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GIANFRANCO RAVASI – (sul Natale, sul simbolo apostolico e su Gal 4,4)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_ravasi12.htm

GIANFRANCO RAVASI – (sul Natale, sul simbolo apostolico e su  Gal 4,4)
da »Avvenire », 16/12/’07

Il « Simbolo apostolico » professa la fede del Natale così: «Natus de Spiritu Sancto ex Maria Virgine» e il « Credo Niceno Costantinopolitano » che ogni domenica proclamiamo nella liturgia ripete: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». I ventun versetti del « Vangelo di Luca » (2,1-21), che descrivono gli eventi che accompagnano la nascita del Cristo erano già stati sintetizzati da Paolo in una sola espressione simile a un piccolo Credo: «Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4).
Prima di iniziare il nostro viaggio spirituale all’interno di questi versetti e dei loro temi principali, fermiamoci davanti all’icona della « Madonna del Natale » per abbozzarne e contemplarne i tratti essenziali attraverso alcuni versi della « XIX Ode di Salomone », appartenente a quei quaranta inni che furono ritrovati nel 1905 in un manoscritto siriaco e che costituiscono un documento importante dell’antica poesia cristiana. Anche nel testo di Luca il racconto della nascita di Gesù si allarga lungo due orizzonti « antitetici »: alla povertà estrema della cornice terrestre si associa un’eco cosmica e celeste. Mentre nella narrazione parallela della nascita del Battista la circoncisione era il dato fondamentale così da occupare ben otto versetti, per Gesù la circoncisione occupa un solo versetto contro i venti della nascita. Il Battista conduce al Cristo l’alleanza della circoncisione, il Cristo con la circoncisione accoglie il popolo della prima alleanza divenendone membro, compimento e salvezza. Il Natale è il centro anche del grandioso inno di apertura del « Vangelo di Giovanni »: «Il Verbo si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14).
Il verbo greco che allude alla tenda dell’arca dell’alleanza, « skenoun », contiene le tre consonanti radicali della parola ebraica « Shekinah » (« s-k-n »), il termine con cui il giudaismo definiva la « Presenza » divina nel tempio di Sion, come abbiamo già avuto occasione di ricordare. Il Natale è cantato anche dalla « Lettera agli Ebrei », una potente e monumentale omelia « neotestamentaria », che applica al Cristo il « Salmo 8″, un inno notturno destinato a celebrare l’uomo e la sua grandezza e ora applicato al Cristo, uomo perfetto che entra nella storia per redimerla, strappandola al male.
Il testo di Luca è poi alla base della creatività popolare che sui sobri versetti evangelici ha ricamato arabeschi spesso fantasiosi. Il riferimento scontato è ai vangeli apocrifi, in particolare al « Protovangelo di Giacomo » del III secolo, ma spunti affascinanti si possono cogliere in centinaia di testi cristiani antichi, come in questa dichiarazione messa in bocca a Gesù da parte di uno scritto « gnostico » egizio, l’ »Interpretazione della gnosi »: «Io divenni piccolo perché attraverso la mia piccolezza potessi portarvi in alto donde siete caduti… Io vi porterò sulle mie spalle» (XI, 10,27-34). Solo per evocare la fertilità poetica e spirituale di queste tradizioni popolari, pensiamo che cosa significhi il soggetto del Natale di Cristo nella storia dell’arte, che cosa rappresenti il presepio, quante siano le tipologie orientali e occidentali della Madre Maria col Bambino Gesù! Pensiamo all’accumulo dei particolari attorno a quella scena così essenziale. Ad esempio, il bue e l’asino sono introdotti solo da un apocrifo, lo « Pseudo-Matteo », redatto nel VI-VII secolo; ma già nel IV secolo l’arte li aveva presentati nel sarcofago romano del « Museo Pio » e in quello di « Stilicone » della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano.
Origene nel III secolo rimandava a un passo di Isaia (1,3: «Il bue conosce il padrone e l’asino la greppia del suo padrone»), mentre i Padri della Chiesa trovavano nei due animali un curioso simbolismo che San Gregorio di Nazianzo così definisce: «Tra il giovane toro (bue) che è attaccato alla Legge giudaica e l’asino che è gravato dal peccato dell’idolatria pagana giace il Figlio di Dio che libera da entrambi i pesi». Con Francesco e il suo presepio di Greccio i due animali diventano, invece, espressione dell’adorazione e della gioia cosmica per la nascita del Salvatore di ogni cosa. Un anonimo francescano del ’300, autore delle « Meditazioni sulla vita di Cristo » (« Città Nuova », Roma, 1982), immagina allora «il bue e l’asino piegarsi sulle zampe anteriori, sporgere i musi sulla mangiatoia soffiando con le narici, quasi fossero dotati di ragione e capissero che il bambino, così miseramente riparato in quella freddissima stagione, aveva bisogno di essere riscaldato». Secondo il « Physiologus », poi, nella notte del solstizio d’inverno, gli animali selvatici mandano due volte un forte raglio: sarebbe la reazione del diavolo che nella notte santa s’indigna perché col Bambino Gesù sorge il «nuovo giorno» e viene infranta la «potenza delle tenebre».
Il Natale ha poi alimentato la meditazione dei Padri della Chiesa (pensiamo ai « Sermoni del Natale » di Leone Magno), ha generato musiche colte e popolari (« Stille Nacht »; « Tu scendi dalle stelle »; « Adeste, fideles »…), ha trionfato nella liturgia, e nell’Occidente cristiano è divenuto la festa più sentita.
 
Dopo questa lunga premessa, torniamo al testo lucano per far affiorare lo spirito genuino del Natale del Figlio di Maria, spogliandolo dei rivestimenti fantasiosi e retorici. Cerchiamo anche noi il bimbo di Maria, non tanto per esprimergli tenerezza ma per conoscere il suo mistero. La maternità di Maria ha due coordinate esterne ben dichiarate dall’evangelista.
La prima coordinata è quella « spaziale », legata a Betlemme, «la città di Davide», come dice Luca, nonostante che nell’Antico Testamento questo sia il titolo ufficiale di Gerusalemme (2Sam 5,7.9). Gesù giunge a noi dallo spazio umano, fisico e spirituale della « promessa davidica ». È per questo che in alcune testimonianze dell’arte cristiana non si oppone solo la Gerusalemme terrestre a quella celeste, ma anche la Betlemme terrestre a quella del cielo. Da Betlemme l’umanità viene assunta in Dio. Nello spazio di Betlemme la nostra attenzione si fissa su due punti « topografici ». Il primo è quello del parto di Maria, una mangiatoia per animali probabilmente scavata nella roccia, perché il « katalyma » (in greco «albergo, casa, alloggio, stanza») non aveva spazio per il Signore dello spazio. La tradizione cristiana, sostenuta da San Girolamo che vivrà per decenni a Betlemme, parlerà di una grotta simile a quelle adiacenti alle povere case di allora. Giovanni era nato nella casa sacerdotale del padre, Cristo nasce nell’emarginazione, privo di un guanciale.
Eppure nel racconto di Luca c’è un particolare sottolineato con tenerezza: Maria «avvolse il bambino in fasce e lo depose nella mangiatoia» (v. 7). Del Battista si dice soltanto: «Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio» (1,57).
Attorno a quella grotta, a quel punto dello spazio di Betlemme si erge ora la solenne « Basilica Giustinianea », iniziata però da Elena nel IV secolo. Una basilica ancor oggi intatta perché non mai distrutta, diversamente dalle altre chiese di Terra Santa: i musulmani l’avevano risparmiata perché dedicata anche a Maria, che pure essi veneravano, e i persiani non l’avevano distrutta perché sul frontone avevano visto la sfilata dei Magi coi loro costumi persiani.
L’altro punto topografico che vogliamo evocare è il cosiddetto «campo dei pastori», la campagna circostante a Betlemme percorsa da « seminomadi » pastori. Due residenze provvisorie, due località misere, due segni di quotidiana miseria diventano il centro di una speranza cosmica. È famosa l’iscrizione greca di Priene che usa il termine « evangelo » per la nascita di Augusto: «La nascita del dio (Augusto) ha segnato l’inizio della « buona novella » (« evangelo ») per il mondo». Un evangelo, questo, proclamato in palazzi di marmo e nell’impero più potente del mondo; un evangelo, quello della nascita di Gesù, proclamato in una mangiatoia e tra nomadi: «Vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi, vi è nato un salvatore!» (vv. 10-11). Il primo evangelo ben presto genererà cattive notizie di oppressioni, di tasse, di guerre, di schiavitù: l’evangelo di Cristo è «liberazione per i prigionieri, lieto messaggio per i poveri, vista per i ciechi, libertà per gli oppressi» (Lc 4,18).
C’è una seconda coordinata da considerare, quella « temporale ». Essa è scandita dalle ore dell’imperatore Ottaviano Augusto (31 a.C.-14 d.C.) ed è precisata da Luca con l’indicazione del famoso « primo censimento », ordinato dal legato di Siria Quirinio. Non è il caso ora di entrare nel merito della secolare discussione su questa informazione che apparentemente sembra errata, essendo documentato solo un censimento di Quirinio del 6 d.C., quando Gesù aveva ormai dodici anni. È probabile che si tratti di una « prima » operazione censuale, ordinata durante un incarico straordinario ricoperto da Quirinio prima di essere formalmente nominato legato di Siria. Vogliamo solo ricordare che con questi dati appare nitidamente il valore dell’incarnazione, cioè dell’ingresso di Dio negli eventi e nel tempo umano. Efrem il Siro unirà i due estremi del parto da Maria e della morte in croce per esaltare l’incarnazione nella sua realtà: «La sua morte in croce attesta la sua nascita dalla donna. Infatti se un uomo muore, dev’essere pure nato… Perciò la concezione umana di Gesù è dimostrata dalla sua morte in croce. Se uno nega la sua nascita, venga smentito dalla croce» (« Sermone su Nostro Signore », 2). Il censimento romano, segno di schiavitù, ci ricorda che Cristo nasce da un popolo oppresso e in mezzo a quei poveri che i potenti considerano pedine insignificanti sullo scacchiere dei loro giuochi politici.
Eppure il figlio di Maria sarà il centro del tempo e della stessa famiglia umana. Sarà proprio questo bambino povero a segnare nella storia i secoli in un « prima » e in un « dopo » di lui. La liturgia bizantina canta per il Natale del Signore questa bella antifona…

« L’autore della vita è nato dalla nostra carne dalla madre dei viventi. Un bambino da lei è nato ed è il Figlio del Padre. Con le sue fasce scioglie i legami dei nostri peccati e asciuga per sempre le lacrime delle nostre madri. Danza e sussulta, creazione del Signore, poiché il tuo Salvatore è nato…
Contemplo un mistero strano e inatteso: la grotta è il cielo, la Vergine è il trono dei cherubini, la mangiatoia è il luogo dove riposa l’incomprensibile, il Cristo Dio.
Cantiamolo ed esaltiamolo! ».

Attorno al figlio di Maria si raccoglie una serie di spettatori diversi ma tutti convergenti verso quella scena e quella figura.
I primi sono « i pastori » ai quali è riservata una vera e propria annunciazione come a Maria, Giuseppe e Zaccaria: apparizione dell’angelo, l’invito a «non temere», l’annunzio di una nascita straordinaria, il segno della mangiatoia (vv. 9-12). Eppure i pastori erano considerati impuri dal giudaismo ufficiale di allora e quindi erano esclusi dalla vita religiosa pubblica. Essi cercano e trovano, come è indicato dai molti verbi di movimento che percorrono tutto il racconto: «Andiamo… vediamo… conosciamo… andarono senza indugio… trovarono… videro… riferirono… tornarono…». Una costellazione di verbi di ricerca, di rivelazione, di adorazione che rende i pastori primi missionari del Cristo, suoi « evangelizzatori ».
C’è poi un’altra classe di persone, «tutti quelli che udirono», cioè « la folla ». Essi «si stupiscono», restano solo colpiti, la reazione non ha seguito: «Essi ascoltano la parola, la ricevono con gioia, ma non hanno radici» (Lc 8,13).
Ci sono poi « gli angeli » col loro annunzio a cui fa seguito un inno. L’annunzio, presente nel v. 11, sviluppa cinque dati teologici significativi. Il testo suona così: «Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore». Innanzitutto l’«oggi», il presente costante della salvezza, vissuto nella liturgia, espressione della pienezza dei tempi. C’è poi la nascita, che è indizio di un inizio e quindi di una storia concreta; il terzo elemento è lo spazio, la «città di Davide». L’«oggi» eterno di Dio penetra nelle dimensioni « spazio-temporali » dell’uomo per fecondarle e trasfigurarle. Il quarto articolo di fede del Credo angelico è l’affermazione che Cristo è Salvatore (vedi Lc 1,69; Gv 4,42). Il quinto elemento è posto al vertice: Cristo è il « Kyrios », il Signore, il titolo che definiva il Dio dell’Antico Testamento. Come si vede, si proclama già la fede pasquale perché Gesù apparirà veramente come Signore nella sua risurrezione. È interessante notare che l’arte orientale ha reso questo aspetto pasquale del Natale in modo curioso: l’icona russa della « Natività », appartenente alla « Scuola di Novgorod » (XV secolo) rappresenta Gesù bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia che ha la forma di un sepolcro.
Accanto all’annunzio gli angeli pongono un inno, un altro dei cantici del vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca. È un « carme » che risuonerà nelle nostre liturgie festive: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (v. 14). La gloria è l’adorazione di Dio; Dio si manifesta agli uomini attraverso il suo amore, la sua « eudokía », la sua «buona volontà», il desiderio ardente del bene della sua creatura. Da questo atto di bontà nasce la «pace», il « shalôm » biblico che abbraccia prosperità, gioia, serenità, tranquillità, pienezza di vita. Il bambino di Maria, «principe della pace» (Is 9,5), «è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, per creare dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce. Egli è venuto, perciò, ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,14-17).
L’ultimo personaggio che è presente alla scena del Natale è la figura più importante, è lei, la « Theotókos », la Madre di Dio, come proclamerà il « Concilio di Efeso ». Maria «serbava tutte queste cose e le meditava nel suo cuore» (v. 19): essa «ha ascoltato la Parola e la conserva in un cuore onesto e buono» (Lc 8,15). Maria conserva e, come dice l’originale greco, «mette insieme», cioè dà un senso a tutto ciò che sta accadendo, scoprendo il piano divino sotteso agli eventi. È la sapiente per eccellenza, che penetra nei segreti della salvezza che Dio ci sta offrendo e che si attuano anche per suo tramite.
 
Concludiamo la nostra descrizione, associandoci al cantore siro Romano il Melode, nato in Siria attorno al 490, convertitosi al cristianesimo e vissuto come diacono tutta la vita presso il santuario mariano del quartiere «di Ciro» a Costantinopoli, ove fu sepolto dopo il 555 e prima del 562. Romano, secondo la tradizione, avrebbe composto un migliaio di inni; i codici ce ne hanno trasmesso solo 85 e non tutti autentici. Eppure anche questi bastano a rivelarci la statura poetica di questo artefice dell’innografia bizantina, venerato come santo dalle Chiese d’Oriente che lo ricordano il 1° ottobre. I suoi inni, appartenenti al genere detto « kontakion », sono in realtà omelie in poesia. Al Natale sono dedicati tre inni. Nel primo, Romano mette sulle labbra di Maria questo dolcissimo « monologo-dialogo » col Figlio…

« Dimmi, o Figlio, come sei stato seminato in me e come sei nato!
Ti vedo, o mie viscere, e stupisco.
Il mio seno è gonfio di latte e non sono sposa. Ti vedo avvolto nelle fasce e scorgo ancora intatto il sigillo della mia verginità.
Sei tu, infatti, che l’hai serbato tale quando ti sei degnato di nascere, o nuovo Bambino, Dio anteriore ai secoli!
O Re eccelso, che cosa c’è di comune tra te e le nostre miserie?
O creatore del cielo, perché vieni tra noi, uomini della terra?
Ti sei lasciato incantare da una grotta e un presepio ti è caro? (I, 2-3).
Lo Spirito stese le sue ali sul grembo della Vergine ed ella concepì e partorì e divenne madre-vergine con molta sollecitudine.
Rimase incinta e partorì senza dolore un figlio… Lo generò in esempio, lo possedette in grande potenza, lo amò in salvezza, lo custodì nella soavità, lo mostrò nella grandezza.
Alleluia! ».

CARD. CARLO MARIA MARTINI (temi: la speranza; Lettere: Rm; 1Cor)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_virtu6.htm

CARD. CARLO MARIA MARTINI (temi: la speranza; Lettere: Rm; 1Cor)
LA SPERANZA (*)

Premessa

Desidero iniziare la riflessione sulla speranza raccontandovi un’intuizione, molto semplice, che ho avuto trentaquattro anni fa, nel 1959, celebrando per la prima volta la Messa al Santo Sepolcro, a Gerusalemme. Si tratta di una piccola cella e per entrarvi bisogna curvarsi a fatica. In quel luogo misterioso e affascinante si venera la pietra su cui è stato deposto il corpo di Gesù morto. Era il 13 luglio, anniversario della mia ordinazione sacerdotale, tra le quattro e le cinque del mattino. Ricordo ancora con grande impressione il pensiero che mi illuminava: tutte le religioni – dicevo a me stesso – hanno considerato il problema della morte, il senso di questo evento, e si sono chieste se esista qualcosa al di là di esso. E io sto celebrando nel posto in cui Cristo morto ha riposato e da dove è risorto vivo. Qui è la risposta unica, cristiana, alla domanda universale: che cosa si può sperare dopo la morte?
Il tema della speranza riguarda anzitutto il momento drammatico, di non ritorno, che è la morte: ecco a che cosa si riferisce la virtù, la forza della speranza. Al problema della morte nessuno può sfuggire; anche se poi l’arco delle attese di futuro diventa amplissimo, coglie tutta l’esistenza umana, il destino e le speranze dei popoli, del mondo inteso come unità. I molteplici interrogativi su ciò che sarà di me, di noi, dell’umanità, hanno a che fare con la speranza, perché sperare è vivere, è dare senso al presente, è camminare, è avere ragioni per andare avanti.

(*) Questa catechesi è stata tenuta dall’Arcivescovo nel Duomo di Milano, dove erano convenute migliaia di persone da tutta la diocesi.

Abbiamo speranza?

Il punto focale della nostra riflessione si riassume in una sola domanda: noi che siamo radunati insieme, abbiamo speranza? ho in me la speranza cristiana? oppure è soltanto una parola? la speranza cristiana abita davvero dentro di me?
Occorre rispondere seriamente, non avendo paura di riconoscere che, forse, la nostra speranza si riduce a un lumicino (e sarebbe già molto).

Un esegeta contemporaneo, Heinrich Schlier, descrive, partendo da san Paolo, gli effetti della mancanza di speranza nel mondo, in questi termini: « Dove la vita umana non è protesa verso Dio, dove non è impegnata al suo appello e invito, ci si sforza di superare la spossatezza, la vacuità e la tristezza che nascono da tale mancanza di speranza » . E aggiunge che i sintomi della non speranza sono « la verbosità dei vuoti discorsi, l’esigenza costante della discussione, l’insaziabile curiosità, la sbrigliata dispersione nella molteplicità e nell’arruffio, l’intima ed esteriore irrequietezza » – noi diremmo: le varie forme di nevrosi – « la mancanza di calma, l’instabilità nella decisione, il rincorrersi di continuo verso sempre nuove sensazioni » .
Cercherò dunque di aiutarvi a rispondere alla domanda su che cosa sia la speranza, per verificare se e in quale misura ci abiti.

Che cos’è la speranza cristiana?

Da quando ho pensato di preparare la lettera pastorale Sto alla porta, ho continuato a riflettere sulla speranza cristiana e, più vi rifletto, più mi appare indicibile.
La speranza è come un vulcano dentro di noi, come una sorgente segreta che zampilla nel cuore, come una primavera che scoppia nell’intimo dell’anima; essa ci coinvolge come un vortice divino nel quale veniamo inseriti, per grazia di Dio, ed è appunto difficilmente descrivibile.

Tuttavia desidero darvi un tentativo di definizione attraverso sei brevi tesi.

1. La prima tesi paragona la speranza cristiana con le speranze del mondo. Perché la speranza è un fenomeno universale, che si trova ovunque c’è umanità, un fenomeno costituito da tre elementi: la tensione piena di attesa verso il futuro; la fiducia che tale futuro si realizzerà; la pazienza e la perseveranza nell’attenderlo.
La vita umana è inconcepibile senza una tensione verso il futuro, senza progetti, programmi, attese, senza pazienza e perseveranza. Ma è pure intessuta di delusioni e quindi è permeata dalla speranza e anche dalla disperazione.
Ora – è la prima tesi – la speranza cristiana è qualcosa di tutto ciò, ed è diversa da tutto ciò: è diversa da ogni forma che il mondo chiama speranza, perché ha a che fare sì e no con le speranze di questo mondo.

2. La speranza cristiana viene da Dio, dall’alto, è una virtù teologale la cui origine non è terrena. Infatti essa non si sviluppa dalla nostra vita, dai nostri calcoli, dalle nostre previsioni, dalle nostre statistiche o inchieste, ma ci è donata dal Signore. Spesso dimentichiamo questa verità e consideriamo la speranza cristiana come « qualcosa in più », che si aggiunge alle altre cose.
Dunque, sperare è vivere totalmente abbandonati nelle braccia di Dio che genera in noi la virtù, la nutre, l’accresce, la conforta.
Mentre la prima tesi paragonava la speranza cristiana con le speranze di questo mondo, asserendo che in qualche modo è uguale alle altre ma anche diversa, la seconda tesi ci dà la ragione della diversità: la speranza è da Dio soltanto, è fondata sulla sua fedeltà.

3. Dobbiamo allora comprendere qual è il contenuto, l’oggetto della speranza cristiana. Sappiamo che, essendo virtù divina, ci rende partecipi della vita di Dio, è un mistero ineffabile, inimmaginabile, inesplicabile, indicibile appunto. Scrive san Paolo, nella Lettera ai Romani: « Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? » (Rm 8, 24). In un’altra Lettera afferma che « mai cuore umano ha potuto gustare ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano » (1Cor 2,9): mai cuore ha potuto gustare, dunque neppure il nostro cuore, che è il centro di noi stessi. La speranza è uno strumento conoscitivo di straordinaria lungimiranza, acutezza, lucidità. Neppure il nostro cuore può comprendere, con tutti i suoi sogni, aspirazioni e desideri, quel bene senza limiti che Dio ci prepara, che è l’oggetto della nostra speranza: qualcosa che è al di là di ogni attesa e di ogni desiderio, anche se li colma e li riempie in modo indescrivibile. Il contenuto della speranza cristiana è quello di cui Dio ci riempie e ci riempirà, se ci fidiamo totalmente di lui.

4. La speranza cristiana ha però un termine, un punto di riferimento come suo oggetto: guarda a Gesù Cristo e al suo ritorno. A questo si appunta, perché ciò che Dio ci prepara, nel suo amore infinito, non è un’incognita: è Gesù, il Signore della gloria.
Noi speriamo che Gesù si incontrerà pienamente, svelatamente, in tutta la sua divina potenza di Crocifisso-Risorto, con ciascuno di noi, con la Chiesa, e ci farà entrare nella sua gloria di Figlio accanto al Padre: sarà il regno di Dio, la celeste Gerusalemme, la vita in Dio.
La nostra speranza è che vivremo sempre con lui, saremo con lui, nostro amore, e lui sarà con noi; saremo, come figli nel Figlio, nella gloria del Padre, nella pienezza del dono dello Spirito.
Questo è il termine della speranza cristiana.

5. Dobbiamo fare, tuttavia, un chiarimento importante. Il ritorno di Gesù, che noi speriamo, è anche un giudizio. È necessario sottolinearlo in questi giorni in cui si parla tanto di giustizia, di crisi. La manifestazione di Cristo Gesù sarà pure un giudizio, una « crisi » nel senso originario della parola greca, che significa appunto « giudizio ». Quando Cristo apparirà, nell’ora voluta dal Padre, si verificherà per ogni uomo la decisione definitiva sulla sua vita, sarà per ciascuno di noi e per l’umanità intera il momento critico, la crisi per eccellenza, il giudizio finale.
Nella nostra vita terrena e nella vita delle nostre società ci sono spesso crisi, grandi o piccole, personali o familiari, economiche, sociali, politiche, congiunturali, strutturali. Ma tutte queste crisi, anche quando ci sembrano quasi totali, raggiungono sempre soltanto una parte dell’esistenza umana e ne lasciano intatti altri aspetti. Non si dà sotto il sole una crisi davvero totale; e dunque nessuna crisi dovrebbe turbarci, spaventarci, se non in relazione alla crisi provocata dalla manifestazione definitiva del Signore, l’unica totale, l’unica in cui il giudizio sarà irrevocabile e irresistibile.
Per questo san Paolo avverte di « non giudicare nulla prima del tempo finché venga il Signore, il quale metterà in luce ciò che è nascosto nelle tenebre e renderà manifesti i pensieri dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio » (lCor 4, 5). In quel momento del giudizio e della crisi finale, tutto ciò che è stato sepolto nelle profondità delle coscienze e tutto ciò che è stato rimosso di fronte agli altri o addirittura a noi stessi, sarà rivelato e consegnato al tribunale inappellabile della decisione divina. In pubblico sarà emanato il giudizio pieno e definitivo di ciascuno e di tutti: giudizio imparziale, vero, sicuro.

6. Se attendiamo il giudizio di Dio, come mai possiamo guardare a esso con speranza?
La risposta è semplice: perché ci aggrappiamo ancora una volta a Gesù nostra speranza, che ci giudicherà come Salvatore di quanti hanno sperato in lui; come colui che ha dato la vita morendo per salvarci dai nostri peccati; come colui che ha uno sguardo misericordioso per coloro che hanno creduto e sperato, che sono stati battezzati nella sua morte e risorti con lui nel Battesimo, che gli sono stati uniti nel banchetto dell’Eucaristia, che si sono nutriti della sua Parola e riconciliati con lui nel Sacramento del perdono, che si sono addormentati in lui sostenuti dal sacramento dell’Unzione dei malati.
La speranza è, quindi, fin da ora la fiducia incrollabile che Dio non ci farà mancare in nessun momento gli aiuti necessari per andare incontro al giudizio finale con l’animo abbandonato in Colui che salva dal peccato e fa risorgere i morti.
Gesù, nostra speranza, nostra salvezza, nostra redenzione, nostra certezza, ci sostiene nei cammini difficili della vita e ci permette di superare, giorno dopo giorno, le piccole e grandi crisi della quotidianità e della società. E noi camminiamo guardando a un termine di gioia perfetta, di giustizia piena, di riconciliazione totale in lui che, nell’Eucaristia, continuamente si offre per noi sull’altare unendoci alla sua misericordia e ci immerge nell’amore del Padre.

Domande per la riflessione personale

Dopo aver cercato di descrivere la speranza cristiana, il suo orizzonte, il suo termine e che cosa comporta di gioia e di vigilanza fin da ora, vi propongo quattro domande per la riflessione personale.

1. Noi cristiani, io stesso, il nostro tempo, la nostra società, abbiamo davvero speranza? siamo adeguati all’ampiezza della speranza cristiana? Se constatiamo di avere una speranza fioca, tenue, di orizzonte ristretto, già questo può diventare motivo di preghiera: Donaci, o Padre, la speranza, donaci il pane quotidiano della speranza; rimetti a noi i nostri peccati di poca speranza!
È importante esprimere al Signore il desiderio che lui infonda la speranza vera.

2. Quali sono, in me e intorno a me, nella società, i segni di mancanza di speranza? Ne abbiamo indicati alcuni citando l’esegeta Heinrich Schlier: ogni cedimento al malumore, al nervosismo, all’inquietudine, all’amarezza; ogni mancanza di calma, la verbosità di discorsi vuoti, la voglia di discutere sempre, la. curiosità, la dispersione nella molteplicità delle cose, l’instabilità di decisioni nella vita. Sono tutti segni di non speranza.
E, nella società, sono segni di mancanza di speranza la non chiarezza, la non obiettività, la non linearità, l’incoerenza, la disonestà. Talora, guardandoci intorno con occhio indagatore, ci sembra di scorgere dietro a tante forme di vita dei segnali dolorosi di disperazione nascosta, che attende di essere curata, lenita, medicata, guarita.
Quali sono, dunque, in me e intorno a me, i segni di mancanza di speranza?

3. Quali, al contrario, i segni positivi che vedo in me di speranza teologale? Non semplicemente segnali di buon umore, di buona salute (pur se sono doni di Dio), ma segni di vera speranza. Per esempio, quando nelle difficoltà non mi perdo d’animo; quando nelle crisi personali, familiari e sociali so contemplare la provvidenza di Dio che ci viene incontro, ci purifica, ci ricopre con la sua misericordia; quando so guardare all’eternità, al giudizio di Dio con serenità. Ci sono in noi questi piccoli o grandi segni di speranza teologale? e quali i segni positivi che scorgo nella comunità, nella parrocchia, nella società?

4. Dove ho più bisogno di speranza? Dobbiamo porci questa domanda cercando di pregare sui punti deboli della nostra speranza, perché la speranza è vita e senza di essa non siamo cristiani, anzi non possiamo neppure essere persone umane capaci di sostenere il peso dell’esistenza. La speranza ci è necessaria come l’aria, come l’acqua, come il pane, come il respiro.
Signore, dona speranza a noi e alla nostra società che ne ha tanto bisogno!

Conclusione

Desidero concludere con una preghiera, bellissima, di un nostro carissimo prete, don Luigi Serenthà, morto a 48 anni, nel settembre 1986:

« Signore Gesù, tu sei i miei giorni.
Non ho altri che te nella mia vita.
Quando troverò un qualcosa che mi aiuta,
te ne sarò intensamente grato.
Però, Signore,
quand’anche io fossi solo,
quand’anche non ci fosse nulla che mi dà una mano,
non ci fosse neanche un fratello di fede che mi sostiene,
tu, Signore, mi basti,
con te ricomincio da capo.
Tu sei il mio desiderio! ».

Mons. Gianfranco Ravasi : San Paolo ai Corinzi, Guai a me se non evangelizzo (1 Cor 9,16)

dal sito:

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/78/2008-10/03-82/RAVASI_1Cor.pdf

GIANFRANCO RAVASI

SAN PAOLO AI CORINZI

Diocesi di Forlì-Bertinoro

Sintesi di 3 relazioni tenute al Centro S. Fedele di Milano (1989)

ANNO PAOLINO 2008/2009

Guai a me se non evangelizzo (1 Cor 9,16)


PRIMA LETTERA AI CORINZI

Le coordinate geografiche, storiche, letterarie e teologiche delle lettere ai Corinzi

« Paolo alla Chiesa di Dio che è in Corinto… »

LA FIGURA DI PAOLO
Fin dalla prima riga, Paolo si presenta con una autodefinizione solenne, essenziale: Paolo chiamato apostolo di Cristo Gesù per la volontà, la scelta, la decisione di Dio. Su Paolo abbiamo notizie biografiche, ma egli è praticamente tutto in questo essere chiamato per volere di Dio, essere « impugnato », essere tenuto stretto da qualcuno che lo supera. Realtà che ha continuamente in sé anche il bagliore dell’incompiuto, ha in sé continuamente il momento della oscurità. Attraverso queste letture ci accorgeremo che Paolo è un uomo sentimentale, un uomo che ha in sé tutte le pulsione dei sentimenti, compreso lo sdegno e le emozioni interiori più delicate. Paolo è senz’altro un teorico, ma ha accanto al pensiero una vita interiore e soprattutto una attività missionaria di pastore di chiese.

LE COORDINATE DELLA PRIMA LETTERA
Tre coordinate esterne ci fanno da guida per conoscere la comunità a cui Paolo si rivolge. Paolo è duro, appassionato, dolce, aspro, mostrando tutta la gamma di sentimenti propri del pastore.
1. La coordinata spaziale: la città greco-romana di Corinto. Corinto è la capitale della provincia romana dell’Acàia, conquistata nel 146 a.C. Una città romana rimasta fondamentalmente ellenista e nel momento in cui Paolo svolge la sua missione era una immensa metropoli con due porti. E come spesso succede per i luoghi di mare, era diventata emblema del vizio.
2. La coordinata storica
a) Datazione della permanenza di Paolo a Corinto: Paolo arriva a Corinto nell’inverno del 50-51 e rimane nella città greca un anno e mezzo; ha alle spalle una delusione, il fallimento della predicazione ad Atene. A Corinto inizia una nuova attività. La testimonianza di Luca in Atti 18 ci da i due dati storiografici che ci permettono di ricostruire la vicenda storica di Paolo a Corinto.
b) Datazione della stesura della prima lettera ai Corinti. Per una serie di ragioni basate su analisi generali della biografia di Paolo, la prima lettera è stata scritta probabilmente nella primavera del 57 alla fine del terzo viaggio missionario: sono trascorsi sei anni dal primo arrivo. Sappiamo anche da dove è stata scritta: « Resterò ad Efeso fino a Pentecoste » (1Cor 16,8). Potrebbe inoltre essere stata scritta attorno alla Pasqua del 57.
3. La coordinata ecclesiale
- La comunità cristiana di Corinto è costituita innanzitutto da Giudei, poi da Romani, essendo zona di occupazione, e da Greci. Questa miscela di razze causava tensioni all’interno della comunità, ma soprattutto la tensione più pericolosa che creava una situazione esplosiva era quella fra le classi: ci sono gli aristocratici e coloro che a stento riescono a sopravvivere. Il testo è proprio la testimonianza della drammaticità della vita in questa comunità divisa. Questa è una lettera ecclesiale, pastorale che cerca di ricucire le smagliature di questa chiesa che è un corpo di Cristo spezzato.
- Paolo affronta anche il discorso della mistificazione intellettuale lottando contro il fascino della sapienza greca e misterica.
- Contro la corruzione Paolo affronta il problema della morale, in particolare della morale sessuale.
- Paolo d’altra parte vede che tutto ciò è pur sempre espressione di una comunità vivacissima: affronta allora il tema della Chiesa come corpo le cui membra non sono disperse. – Nel cap. 15 Paolo esprime il suo pensiero riguardo al nostro destino ultimo e alle realtà ultime. Ma la vera radice teologica di questa coordinata dell’ecclesiologia di Paolo è sempre e soltanto la croce di Cristo, il Cristo crocifisso e risorto.
CONCLUSIONE
Paolo invita i cristiani di Corinto a trovare Cristo, un Cristo che è « tutto in tutti », senza trascurare una continua attenzione anche alle piccole questioni. La lettera è una sequenza di indicazioni concretissime.

La teologia della Chiesa (cc.1-6)

« Non sapete che siete tempio di Dio? »

PREMESSA
Tutte le volte che affrontiamo dei testi biblici, lasciamo degli spazi aperti da colmare con una lettura e uno studio personale in modo da pervenire ad una lettura integrale del testo. Sono spazi da colmare con il cuore. Da ultimo questi spazi sono da colmare col rispetto del sapiente che sa di non riuscire a capire tutto.

I TRE TEMI DEI PRIMI SEI CAPITOLI 
1. La sofia, la sapienza.
Un tema obbligato per una la cultura greca in città come Corinto. Paolo sviluppa la grande tentazione che vedeva serpeggiare nella comunità cristiana: la tentazione del fascino della sapienza. Paolo non è un oscurantista. Rifiuta però ogni concezione gnostica della sapienza. La gnosi è una scheggia di cristianesimo impazzito il quale sosteneva che quanto più l’uomo cresce nel sapere tanto più con quel sapere si salva. Abbiamo qui il cuore di un tesi fondamentale del pensiero paolino: non è possibile l’autosalvazione. Paolo attacca da una parte gli intellettuali greci che pretendono di salvarsi con il sapere, e dall’altra il mondo ebraico che afferma la possibilità di salvarsi attraverso le opere.
- Cristo entra nella storia, entra come uno squarcio, come un forma scandalosa. Si contrappongono, così, due sapienze: la sapienza di Dio che è scardinante e la sapienza del mondo apparentemente ordinante. Paolo è convinto che l’annuncio cristiano è in sé scandaloso, è insensato, è « moria », è « stupidità ». I giudei vanno in cerca di « semela » prove, in modo tale che la fede non sia mai un rischio. I greci cercano la sapienza, questo sistema rigoroso perfetto. Noi, i cristiani, annunciamo (il Kerigma cristiano) il Cristo crocifisso che è pietra di inciampo (skandalon) per i Giudei e « stupidità » (moria) per i Greci. Ma per tutti i chiamati noi predichiamo Cristo che è potenza e sapienza di Dio.
- Questa sapienza umana si scontra anche con la vocazione cristiana, cioè con la scelta di Dio. Qui abbiamo uno dei temi cari alla Bibbia: il tema del « secondo », il tema del debole che fa saltare le scale dei valori umani.
- La sapienza umana si scontra anche con la « mia » testimonianza. Paolo usa il suo comportamento come testimonianza.
Paolo contrappone poi la vera sapienza che per il credente è la maturità nella fede; è un cristianesimo maturo fatto di adulti nella fede. Paolo sviluppa inoltre il primato della grazia con categorie di sapienza perché sta parlando al mondo greco.
2. La chiesa
Paolo prende in considerazione il tema della chiesa locale che è in Corinto, descrivendola con due simboli:
- Agricolo: come un campo da coltivare. Troviamo qui la funzione del primato di Dio e la collaborazione dell’uomo alla salvezza.
- Edilizio: un edificio. Dio è il fondamento, noi continuiamo ad erigere con i nostri materiali spesso scadenti.
Paolo vede la presenza di Dio in due grandi momenti: entro la comunità ecclesiale riunita e entro la coscienza di ogni uomo.

3. La morale
Il testo ci presenta due questioni concrete della Chiesa di Corinto per illustrare l’esigenza di moralità che deve essere nell’interno di questo tempio.
a. Incestuoso. Paolo valuta un tipo particolare di incesto e lo condanna come un venir meno della santità-purezza ecclesiale. L’apostolo dà una norma: quella di far scoprire alla persona che si è posta fuori dalla grazia e dalla forza dello spirito la necessità di tornare al focolare dello spirito che ha lasciato.
b. Paolo combatte la visione di una sessualità ridotta a pura fisicità.
Introduce il tema della prostituta come simbolo dei culti idolatrici.

CONCLUSIONE
II discorso non è facile, ma trasparente.
- Paolo ci ha parlato del mistero della vera sapienza che ci trascende ed è
qualcosa che ci viene donato.
- La chiesa che Paolo ci presenta è una chiesa dove il primato è di Cristo e di
Dio, una chiesa che abbia al centro il Cristo e annunci il suo regno.
- In tutte le lettere Paolo ha il suo riferimento concreto che è il Cristo, anche
quando affronta questioni concrete.

Matrimonio, verginità, liturgia, carismi, risurrezione  – (cc. 7-16)

« Quanto alle cose di cui mi avete scritto io vi dico… »

Paolo scrive ad una comunità precisa rispondendo a dei quesiti precisi che la comunità gli pone. Per questo è costretto a stare sui due estremi verso cui cadevano i cristiani di Corinto: il lassismo, che Paolo combatte con forza e durezza, e il rigorismo, la radicalità del rifiuto dell’orizzonte della sessualità perché impuro. Paolo come tutti gli autori sacri, filtra la parola di Dio attraverso se stesso. Questo testo è come una lente affumicata che permette di guardare il sole che è la Parola di Dio.

1. STATI DI VITA E CRISTIANESIMO
a) Legittimità e diritti del matrimonio (7,1-9)
Paolo combatte la tendenza rigorista che per proibire il sesso proibiva anche la relazione matrimoniale. I diritti e i doveri dell’uomo e della donna sono presentati in parallelo per mostrare che esiste una parità sostanziale tra i due. C’è però una difficoltà che deriva dal fatto che Paolo sta dando un consiglio e non un ordine. La versione latina porta « venia » e per Agostino dove c’è questo termine c’è sempre una colpa. Da qui è nata una lettura negativa di tutto il testo.
b) Indissolubilità (7,10-16)
- Sul sacramento del matrimonio la Parola del Signore è indissolubile; il matrimonio cristiano tende verso l’indissolubile e l’eterno.
- Privilegium Paolinum: introdurrebbe un vero e proprio divorzio. Se è impossibile la convivenza tra i due per ragioni di libertà di fede, si separino con la possibilità di un nuovo matrimonio.
c) Mantenere il proprio stato di vita sociale (7,17-24)
L’appello di Paolo è a rimanere nello stesso stato di vita in cui si era quando si è stati chiamati al cristianesimo. Due esempi: circoncisione e non circoncisione e la schiavitù.
d) La verginità (7,25-35)
Paolo sembra svalutare il matrimonio a scapito della verginità, ma egli sta parlando della verginità non dal punto di vista biologico. La verginità come segno del tempo escatologico, come segno della donazione per Dio e per tutti, del momento in cui saremo donati completamente nella grande liturgia celeste.
e) La vedovanza (7,36-40)
Paolo presenta una questione particolare della comunità di Corinto su cui non si è ancora giunti ad una definizione precisa: la vedovanza cristiana.

2. QUESTIONE DEGLI IDOLOTITI
Paolo riafferma innanzitutto il principio della libertà: gli idoli non sono nulla. Afferma poi il principio della carità: non scandalizzare nessuno e rispetto per i più deboli. Infine il principio della prudenza: non esagerare. Paolo condanna il lassismo di Corinto.

3. L’ASSEMBLEA LITURGICA
Paolo richiama uno stile di partecipazione all’assemblea liturgica, ma soprattutto afferma che non basta celebrare il rito dell’eucaristia se poi c’è una cornice di divisione. Egli ricorda l’ultima cena di Gesù: carità ed eucaristia sono inscindibili.

4. I CARISMI
Paolo disegna un suo progetto di Chiesa legato alle caratteristiche di unicità e pluralità: è un corpo vivente. E in questo contesto affronta il tema dei carismi: doni dello Spirito per ogni persona.
- 12,4-6: la molteplicità dei carismi che sempre si rannoda ad un unica sorgente. Diversi carismi ma un solo spirito.
- 12,12ss: ricorre al simbolo del corpo che è di sua natura vivente. È molteplice e tutte le parti sono necessarie e tutto si compagna in armonia. « Voi siete corpo di Cristo e sue membra ». Cristo continua come anima ad offrire la salvezza ed annunciare la sua parola attraverso la comunità cristiana.
- C. 13: è la celebrazione di quest’anima profonda che unisce tutto il corpo, tutto l’essere dell’uomo, che unisce l’uomo a Cristo e a Dio. Paolo capisce
che se non c’è questo nodo profondo dell’amore tutto si sfalda ed il corpo
non è segno della presenza di Cristo.

La missione dell’apostolo

« Noi fungiamo da ambasciatori per Cristo »

MORTE E RISURREZIONE NELLA 1A CORINZI
II cap. 15 è una delle pagine capitali del pensiero paolino, perché ha nel centro il messaggio pasquale che lui ha ricevuto e che ora trasmette: ci troviamo di fronte al credo paolino.
- vv. 3-5. La risurrezione di Cristo è coniugata con la sua morte proprio perché il mistero pasquale è morte e risurrezione. La dimensione della umanità di Cristo è condividere l’essere specifico dell’uomo. Il suo essere uomo è sigillato dal sepolcro. Però Gesù è risorto ed è apparso: Paolo non cita solo i primi testimoni, ma anche se stesso come un « aborto ».Architrave di questo testo è la risurrezione di Cristo che è radice della nostra risurrezione.

LA NOSTRA RISURREZIONE
Paolo sviluppa una lunga riflessione sulla nostra risurrezione e spezza tutte le interpretazioni del come risorgeremo: « nella nostra personalità siamo come il seme, allora saremo albero ». Continuità e diversità. La nostra risurrezione è una ri-creazione, una creazione nuova in cui Dio salvaguardando il nostro seme della prima creazione offrirà una umanità perfetta e compiuta. Contrappone un Adamo peccatore, che siamo tutti noi, da cui nascerà l’Adamo perfetto di cui c’è già stato un esemplare: l’Adamo-Cristo.
- 15,54-57: in una visione colossale Paolo immagina l’ultimo duello che segnerà il senso di tutta la nostra vicenda, quello fra morte e vita. In questa lotta la vittoria finale sarà del bene, della vita, di Cristo e di Dio. È la grande rappresentazione del « morire » della morte. Il suo pungiglione è reso inoffensivo. Alla fine, « Dio sarà tutto in tutti ».

Mons. Gianfranco Ravasi – l’ultima messa « milanese »: “IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”

Metto questo articolo – un po’ in ritardo rispetto all’evento – il saluto di Mons. Ravasi alla città di Milano, il riferimento a Paolo e molto breve, tuttavia posto molto volentieri questo “saluto” perché, sono certa, che tutti amiamo Mons. Gianfranco Ravasi e vale, veramente, la pena di leggere le sue, ultime – perlomeno nel ministero che stava svolgendo – commosse parole, alla città di Milano, dal sito:

http://www.parrocchiamilanino.it/scossa_on_line/in_vetrina/mito2007_ravasi.pdf

Basilica di Sant’Ambrogio in Milano

23 settembre 2007

Ultima messa “milanese” celebrata da monsignor Gianfranco Ravasi

“IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”

Il saluto di mons. Gianfranco Ravasi alla città di Milano, alla “sua” città di Milano, per una felice combinazione di eventi, apparentemente indipendenti fra loro ma nei quali chi crede non fatica a riconoscere la “logica di Dio” di cui parla Bernanos, ha trovato una degna e appropriata cornice nel festival “MiToSettembreMusica”: che per tre settimane ha offerto a Milano appuntamenti musicali di ogni genere. Forse il momento più alto di essi è stato, appunto, la Messa per coro e strumenti a fiato di Igor Stravinsky, eseguita dal Coro Filarmonico e dell’Ensemble strumentale della Filarmonica della Scala il 23 settembre in Sant’Ambrogio durante la funzione liturgica domenicale celebrata dall’ex prefetto della Biblioteca Ambrosiana proprio alla vigilia dell’investitura ufficiale alla direzione del Pontificio Collegio della Cultura, fortemente voluta da Benedetto XVI; incarico lasciato dal cardinale Poupard per raggiunti limiti di età. Così la messa in Sant’Ambrogio è diventata proprio l’occasione per lo scambio di saluti fra questo importante uomo di fede e di cultura e la città da lui tanto amata. Amore ricambiato dalla folla che ha gremito la basilica fin nei confessionali e nei più remoti angoli delle cappelle; oltre che all’esterno, nel portico di Ansperto.

Folla di credenti e non credenti, categorie care entrambe al nuovo vescovo ed alle quali, come sempre, si è rivolto durante l’omelia. Folla di persone che, con la propria semplice presenza, si sono unite al saluto iniziale di mons. Marcandalli il quale, a nome del Capitolo della basilica e citando sant’Agostino, ha fatto riferimento alla grande musica unita alla celebrazione liturgica come di opportunità per tutti, credenti e non credenti, di sfiorare la “bellezza tanto antica e sempre nuova” di Dio. Persone che, suscitando anche un impercettibile moto di bonaria contrarietà nel sacerdote sul quale, per un momento, ha prevalso l’uomo di cultura, al Coro si sono addirittura sovrapposte nella recita di non pochi versi del Credo. Quasi a manifestare, anche con questa “intemperanza”, il desiderio di non essere semplici spettatori di un evento, per quanto significativo, ma di essere vera Chiesa. Persone sicuramente coinvolte emotivamente ma, vorremmo dire meglio, coinvolte spiritualmente, per l’opportunità, certo non usuale, di poter cantare l’Alleluja durante la messa assieme al Coro della Scala! Ma l’emozione si è fatta sentire anche per il grande ed esperto comunicatore. L’ha ammesso lui stesso nel corso della sua ultima predica da “milanese”: nella quale ha unito ad un commosso saluto un monito “sociale” e di critica all’idolatria della ricchezza. “LA SCOSSA” era presente e ritiene di fare un gradito servizio ai propri lettori offrendo loro l’opportunità di poterla leggere nell’ampia sintesi che di seguito ne proponiamo (non rivista dal celebrante).

Sant’Ambrogio 23 settembre 2007

Sintesi della predica di monsignor Gianfranco Ravasi

“IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”

“Ho più volte celebrato il rito sacro della liturgia in questa basilica, ma oggi mi percorre un particolare fremito di cui renderò ragione alla fine di questa omelia. Molti fra i presenti non possono comprendere parole che per chi è credente salgono all’infinito di Dio. Ma per tutti è possibile accogliere il messaggio di elevarsi oltre la quotidianità. Il testo biblico suscita due riflessioni, due fili che si dipanano dai testi letti. Il primo attraversa tutte e tre le letture che hanno un comune carattere “sociale” (

prima lettura dal libro del profeta Amos: Am 8, 4-7; seconda lettura dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo: 1 Tm 2, 1-8; Vangelo dal Vangelo secondo Luca: Lc 16, 1-13 // le letture sono riportate in coda alla predica – NdR).

L’intreccio delle relazioni fra società e politica è un groviglio oscuro e quotidiano, a volte è un arruffìo di fili che esplode in scandali. E’ il mistero umano della polis. Città non solo di mura ma di persone con reazioni sensitive capaci di creare realtà mirabili come di precipitare nel baratro dell’odio. Amos era un profeta contadino chiamato a predicare in città. Alla sua epoca i poveri erano pedine calpestate di una scacchiera sulla quale altri decidevano le mosse.

Nella lettura dell’apostolo Paolo c’è, invece, la dimensione positiva dell’attestazione di fedeltà all’Impero Romano. Il Cristianesimo non vuole far esplodere le strutture politiche e sociali, se queste hanno una funzione utile per la società, ed invoca, anzi, sul capo dei politici, la mano di Dio che li illumini.

Gesù, infine, parla oggi attraverso una parabola tanto sorprendente quanto poco conosciuta.

E’ lo stesso Gesù del “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” espressione mediante la quale traccia una netta linea di demarcazione tra due sfere; comunque non completamente indipendenti ed estranee fra loro: l’uomo è fatto di spirito e di carne, di vita interiore e sociale. Gesù incide nell’esistenza umana, Gesù parte dalla terra sulla quale l’uomo poggia i piedi, non dall’aria sopra le persone. Parla di campi, fiori, problemi sociali… Di figli: alcuni osservanti, altri incomprensibili. Parla di Erode definendolo “volpe astuta”. Quello che ci propone in questa domenica è un parallelo con i politici oggi ancora valido: un amministratore corrotto che falsifica i bilanci di una società. Gesù parte dal dato di fatto negativo trasmettendo un primo messaggio: vedete l’astuzia dei figli delle tenebre? Arrivano subito a trovare il nucleo fondamentale delle cose; invece voi, figli della luce, siete distratti, acquiescenti, pigri…Porta a modello un cattivo esempio non per il suo contenuto, per l’azione, ma per l’atteggiamento che vi è sotteso. Invita a vegliare. E’ un invito anche per il nostro tempo, la cui malattia peggiore è la tiepidezza. Nel nostro tempo non ci sono più male o più ingiustizia di quanti ce ne siano stati in passato.

Quando sono nato io il mondo era in mano a due criminali: Hitler e Stalin. L’Europa era striata dal sangue… morte e distruzione erano in agguato ovunque. Oggi la situazione è più grave, ma non per il male e la cattiveria. Oggi il male è la superficialità, la banalità, la stupidità… un linguaggio che è come una chiacchiera. “Lo stupido dice quel che sa, il sapiente sa quel che dice” recita un detto rabbinico. “Sapere” deriva dal latino sàpere, che vuol dire aver sapore e gusto intenso, e perciò richiede riflessione e meditazione. Il “forte” silenzio che percepisco ora, mi dice che questa affermazione vale anche per i non credenti che sono presenti qui in chiesa: non si può vivere di banalità, l’uomo vero non è quello mostrato dalla TV. Pascal diceva che l’uomo supera infinitamente l’uomo, che, anche se non crede, ha in sé l’amore, la via per elevarsi.

La seconda riflessione, più breve, parte dall’ammonimento di Gesù: “non potete servire Dio e Mammona”. Mammona è una parola aramaica entrata nelle lingue successive. Ha la stessa radice di amen, il verbo della fede, della fiducia in Dio, nel trascendente. Siamo ininterrottamente sospesi fra due adorazioni: da una parte l’amen verso Dio e la sua legge morale e dall’altra l’idolatria delle cose. Lo scrittore Leonardo Sciascia ha detto, su mammona, che il mondo degli uomini è diviso in due settori individuabili da una stessa frase che può essere letta con accenti diversi. “La ricchezza è morta” e “la ricchezza è bella anche se è morta”, è lo splendore del vitello d’oro luccicante e brillante. Dobbiamo decidere dove stiamo se con l’amen morale o con l’idolatria verso le cose. Se abbiamo qualcosa in mano non possiamo adoperarla per accarezzare o sollevare chi può avere bisogno di noi. Se abbiamo le mani occupate per tenerci stretta la ricchezza non abbiamo spazio per altro. Anche per i credenti e per la Chiesa c’è il rischio di adorare la ricchezza morta.

Infine vengo ora ai saluti, ed è per me un’emozione forte. Da domani torno a Roma, città della mia giovinezza e dei miei studi di teologia. Il mio orizzonte non sarà il Vaticano ma i dicasteri per il mondo e le chiese nel mondo: non la Chiesa ma le Chiese. So che mi aspetta un programma molto intenso di viaggi e di incontri. Sono grato a monsignor Marcandalli per il suo saluto a nome del capitolo di Sant’Ambrogio, sono grato anche a chi è fuori della Chiesa, nel portico di Ansperto… e alla Scala, mio grande amore, che ringrazio perché mi permette di salutare con l’armonia e lo splendore della musica di Stravinski. Stravinski era un credente, cristiano ortodosso, e ha composto questa messa per la liturgia. Non è quindi una musica da ascoltare ma una musica nella quale entrare; per prepararsi a comporla aveva letto Agostino e Bossuet, un vescovo e predicatore del ‘600. Questa Messa è risuonata a Milano per la prima volta nell’ottobre del 1948, alla Scala, diretta da Ernest Ansermet. Per me è il rinnovarsi della centralità di una grande dolcezza. Per questo dico grazie a Dio per la musica, grazie per tutti coloro che fanno musica, come in questi giorni del festival MiTo, e, prima di tutti, dico grazie alla Scala. Nel VI secolo Cassiodoro primo vescovo cattolico della Calabria ammoniva: “Se continuiamo a commettere ingiustizie Dio ci lascerà senza musica: avremo solo rumore, fracasso o silenzio.” Assurdo deriva da sordo, senza la musica siamo nell’assurdità. Oggi, invece, la Messa di Stravinsky unisce l’armonia della voce umana e l’armonia strumentale.

Qui saluto i milanesi e i lombardi con le parole di Bernardino Telesio filosofo del ‘500 che, nominato vescovo dal Papa Pio IV, non voleva accettare l’incarico. Con le sue parole voglio ricordare la mia città in cui ho visto i tramonti e le albe, nella quale ho vissuto ed ho camminato…“La mia città può far benissimo a meno di me, sono io che non posso fare a meno di voi; essa che mi scorre nelle vene e che mi pulsa dentro, nel battito del mio cuore”.

Mons. Gianfranco Ravasi

LE LETTURE DELLA MESSA:

PRIMA LETTURA

Am 8, 4-7

Dal libro del profeta Amos.

Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: «Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo le misure e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano». Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: certo non dimenticherò mai le loro opere.

SECONDA LETTURA

1 Tm 2, 1-8

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo.

Carissimo, ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo dico la verità, non mentisco , maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese.

VANGELO

Lc 16, 1-13

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli:

«C’era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore. L’amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d’olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona».

Publié dans:Card. Gianfranco Ravasi |on 20 novembre, 2008 |Pas de commentaires »

OMELIA DEL CARD. ZENON GROCHOLEWSKI – Pontificio Collegio di San Paolo Apostolo, Roma (1 Cor 11, 17-26; 27-29)

in questa omelia i riferimenti a San Paolo sono molto importanti: 1 Cor 11, 17-26; 27-29;

http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccatheduc/documents/rc_con_ccatheduc_doc_20060918_collegio-s-paolo_it.html

CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA CELEBRAZIONE EUCARISTICA PER I PARTECIPANTI AL SEMINARIO DI AGGIORNAMENTO PER I VESCOVI DEI TERRITORI DIPENDENTI DALLA CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI

OMELIA DEL CARD. ZENON GROCHOLEWSKI – Pontificio Collegio di San Paolo Apostolo, Roma
Lunedì, 18 settembre 2006

In questi giorni di preghiera e di riflessione siamo desiderosi di essere illuminati e rafforzati, per saper dedicarci con tutte le forze ed efficacemente al servizio del Signore. In tale prospettiva la comune celebrazione dell’Eucaristia non è qualcosa accanto, ma svolge un ruolo rilevante. Proprio alla Celebrazione Eucaristica vorrei dedicare la mia breve riflessione. Le odierne letture (lunedì della 24 sett. del T.O. anno pari), infatti, ci suggeriscono qualche considerazione al riguardo.

1. L’esame di coscienza per come celebriamo l’Eucaristia

Nella prima lettura (1 Cor 11, 17-26) san Paolo si dimostra amareggiato a motivo del fatto che i Corinzi, per le loro divisioni, per il comportamento scorretto e soprattutto per la mancanza di carità, per egoismo, profanano il loro « mangiare la cena del Signore », profanano la Celebrazione Eucaristica. Ci impressionano i fatti denunciati che hanno accompagnato tali celebrazioni, come la golosità e l’ubriachezza. Sono quindi dure le parole di san Paolo: « Fratelli, non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio [...] Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo! ».

Nel seguito del brano che abbiamo ascoltato, san Paolo continua: « Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore ». Di conseguenza, l’Apostolo invita a fare l’esame di coscienza: « Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna » (1 Cor 11, 27-29).

Noi, celebrando oggi l’Eucaristia, certamente non meritiamo un rimprovero per i fatti scandalosi descritti da san Paolo. Forse ci sono, però, altre mancanze nei nostri cuori che fanno sì che il nostro atteggiamento non corrisponda pienamente a quello che dovrebbe caratterizzare ogni ministro sacro nella celebrazione dell’Eucaristia.

Il grave rimprovero di san Paolo ai Corinzi, comunque, ci suggerisce di esaminare la coscienza e di riflettere sull’incidenza dell’Eucaristia sul nostro ministero episcopale. L’Esortazione Apostolica Post-sinodale Pastores gregis « sul Vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo » (16 ottobre 2003), osserva: « l’Eucaristia è al centro della vita e della missione del Vescovo, come di ogni sacerdote » (n. 16a). Anzi, dice: « Tra tutte le incombenze del ministero pastorale del Vescovo, l’impegno per la celebrazione dell’Eucaristia è il più cogente e importante [!] » (n. 37d), sia per quanto riguarda la propria celebrazione sia per quanto concerne il compito di provvedere affinché i fedeli abbiano la possibilità di partecipare fruttuosamente alle degne celebrazioni eucaristiche.

Infatti, se nell’Eucaristia è realmente presente il Mistero Pasquale, da cui nacque la Chiesa, di cui la Chiesa vive, si nutre e si edifica (cfr Enc. Ecclesia de Eucharistia); se « l’Eucaristia è fonte e culmine di tutta la vita cristiana »; se « tutti i sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere ecclesiastiche di apostolato, sono strettamente uniti alla sacra Eucaristia e ad essa sono ordinati » (CCC, n. 1324); allora non ci può essere una cosa più importante per un Vescovo che l’Eucaristia, qualsiasi dimensione della sua vita e del suo apostolato prendiamo in considerazione. Quindi anche nell’aspetto delle vocazioni agli Ordini Sacri, per le quali preghiamo nell’odierna Messa in modo del tutto particolare, l’Eucaristia rimane « fonte e culmine » del nostro operato e della nostra preoccupazione in questo campo.

Con l’Eucaristia, infatti, per renderla quello che essa deve essere nella nostra vita e nel nostro apostolato, dobbiamo misurarci ogni giorno di nuovo. Pertanto, mentre siamo sempre pieni di stupore di fronte al mistero che celebriamo, all’inizio di ogni Santa Messa invochiamo la misericordia del Signore su di noi. Sia fatto questo sempre con serietà e riflessione, allo scopo di rendere costantemente più perfetta la nostra celebrazione.

2. La carità la fede e l’umiltà

Vediamo che cosa ci dice a tale riguardo il Vangelo che abbiamo ascoltato (Lc 7, 1-10)! Esso non parla dell’Eucaristia, ma della guarigione del servo di un centurione pagano. Nondimeno questa scena del Vangelo getta pure una luce sull’atteggiamento necessario per una degna e fruttuosa celebrazione dell’Eucaristia, tanto più che prima di assumere il Corpo e Sangue di Cristo durante la Messa ripetiamo proprio le parole del centurione, un po’ parafrasate: « Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato ».

Il racconto di Luca è molto significativo. Egli espone gli elementi dell’atteggiamento del centurione che gli hanno guadagnato la benevolenza di Gesù. Essi appaiono progressivamente in due distinti momenti.

Nel primo momento, gli anziani dei Giudei, mandati dal centurione a Gesù, intercedono per lui dicendo: « Egli merita che tu gli faccia questa grazia [...], perché ama il nostro popolo, ed è stato lui a costruirci la sinagoga ». Il primo elemento, quindi, che capta la benevolenza di Gesù è la bontà, la carità che il centurione ha esercitato. Dopo questa raccomandazione, quindi, Gesù si incammina verso la casa del centurione.

San Paolo nella prima lettura rimproverava ai Corinzi proprio la mancanza di carità. La carità, l’amore di Dio e dei fratelli ci ottiene la benevolenza del Signore anche nel nostro accostamento all’Eucaristia. Si deve avere presente a tale riguardo che l’Eucaristia racchiude il più grande atto d’amore di Dio verso di noi. L’amore quindi ci predispone per la fruttuosa celebrazione dell’Eucaristia e questa, dal canto suo, celebrata degnamente, ci fa crescere nell’amore. Ecco, il primo aspetto dell’atteggiamento corretto, ricavato dall’odierno Vangelo, nel celebrare degnamente l’Eucaristia: l’amore, la carità.

Nel secondo momento, quando già i protagonisti della scena dell’odierno Vangelo erano non molto distanti dalla casa del centurione, accade una cosa straordinaria, che suscita l’ammirazione di Gesù. Il centurione manda alcuni amici a dire a Gesù: « Signore, non stare a disturbarti, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te, ma comanda con una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono uomo sottoposto a un’autorità, e ho sotto di me dei soldati; e dico all’uno: Va ed egli va, e a un altro: Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fa questo, ed egli lo fa ». L’Evangelista nota: « All’udire questo Gesù restò ammirato e rivolgendosi alla folla che lo seguiva disse: « Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande! »". E il servo all’istante è stato guarito.

Quante volte, del resto, Gesù ha compiuto miracoli scorgendo e premiando la fede! La fede costituisce certamente un atteggiamento che permette a Dio di colmarci dei suoi doni. Senza la fede, comunque, neppure si capisce l’Eucaristia. Mi permetto qui ripetere le parole di san Paolo citate all’inizio: « chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore [ossia senza la fede eucaristica], mangia e beve la propria condanna ». In ogni caso, non c’è alcun dubbio che quanto più grande è la nostra fede in Gesù, nell’Eucaristia, tanto più degna e più fruttuosa sarà la nostra celebrazione, tanto essa sarà più incisiva sull’efficacia del nostro apostolato.

Non è difficile scorgere che la fede del centurione è unita con una impressionante umiltà: « Signore, non stare a disturbarti, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; [...] non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te ». Commovente umiltà!

C’è stretta relazione fra fede e umiltà. Mentre la superbia è un ostacolo perché la fede possa crescere in noi, la vera fede ci rende umili. Di questa realtà Maria è il più brillante esempio e manifestazione.

Le parole prima della comunione, quindi, « Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato » non siano mai una formalità sulla nostra bocca, ma un sentito respiro del cuore, una consapevolezza, un impegno.

Conclusione

L’amore vero del Signore e dei fratelli, la fede viva che esige di essere sempre di più rafforzata e maturata nei nostri cuori, e l’umiltà da conquistare giorno per giorno, a motivo dell’egoismo che in minore o maggiore grado c’è in ogni cuore umano, ci predispongono alla benevolenza del Signore; ci predispongono alla degna e fruttuosa celebrazione dell’Eucaristia, ossia alla degna e fruttuosa celebrazione del più grande avvenimento della nostra vita; al vivere in modo consapevole ed efficace ciò che è « fonte e culmine » della nostra esistenza sacerdotale e del nostro apostolato.

Signore, sia questa celebrazione per noi un momento di crescita!

Card. Vithayathil: San Paolo, modello della missione in India e in Asia

dal sito:

http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=12636&geo=4&size=A

30/06/2008 11:15
INDIA – VATICANO

Card. Vithayathil: San Paolo, modello della missione in India e in Asia

di Card. Varkey Vithayathil

Il presidente della Conferenza episcopale indiana spiega ad AsiaNews che l’Anno Paolino appena iniziato deve spingere i cristiani dell’India e dell’Asia ad annunciare in modo esplicito la fede in Cristo, essere forti nelle persecuzioni, valorizzando e purificando la cultura circostante.New Delhi (AsiaNews) Da ieri molte diocesi indiane hanno dato inizio alle celebrazioni per l’Anno Paolino, inaugurato da Benedetto XVI per celebrare i 2000 anni dalla nascita dell’apostolo di Tarso. Parlando con AsiaNews, il card. Varkey Vithayathil, presidente della Conferenza episcopale indiana, ha messo in luce il valore dell’Anno Paolino per l’evangelizzazione dell’India e dell’Asia. Il card. Vithayathil, che è arcivescovo di Ernakulam-Angamaly dei Siro-malabari, ha sottolineato soprattutto l’urgenza dell’annuncio esplicito della fede nel mondo multireligioso asiatico e la pazienza nelle persecuzioni. Ecco quanto ha detto ad AsiaNews:

Nelle celebrazioni per il secondo millennio della nascita di san Paolo, la Chiesa deve anzitutto rivitalizzare il suo zelo missionario e lo spirito nellannuncio della buona novella a tutti i popoli. San Paolo è stato il più grande missionario della storia; la sua vita e predicazione sono lelemento più importante per lIndia e lAsia, soprattutto in questo nostro tempo.Nell

ultimo incontro della Conferenza episcopale ho detto ai vescovi dellIndia che il lavoro sociale non è sufficiente. Il lavoro sociale è evangelizzazione indiretta, ma la Chiesa in India, con franchezza, deve predicare Gesù Cristo. Predicare il Vangelo e annunciare la Buona Novella della salvezza è la carità più grande che la Chiesa in India e in Asia può offrire. Questa carità ha il potere di trasformare la vita della gente, fino ad avvolgere la loro vita quotidiana di una nuova dignità. Questa è la missione della Chiesa e di ogni cristiano battezzato.

In secondo luogo, dobbiamo leggere le epistole di san Paolo. Queste lettere sono essenziali per i vescovi, i sacerdoti, i laici e ci istruiscono sul modo in cui la nostra vita cristiana può diventare testimonianza di Gesù nella nostra esistenza. Le lettere di Paolo contengono anche profondi sguardi sulla vita spirituale.La comunit

à internazionale si sta preparando alle Olimpiadi di Pechino, alla corona della vittoria e della gloria olimpica. Per questa corona che perisce, si affrontano allenamento e disciplina rigorosi Mi viene in mente le parole dellapostolo: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia…”(2 Timoteo 4, 7-8). Non vi è nulla di più prezioso di questa corona di giustizia. Dovrebbe essere questo lo spirito che anima noi in India, nel clima di intolleranza contro i cristiani che si respira in molti Stati, e con le leggi anti-conversione che vorrebbero piegare lo spirito evangelico. Questo zelo indomito dellapostolo dovrebbe accrescere lo spirito evangelico nel cuore di tutti noi in India: evangelizzare nella speranza, comunicando Gesù alla gente. Oggigiorno è importante vivere il Vangelo con radicalità e il nostro modello è san Paolo

San Paolo mostra ciò a cui un cristiano va incontro predicando il vangelo. Egli è modello per levangelizzazione in India e in Asia e soprattutto per la Chiesa perseguitata dellIndia.San Paolo

è stato lapostolo dei pagani ed è stato perseguitato a causa di Gesù Cristo Eppure questo non ha annacquato il suo zelo. Egli ha viaggiato in lungo e in largo nel mondo di allora, con tutte le difficoltà che esistevano in quei tempi; ha dovuto subire animosità e pericoli cercando di convertire i popoli alla nuova fede. Egli ha sopportato con tenacia tutto questo, giungendo al compimento della sua opera. Infine egli è stato decapitato. Questo è importante per ciascuno di noi in India: Paolo era così consumato dallamore per Gesù, che ha sofferto con coraggio anche le persecuzioni. Egli non ha mai usato la forza o la seduzione unaccusa che spesso si fa contro i cristiani in India ma predicava e la gente gli credeva. Questo si dovrebbe fare in India e in Asia. Purtroppo, la persecuzione ci impaurisce e il nostro zelo si raffredda, così spegniamo la nostra predicazione. Paoo era cosciente delle conseguenze cui si giunge dimenticando di proclamare il vangelo: Guai a me se non predicassi il vangelo! (1 Cor 9,16). Se non predichiamo, come farà la gente a credere e convertirsi alla Verità, alla vita eterna, come potranno milioni e milioni di persone almeno ascoltare il nome di Gesù e abbracciare il Cristo?

San Paolo era anche prudente: in Atene (cfr Atti 17) egli, vedendo un altare pagano, ha detto che essi adoravano il dio ignoto. Paolo credeva che le influenze della cultura circostante, potevano essere negative per la salute spirituale delle comunità. Ma in altre occasioni, Paolo sa come usare immagini culturali diffuse per un buon scopo, che è trasmettere il suo messaggio agli uditori. In tal modo Paolo ci sfida a incontrare la nostra stessa cultura, con coraggio, avendo Cristo come nostra guida.

È urgente che la luce luminosa della risurrezione brilli sulle generazioni presenti. Ma ciò richiede che voi ed io annunciamo a tutti i popoli il Signore risorto.

Publié dans:c.CARDINALI |on 10 août, 2008 |Pas de commentaires »

Mons. Ravasi – Lectio per la Pasqua all’Univeristà del Sacro Cuore – tema iniziale Fil 2,5-11

dal sito: 

http://www2.unicatt.it/pls/catnews/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=13776

UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE

La Lectio per la Pasqua di Mons. Ravasi

Una riflessione sul significato profondo dell’incarnazione di Cristo, della Sua passione e della Sua resurrezione è stata dedicata da Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura agli studenti della sede di Roma dell’Università Cattolica

[Pubblicato: 20/03/2008]

Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,5-11).

Loccasione per questa speciale lectio di preparazione alla Pasqua è stata offerta lo scorso 12 marzo dai Mercoledì della Cattolica, gli incontri culturali promossi dal Consiglio della Facoltà di Medicina e Chirurgia dellAteneo, prendendo spunto dalle parole rivolte da San Paoloa una delle comunità che in assoluto gli sono più care, quella della città macedone di Filippi. La locuzione avere gli stessi sentimenti di in greco è resa da un solo verbo: « φρονειν” ha esordito Mons. Ravasi Tale verbo ha uniridescenza semantica che esula dal puro orizzonte del sentimento, andando a significare non solo sentire, ma anche pensare, ragionare, avere una disposizione danimo aperta. Questa frase, che poi si innesta su quella che è probabilmente la citazione di un inno in uso nella Chiesa delle origini, è un appello ad avere dentro di noi non soltanto un sentimento, ma uno stato danimo, implica non solo una componente esperienziale, ma anche una componente razionale. Per Paolo limitazione di Cristo è fondamentale, ed egli presenta come modello, nellinno che segue, entrambi i volti del Cristo. Prima il volto lacerato e dolente del crocifisso, di colui che precipita dallorizzonte alto della trascendenza per assumere la forma di uno schiavo; che subisce il supplizio degli schiavi, dei rivoluzionari, dei ribelli, la croce, emblema oscuro e vergognoso.
Qui Mons. Ravasi ha fatto una breve digressione, riferendosi alla polemica che ogni tanto emerge sull
eliminazione del crocifisso, considerato un simbolo troppo specifico, di parte, quasi in contraddizione con una cultura molteplice come quella in cui ci stiamo sempre più immergendo: Ma il crocifisso ha un valore simbolico universale. Natalia Ginzburg, scrittrice ebrea di formazione sostanzialmente agnostica, nel 1988 sul quotidiano lUnità così scriveva a seguito di una delle ricorrenti polemiche contro la presenza del crocifisso in unaula scolastica o in unaula di tribunale: E il segno del dolore umano, della solitudine, della morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro destino umano. Il crocifisso fa parte della storia dellumanità. Dellumanità tutta, non solo del Cristianesimo! ha sottolineato il biblista.
E ha proseguito:
Questa considerazione preliminare, deve essere declinata soprattutto qui, di fronte a voi, medici, operatori sanitari e studenti di medicina, che sistematicamente fate lesperienza del dolore umano: questa esperienza così radicale che trova lì, in quelluomo crocifisso, la sua sintesi. Nel Vangelo, a partire dalla domenica delle Palme, c’è lo sforzo di riassumere in Cristo tutto lo spettro della sofferenza umana. La paura della morte nellorto del Getsemani: Padre se è possibile passi da me questo calice. La solitudine: gli amici fuggono, Giuda lo tradisce, Pietro lo rinnega. Poi ancora, la sofferenza fisica in senso stretto. La tortura. La lunga agonia. Infine, prima della morte, il silenzio di Dio: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato. Proprio qui è il centro della grande proclamazione cristiana: una divinità che non assiste come un imperatore indifferente alle disgrazie delluomo. Un Dio che, infinito ed eterno per definizione, sceglie di partecipare della fragilità e caducità legate alla condizione umana. Cristo non si comporta come un benefattore che china la mano verso il miserabile, come qualche volta fanno i medici. La rappresentazione del medico nei confronti del paziente è quella delluomo di potere, non di colui che condivide, anche solo fisicamente, per necessità. Il medico è in piedi, in posizione eretta, in una posizione di dominio. Il malato invece ha la posizione del morto, la posizione orizzontale, la posizione dellimpotenza. Ma, come dice Dietrich Bonhoeffer, teologo morto nei campi di concentramento nazisti: Dio in Cristo non ci salva in virtù della sua onnipotenza, Dio in Cristo ci salva in virtù della sua impotenza. Per voi medici, in particolare, che avete nel mondo della sofferenza la vostra vocazione, lavere gli stessi sentimenti di Cristo è fondamentale. Egli è il vostro vero patrono
.
Il Vangelo di Marco ha proseguito Ravasi – è, praticamente per metà, dedicato a rappresentare Cristo nellatto di guarire i malati. Tra le guarigioni più simboliche c’è quella del lebbroso, limmondo per eccellenza, che secondo la legge del Levitico rendeva impuro chi gli si accostava: Gesù lo tocca e lo guarisce, assumendo simbolicamente su di sé la malattia, la sofferenza, la miseria e limpurità dellumanità sofferente
.
L
inno che San Paolo fa seguire alla dichiarazione di principio, non finisce però col Cristo crocifisso. Subito dopo segue la rappresentazione del volto glorioso di Gesù, che Mons. Ravasi evoca con accenti lirici: Egli diventa una grande figura che domina labside del cosmo, il mondo intero lo contempla nella gloria della Resurrezione. Dopo il Venerdì Santo c’è la mattina di Pasqua, il momento in cui il discepolo deve scoprire il volto radioso di Cristo, la speranza della luce, di ciò che è oltre il dolore e la morte. Per poterlo riconoscere è necessario un altro canale di conoscenza, gli occhi carnali, non bastano più, servono gli occhi della fede. Così, la mattina della Domenica, Maria di Magdala, recandosi al cimitero, non riconosce Cristo finché Egli non le parla, chiamandola per nome. Finché cioè non le dà una nuova vocazione, quella dellessere credente. È la via della fede, la via nuova della conoscenza del Mistero profondo. È allinterno dellesperienza di fede autentica, che riusciamo a ritrovare il germe della speranza. Perchè il Cristo – e attraverso lo sguardo della fede noi riusciamo a capirlo – attraversando il dolore e la morte lo ha fatto da Dio e come tale li ha irradiati di fecondità, ha deposto cioè un seme di immortalità, di eterno e di infinito dentro il dolore e il morire delluomo. Così il Lunedì, i due discepoli, non riconoscono Gesù risorto, che li accompagna nel cammino verso Emmaus, spiegando loro, in chiave cristologica, le Scritture, finché, giunti finalmente nella cittadina, Lui non spezza il pane: in quel momento si consuma il riconoscimento e litinerario è compiuto. Nellascolto della Parola e nella frazione del pane, i due discepoli di Emmaus fanno esperienza di fede, la stessa che faremo Domenica di Pasqua e che facciamo ogni domenica, quando, nella liturgia, incontriamo Cristo che spiega la nostra sofferenza e la trasfigura in quellabisso di luce che è il volto della Speranza, della Gioia, della Pasqua
.

Valentina Zecchiaroli

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