno dei maggiori esponenti della Riforma protestante, il francese Giovanni Calvino (1509-1564), che effettivamente elaborò su questo tema una sua dottrina destinata ad avere articolazioni successive molto complesse, soprattutto nei suoi discepoli, e a suscitare contrasti veementi. In realtà, la questione ha le sue radici nel Nuovo Testamento e si connette a una serie ditemi affini come quelli dell’elezione, della grazia, della vocazione e della libertà. Il passo paolino che più funge da riferimento è nell’inno posto in apertura alla Lettera agli Efesini (1,3-14).

Là si usa un verbo greco pro-orizein che letteralmente significa “determinare in anticipo i confini”, di una realtà o di un evento. Siamo, quindi, in presenza di un “progetto”, di un piano divino (in greco pròthesis) che scaturisce dalla volontà di salvezza di Dio Padre, attuata in Cristo Gesù (in greco eudokia). Tutte queste parole echeggiano proprio nelle frasi centrali di quell’inno:
«Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo… predestinandoci (pro-orizein) a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito (eudokia) della sua volontà… In Cristo siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati (pro-orfzein) secondo il piano (pròthesis) di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà» (1,4-5.1 1).

C’è, dunque, un grande disegno divino, concepito fin dall’eternità: in esso Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Timoteo 2,4). È questa la volontà salvifica universale di Dio: «Dio non ci ha predestinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (1 Tessalonicesi 5,9). Si tratta, dunque, di un progetto gratuito ed efficace, eterno e certo, per cui tutti sono chiamati a essere nella luce, nella gloria e nella dignità dei figli di Dio stesso. Questo, però, non significa che nella storia Dio salverà tutti gli uomini, prescindendo dalla loro libertà perché smentirebbe sé stesso che ha creato l’umanità dotata di libera scelta.

Dio salverà certamente — ed era questo il suo “progetto” quando creò l’uomo — quanti non si oppongono coscientemente, deliberatamente, ostinatamente alla sua eudokia, alla sua “buona volontà”, al suo amore salvatore. La “predestinazione”, intesa in questo senso biblico, esalta quindi e non penalizza la creatura libera, rendendo l’uomo un autentico interlocutore di Dio e, con lui, arbitro e signore del suo destino ultimo. Grazia e fede si devono, quindi, intrecciare perché il “progetto”, la pròthesis divina si attui: «Dio vi ha scelti come primizia per la salvezza attraverso l’opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità» del Vangelo (2 Tessalonicesi 2,13).

La visione calvinista era, invece, più rigida: il disegno eterno e imperscrutabile di Dio predestina alcuni a ricevere la grazia salvifica di Cristo in modo così efficace da essere in condizione di non potersi opporre alla volontà divina. Tutto questo era sostenuto per esaltare il primato assoluto di Dio e della sua grazia sopra la libertà umana. In realtà Dio è così grande da non essere umiliato nel rispettare la libertà della creatura, peraltro da lui voluta. È in questa luce che devono essere interpretati i passi biblici sulla “predestinazione”: tra di essi suggeriamo la lettura del bellissimo paragrafo di Romani 8,28-30.

LE PAROLE PER CAPIRE

SICOMORO – Questo albero, coltivato dal profeta Amos, fa parte della vegetazione subtropicale. Originario dell’Egitto, ha un nome di origine greca che significa “fico a forma di mora”, forse a causa della configurazione dei suoi frutti. Dalle sue cortecce si ricavava una sorta di sughero. È divenuto celebre nel racconto di Zaccheo, “capo dei pubblicani”, salito a Gerico su un sicomoro per vedere Gesù (Luca 19,1-10).

RICAPITOLARE – Questo verbo presente nell’inno di apertura della Lettera agli Efesini (1,10), contiene la parola greca kefalé/kefàlaion che indica o la testa, per cui Cristo è il capo di tutto l’essere creato e in particolare della Chiesa, oppure l’asse attorno a cui si avvolgeva il rotolo scritto di pergamena, così da considerare Cristo come colui che “ricapitola” in sé ogni cosa, dando significato a tutta la realtà.

Mons. Gianfranco Ravasi: Paolo rappacifica Evòdia e Sintinché (Fil)

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2005/382005.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI (2005)

PAOLO RAPPACIFICA EVÒDIA E SINTICHÉ (Fil)

Continua in questa domenica la lettura della Lettera di s. Paolo ai cristiani di Filippi. Nelle nostre memorie scolastiche questa città macedone — che portava il nome del suo fondatore, Filippo II, padre di Alessandro Magno (IV sec. a.C.) — è presente per la battaglia del 42 a.C. che vide lo scontro tra Ottaviano e Marco Antonio, da una parte, e Bruto e Cassio, dall’altra, e per quel celebre motto legato a questo evento: «Ci rivedremo a Filippi!», desunto dalla Vita di Giulio Cesare dello storico greco Plutarco. Per il cristianesimo Filippi, che ancor oggi offre una significativa testimonianza archeologica della sua gloria antica, è legata invece alla presenza di Paolo, qui giunto dopo la visione notturna avuta a Troade (nei pressi dell’antica Troia) nella quale un macedone implorava l’Apostolo: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (Atti 16,9).

Dopo Epafrodito, presentato la scorsa settimana, da quella Lettera paolina facciamo emergere due donne cristiane, attorno alle quali si è consumato anche un piccolo giallo esegetico. Ma cominciamo con l’ascoltare le parole di Paolo che scrive: «Esorto Evodia ed esorto Sintiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego te pure, mio fedele collaboratore, di aiutarle, poiché hanno combattuto per il Vangelo insieme con me» (Filippesi 4,2-3).

Procediamo per ordine. Nella comunità cristiana di Filippi due cristiane si beccano tra loro tant’è vero che Paolo deve esortarle calorosamente ad “andare d’accordo”, letteralmente ad “avere le stesse idee”.

In questa vicenda, c’è un duplice paradosso. Il primo è esteriore ed è quasi divertente: i nomi delle due donne significano rispettivamente in greco “cammino buono, facile” (eu-odia), e “sorte comune”, “incontro” (syn-tyche), significati che vengono smentiti dai loro litigi. Il secondo paradosso è ben più lacerante: come ricorda Paolo, esse “hanno lottato”, con lui per il Vangelo
(il verbo usato è quello “atletico” più che militare) e ora smentiscono quel comune impegno di fede.

È a questo punto che entra in scena l’enigma a cui sopra si accennava. Infatti, l’Apostolo fa appello a un non meglio specificato “fedele collaboratore” perché funga da mediatore tra le due avversarie così da espletare la missione di pacificazione.

Ora, in greco “collaboratore” è syzygos (letteralmente “colui che condivide lo stesso giogo”, ossia lo stesso compito o incarico), un termine che può essere inteso anche come nome proprio. In questo caso, oltre a Epafrodito — già entrato in scena, a cui pensano anche in questo caso alcuni commentatori — e oltre a Clemente, un altro collaboratore a cui si fa cenno in questo stesso passo (4,3), salirebbe sulla ribalta un’altra figura della Chiesa filippese, questo misterioso Sizigo, non altrimenti noto ma dal nome suggestivo.

Certo è che anche una comunità così cara a Paolo e a lui costantemente vicina rivela al suo interno tensioni, divisioni e ripicche. Un fenomeno che esploderà a Corinto, come attesta la Prima Lettera indirizzata dall’Apostolo a quella Chiesa (1,1 1-13). Un elemento che ci mostra l”incarnazione” della parola di Dio nella storia di tutti i tempi, rivelando non solo gli splendori della fede ma anche le piccinerie e le miserie dei credenti.

Mons. Gianfranco Ravasi: San Paolo figlio di tre culture (presentazione di Paolo, Rm)

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2005/132005.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI

SAN PAOLO, FIGLIO DI TRE CULTURE (presentazione di Paolo, Rm)

Non ho mai avuto il coraggio di proporre san Paolo nella nostra galleria di ritratti perché ero consapevole di disegnare solo uno sgorbio, avendo a disposizione soltanto poche righe: si pensi che una delle ultime biografie paoline, la Vita di Paolo di Jerome Murphy O’Connor (Paideia 2003), si sviluppa per ben 472 fittissime pagine.

In questa domenica pasquale ho pensato di evocarlo per accostarlo all’apostolo protagonista della pagina evangelica che la liturgia propone, Tommaso. Il tema, infatti, che li unisce (o divide?) è quello della fede, uno dei nodi capitali del pensiero paolino.
Non traccerò, perciò, un profilo di questo apostolo straordinario, figlio di tre culture, l’ebraica della sua genesi umana e spirituale, la greca per la sua lingua, la romana per la sua identità civile, essendo nato nella colonia imperiale di Tarso in Cilicia, nell’attuale Turchia meridionale. Né cercherò di presentare quell’epistolario che è entrato nel Nuovo Testamento e che quasi ogni domenica èletto nella liturgia cristiana. Vorrei, invece, fermarmi proprio nel cuore della sua teologia che ha la sua splendida formulazione soprattutto nella Lettera ai Romani.

E proprio questa teologia che ha imposto a Saulo-Paolo (ricordiamo che Saul era il nome del primo re di Israele, appartenente – come l’Apostolo – alla tribù di Beniamino) una definizione ambigua, quella di « secondo fondatore del cristianesimo », quasi niettendolo in alternativa a Gesù. In realtà trascrive per un nuovo orizzonte socio-culturale un messaggio che aveva la sua radice nella Pasqua di Cristo. Ebbene, egli intreccia nella sua rappresentazione della salvezza due parole greche decisive, clufris e pistis.

La prima, charis (che è alla base dei nostri « caro », « carezza », « carità »), è la « grazia », ossia l’amore di Dio che per primo si mette sulla strada dell’umanità ferita dal peccato. Scriveva Paolo, citando Isaia: « Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non mi invocavano » (Romani 10,20). In principio c’è, dunque, la luce divina che brilla nell’oscurità della « carne » peccatrice della persona umana. È questo il senso del famoso grido finale del Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos: « Tutto è grazia! ».

Ma ecco apparire l’altra parola, pistis, « fede ». Essa è simile a braccia aperte che accolgono la chàris, la grazia donata da Dio in Cristo. Illuminato dal Signore, l’uomo deve rispondere con la sua libertà di adesione o di rifiuto. Egli può afferrare la mano divina che si tende a lui per sollevarlo fuori dalle sabbie mobili del peccato. Da questo abbraccio nasce quello che Paolo chiama l’uomo « giustificato », ossia salvato, pervaso dallo stesso spirito divino per cui egli si rivolge a Dio invocandolo come abba, ossia « babbo, padre » (Romani 8,15).

Lasciamo, così, l’Apostolo per eccellenza, immaginandolo in uno dei tanti ritratti a lui dedicati dalla storia dell’arte, spesso in compagnia dell’altro apostolo per antonomasia, Pietro. Proprio come ha fatto il pittore EI Greco (1541-1614) in una celebre tela con gli indimenticabili profili allampanati di questi due testimoni di Cristo, tela ora conservata al Museo nazionale di Stoccolma.

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