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I. LA PARABOLA ANTICOTESTAMENTARIA DELL’INSEGNARE – Gianfranco Ravasi

http://www.stpauls.it/studi/maestro/italiano/ravasi/itarav02.htm

ATTI DEL SEMINARIO INTERNAZIONALE SU « GESÙ, IL MAESTRO » – DI MONS. GIANFRANCO RAVASI

(Ariccia, 14-24 ottobre 1996)

I. LA PARABOLA ANTICOTESTAMENTARIA DELL’INSEGNARE

Parliamo di « parabola » perché si tratta di descrivere una specie di percorso, che comprende due tappe:
1ª Primato della teofania, cioè il Signore che è Maestro;
2ª L’uomo che a sua volta diventa maestro, dopo avere ascoltato Dio Maestro. (torna al sommario)
1. Primato della teofania
In assoluto, il punto di partenza è sempre la grazia. In principio c’è l’epifania di Dio. In principio c’è la Parola divina che infrange il silenzio del nulla e dell’ignoranza dell’uomo. «Dio disse: « Sia la luce ». E la luce fu». All’inizio c’è questa Parola, radicale e fondamentale, senza la quale ci sarebbe il vuoto, il nulla. Nessuna altra parola risuonerebbe. All’inizio c’è questa presenza assoluta dell’unico Signore e Maestro che è Dio.
San Paolo (in Rm 10,20) si sorprende per una bellissima frase di Isaia: «Il profeta osa dire: Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano». L’uomo se ne va per le sue strade, se ne andrebbe all’infinito lontano, se a un crocevia non si presentasse l’epifania di Dio, la sua Parola. In principio quindi c’è la Sapienza di Dio. Nella Genesi (1,3) c’è proprio questa frase: «Dio disse». O nel Nuovo Testamento: «En archè èn ho logos, in principio c’era la Parola (per eccellenza)», la grande teofania iniziale, senza la quale non c’è nessun insegnamento. Senza la grazia non esiste la parola nostra; senza la Parola di Dio non esistono le nostre parole. (torna al sommario)
I (tre) luoghi della teofania.
Dove e come si manifesta Dio? Ricordiamo tre luoghi nei quali si offre la « lezione » di Dio, la prima « lezione » assoluta.
1º. La Parola o lezione di Dio si manifesta innanzitutto nella Torah (nome derivato da una radice ebraica, jrh, che significa « insegnare »). È l’insegnamento per eccellenza, la « dottrina » per eccellenza di Dio. Perciò noi dobbiamo ascoltare la prima lezione divina attraverso l’ascolto della Legge. Tutto il Salmo 119 (118 della Volgata) è un inno grandioso, monumentale alla Parola di Dio più che alla Legge (Torah). Pascal lo recitava tutte le mattine; una volta, almeno nel breviario del rito ambrosiano, lo si recitava tutti i giorni, tutto intero, durante le ore della giornata. È una lode continua, una specie di moto perpetuo: non soltanto la costruzione è in 22 strofe, con un gioco alfabetico, ma ogni versetto deve avere almeno una delle otto parole con cui si definisce la Parola di Dio. Ebbene, questo canto continuo della Parola di Dio è la celebrazione della prima, fondamentale lezione che dobbiamo ascoltare, una lezione di vita, (è anche legge), non solo una lezione di conoscenza del mistero di Dio.
Nel Salmo 25 (versetti 4, 5, 8, 9, 10 e 12) continuamente si chiede a Dio che, rivelandoci la sua Parola, ci indichi la via. «Io sono la via, la verità e la vita», dirà Cristo. Con un piccolo particolare: in ebraico, il termine via, derek, ha alla base probabilmente una radice di origine cananea che significa la vigoria sessuale, l’energia vitale. Allora, dire: «Io sono la via e la vita» si può quasi esprimere con una parola sola: «Io sono la via». Indicare la via vuol dire anche indicare la via della vita. D’altronde, la via in tutte le culture è un grande simbolo della esistenza stessa. In questo senso la celebrazione della via che la Torah ci offre è la celebrazione, come dice il Salmo 119, della lampada che illumina i passi della nostra esistenza (v. 105).
Ancora, nel Salmo 143,10 chiediamo: «Insegnami (è il verbo del maestro, rivolto a Dio!), insegnami a compiere il tuo volere, perché tu sei il mio Dio. Il tuo spirito buono mi guidi in terra piana». Troviamo qui le due immagini, le due componenti: «Insegnami il tuo volere», la tua volontà, non solo il tuo mistero, ma un mistero efficace, che agisce in me. E poi mi guiderai «sulla terra piana», nel sentiero dell’esistenza.
2º. L’epifania del Signore-Maestro si presenta nelle sue opere salvifiche, nelle sue azioni di salvezza, come leggiamo nel Salmo 103 (versetto 7): «Ha rivelato a Mosè le sue vie, ai figli d’Israele le sue opere». Per la legge del parallelismo, qui vengono descritte non più « la mia via », ma « le vie di Dio ». E qual è la via di Dio? Sono le sue opere, le sue opere di salvezza, inserite nell’interno della storia. La Bibbia è la storia di Dio ed è la celebrazione del Dio della storia, la Bibbia è una storia della salvezza.
Di qui alcune conseguenze di questa tesi fondamentale. Gli Ebrei hanno chiamato lungamente Mosè con un appellativo: morenu, che vuol dire « il nostro maestro ». E come viene rappresentato questo « nostro maestro »? «Io sarò con la tua bocca», dice il Signore a Mosè, «ti istruirò in quello che dovrai dire» (Es 4,12; cf 24,12). E che cosa farà poi Mosè? Parlerà e salverà. Dio usa perciò anche dei maestri concreti. Per la sua storia della salvezza passa attraverso di noi, che pur siamo fragili. Mosè sarebbe stato l’ultimo da scegliere, come maestro: era balbuziente, era incapace di parlare, aveva in sé una debolezza costituzionale: «Manda un altro» (si scusa in Es 4,13; come succede in altri racconti di « vocazione con obiezione »).
Una seconda considerazione. Che cosa dobbiamo dunque trasmettere, che cosa narrare nella nostra catechesi? Che cosa insegnare? La risposta si trova nel Salmo 78 (il secondo più lungo della Bibbia, dopo il 119), che possiamo intitolare come fa la Bible de Jérusalem: «Le lezioni della storia della salvezza». Ciò che noi dobbiamo trasmettere ed annunciare è non il Dio remoto e astratto, non «il Dio dei filosofi» (per usare ancora la famosa espressione del Memoriale di Pascal), non il Dio dei sapienti, ma il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio salvatore.
3º. Dopo l’epifania di Dio nella Torah e nella storia, l’epifania di Dio si manifesta anche nell’oscurità della prova, nella tenebra, nel suo silenzio. A questo riguardo, due libri dell’Antico Testamento sono particolarmente interessanti e significativi: Qoèlet e Giobbe. In essi si riesce a vedere la rivelazione di Dio nell’interno del silenzio.
Essi, però, non ci danno la manifestazione del Dio-Maestro, che invece troviamo esplicitamente in un versetto del Deuteronomio (8,5): «Come un padre corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, ti corregge». È bellissima questa immagine del maestro-padre (questi due aspetti anche nei Proverbi coincidono: il maestro è pure il padre, il discepolo è anche il figlio). Questo maestro conosce, tra l’altro, la strada della durezza, una via che il discepolo non riesce a comprendere. «Le mie vie non sono le vostre vie» (Is 55,8).
C’è, quindi, una paidèia, se vogliamo usare l’espressione greca, una pedagogia divina purificatrice. C’è una parola divina che sconcerta, nel bene e nel male. In Geremia (23,29) la Parola di Dio viene rappresentata come un martello che spacca la roccia, come una fiamma ardente che brucia, e consuma. Spessissimo, nell’Antico Testamento, la Parola di Dio si autorappresenta con immagini « offensive ». Questo avviene anche nel Nuovo: la lettera agli Ebrei (4,12) evoca la Parola di Dio come spada che taglia la superficie, la pelle, e penetra fino alle giunture, fino alle ossa, al midollo. C’è dunque una paidèia che si sviluppa nell’oscurità (un tema molto bello e suggestivo). C’è da ringraziare Dio, invece di sentirsi imbarazzati, che nell’Antico Testamento esista un libro come Qoèlet, un libro della crisi, della crisi della Sapienza: un maestro che non crede più in quello che insegna, e che non attende forse più nulla, ma che comunque riflette – e anch’esso è parola di Dio! – su questo misterioso parlare-insegnare di Dio attraverso il suo silenzio, attraverso il vuoto. Oppure, è significativo che nell’Antico Testamento ci siano delle pagine come quelle del libro di Giobbe, dove il protagonista bestemmia. In quel momento, Dio passa attraverso quasi la negazione di se stesso. Come diceva Bonhoeffer: Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza – come Signore e Maestro, come Padrone –; Dio ci salva in virtù della sua debolezza, diventando fratello dell’uomo in Cristo, attraverso la sua impotenza, la sua sofferenza. Parlando tuttavia dell’insegnamento del Maestro divino attraverso il suo silenzio e la prova, occorre ricordare che, pure in quel momento, Dio non cessa di essere il Maestro che serve, anzi forse in quel momento è vicino all’uomo molto di più di prima.
Osea (11,3-4) esprime la tenerezza paterna anche nella severità: «Io ho insegnato i primi passi a Efraim. Me li prendevo sulle braccia, con legami pieni di umanità, li attiravo a me, con vincoli d’amore». Efraim rimane ribelle; però questo padre, pure se il figlio non capisce, ha sempre vincoli d’amore, perfino quando punisce, come un padre corregge il figlio. A questo riguardo c’è una bellissima immagine del grande pensatore danese Soeren Kierkegaard, nel suo libro Timore e tremore, dedicato nella sua maggior parte a Gen 22 (il sacrificio di Isacco). Soeren Kierkegaard usa questa immagine, che tra l’altro è vera in Oriente: la madre, quando deve svezzare suo figlio, si tinge di nero il seno, perché il figlio non abbia più a desiderarlo, e cominci a nutrirsi da solo. In quel momento il bambino odia sua madre, perché gli toglie la fonte del suo sostentamento e anche del suo piacere (pensiamo a quel che ha detto la psicanalisi a questo riguardo); eppure egli non sa che in quel momento la madre, mentre lo distacca da sé e sembra crudele, mai l’ha amato così tanto, perché lo fa diventare uomo capace di vivere da solo nel mondo, lo fa creatura libera (e quante madri non hanno staccato il figlio dal seno, anche se non materialmente, e lo fanno ancora succube!). Ecco: anche nel momento della prova, non dobbiamo mai dimenticare il mistero del Dio Padre e Madre. (torna al sommario)
2. L’uomo maestro
L’uomo istruito da Dio diventa a sua volta maestro, viene inviato come maestro. Tre brevi considerazioni al riguardo. (torna al sommario)
a) Il padre al figlio
Il magistero fondamentale è quello che passa attraverso la comunicazione interpersonale, la catechesi familiare, una relazione d’amore. Abbiamo esempi molto illuminanti a questo riguardo. Nei Proverbi, il padre continuamente dice: «Figlio mio…», e al figlio dona la sua sapienza. In questo caso il maestro, che è padre, non può che desiderare che il discepolo cresca; cosa che invece il maestro-padrone non vuole, perché è geloso della sua supremazia intellettuale. Il padre pensa: « Bisogna che lui cresca e che io diminuisca », come il Battista (cf Gv 3,30). E il capitolo 31 (sempre dei Proverbi), con quella strana finale, la celebrazione della donna sapiente, è probabilmente anche la conclusione di un itinerario didattico. Dopo aver svolto la sua lezione, il maestro-padre saluta il figlio che ha trovato la sua sposa. Questa sposa è una donna ideale, perfetta, ma è anche la Sapienza: il giovane è diventato a sua volta maestro, sapiente. Tale dovrebbe essere il nostro scopo. Dobbiamo sparire, insegnando agli altri. Dobbiamo far sì che l’altro sia capace di crescere nella fede e nella conoscenza, e poi ritirarci.
In Esodo 12, con la descrizione del rito pasquale, troviamo ciò che viene fatto dagli Ebrei attraverso l’haggadah. Quest’ultima è una narrazione che comprende un dialogo tra il padre e il figlio sul significato dei riti, per giungere alla scoperta dell’azione di liberazione di Dio. Qui vediamo quale sia la funzione del maestro nella famiglia, nella relazione d’amore: è quella d’insegnare la libertà, di far conoscere un Dio che è liberatore, non colui che t’impone la cappa di piombo delle sue norme, ma che ti indica la strada gioiosa della sua volontà, che è libertà e salvezza.
Da ultimo, il Salmo 78 nella sua prima diecina di versetti ci offre una suggestiva rappresentazione della catechesi. Che cos’è la vera catechesi ecclesiale? È un continuo comunicare, di padre in figlio, di generazione in generazione, le grandi opere di Dio, la grande linea dinamica di salvezza entro cui noi siamo immersi.
b) I sacerdoti-profeti-sapienti
Tra i maestri ci sono anche i sacerdoti, i sapienti, i profeti. Potremmo offrire molti dati su questo tipo di insegnamento. Basti citare come esempio 1Sm 3. Il sacerdote di nome Eli, il maestro di Samuele, è il direttore spirituale per eccellenza, che non si sostituisce al discepolo, ma gli insegna come deve scoprire la sua vocazione, di chi sia quella voce che nella notte lo chiama.
Un altro modello, molto interessante per il problema dell’inculturazione, sarebbe quel maestro che ha scritto attorno all’anno 30 a.C. il libro della Sapienza. Egli si presenta come Salomone, il supremo sapiente. Il libro della Sapienza è il tentativo di riscrivere la grande lezione di Israele con le categorie filosofiche del mondo greco, in un altro orizzonte culturale. Paolo è l’esempio più alto di questa operazione di mediazione culturale, di inculturazione, di ritrascrizione del messaggio semitico di Cristo in nuove coordinate, in modalità nuove.
In Neemia 8, il personaggio che domina è Esdra, il sacerdote, che fa la sua lezione sulla Parola di Dio. È un maestro significativo perché ci rivela come possiamo diventare noi stessi maestri della Parola di Dio. Nell’episodio potremmo individuare sette « stelle », cioè una costellazione di sette componenti che sono la rappresentazione di questo magistero della parola:
Leggere la Parola di Dio, «per brani distinti», si dice. Sul leggere ci sarebbe già tutta una lezione da fare, ai nostri giorni, quando la lettura diventa sempre più difficile, sempre meno praticata. I nostri ragazzi vedono, ma non leggono, ascoltano caso mai. Gli Ebrei non chiamano la Bibbia « scrittura » come noi; la chiamano migra’, che vuol dire « la lettura »; è la stessa radice della parola quran, il Corano è la « lettura » generosa.
Spiegare. Comporta l’esegesi. «Senza la penetrazione nelle parole, nel senso delle parole, come posso capire la Parola?». Questa è una frase di Massimo il Confessore, un mistico palestinese, nato sulle alture del Golàn, da un padre samaritano e da una madre che era una schiava persiana; nato nella terra di Gesù, poi farà una fine che è emblematica anche per il maestro: gli taglieranno la lingua e la mano destra, i due elementi della parola e dell’azione, per punire lui annunciatore della verità del vangelo. Massimo il Confessore, che è forse l’ultimo dei Padri greci, diceva dunque: «Se tu non conosci le parole, come puoi conoscere la Parola?». Spiegare! Spezziamo una lancia a favore dello studio serio della Parola, contro le tentazioni pentecostal-misticheggianti, contro certe forme carismatiche (quel dire: « Prendi la Parola e come risuona leggi e pratica », può portare al fondamentalismo).
Comprendere. Il « comprendere » biblico, come diceva giustamente Maritain, è una «connaissance savoureuse», una conoscenza saporosa. Il conoscere biblico, come anche l’ »amare », è appunto una conoscenza circolare, simbolica. Dunque, tre parole-stelle nella prima linea: leggere, spiegare, comprendere; le altre quattro sono invece nella linea esistenziale.
Ascoltare. «Essi ascoltavano, porgevano l’orecchio». Nella Bibbia lo stesso verbo shama’ indica sia « ascoltare » che « obbedire ». Quindi shema’ Israel non è soltanto « ascolta, Israele! », ma anche « aderisci! ». «Adonài elohénu adonài ehàd» (il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo) è non soltanto una conoscenza di tipo intellettivo, ma è la scoperta di una relazione (cf Dt 6,4ss). È per questo che «lo amerai con tutto il cuore…». Amerai viene subito dopo ascoltare. Per questo nel Salmo 40 si dice letteralmente (versetto 7): «Tu mi hai forato l’orecchio», come si fa allo schiavo; io sono il tuo schiavo, ho l’orecchio forato, nel senso che aderisco completamente a te.
Gli occhi si colmano di lacrime: gli ascoltatori si mettono a piangere, cioè si convertono. La parola di Dio ti fa piangere i tuoi peccati. Ecco un altro elemento prodotto da una vera lezione: essa inquieta le coscienze; la Parola di Dio artiglia l’anima, altrimenti è una semplice informazione. Lo scrittore ultra-novantenne Julien Green affermava: «Se io dovessi riassumere tutto quello che ho scritto, lo esprimerei con questa frase: « Finché si è inquieti, si può stare tranquilli »». Finché c’è questa inquietudine, che è quella agostiniana (« inquietum est cor nostrum »), allora si può stare in pace.
Le mani portano delle porzioni di cibo ai poveri. La lezione che ricevo dalla Parola di Dio mi costringe ad andare verso i miseri, ad offrire il pane della Parola e anche il pane reale.
La festa, la liturgia delle Capanne, la terza festa ebraica. Cioè il grande, ultimo insegnamento lo si ha nella liturgia.
Dunque, sette parole: leggere, spiegare, comprendere; ascoltare, piangere, donare, celebrare. Tale è la traiettoria all’insegnamento compiuto nell’interno della comunità ecclesiale attraverso i vari ministeri dell’annunzio.
c) Pedagogia globale
La pedagogia biblica è una pedagogia globale. Non è un processo solo intellettuale. Facciamo una breve annotazione filologica. Lamàd, insegnare, è il verbo fondamentale del maestro. O meglio, lamàd non vuol dire insegnare, ma « imparare ». Però, curiosamente, nella forma intensiva, limmed, diventa « insegnare ». La stessa radice non distingue tra imparare e insegnare. E questo stabilisce un circuito. Il vero maestro è uno che impara anche, e il vero discepolo alla fine è capace di insegnare. Se il circuito non si chiude, non si ha un vero magistero. Il maestro, che non è attento al discepolo, è di sua natura condannato alla solitudine, alla torre d’avorio della sua elaborazione, ma non lascerà traccia. Per chi è abituato a parlare spesso in pubblico, una delle componenti fondamentali, anche tecniche, è di vedere e capire se l’ambiente è colmo di risonanza, se è in ascolto. Altrimenti si va avanti nel parlare, ma l’altro non dialoga. Insegnare è dialogare. Anche se l’altro tace. Ci si deve accorgere di entrare nell’interno della comunicazione, grazie anche alle domande presentate dall’altro. Oscar Wilde diceva: «A dare le risposte sono capaci tutti; per fare le vere domande ci vuole un genio». Ed è verissimo. Le grandi domande, che fanno andare avanti nella conoscenza, le pongono soltanto i geni. E di fatto la domanda, anche graficamente, noi la esprimiamo non con l’esclamazione, che è una linea retta, ma con qualcosa che si aggroviglia in sé, che quindi lacera, che artiglia, che fa sanguinare.
Un altro verbo ricorrente nella pedagogia biblica è jaràh; jaràh-torah, il quale indica un insegnamento che è « via e vita », come abbiamo già visto.
Ancora: jasàr, donde deriva il sostantivo musàr, significa la « disciplina », cioè l’impegno severo, ascetico del conoscere. Per essere veramente maestri bisogna avere la pazienza di stare ore e ore nello studio, nella fatica.
E da ultimo il verbo jada’ che vuol dire « conoscere » e implica tutte le dimensioni, la globalità simbolica dell’insegnamento biblico. Comprende l’aspetto intellettivo, l’aspetto affettivo (sentimento), l’aspetto volitivo (volere), l’aspetto effettivo. « Conoscere » indica persino l’atto sessuale. Perché si conosce anche con la passione e l’azione, con la comunione dei corpi, si conosce con la convivenza, si conosce con l’azione, costruendo insieme un progetto.
Concludendo la parabola anticotestamentaria dell’insegnare, occorre dire una cosa un po’ paradossale: scopo del maestro è rendersi inutile. L’abbiamo già visto, ma ora va detto in maniera più forte, ricorrendo alla dimensione escatologica. Negli ultimi tempi il maestro non ci sarà più, perché ci sarà un Maestro interiore. Vi è una intensa frase nel vangelo di Giovanni (6,45), che cita Isaia 54,13: «Sta scritto nei profeti: « E tutti saranno theodidàktoi, ammaestrati da Dio ». Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me». Non ci sono più i mediatori. « È il Padre che ti parla e tu vieni a me », dice il Signore. Il testo di Isaia in ebraico (Giovanni cita il greco nella traduzione dei LXX) dice esattamente: «Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore». Bella definizione della comunità escatologica: tutti saranno « discepoli » del Signore.
Più rilevante ancora è l’oracolo di Geremia (31,31-34) sulla « nuova alleanza », il più celebre di tutti gli oracoli profetici, che costituisce anche la citazione più lunga dell’Antico Testamento nel Nuovo, in Ebrei 8,8-12. Come sarà la grande, perfetta alleanza del nuovo Sinai? Come sarà il momento in cui noi avremo una comunità che sarà completamente in comunione con Dio? Ecco la risposta di Geremia: «Porrò io la mia torah nel loro animo; la scriverò sul loro cuore. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri»: non ci sarà più il maestro, il sacerdote, il profeta, il sapiente che dovrà dire all’altro: « Riconoscete il Signore ». «Perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande».

CUORE DI CARNE – GIANFRANCO RAVASI

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CUORE DI CARNE – GIANFRANCO RAVASI

Il termine che noi traduciamo con « cuore » è uno dei più usati nella Bibbia. Ma esso ha un significato molto più denso di quello che gli hanno attribuito il devozionalismo misticheggiante o quella sorta di sentimentalismo laico da « posta del cuore ».
La solennità del Cuore di Cristo, che si celebra il 27 Giugno, è una devozione che fu divulgata soprattutto in seguito alle rivelazioni avute tra il 1673 e il 1689 da una mistica francese dell’ Ordine della Visitazione (fondato da san Francesco di Sales), santa Margherita Maria Alacoque, nata nel 1647 e morta nel 1690 nel monastero di Paray-le-Monial (Saona e Loira).
Il cuore di Gesù è certamente un tema ormai classico della fede e della devozione cristiana e, in particolare, cattolica, ma esso affonda le sue radici nelle pagine bibliche che meritano di essere sfogliate al riguardo, proprio per togliere quella patina di pietismo popolare e di sacralismo liquoroso che sembra essergli attaccato dopo qualche secolo di devozionalismo.
Se ci affidiamo alla statistica lessicale, dobbiamo riconoscere che l’ebraico (e aramaico) leb e il suo equivalente lebab risuonano attorno alle 860 volte nell’Antico Testamento, attestandosi allo stesso livello di occorrenze della parola ‘ajin, « occhio », poco dopo il cinquantesimo posto nella lista dei termini più usati dalle Scritture sacre ebraiche.
Col termine kardíá del greco neotestamentario si giungerebbe a un migliaio di presenze testuali.
Un vocabolo significativo, quindi, e curiosamente applicato soprattutto all’ uomo: nell’ Antico Testamento solo 26 volte si parla antropomorficamente del cuore di Dio e nel Nuovo Testamento una sola volta in modo esplicito si presenta quel cuore di Cristo che poi avrebbe avuto così tanto rilievo nella pietà ecclesiale.
Ma la sorpresa è da cercare in particolare al livello dei significati. Basta, infatti, prendere tra le mani un qualsiasi dizionario biblico per trovare definizioni di questo genere: «Per noi occidentali, il termine « cuore » evoca soprattutto la vita affettiva. Un cuore può essere innamorato, ma anche sensibile, generoso, caritatevole o coraggioso. Un uomo può avere un cuore d’oro o un cuore di pietra, può essere senza cuore o avere il cuore in mano. Per la Bibbia invece, il cuore è una realtà più ampia, che include tutte le forme della vita intellettiva, tutto il mondo degli affetti e delle emozioni, nonché la sfera dell’ inconscio in cui affondano le radici tutte le attività dello spirito» (così M.Cocagnac in « I simboli biblici », Dehoniane, 1994).
Siamo, perciò, ben lontani dall’accezione a cui ci hanno abituati, da un lato, il sentimentalismo laico (la « posta del cuore ») e, d’altro lato, il devozionalismo misticheggiante.
Vorremmo ora, sia pure in modo molto semplificato, illustrare i significati vari del « cuore » biblico che, pur nella sua dominante simbolica, non perde il suo ancoraggio fisiologico.
Non manca, infatti, la descrizione di un infarto (o arresto cardiaco o emorragia cerebrale o apoplessia): «Il cuore gli si tramortì nel petto e diventò come pietra», si dice di un avversario di Davide, Nabal, che dieci giorni dopo muore (1Samuele 25, 37-38).
Il profeta Geremia per la sua sofferenza interiore sente scoppiare le pareti del cuore » (4, 19).
Anzi, in eraico si conia un verbo onomatopeico per descrivere il battito cardiaco, secharchar.
Ma il cuore è soprattutto un segno di interiorità.
Così il libro dei Proverbi è lapidario: «Il cuore intelligente cerca la conoscenza» (15, 14) e «il cuore saggio rende prudenti le labbra» (16, 23). Per questo il salmista prega Dio così: «Insegnaci a contare i nostri giorni e conquisteremo un cuore sapiente » (90, 12).
Curiosa è la locuzione «pensare in cuor suo/ loro», che sta semplicemente per un «pensarci», oppure «parlare al cuore» o «dire in cuor proprio», da intendere come il nostro «riflettere». «Rubare il cuore» di un altro significa «fargli perdere la testa, ingannarlo», Come la «mancanza di cuore» non è la crudeltà ma la stupidità.
Salomone, alla vigilia della sua intronizzazione, chiede a Dio «un cuore docile perché sappia rendere giustizia al popolo e sappia distinguere il bene dal male»; «al Signore piacque», commenta l’autore sacro, « che Salomone avesse domandato la saggezza nel governare» (1Re 3, 9-10).
Si ricordi, comunque, che l’intelligenza biblica non è mai mera attività intellettuale ma sapienza ed esperienza, conoscenza e moralità.
E’ facile, allora, comprendere come il cuore divenga anche la sede della volontà, delle decisioni e dell’etica.
Ancora una volta lapidario è il libro dei Proverbi: «Il cuore dell’uomo determina la sua vita» (16, 9). L’augurio che il salmista rivolge al re ebraico è questo: «Ti conceda (il Signore) quanto anela il tuo cuore e faccia riuscire ogni tuo progetto! »(20, 5).
In negativo c’è «il cuore che trama progetti perversi »(Proverbi 6, 18). E’ in questa luce che nasce la curiosa e frequente immagine del cuore «ingrossato/ ingrassato o indurito» che è la rappresentazione dell’ ostinazione e della pertinacia nel male. E’ quindi necessario «circoncidere il cuore» e non solo il prepuzio (Deuteronomio 10, 16) perché è dal cuore – come notava Gesù – che «escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, suicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Marco 7, 21-22).
Al contrario, l’appello a decidere e a scegliere il bene è formulato così: «Tutto ciò che è nel tuo cuore va’ e mettilo in opera!» (2Samuele 7, 3). Il «cuore puro», invocato dal salmista (51, 12), è la volontà ferma che opta per la giustizia. E la scelta di vita esemplare in sede religiosa e morale è formulata dal famoso Shema’, il passo biblico usato quasi come emblema di fede dal giudaismo, in questi termini: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta la tua anima e con tutte le tue forze» (Deuteronomio 6, 5), frase cara anche a Gesù che la varierà introducendo – forse su influsso greco dei redattori evangelici – anche la « mente »: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» (Matteo 22, 37).
Il cuore è, dunque, espressione anche della cosciente determinazione e dedizione della volontà, ed è grazia divina avere un cuore aperto al bene e non « impietrito » nella decisione perversa. Suggestive le parole divine proclamate dal profeta Ezechiele: «Io darò loro un altro cuore … : toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne» (11, 19).
Avere una religione del cuore allora, non significa entrare in una spiritualità sentimentale ed effervescente quanto piuttosto pensare, decidere e operare secondo verità e giustizia.
Questo, però, non esclude che il cuore biblico celi al suo interno anche la dimensione affettiva e passionale.
Stupenda è l’immagine di Isaia: «Il cuore freme come fremono gli alberi del bosco, agitati dal vento» (7, 2). Il cuore diventa molle e si scioglie come cera per la paura (Salmo 22, 15) o si dissolve in acqua per il terrore (Giosuè 7, 5). E’ roso dall’ invidia per il successo dei peccatori, osserva il libro dei Proverbi (23, 17) che ammira «il cuore calmo, vita di tutto il corpo, mentre quello agitato è tarlo per le ossa» (14,30), e che esalta «il cuore allegro che rischiara il volto», «il cuore contento che fa bene al corpo», mentre depreca «il cuore triste che indica uno spirito depresso» (15, 13; 17, 22).
L’innamoramento è così cantato dall’ amato del Cantico dei cantici: «Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo!» (41 9), mentre il giorno delle nozze diventa nel linguaggio semitico «il giorno della gioia del cuore».
Una gioia che è indotta più prosaicamente pure dal vino «che rallegra il cuore dell’ uomo» (Salmo 104, 15), anche se è in agguato il rischio dell’ offuscamento mentale: « Non guardare il vino quando rosseggia e scintilla nella coppa…. finirà col morderti come un serpente… e il tuo cuore dirà cose sconnesse » (Proverbi 23, 31-33).
In questa linea « passionale » il cuore si trasforma in simbolo del desiderio e della bramosia: « Non nutrire nel tuo cuore bramosia per la bellezza » della moglie del tuo vicino, ammonisce il sapiente (Proverbi 6, 2 5), pronto ad aggiungere anche una raffinata notazione di psicologia: « Un’ attesa troppo lunga fa male al cuore, mentre il desiderio soddisfatto è un albero di vita » (13, 12).
Vorremmo concludere questo nostro essenziale itinerario nel piccolo mondo del cuore, secondo la Bibbia, con un profilo più strettamente  » teologico ».
Sì, per la Bibbia anche Dio ha un cuore che, più o meno, ricalca al positivo le esperienze del cuore umano: « Il volere del Signore rimane in eterno, i pensieri del suo cuore di età in età » (Salmo 33, 11). Anche il cuore di Dio, perciò, pensa e vuole come fa quello della sua creatura. Anzi, prova gli stessi sentimenti e passioni, secondo quanto è attestato in quello stupendo soliloquio in cui Dio appare come padre pieno d’amore per il Figlio, soliloquio riferito dal profeta Osea: «Come potrei abbandonarti Israele …? Il mio cuore si commuove dentro di me, tutte le mie viscere fremono di passione … » (11, 8). E’ per questo che il Signore dichiara a Salomone: « I miei occhi e il mio cuore saranno lì di continuo» nel tempio di Sion, in mezzo all’ umanità (1 Re 9, 3).
Cristo entra in scena con questi sentimenti di amore e vicinanza nei confronti di chi lo cerca e di tutti coloro che lo circondano.
Ma è solo una volta che si fa esplicitamente menzione del suo cuore (anche nel celebre episodio del costato trafitto dalla lancia del soldato, l’evangelista Giovanni non usa il termine « cuore »).
E’ in un mirabile appello riferito solo da Matteo: « Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo, infatti, è dolce e il mio carico leggero» (11,28-30). Dio – si dice negli Atti degli Apostoli (1, 24 e 15, 8) – è kardiognóstes, cioè « conoscitore dei cuori », delle coscienze, dell’ intimo più segreto dell’ uomo. Cristo, invece, svela il suo stesso intimo all’umanità e lo rivela segnato dalla mitezza e umiltà, cioè dalla bontà e dalla tenerezza, dalla comprensione e dalla condivisione.

Gianfranco Ravasi (biblista e teologo)
Articolo tratto dal mensile Jesus

 

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 12 décembre, 2017 |Pas de commentaires »

GLI ANGELI NELLA BIBBIA – DI GIANFRANCO RAVASI

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GLI ANGELI NELLA BIBBIA – DI GIANFRANCO RAVASI

Dalla prima pagina delle Scritture Sacre coi “Cherubini dalla fiamma della spada folgorante”, posti a guardia del giardino dell’Eden (Genesi 3,24), fino alla folla angelica che popola il cielo dell’Apocalisse, tutti i libri della Bibbia sono animati dalla presenza di queste figure sovrumane, ma non divine, che già occhieggiavano nelle religioni circostanti al mondo ebraico e cristiano. Proprio i Cherubini, che saranno destinati a proteggere l’Arca dell’Alleanza (Esodo 25,18-21), sono noti anche nel nome (karibu) all’antica Mesopotamia, simili quasi a sfingi alate, dal volto umano e dal corpo zoomorfo, posti a tutela delle aree sacre templari e regali, mentre i Serafini della vocazione di Isaia (6,1-7), nella loro radi- ce nominale, rimandano a qualcosa di serpentiniforme e ardente.

L’Angelo, “trasparenza” del divino
Ma lasciamo questo intreccio marginale – coltivato, però, con entusiasmo dalle successive tradizioni apocrife e popolari – tra mitologia e angelologia per individuare, in modo sia pure molto semplificato, il vero volto dell’Angelo secondo le Scritture. V’è subito da segnalare un dato statistico: il vocabolo mal’ak, in ebraico “messaggero”, tradotto in greco come ‘Anghelos (donde il nostro “angelo”) risuona nell’Antico Testamento ben 215 volte e diventa persino il nome (o lo pseudonimo) di un profeta, Malachia, che in ebraico significa “angelo del Signore”.
Certo, come prima si diceva a proposito di Cherubini e Serafini, non mancano elementi di un retaggio culturale remoto che la Bibbia ha fatto suoi: la Rivelazione ebraico-cristiana si fa strada nei meandri della storia e nelle coordinate topografiche di una regione appartenente all’antico Vicino Oriente e ne raccoglie echi e spunti tematici e simbolici.
I “figli di Dio”, ad esempio, nella religione cananea, indigena della Palestina, erano dèi inferiori che facevano parte del consiglio della corona della divinità suprema del pantheon, ’El (o in altri casi Ba’al, il dio della fecondità e della vita). Israele declassa questi “figli di Dio”, che qua e là appaiono nei suoi testi sacri (Genesi 6,1-4; Giobbe 1,6 e Salmi 29,1), al rango di Angeli che assistono il Signore, il cui nome sacro, unico e impronunziabile, è JHWH. Anche “il Satana”, cioè 1’avversario (in ebraico è un titolo comune e ha l’articolo), in Giobbe appare come un pubblico ministero angelico della corte divina (1,6-12).
L’Angelo biblico, perciò, conserva tracce divine. Anzi diventa non di rado – soprattutto quando è chiamato mal’ak Jhwh, “Angelo del Signore” – una rappresentazione teofanica, ossia un puro e semplice rivelarsi di Dio in modo indiretto. Come scriveva uno dei più famosi biblisti del Novecento, Gerhard von Rad, “attraverso 1’Angelo è in realtà Dio stesso che appare agli uomini in forma umana”. E’ per questo che talvolta 1’Angelo biblico sembra entrare in una dissolvenza e dal suo volto lievitano i lineamenti del Re celeste che lo invia. Infatti in alcuni racconti l’Angelo e Dio stesso sono intercambiabili.
Nel roveto ardente del Sinai a Mosè appare innanzitutto “l’Angelo del Signore” ma, subito dopo, la narrazione continua così: ”Il Signore vide che Mosè si era avvicinato e Dio lo chiamò dal roveto” (Esodo 3,2.4). Questa stessa identificazione può essere rintracciata nel racconto che vede protagonisti Agar, schiava di Abramo e di Sara, e suo figlio Ismaele dispersi nel deserto (Genesi 16,7.13) in quello del sacrificio di Isacco al monte Moria (Genesi 22,11-17), nella vocazione di Gedeone (Giudici 6,12.14) e così via.

Lasciamo ai nostri lettori più esigenti la verifica all’interno dei passi biblici citati. In questa funzione di “trasparenza” del divino, 1’Angelo può acquistare anche fisionomie umane per rendersi visibile. Così nel capitolo 18 della Genesi – divenuto celebre nella ripresa iconografica di Andrej Rublev – gli Angeli si presentano davanti alla tenda di Abramo come tre viandanti; uno solo di loro annunzia la promessa divina; nel prosieguo del racconto (19,1) diventano “due Angeli”, ritornano poi a essere “tre uomini” per ritrasformarsi in Angeli (19,15), mentre è uno solo a pronunziare le parole decisive per Lot, nipote di Abramo (19,17-22). E’ ancora sotto i tratti di un uomo misterioso che si cela 1’Angelo della lotta notturna di Giacobbe alle sponde del fiume Jabbok (Genesi 32,23- 33), ma il patriarca è convinto di “aver visto Dio faccia a faccia”.
Dobbiamo, allora, interrogarci sul significato di questa personificazione “angelica” di Dio che appare in non poche pagine bibliche come espressione della sua benedizione ma anche del suo giudizio (si pensi all’Angelo sterminatore dei primogeniti egiziani nell’Esodo che il libro della Sapienza reinterpreta come la stessa Parola divina).
Se non leggiamo materialmente o “fondamentalisticamente” (cioè in modo letteralistico) quei passi, ma cerchiamo di coglierne il significato genuino sotto il velo delle modalità espressive, ci accorgiamo che in questi casi l’Angelo biblico racchiude in sé una sintesi dei due tratti fondamentali del volto di Dio. Da un lato, infatti, il Signore è per eccellenza 1’Altro, cioè colui che è diverso e superiore rispetto all’uomo, è – se usiamo il linguaggio teologico – il Trascendente. D’altra parte, però, egli è anche il Vicino, 1’Emmanuele, il Dio – con – noi, presente nella storia dell’uomo. Ora, per impedire che questa vicinanza ‘impolveri’ Dio, lo imprigioni nel mondo come un oggetto sacro, 1’autore biblico ricorre all’Angelo. Egli, pur venendo dall’area divina, entra nel mondo degli uomini, parla e agisce visibilmente come una creatura.
Ma il messaggio che egli porta con sé è sempre divino. In altri termini 1’Angelo è spesso nella Bibbia una personificazione dell’efficace parola di Dio che annunzia e opera salvezza e giudizio. La visione della scala che Giacobbe ha a Betel è in questo senso esemplare: “Gli angeli di Dio salivano e scendevano su una scala che poggiava sulla terra mentre la sua cima raggiungeva il cielo” (Genesi 28,12). L’Angelo raccorda cielo e terra, infinito e finito, eternita e storia, Dio e uomo.

Il volto “ personale” dell’Angelo
Ma gli Angeli sono anche qualcosa di più di una semplice immagine di Dio. E’ necessario, perciò, percorrere altre pagine bibliche. Ebbene, in altri testi antico o neotestamentari gli Angeli appaiono nettamente con una loro entità e identità e non come rappresentazione simbolica dello svelarsi e dell’agire di Dio. E’ necessaria, però, una nota preliminare. Soprattutto nell’Antico Testamento, non si parla mai di “purissimi spiriti” come noi siamo soliti definire gli Angeli, perché per i Semiti era quasi impossibile concepire una creatura in termini solo spirituali, separata dal corpo (Dio stesso è raffigurato antropomorficamente).
Essi, perciò, hanno connotati e fisionomie con tratti concreti e umani. Ed è soprattutto nella letteratura biblica successiva all’esilio babilonese di Israele (dal VI secolo a.C. in poi) che 1’Angelo acquista un’identità propria sempre più spiccata. Evochiamone alcuni desumendoli dalla narrazione biblica. Iniziamo con la storia esemplare di Tobia jr. che parte verso la meta di Ecbatana, ove 1’attenderanno le nozze con Sara, accompagnato da un giovane di nome Azaria. Egli ignora che, sotto le spoglie di questo ebreo che cerca lavoro, si cela un Angelo dal nome emblematico, Raffaele, in ebraico “Dio guarisce”. Egli, infatti, non solo preparerà un filtro magico per esorcizzare il demonio Asmodeo che tiene sotto il suo malefico influsso la promessa sposa di Tobia, Sara, ma anche appronterà una pozione oftalmica per far recuperare la vista a Tobia sr., il vecchio padre accecato da sterco caldo di passero.
Come è facile intuire, il racconto “fine e amabile” di Tobia – secondo la definizione di Lutero che ne raccomandava la lettura alle famiglie cristiane – è percorso da elementi fiabeschi, ma la certezza dell’esistenza di un “Angelo custode” del giusto è indiscussa. discorso finale che egli rivolge ai suoi beneficati nel capitolo 12 del libro di Tobia, al momento dello svelamento, è significativo: Raffaele-Azaria ha introdotto 1’uomo nel segreto del re divino e 1’b rivelato come quello di un Dio d’amore (“quando ero con voi, io non stavo con voi per mia iniziativa, ma per la volontà di DIO” confessa in Tobia 12,18).

L’idea di un Angelo che non lascia solo il povero e il giusto per le strade del mondo, ma gli cammina a fianco è, d’altronde, reiterata nella preghiera dei Salmi: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono e li salva (…). Il Signore darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutti i tuoi passi; sulle loro mani ti porteranno perchè non inciampi nella pietra il tuo piede” (Salmi .34, 91,11-12).
Nel libro di Giobbe appare anche 1’Angelo intercessore che placa la giustizia divina educando 1’uomo alla fedeltà e incamminandolo sulle vie della salvezza: “Se 1’uomo incontra un angelo un intercessore tra i mille, che gli sveli il suo dovere, che abbia compassione di lui e implori: Scampalo, Signore, dal discendere nella fossa della morte perchè io gli ho trovato un riscatto!, allo la carne dell’uomo ritroverà la freschezza della giovinezza e tornerà ai giorni dell’adolescenza” (Giobbe 33,23-25).

Un’altra figura angelica “personale” di grande rilievo per entrambi i Testamenti è, con Michele (“chi è come Dio?”), Angelo combattente, Gabriele (“uomo di Dio” o “Dio si è mostrato forte” o “uomo fortissimo”). Nel libro di Daniele egli entra in scena nel funzioni di Angelo “interprete”, perchè consegna e decifra ai fedeli gli enigmi della Rivelazione divina, spesso affidata ai sogni. Si leggano appunto i capitoli 7-12 del libro apocalittico di Daniele, che è mo lto simile a una sciarada storico- simbolica, i cui fili aggrovigliati vengono dipanati da Gabriele, 1’Angelo che – come vedremo – sarà presente anche alla soglia del Nuovo Testamento.
Nella tradizione giudaica, soprattutto in quella della letteratura apocalittica apocrifa dei secoli III-I a.C., egli si affaccia dal cielo per abbracciare con sguardo tutti gli eventi del mondo così da poterne riferire a Dio. E presiede le classi angeliche dei Cherubini e delle Potestà e ha in pratica la gestione dell’intero palazzo celeste. Gli Angeli si moltiplicheranno in particolare nel racconto biblico dell’epoca dei Maccabei, combattenti per la libertà di Israele sotto il regime siro-ellenistico nel II secolo a.C. Questa proliferazione è naturalmente lo specchio di un’epoca storica e della convinzione di combattere una battaglia giusta e santa, avallata da Dio stesso che ne produce 1’esito positivo attraverso la sua armata celeste. Ma v’è anche la netta certezza che 1’Angelo faccia parte delle verità di fede secondo una sua precisa identità e funzione. Così, al ministro siro Eliodoro, che vuole confiscare il tesoro del tempio di Gerusalemme, si fanno incontro prima un cavaliere rivestito d’armatura aurea e poi “due giovani dotati di grande forza splendidi per bellezza e con vesti meravigliose” che lo neutralizzano e lo convincono a riconoscere il primato della volontà divina ( 2Maccabei 3,24-40).
Durante un violento scontro tra Giuda Maccabeo e i Siri “apparvero dal cielo ai nemici cinque cavaliere splendidi su cavalli dalle briglie d’oro: essi guidavano gli Ebrei e, prendendo in mezzo a loro Giuda, lo ripararono con le loro armature rendendolo invulnerabile” (2 Maccabei 10,29-30). Altre volte è un solitario “cavaliere in sella, vestito di bianco, in atto di agitare un’arma tura d’oro”, a guidare Israele alla battaglia (2 Maccabei 11,8). E non manca neppure una vera e propria squadriglia angelica composta da “cavalieri che correvano per 1’aria con auree vesti, armati di lance roteanti e di spade sguainate” (2 Maccabei 5,2).Al di là della retorica marziale di queste pagine v’è la sicurezza di una presenza forte che, come si diceva nei Salmi già citati, si accampa accanto agli oppressi e ai fedeli per tutelarli e salvarli.

LA BIBBIA SECONDO GLI EBREI – DI GIANFRANCO RAVASI

http://www.stpauls.it/jesus/0909je/0909j104.htm

LA BIBBIA SECONDO GLI EBREI – DI GIANFRANCO RAVASI

biblista – Presidente del Pontificio consiglio della cultura

Maestri nella lettura e nell’interpretazione della Torah, gli ebrei hanno una antichissima consuetudine con le Sacre Scritture. Per conoscere i loro «fratelli maggiori», dunque, i cristiani devono innanzitutto capire come essi si rapportano alla Parola di Dio.
Il 21 di questo mese il calendario colloca la festa di san Matteo, l’apostolo che, stando alla narrazione evangelica, era un esattore, ma che nella stesura del suo Vangelo fatto di 18.278 parole greche, distribuite ora in 1070 versetti e 28 capitoli, si rivela come uno scriba ebreo, tant’è vero che c’è chi ha ipotizzato che i cinque grandi discorsi di Gesù destinati a reggere il suo scritto vogliano ammiccare a una novella Torah o Pentateuco cristiano. Certo è che il suo è il testo evangelico più « giudaico » sia per rimandi a situazioni concrete (anche polemiche), sia per l’imponente massa di citazioni bibliche (almeno 63 sono quelle esplicite). Inoltre, l’ultimo giorno di questo mese reca anche la memoria del « biblista » san Girolamo che non solo si dedicò con passione allo studio delle Scritture, ma che fece della loro versione in latino la missione principale della propria vita, andando persino a lezione di ebraico da un rabbino.
Ebbene, sulla scia di queste due figure, vorremmo ora riservare il nostro spazio a una sintetica e semplificata presentazione della modalità con cui l’ebraismo ha letto e legge la Parola di Dio. Dovremo naturalmente ricorrere a una terminologia « tecnica » piuttosto specifica, ma pensiamo che questo offrirà l’occasione a tutti per arricchire il nostro approccio alla Bibbia. Per chi vorrà approfondire il tema, rimandiamo alle voci specifiche dei vari dizionari biblici e alla raccolta di saggi, curata da S. J. Sierra, La lettura ebraica delle Scritture, edita dalle Dehoniane di Bologna nel 1995. Una prima menzione di questa lettura appare nello stesso Antico Testamento, proprio alle origini di quello che verrà poi denominato il giudaismo. Si tratta della scena descritta nel capitolo 8 del libro di Neemia che tempo fa abbiamo approfondito proprio in questa rubrica.
Il sacerdote Esdra, di fronte all’assemblea degli Ebrei rimpatriati dall’esilio babilonese, presiede coi leviti un rito in cui si legge la Torah «a brani distinti e con spiegazione del senso così da far comprendere la lettura» (v. 8). In quella menzione dei «brani distinti» alcuni intravedono la genesi delle parashôt, ossia delle « pericopi », cioè dei brani con cui è attualmente suddiviso il Pentateuco in modo da consentirne la lettura integrale in sinagoga nei sabati secondo un ciclo triennale o annuale. A questo proposito vorremmo qui far cenno anche alla questione della traduzione: in epoca post-esilica era divenuto dominante l’aramaico; così si procedeva spesso – dopo la lettura dell’ebraico con cui era stata scritta la Torah – alla versione nella nuova lingua popolare. Era il cosiddetto targum, che non di rado si trasformava in una vera e propria parafrasi, divenendo un documento prezioso per la storia dell’interpretazione della Bibbia nell’antichità giudaica.
Questo fenomeno ci spinge a illustrare un altro dato caratteristico, quello della derashah, cioè della «ricerca» o «esegesi» ebraica delle Scritture. Tra l’altro, ricordiamo che ciò che noi denominiamo come Bibbia, ossia «i libri» sacri, nel giudaismo era la miqra’, «lettura» (la stessa radice e lo stesso significato sono alla base del vocabolo «Corano»), o meglio Ta-NaK, un acronimo che comprendeva le tre parti in cui era articolato l’Antico Testamento: la Torah, i Nevi’îm, cioè i Profeti, e i Ketubîm, gli Scritti sapienziali. Ebbene, quella «ricerca» seguiva più percorsi: ne vorremmo evocare solo un esempio che ha come oggetto la preghiera di Anna, futura madre di Samuele, nel tempio di Silo (1Samuele 1,9-18).
La Bibbia dice che «parlava in cuor suo», cioè – spiegano i rabbini – «chi prega lo deve fare con l’intenzione del cuore»; però «muoveva le labbra», e questo perché l’orante deve sempre coinvolgere il corpo nella preghiera; ma «non si sentiva la sua voce», così da insegnarci che chi prega non deve alzare eccessivamente la voce; Anna era stata erroneamente ritenuta dal sacerdote di quel tempio un’ubriaca per questo suo comportamento: in tal modo ci è stato insegnato che all’ubriaco non è lecito pregare. Come si vede, è una minuziosa applicazione dei vari segmenti del testo sacro al comportamento del fedele.
L’altro modello di lettura ebraica delle Scritture era detto haggadah, «narrazione»: si cercava di abbellire la pagina biblica, colmandone i vuoti narrativi con libere ricostruzioni, oppure si introducevano spunti omiletici o morali o esistenziali, talora dando origine a vere e proprie trame nuove con prodotti sbocciati da un germe biblico e cresciuti a dismisura. Molti esegeti, ad esempio, ritengono che alcuni libri deuterocanonici come quelli di Tobia, Ester e Giuditta obbediscano alle regole dell’haggadah, mentre celebre è l’haggadah pasquale giudaica che è modulata molto creativamente sul racconto pasquale del capitolo 12 dell’Esodo. Questo approccio narrativo ebbe grande successo nella cosiddetta letteratura apocrifa cristiana e continuò a permanere anche nell’epoca patristica (si pensi, ad esempio, alla nota Vita di Mosè di Gregorio di Nissa, nel IV sec.).
A questo punto tentiamo di individuare i metodi interpretativi che reggevano simili «ricerche» sul testo biblico. Quattro sono le vie adottate, stando almeno a una classificazione tradizionale. Con le loro iniziali esse ricalcherebbero le quattro consonanti della parola «paradiso» (in ebraico pardes), ossia P, R, D, S. Il primo metodo, dunque, era detto Peshat e puntava diretto al significato primario del testo, quello letterale. Il secondo andava oltre questo valore basico ed era denominato appunto Remez, «insinuazione», ed era la scoperta di significati reconditi, segreti, che talora ammiccavano persino nelle stesse lettere delle parole ebraiche, sulla scia di quel detto rabbinico che affermava: «Settanta sono i volti di ogni parola della Torah».
Giungiamo, così, al terzo metodo, il Derush, ove si ha ancora la radice verbale della «ricerca» già incontrata: attraverso il ricorso a sentenze, proverbi, parabole, dispute e altri generi letterari si applicavano i testi biblici alla storia vissuta da Israele nel passato e nel presente, aprendo squarci sul futuro. Era, quindi, un’attualizzazione della Parola di Dio. Infine, ecco il Sôd, cioè «il segreto, il mistero»: per intuire questo senso supremo e trascendente delle Scritture era necessaria una grazia particolare, ed è per questa via che si delineavano alcuni percorsi mistici ed esoterici che approdarono ad alcune opere legate alla tradizione della Kabbalah, fiorita soprattutto in epoca medievale.
Naturalmente questo quadro da noi abbozzato è fortemente schematico e non rende conto della complessità dell’accostamento che la tradizione giudaica ha operato nei confronti della Scrittura, sia nell’ambito della sinagoga e, quindi, dell’ufficialità, sia nella lettura privata, sia nella ricerca rabbinica che spesso raggiungeva livelli di alta sofisticazione, tali da introdurre vere e proprie geometrie mentali fini a sé stesse. Certo è che si teneva sempre ferma la convinzione della necessità di un significato di base legato alle parole e della presenza di un significato trascendente, pensato e voluto dal divino Autore. Era per questa strada che si configurava oltre alla Torah she-bi-ketab, cioè alla Torah scritta, fondamentale e intangibile, una Torah shebe-’al peh, ossia una Torah orale, destinata a raccogliere l’intima densità spirituale della pagina scritta.
Concludiamo con un cenno al giudaismo contemporaneo che ha aperto qualche nuovo sentiero interpretativo. Pensiamo al ricorso al testo sacro in chiave politica per giustificare, ad esempio, l’«eredità» di Israele nei confronti della Terra Santa (in questa linea un impulso fu dato da un movimento « laico » come quello sionista, ma è presente ovviamente in chiave religiosa presso i cosiddetti ebrei ortodossi). La stessa Shoah dette l’avvio a una lettura intensa e fin drammatica delle Scritture, con domande radicali sulla possibilità di credere nella Bibbia e in Dio dopo un’esperienza così tragica per la fede. Ai nostri giorni, poi, ha preso il via una lettura che tiene conto della presenza cristiana e che, perciò, apre spiragli per una nuova teologia messianica (su questo aspetto, molto specifico e problematico, abbiamo già avuto l’occasione di intervenire non molto tempo fa su queste stesse pagine, parlando degli « Ebrei messianici »).
Rimane, comunque, sempre valido l’appello contenuto negli Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare « Nostra Aetate n. 4″, proposti nel 1974 dalla Commissione per le relazioni religiose della Chiesa cattolica con l’ebraismo: «È necessario che i cristiani cerchino di capire meglio le componenti fondamentali della tradizione religiosa ebraica e apprendano le caratteristiche essenziali con le quali gli Ebrei stessi si definiscono alla luce della loro attuale realtà religiosa».

Gianfranco Ravasi

 

MARIA E L’ASCESA DI CRISTO AL GOLGOTA TRA LETTERATURA E TRADIZIONE – RAVASI

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/084q04a1.html

MARIA E L’ASCESA DI CRISTO AL GOLGOTA TRA LETTERATURA E TRADIZIONE

Volti di donne in un vociante corteo

di Gianfranco Ravasi

« Anche noi, povere donne senza più lacrime, lasciammo il Calvario con Giovanni, che da quel momento mi prese con sé. E nei giorni del pianto, per confortarmi mi raccontò molte cose di lui. Anch’io gli raccontai quelle cose che, dalla sua prima infanzia, mi erano accadute per causa di lui, e che io conservavo diligentemente nel cuore. E il contarcele e il ricontarcele era un modo di continuare a vivere con lui, a vivere di lui ». Sono le parole finali di una delicata autobiografia immaginaria di Maria stesa poco prima della sua morte dallo scrittore e sacerdote pavese Cesare Angelini e pubblicata nel 1976 con il titolo La vita di Gesù narrata da sua Madre.
Anche noi abbiamo pensato – sia pure in modo non « letterario », ma esegetico – di raccogliere il filo dei ricordi che partono da quel tardo pomeriggio di un venerdì primaverile di una data imprecisata degli anni 30 dell’era cristiana, quando Maria e il discepolo amato scesero da un piccolo sperone roccioso della periferia di Gerusalemme, chiamato « Golgota », in aramaico « cranio », ribattezzato dai romani « Calvario ». Di quelle ore tragiche, iniziate in un giardino della valle del Cedron, il torrente orientale di Gerusalemme, nella notte del giovedì, abbiamo un ricco resoconto offerto da tutti gli evangelisti, un resoconto che è anche meditazione e teologia, contrassegnato dalla memoria storica e dalla fede degli scrittori sacri. Ebbene, noi sfoglieremo quelle quattro narrazioni con una finalità ben precisa e circoscritta, ossia la ricerca del volto della Madre del condannato Gesù di Nazaret. Ma ecco, subito, una sorpresa.
Da secoli la pratica popolare della Via Crucis, sorta probabilmente all’epoca delle crociate tra il XII e il XIV secolo ci ha abituati a incrociare Maria lungo quella strada di Gerusalemme che porta ancor oggi il nome di Via dolorosa. Il corteo vociante avanza sotto la guida e la responsabilità del cosiddetto exactor mortis, il centurione romano incaricato dell’esecuzione della condanna per crocifissione. Il condannato è scortato da quattro soldati armati di lance, dietro e ai lati si ammassa la folla dei curiosi. Dalle case e dai negozi si affacciano i cittadini di Gerusalemme, un po’ come avviene ancor oggi quando per questa stessa strada si muove la processione dei pellegrini che è diretta al Santo Sepolcro pregando e cantando. Soste per cadute del condannato o per piccoli incidenti di percorso sono scontate e alcune sono registrate dagli stessi vangeli: pensiamo, per esempio, a Simone di Cirene, un ebreo della diaspora residente a Gerusalemme, che, rientrando dalla campagna, è costretto a portare per un tratto la croce del Cristo.
La Via Crucis, però, ci ha abituati a una sosta tutta particolare: è la quarta stazione, quella in cui gli occhi di Gesù velati dalla sofferenza si incontrano con quelli, velati di lacrime, di sua madre. Tuttavia Marco, Matteo, persino Luca e Giovanni, più attenti a segnalare la presenza di Maria accanto a Gesù, tacciono. Forse si potrebbe ipotizzare che il volto di Maria si nasconda, quasi anonimamente, tra quelle donne che Luca ritaglia tra la folla dei curiosi. Erano « donne che si battevano il petto e facevano lamenti su Gesù. Ma Gesù, voltatosi verso di loro, disse: Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli! Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato! (…) Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco? » (Luca, 23, 27-31).
Le parole di Gesù sono piuttosto aspre: il legno secco a cui si appicca il fuoco è il simbolo del peccato che verrà incenerito dal giudizio di Dio, mentre il legno verde è segno dell’uomo giusto, Cristo stesso, che si tenta ora di eliminare col giudizio umano. Ma è difficile pensare che tra quelle donne ci sia Maria. Esse, infatti, altro non sono che le caratteristiche lamentatrici professionali « che si battevano il petto e facevano lamenti » in occasione dei riti funebri. Forse erano alcune pie donne assistenti dei condannati a morte, una specie di « confraternita della buona morte ». Cristo non ha bisogno di compianto e di pie consolazioni e, pur non rifiutando quel gesto di solidarietà, lancia a loro un messaggio di penitenza invitandole piuttosto a pensare alla loro imminente tragedia. Quella tragedia che, dopo pochi decenni, nel 70, spazzerà via la città santa e ne annienterà gli abitanti sotto l’incombere delle armate romane di Vespasiano e Tito.
Certo è che alla fine ritroveremo Maria sulla cima del Golgota. È per questo, allora, che i vangeli apocrifi non hanno esitato a colmare liberamente e un po’ fantasticamente quel vuoto alla narrazione evangelica canonica offrendo in tal modo la fonte per quella stazione della Via Crucis. Così, nel Vangelo di Gamaliele, giunto a noi in una versione etiopica del v-vi secolo, ma di origine più antica, Maria è ripetutamente in scena durante la passione. È lei che consola l’apostolo Giovanni scoraggiato per il tradimento di Pietro. Ed è lei che con altre donne che avevano seguito Gesù fin dalla Galilea si incammina dietro a quel lugubre corteo. Anzi, secondo questo testo popolare, scoppia anche un piccolo alterco con alcune spettatrici della scena, cioè con le madri degli innocenti trucidati da Erode al tempo della nascita di Gesù. « C’erano là delle donne: Giovanna, moglie di Cusa, Maria Maddalena e Salome. Esse abbracciarono la Vergine nostra signora e la sostennero. Un lamento interiore serpeggiava nella cerchia di tutte queste sante donne che piangevano pronunziando commoventi parole. Ma altre donne ebree, udendo il pianto, ingiuriavano Maria dicendo: È giunta per noi oggi la vendetta contro di te e contro tuo figlio. Per colpa tua il nostro grembo rimase senza figlio, due anni dopo che tu generasti il tuo! ».
Il corteo della crocifissione esce finalmente dalle mura della città e sale sul Calvario. Qui finalmente il silenzio dei vangeli riguardo a Maria si rompe. A tutti è noto che l’evangelista Giovanni racconta un episodio molto essenziale, ma segnato da intense allusioni spirituali. Gesù ormai è stato innalzato da terra ed è alle soglie dell’agonia in croce. È a questo punto che Giovanni aggiunge: « Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala. Gesù, allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: Donna, ecco tuo figlio! Poi disse al discepolo; Ecco tua madre! E da quel momento il discepolo la accolse con sé » (19, 25-27). Qual è il valore di questo atto estremo di Cristo? È solo una raccomandazione, piena di amore filiale, indirizzata al discepolo più caro perché si incarichi del sostentamento e della protezione di Maria? Oppure nei dati realistici del racconto si nascondono ulteriori significati simbolici spirituali?
Le parole di Gesù sono solo un « testamento domestico », come scriveva sant’Ambrogio, o sono la rivelazione di una nuova maternità spirituale di Maria, come ha dichiarato lo stesso vescovo di Milano e come hanno ripetuto Pio xii nell’enciclica Mystici Corporis e Giovanni Paolo ii nella Redemptoris Mater? L’affidamento di Maria a Giovanni è ricordato solo per ribadire la verginità di Maria, priva di altri figli a cui essere affidata, come volevano i primi vescovi e scrittori della Chiesa, da Atanasio a Ilario, da Girolamo ad Ambrogio? Oppure, secondo quanto scriveva un altro di questi padri della Chiesa, Efrem siro (iv secolo), come Mosè incaricò Giosuè di prendersi cura del popolo ebraico in sua vece, così Gesù incaricò Giovanni di prendersi cura di Maria, cioè della Chiesa, popolo di Dio?
Ai piedi della croce sono presenti quattro donne: di tre conosciamo i nomi, Maria madre di Gesù, Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala, della quarta è riferita solo la parentela, è la sorella di Maria e quindi la zia di Gesù, il cui nome forse non era stato conservato sino al momento della tarda stesura del quarto vangelo. Gli altri evangelisti, però, introducono anche altre donne: Maria, madre di Giacomo, la madre dei figli di Zebedeo, Salome, Giovanna. Spesso si permetteva ai parenti, agli amici e ai nemici di una persona crocifissa di seguire le ultime ore di quell’atroce agonia. Sappiamo, per esempio, che un infame re ebreo della dinastia degli Asmonei, Alessandro Janneo, discendente dei grandi Maccabei, che regnò dal 102 al 76 prima dell’era cristiana, aveva fatto crocifiggere i capi farisei di una rivolta contro il suo regime. Egli aveva voluto che attorno alle croci fossero raccolte le famiglie dei singoli condannati perché assistessero al supplizio e i crocifissi vedessero il pianto disperato delle loro mogli e dei bambini, mentre il re, sotto un lussuoso padiglione, banchettava con le sue concubine.
L’obiettivo di Giovanni si fissa, però, solo su due visi. Il primo, naturalmente, è quello di Maria, il secondo è quello del « discepolo che Gesù amava ». Si è discusso a lungo sull’identità di questo discepolo che è citato soltanto sei volte nel quarto vangelo e solo a partire dalla passione (vedi Giovanni 13, 23-26). Alcuni hanno pensato persino a Lazzaro a cui Gesù « voleva molto bene », anzi, era « colui che egli amava » (Giovanni, 11, 3-5). Altri sono ricorsi a Giovanni Marco, il cristiano discepolo di Paolo e di Pietro, che aveva una casa a Gerusalemme (Atti, 12, 12) e che la tradizione identifica con l’evangelista Marco. Più semplice è il riferimento tradizionale all’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo. Tuttavia l’espressione usata dall’evangelista sembra avere una risonanza ulteriore: in Giovanni di Zebedeo si vuole quasi certamente rappresentare anche il ritratto del perfetto discepolo, il titolo acquista anche un valore simbolico. Il teologo Max Thurian nel suo libro Maria, Madre del Signore e figura della Chiesa definiva questa figura come « la personificazione del discepolo perfetto, del vero fedele del Cristo, del credente che ha ricevuto lo Spirito ». Il quarto evangelista, allora, in questa scena ai piedi della croce vuole ricamare un’immagine ulteriore che supera i semplici connotati storici.
Decisiva in questa linea è la doppia dichiarazione di Gesù. Non si tratta di una formula d’adozione, come è stato ipotizzato da qualche studioso, perché non ne ricalca lo schema giuridico: « Tu sei mio figlio… » (Salmi, 2, 7). È, invece, una formula di rivelazione, simile a quella celebre del Battista: « Ecco l’agnello di Dio! ». Non siamo, quindi, di fronte a un semplice atto sociale che sfocia in un incarico del tipo: « Io ti lascio mia madre perché te ne prenda cura ». Siamo, invece, davanti a una duplice parola solenne che svela il mistero e il significato ultimo di una persona. La prima « rivelazione » è indirizzata a Maria interpellata con un inatteso vocativo: « Donna! ». Questo termine, usato normalmente nel mondo ebraico e greco e anche da Gesù nei confronti delle donne – la cananea della zona di Tiro e Sidone a cui guarisce la figlia, la samaritana, la donna curva guarita in giorno di sabato, l’adultera, Maria di Magdala – è piuttosto strano se usato nei confronti della propria madre. Eppure Gesù si era già rivolto a sua madre con questo appellativo agli inizi della sua missione, proprio come ora lo fa alla fine. A Cana, durante il pranzo nuziale, riferendosi idealmente al momento che si sta adesso compiendo – quello che Giovanni chiama « l’ora » per eccellenza -, aveva detto a Maria: « Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora » (Giovanni, 2, 4).
Il titolo solenne « Donna » vuole alludere, secondo il gioco dei rimandi simbolici caro al quarto vangelo, alla « donna » che sta alla radice della storia umana e a quel celebre passo della Genesi: « Io porrò inimicizia tra il serpente e la donna, tra il suo seme e quello della donna (…) L’uomo chiamò la donna Eva perché essa fu la madre di tutti i viventi » (3, 15.20). La prima donna era stata l’inizio e la madre dell’umanità intera; ora Maria diventa l’inizio e la madre di tutti i credenti nel Figlio suo. Maria appare ora nella sua funzione materna, quella di essere la madre di tutti i fedeli, segno della Chiesa che genera nuovi figli a Dio e li protegge dal drago del male, come si dirà anche in un famoso passo dell’Apocalisse: « Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bimbo appena nato. Essa partorì un figlio maschio » (12, 4-5).
La « donna » Maria, nuova Eva, sta quindi vivendo l’ »ora » del suo Figlio come sua « ora »: come il Cristo, soffrendo e morendo, genera la salvezza, così Maria, soffrendo e perdendo tutto, diventa madre della Chiesa. Infatti, la seconda dichiarazione di Gesù presenta al discepolo amato, simbolo dei credenti, la sua madre spirituale: « Ecco tua madre! ». È curioso notare che nella trentina di parole che compongono l’originale greco del brano per ben cinque volte si ripete il vocabolo mèter, « madre ». Già sant’Ambrogio vedeva in Maria ai piedi della croce il mistero della Chiesa e nel discepolo amato il cristiano figlio della Chiesa. A questo punto Maria e il discepolo lasciano il Calvario; il cadavere di Gesù sta per essere deposto nel sepolcro nuovo di un uomo benestante di Arimatea, Giuseppe. Ma Giovanni ci lascia un’ultima, piccola indicazione: il discepolo accoglie con sé Maria.
Questa annotazione è stata spesso interpretata come una semplice notizia di cronaca: il termine greco usato per descrivere questo avere « con sé » Maria è ìdia e può significare anche « casa, proprietà, patria ». E possibile certamente intendere, come fa qualche versione della Bibbia, che il discepolo amato « prese nella sua casa » Maria. È nata da qui la tradizione popolare secondo cui Maria avrebbe seguito Giovanni in Asia Minore (Turchia) e sarebbe morta a Efeso. Ancor oggi a otto chilometri dalle celebri rovine di Efeso su un monte in un paesaggio verdeggiante, si leva una chiesetta collegata idealmente alla residenza efesina di Maria e Giovanni. Tuttavia, se noi continuiamo a seguire il filo dei rimandi a cui il quarto vangelo ci ha abituati, ci accorgiamo che quella parola greca è carica di altri significati. Nel prologo del vangelo, per esempio, il termine greco ìdia/ìdioi indica « i suoi », la sua gente, cioè il popolo a cui Gesù apparteneva: « Venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto » (1, 11). E alle soglie della morte di Gesù, Giovanni scriverà questa bellissima frase: « Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi (ìdioi) che erano nel mondo, Gesù li amò sino alla fine » (13, 1). La frase che chiude la scena del Calvario è, allora, carica di una risonanza ulteriore: Maria e il discepolo non solo avranno la stessa residenza ma saranno in comunione di fede e di amore proprio come il cristiano che accoglie e vive in comunione profonda con la Chiesa, sua madre.
Questa scena del Calvario che abbiamo ora rammentato è ormai nella mente, nel cuore e nella fantasia di tutti, anche perché a partire dal vii secolo la raffigurazione della crocifissione è entrata trionfalmente nell’arte cristiana – prima si preferiva rappresentare solo il Cristo risorto, glorioso coi segni della passione. Anche la scena successiva della deposizione dalla croce ha avuto infinite presentazioni artistiche: chi non conosce la Pietà di Michelangelo della basilica di San Pietro e chi non si commuove di fronte all’altra, meno nota, ma altrettanto straordinaria, Pietà di Michelangelo, quella cosiddetta « Rondanini » del Castello Sforzesco di Milano, in cui il Cristo morto sembra quasi ritornare nel grembo di Maria? Ma è col Settecento che inizia ad avere grande successo la figura della Mater dolorosa, sulla scia della festa della Madonna Addolorata, che si celebra il 15 settembre. Maria è raffigurata col cuore trafitto da sette spade, simbolo del dolore supremo, per evocare quella misteriosa profezia che le aveva indirizzato il vecchio Simeone durante la presentazione di Gesù bambino al Tempio: « Anche a te una spada trafiggerà l’anima » (Luca, 2, 35). È come se simbolicamente la lancia che aveva trafitto il costato del Figlio morto trapassasse ora anche la Madre.
Ed è davanti a questa figura di donna e madre « addolorata », segno e sintesi di tutte le donne e le madri addolorate, che si scioglieranno i canti più noti della pietà cristiana e mariana. Tra queste voci, la più celebre è certamente lo Stabat Mater, il bellissimo lamento attribuito a Jacopone da Todi (xiii secolo) ed entrato anche nella liturgia. Lo si potrebbe ascoltare con tutte le sue appassionate sfumature umane e spirituali in una delle numerosissime rese musicali: da quella del Palestrina (1525-1594), che ne stese due rispettivamente a 8 e a 12 voci, a quella di Alessandro Scarlatti (1660-1725) che scrisse anche due oratori dedicati ai Dolori di Maria sempre Vergine (1703) e alla Vergine addolorata (1717); dallo Stabat Mater che Pergolesi (1710-1736) compose per una confraternita napoletana nel convento cappuccino di Pozzuoli, ove si era ritirato per curarsi la tisi e ove morirà giovanissimo, « un divino poema di dolore », come lo definirà Bellini, a quello sontuoso e laborioso di Rossini che lo iniziò, lo interruppe e lo completò solo anni dopo, nel 1841; da quello mirabile di Verdi (1897) fino a quello, molto suggestivo, del musicista ceco Antonín Dvorák che lo compose a Praga nel 1877, lo propose nel 1880 per dirigerlo di persona con un vero trionfo nel 1884 a Londra.
Ma prima di concludere il nostro viaggio con Maria lungo la Via dolorosa sorge spontanea una domanda: Maria incontra suo Figlio risorto? Negli scritti canonici il Cristo risorto appare a Maria di Magdala, alle donne che accorrono al sepolcro la mattina di Pasqua, agli apostoli, ai due discepoli di Emmaus. Ma su Maria non c’è una sola parola dopo la grande scena del Calvario. La tradizione popolare si è, invece, affidata ancora una volta al terreno piuttosto insicuro degli apocrifi, col citato Vangelo di Gamaliele. Secondo questo testo Maria, prostrata dalla prova, rimane in casa, ed è Giovanni che le riferisce della sepoltura del Cristo. Maria, però, non si rassegna a restare lontana dalla tomba di suo figlio e dice tra le lacrime a Giovanni: « Anche se la tomba di mio figlio fosse l’arca di Noè, io non ne riceverei nessun conforto se non la vedo e vi possa versare sopra le mie lacrime. Giovanni le rispose: Come possiamo andarci? Davanti alla tomba stanno quattro soldati dell’esercito del governatore! (…) La Vergine, però, non si lasciò trattenere e la domenica, di buon mattino, si recò al sepolcro. Giunta di corsa, si guardò intorno e fissò lo sguardo sulla pietra: era stata rotolata via dal sepolcro. Allora esclamò: questo miracolo è avvenuto a favore di mio figlio! Si sporse in avanti, ma non vide all’interno del sepolcro il corpo del figlio. Quando il sole spuntò, mentre il cuore di Maria era abbattuto e triste, si sentì penetrare nella tomba dall’esterno un profumo aromatico: sembrava quello dell’albero della vita. La Vergine si voltò e in piedi, presso un cespuglio di incenso, vide Dio vestito con uno splendido abito di porpora celeste ».
Maria, però, non riconosce in questa figura gloriosa suo figlio e allora inizia un dialogo con l’essere misterioso simile a quello che il vangelo di Giovanni (20, 11-18) riferisce tra Maria Maddalena e il Cristo, scambiato per il custode del cimitero. Alla fine, però, ecco lo scioglimento dell’enigma: « Non smarrirti, Maria, osserva bene il mio volto e convinciti che io sono tuo figlio! Io sono il Gesù che consola la tua tristezza, io sono il Gesù per la cui morte hai pianto, io sono il Gesù per il cui amore hai versato lacrime. Ma ora sono vivo e ti consolo con la mia risurrezione prima di tutti gli altri. Nessuno ha portato via il mio cadavere, ma sono risorto per volere del Padre, o madre mia! Udite queste parole, il cuore della Vergine si colmò di consolazione, cessò di piangere e di essere smarrita ed esclamò: Sei dunque risorto, mio Signore e mio figlio! Felice risurrezione! E si inginocchiò a baciarlo ». Ma non è questa l’unica testimonianza tradizionale dell’incontro del Cristo risorto con sua madre. Ne vogliamo citare un’altra, molto fastosa e solenne, tratta dalla pietà popolare della comunità cristiana d’Egitto, i Copti. Si tratta appunto di un frammento copto del v-vii secolo, traduzione di testi più antichi.
« Il Salvatore apparve sul grande carro del Padre di tutto il mondo e, nella lingua della sua divinità, gridò: Maricha, marima, Thiath! – che significa: « Mariam, madre del Figlio di Dio! ». Mariam ne capiva il senso, perciò si volse e rispose: Rabboní, Kathiath, Thamioth! – che significa: « Figlio di Dio onnipotente, mio Signore e mio figlio! ». Il Salvatore le disse: Salve a te che hai portato la vita a tutto il mondo! Salve, madre mia, mia santa arca, mia città, mia dimora, mio abito di gloria del quale mi sono vestito venendo nel mondo! Salve, mia brocca piena d’acqua santa! (…) Tutto il paradiso gioisce per merito tuo. Ti assicuro, Maria, mia madre: colui che ti ama, ama la vita. Poi il Salvatore aggiunse: Va’ dai miei fratelli e di’ loro che sono risorto dai morti e che andrò al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro (…) Maria disse a suo figlio: Gesù, mio Signore e mio figlio unico, prima di andare nei cieli da tuo Padre, benedicimi perché io sono tua madre, anche se vuoi che io non ti tocchi! E Gesù, vita di tutti noi, le rispose: Tu sarai assisa con me nel mio regno. Il Figlio di Dio si innalzò, allora, sul suo carro di Cherubini mentre miriadi di angeli cantavano: Alleluia! Il Salvatore stese la mano destra e benedisse la Vergine ». A noi che preferiamo stare solo sulla solida base della tradizione neotestamentaria basterà suggellare il nostro itinerario nelle ore della Passione in compagnia di Maria ricorrendo alla nota del capitolo di apertura degli Atti degli Apostoli, quando tutta la comunità cristiana attende il dono dello Spirito, unita attorno a Maria: « Erano tutti assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù, e coi fratelli di lui » (1, 14).

SAN PAOLO APOSTOLO CONTRO L’UTOPIA: … DI GIANFRANCO RAVASI

http://www.gliscritti.it/approf/2008/papers/ravasi220708.htm

SAN PAOLO APOSTOLO CONTRO L’UTOPIA: DAL VANGELO DI GESÙ IL REALISMO POLITICO DINANZI AL POTERE ED ALLA SUA RICHIESTA FISCALE DI GIANFRANCO RAVASI

Ripresentiamo on-line sul nostro sito, per il progetto Portaparola, un articolo di mons.Gianfranco Ravasi apparso su Avvenire del 18 luglio 2008, con il titolo “E Paolo disse: pagate le tasse!”. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line del testo.
Il Centro culturale Gli scritti (19/7/2008)

Paolo non è un teorico puro; anche in una Lettera così densamente teologica com’è quella ai Romani egli lascia spazio nei capitoli 12-16 alla morale, alla prassi pastorale e alle relazioni ecclesiali, nella convinzione che il vero ‘culto logico’ ( loghikè latreia), cioè compiuto nello spirito profondo dell’uomo, sia l’«offrire i nostri corpi come sacrificio vivo, santo, caro a Dio» (Rm 12,1). Detto in altri termini, il vero culto cristiano è quello di presentare al Signore un’offerta esistenziale, ossia la propria vita. L’amore-agape, celebrato in 1 Cor 13, è ora riproposto con intensità come «pienezza della legge» (Rm 13,10).
Noi, però, vorremmo scegliere nelle pagine della Lettera ai Romani un paragrafo a prima vista un po’ stridente con la nostra sensibilità, quello del rapporto con il potere civile. Paolo rivela un lealismo sorprendente nei confronti dell’impero romano, lealismo ribadito anche in altri passi dell’epistolario (1 Tm 2,1-2; Tt 3,1-2; cfr. 1 Pt 2,13-17), in dissonanza con la dura polemica dell’Apocalisse.
È probabile che questa scelta facesse parte di una strategia ‘politica’, seguita anche da Luca negli Atti degli Apostoli, secondo la quale si cercava di impedire che si confondesse la Chiesa con uno dei vari movimenti eversivi antiromani d’Oriente (si pensi agli zeloti ebrei di Palestina o all’editto del 49 con cui l’imperatore Claudio espelleva da Roma molti Ebrei come indesiderati).
Il passo in questione è Romani 13,17 ed è aperto da una dichiarazione di principio: «Ogni persona sia sottomessa alle autorità costituite» (Rm 13,1). Seguono due motivazioni. La prima è teologica e riflette l’antica concezione biblica secondo la quale «non c’è autorità se non sotto Dio e quelle che esistono sono state stabilite da Dio», che è il Signore della storia. Opporsi ad esse è, allora, opporsi a un piano divino tracciato nella vicenda umana (Rm 13,1-2).
La seconda motivazione è di taglio più pratico: l’autorità è deputata al bene comune, osservarne le norme significa assicurare alla società serenità, violarle comporta la punizione «perché non invano essa regge la spada» (Rm 13,3-4).
La conclusione è scontata: «È necessario stare sottomessi, non solo per timore della sua collera ma anche per ragione di coscienza» (Rm 13,5). A questo punto Paolo allega una nota sulla questione fiscale: «Per questo, allora, dovete pagare le tasse, perché coloro che compiono questa funzione sono ministri [leitourgoì] di Dio» (Rm 13,6).
Certo, il discorso risente del tempo, del contesto socio-culturale, delle finalità immediate che l’Apostolo si propone, dell’ottimismo con cui si vede l’impero romano come tutore anche del cristianesimo, in opposizione al giudaismo considerato come ostile e vessatorio. È, quindi, necessaria una corretta interpretazione; essa ci permetterà di riprendere il discorso sul rapporto tra fede e politica già sviluppato da Gesù con il gesto simbolico della moneta di Cesare (Mt 22,15-22).
Sicuro è che Paolo come già Cristo non vuole qui offrire un trattato di morale socio-politica ma tracciare solo una linea di condotta alla Chiesa del I secolo inserita nella struttura imperiale romana. Tuttavia alcune considerazioni di ordine generale possono essere dedotte anche da un brano ‘datato’ com’è questo. L’uso da parte di Paolo del linguaggio giuridico profano, l’angolo di visuale ‘dal basso’ per i rapporti con lo Stato (cioè la morale del cittadino più che quella del politico, come si ha invece in un documento giudaico contemporaneo, la cosiddetta Lettera di Aristea), la concretezza degli impegni richiesti vogliono coinvolgere il cristiano nella realtà della vita civica.
In tal modo, come ha fatto notare il teologo Ernst Käsemann, Paolo intende forse opporsi all’esaltazione eccitata di quei cristiani che, per una falsa emancipazione spiritualistica, si ritenevano già cittadini del Regno dei cieli e quindi rifiutavano ogni impegno all’interno delle strutture istituzionali storiche (più o meno come si comportano oggi certi gruppi o sette o movimenti apocalittici).
Il cristiano, invece, deve partecipare con realismo alla vita sociale e politica senza fughe in verticale e senza decollare verso cieli mitici o mistici. Un’ulteriore osservazione di tipo ‘contestuale’ ci condurrebbe a un altro dato interessante. In queste righe l’Apostolo, opponendosi all’orientamento della letteratura apocalittica, ricusa ogni concezione solo demoniaca del potere. Esso, certo, comporta rischi gravi di degenerazione, può divenire idolatrico, come accadeva nel culto imperiale o nell’assolutizzazione della ragion di stato, ma può anche partecipare al progetto di Dio sulla storia quando si impegna per il bene comune.
Il cristiano dev’essere, dunque, disponibile, con genuino spirito di collaborazione nei confronti di tutto ciò che l’autorità statale anche atea/pagana (si ricordi che, quando Paolo scriveva, imperatore a Roma era Nerone) esige per il bene civico. Un capitolo speciale e importante è, al riguardo, quello delle tasse. L’evasione fiscale è chiaramente bollata da Paolo: «Rendete a ciascuno il dovuto: a chi il tributo il tributo, a chi le tasse le tasse…» (Rm 13,7).
Ma vorremmo aggiungere un’altra considerazione. Per l’Apostolo il rapporto con lo Stato non è solo una questione giuridica estrinseca, è anche un problema di coscienza e, come tale, tocca la morale cristiana. Il civismo, la correttezza fiscale, i doveri sociali sono altrettanti capitoli dell’impegno etico del credente. Anzi, come è stato notato da Ulrich Wilckens in un suo saggio sul brano paolino, la trascrizione ‘attualizzata’ e aggiornata degli impegni proposti in questo paragrafo secondo la sensibilità moderna comporterebbe maggiori esigenze rispetto all’antico contesto: supporrebbe, infatti, partecipazione responsabile, cooperazione sociale, attenzione critica, solidarietà e uno spiccato senso democratico e civico.
Siamo, perciò, davanti a un testo che non dev’essere, certo, assunto in modo fondamentalistico come avallo sacrale del potere. Esso è aperto a nuove incarnazioni secondo le moderne istanze del diritto, della politica sociale, della giustizia, dell’obiezione di coscienza e così via. Una pagina da trascrivere, dunque, partendo, però, dalla convinzione che il rapporto del credente con lo Stato è anche una questione autenticamente cristiana.

Publié dans:Card. Gianfranco Ravasi, UTOPIA (L') |on 7 février, 2017 |Pas de commentaires »

LA LETTERA AGLI EFESINI DI SAN PAOLO – IL PROFONDO MISTERO DELLA SALVEZZA IN CRISTO – RAVASI

http://www.parrocchie.it/calenzano/santamariadellegrazie/Anno%20Pastrorale.htm#vita

LA LETTERA AGLI EFESINI DI SAN PAOLO – IL PROFONDO MISTERO DELLA SALVEZZA IN CRISTO – RAVASI

In alcuni importanti codici antichi, che ci hanno trasmesso le sacre Scritture, nell’indirizzo iniziale di questa lettera manca l’indicazione « a Efeso », per cui si è pensato che essa sia stata originariamente una missiva destinata alle varie Chiese dell’Asia Minore costiera, che avevano il loro centro più significativo nella splendida città di Efeso. Certo è che la lettera si rivela profondamente originale nel linguaggio e nei temi, tanto da far ipotizzare a molti studiosi che essa sia opera di una mano diversa rispetto a quella di Paolo, forse un discepolo che conduce oltre il discorso del maestro. Questo naturalmente non intaccherebbe l’ispirazione e quindi l’appartenenza al Canone biblico della lettera che, tra l’altro, è molto vicina a quella ai Colossesi (probabilmente conosciuta e citata).
Comunque sia, la lettera, che consigliamo vivamente a tutti di leggere, è particolarmente densa e ricca di temi e si rivela nettamente divisa in due parti: i primi tre capitoli affrontano i grandi argomenti teologici, mentre i capitoli 4-6 sono dedicati a illustrare l’impegno morale del cristiano nella sua vita di fede. L’accento è posto su due motivi teologici capitali. Da un lato, si apre una profonda riflessione sulla figura di Cristo, presentato come Signore di tutto l’essere creato e non solo della Chiesa, e cantato in un solenne inno-benedizione posto proprio in apertura alla lettera (1,3-14).
Gesù Cristo è, d’altro lato, alla radice del secondo motivo teologico, quello della Chiesa, che è costituita da Giudei e pagani ornai uniti in un solo corpo che è quello di Cristo, nel quale, però, diversamente da quanto già detto nella prima lettera ai Corinzi (capitolo 12), egli ha la funzione di essere il « capo » (1,22). L’unità di questo corpo, nel quale si manifesta la pienezza della divinità, è operata da Cristo stesso « nostra pace », che ha riconciliato i due popoli separati, Ebrei e pagani, in un solo popolo attraverso il suo sangue (2,14-22). E questa la Chiesa, che dall’apostolo viene presentata come « tempio santo nel Signore » (2,21).
Vivace è anche la parte pastorale della lettera ove, tra l’altro, viene disegnato un « codice » dei doveri familiari (5,21-6,9), che ha al suo interno una suggestiva presentazione del matrimonio cristiano, come grande segno dell’unione vitale tra Cristo e la Chiesa. Uno scritto, quindi, ricco sul piano del « mistero » divino, che è rivelato da Gesù Cristo e che comprende la salvezza di tutti, inclusi i pagani, e sul piano della vita cristiana da condurre in pienezza, come creature che hanno « deposto l’uomo vecchio » per « rivestire l’uomo nuovo » (4,22-24).

IL PROFONDO MISTERO DELLA SALVEZZA IN CRISTO
(di Mons. G. Ravasi)
1
Brevi sono il saluto e l’augurio di apertura di questa lettera. Ben più solenne è, invece, la benedizione iniziale, che ha l’andatura di un inno e si presenta come uno splendido abbozzo del disegno di salvezza rivelato e attuato in Cristo. Dall’orizzonte celeste, cioè dal mistero trascendente di Dio, scendono le benedizioni “spirituali”, cioè i doni di santità che trasformano i credenti. Si delinea, così, l’itinerario a cui essi sono chiamati all’interno del progetto di Dio: prima ancora della loro esistenza, Dio li aveva scelti e destinati a divenire figli adottivi attraverso Cristo; tutto questo avrebbe realizzato la piena gloria di Dio che si compie nel suo donarsi all’umanità, nel suo amore rivelato in Gesù, il Figlio «Prediletto». La salvezza dell’uomo è, quindi, la gioia, la lode, la gloria più alta di Dio.
E questa salvezza si attua attraverso la morte di Gesù, sorgente della redenzione, del perdono e della grazia effusa nell’umanità. Noi conosciamo, dunque, «il mistero della volontà» divina perché non solo ci è stato rivelato, ma anche perché lo viviamo all’interno della storia. Infatti, la «pienezza dei tempi» è l’ingresso di Cristo nel mondo per trasformare la realtà umana secondo il disegno prestabilito fin dall’eternità da Dio. Tutti noi siamo “ricondotti” in Cristo insieme con l’intero universo creato: l’immagine usata rimanda al «capo» che tiene coeso il corpo. Ogni realtà è destinata a trovare senso e unità in Cristo, costituito da Dio come capo unico e universale.
È interessante notare come Paolo in questa visione grandiosa della salvezza sottolinei un aspetto che gli sta a cuore. In 1,11-13 distingue, infatti, due pronomi: da un lato, c’è il «noi», i primi eredi della promessa divina, cioè gli Ebrei, coloro che hanno alimentato la speranza messianica prima della venuta di Cristo; d’altro lato, c’è il «voi», cioè l’orizzonte dei pagani, che hanno ascoltato e accolto nella fede «la parola della verità», il vangelo, e così sono stati consacrati dallo Spirito Santo. L’apostolo passa poi a un ringraziamento per la fede e l’amore testimoniato dai cristiani di Efeso, ai quali augura di ottenere una pienezza nella conoscenza del mistero di salvezza, che ha al centro la risurrezione di Cristo. Essa è cantata in 1,20-23 in una specie di professione di fede di tono innico, dalla quale emerge la figura del Risorto che è il Signore di tutto l’universo e di tutte le sue energie, ma che è anche il capo di quel corpo che è la Chiesa.

DALLA MORTE ALLA VITA PER ESSERE UNA COSA SOLA IN CRISTO
2
Nel capitolo 2, continuando l’intreccio dei due pronomi «noi» e «voi», si esalta la redenzione operata da Cristo per l’umanità peccatrice, sia ebraica sia pagana. L’amore misericordioso di Dio ci ha strappato a Satana, «il principe delle potenze dell’aria», e ci ha fatto partecipare alla stessa vita di Cristo attraverso l’esperienza battesimale che ci ha condotto alla gloria della risurrezione. La salvezza è, quindi, non solo liberazione dal male, ma anche intimità, comunione, partecipazione alla vita divina.
In un linguaggio tipicamente paolino si ribadisce la vicenda della salvezza, che è dono della grazia divina a chi risponde con la fede, e che non è frutto delle opere umane. La centralità di Cristo è ribadita in una pagina di grande intensità, che ha in qualche sua parte un’andatura innica e lirica. Il tema fondamentale della salvezza è considerato secondo un’angolatura che è già stata adottata precedentemente: con la sua morte in croce, Cristo ha costituito un’unica comunità, cancellando le divisioni tra i circoncisi e coloro che erano «stranieri ai patti della promessa», cioè tra Ebrei e pagani. Cristo è, allora, definito come la «pace» per eccellenza, che, nella tradizione biblica, era il tipico dono messianico (Isaia 9,5; Michea 5,4).
Egli ha abbattuto le barriere che dividevano questi due popoli: «il muro di separazione» a cui Paolo fa riferimento potrebbe alludere sia alla legge mosaica sia al setto divisorio posto tra il cortile degli Ebrei e quello dei pagani nel tempio erodiano di Gerusalemme, parete invalicabile, pena la condanna a morte. Cristo ha anche eliminato le osservanze legali che caratterizzavano la religiosità giudaica, e ha fatto sì che tutti si ritrovassero uniti, i vicini e i lontani (vedi Isaia 57,19 e Zaccaria 9,10), destinati a costituire un solo corpo, a essere concittadini e familiari di Dio, appartenenti alla stessa comunità che è la Chiesa, la famiglia di Dio. Tutti costituiscono un tempio vivo, che ha la sua pietra angolare in Cristo e il basamento negli apostoli e nei profeti, cioè negli annunciatori del vangelo (vedi 1Corinzi 3,10-11.16). La rappresentazione di questa unità generata dalla croce di Cristo è preziosa per definire la missione di Paolo aperta ai pagani.

PAOLO, APOSTOLO DEL MISTERO DI CRISTO3
Egli, infatti, è stato chiamato da Dio proprio a svelare il «mistero di Cristo» che ha nel suo cuore la salvezza universale: «I pagani sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e a essere partecipi della promessa» (3,6), cioè a fruire della dignità donata al popolo ebraico e, così, a costituire l’unico popolo di Dio che è la Chiesa, corpo di Cristo. A questo annunzio l’apostolo ha dedicato se stesso perché il disegno divino, che era celato nel mistero, venisse reso noto a tutti, anche alle potenze cosmiche e celesti, e attuato nella storia.
A questo punto Paolo rivolge un’appassionata preghiera a Dio Padre, creatore di tutti gli esseri, perché trasformi la coscienza dei cristiani così da giungere alla piena maturità della fede e dell’amore. Potranno allora scoprire il cuore profondo del mistero divino, che è l’infinito amore di Dio offerto a noi in Cristo, un amore che ci avvolge conducendoci alla pienezza, un amore totale che abbraccia tutto l’essere, rappresentato secondo le quattro dimensioni sotto le quali la tradizione popolare concepiva la realtà: ampiezza, lunghezza, altezza e profondità. Con un’acclamazione di lode finale a Dio Padre (3,20-21) si chiude la prima parte della lettera.

LE ESIGENZE DELLA VITA CRISTIANA4
Con il capitolo 4 si apre una seconda parte della lettera, di taglio più esistenziale: si intende delineare un profilo della vita cristiana, fondata sull’unità di tutti i credenti nell’unico corpo di Cristo. Si ha innanzitutto un appello a riscoprire questa «unità dello spirito», rafforzata dal «legame della pace», ricordando la sua sorgente, cioè l’unico Dio che agisce in tutti, l’unico Cristo Signore e Salvatore, l’unica fede e l’unico battesimo. Se tutti hanno ricevuto la grazia, ciascuno la manifesta secondo forme diverse che sono espressioni dei doni divini effusi dal Cristo risorto (si cita nel versetto 8 il Salmo 68,19 in modo libero, applicandolo all’ascensione e alla glorificazione celeste di Cristo).
Paolo elenca cinque doni spirituali che costituiscono altrettanti ministeri destinati a condurre alla maturità cristiana tutta la comunità dei credenti: apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri. Ma il modello che tutti dobbiamo tenere davanti agli occhi per raggiungere la maturità della fede è Cristo stesso, che è la pienezza per eccellenza. Solo con questa meta passiamo dall’infanzia, che è ancora debolezza e immaturità, alla maturità. E la via per raggiungere questa completezza spirituale è la «verità nell’amore». Solo così si configura il corpo di Cristo nella sua armonia e nella sua perfetta compagine. Si presenta in questa pagina il tema del corpo di Cristo che è la Chiesa in un modo lievemente differente rispetto a 1Corinzi 12. Là, infatti, la Chiesa era il corpo di Cristo in modo globale; qui si dice che Cristo è il capo e i cristiani sono il corpo. Comune è, però, il rilievo dato all’amore come anima dell’intero organismo.
Si passa poi a una riflessione sull’esperienza battesimale vissuta dai fedeli. Essa è stata una svolta radicale che ha totalmente mutato la realtà dell’uomo. Il battezzato, infatti, deve lasciare alle spalle «l’uomo vecchio», con la sua miseria e il suo peccato, e deve rivestire la qualità di «uomo nuovo», che è il profilo voluto da Dio creatore e che è la condizione umana inaugurata e attuata dalla morte e risurrezione di Cristo. Il tema delle due creature, la vecchia e la nuova, la peccatrice e la redenta, era già apparso in Romani 6,4-6, in 2Corinzi 5,17 e riapparirà in Colossesi 3,10.
Questo mutamento radicale che si è compiuto nel cristiano deve generare un differente comportamento morale, che la lettera esemplifica in alcuni impegni che rimandano al Decalogo e a moniti presenti già nell’Antico Testamento. Si citano, infatti, Zaccaria 8,16 sull’impegno di servire la verità e il Salmo 4,5 per quanto riguarda l’ira; ma si evoca anche il «non rubare», il «non pronunziare falsa testimonianza» del Decalogo e l’esortazione, frequente nella Bibbia, a combattere il peccato di parola. In particolare, in questa che è una nuova lista di vizi da evitare, si sottolinea l’importanza dell’amore e della concordia fraterna, la cui assenza rattrista lo Spirito Santo che è effuso in noi.

IL COMPORTAMENTO DEL CRISTIANO5
L’amore è, infatti, il cuore della morale cristiana. Il modello ideale è Cristo, che si è donato a noi attraverso la morte in croce, definita come «sacrificio di soave odore», cioè come una vittima sacrificale gradita a Dio e capace di cancellare ogni peccato (per l’espressione usata, tipica dell’Antico Testamento, vedi Genesi 8,21; Esodo 29,18; Salmo 40,7). Il cristiano, purificato da questo atto d’amore divino, deve abbandonare lo stile di vita precedente, che l’apostolo illustra attraverso alcuni vizi emblematici del paganesimo come volgarità, impurità, idolatria. Queste realtà impediscono il legame con Cristo e quindi con la vera vita e la luce. Si ricorre, infatti, alla tradizionale opposizione ­ cara anche al giudaismo ­ tra tenebra e luce, come simboli di due stati di vita antitetici.
I cristiani nel battesimo sono stati illuminati da Cristo e, perciò, dalla tenebra sono divenuti «luce nel Signore» (vedi 1Tessalonicesi 5,4; Romani 13,12; Colossesi 1,12-13). Come conferma si cita un frammento di inno battesimale presentato quasi come fosse una parola biblica («sta scritto» è la formula introduttoria alle citazioni bibliche): immersi nelle tenebre del sonno e della morte, noi siamo risorti e abbagliati dalla luce di Cristo. Si precisa, allora, come dev’essere la vita dei figli della luce. Paolo segnala due atteggiamenti fondamentali.

Da un lato, bisogna fare buon uso del tempo, cioè di questa èra di salvezza in cui ci ha introdotto la Pasqua di Cristo. In essa bisogna scorgere e seguire la volontà di Dio, che ci conduce alla pienezza della vita. D’altro lato, è necessario lasciare spazio allo Spirito che trasforma l’esistenza del credente in un canto di lode e ringraziamento a Dio. Il discorso si fa ora ancor più concreto e si delinea una specie di tavola dei doveri della vita familiare (vedi anche Colossesi 3,18-4,1). Si devono, però, notare due differenze rispetto ai paralleli del mondo giudaico e greco-romano: si sottolinea la reciprocità dei doveri degli sposi, nonostante il contesto maschilista in cui l’apostolo viveva (che pure lascia qualche traccia); inoltre, Gesù Cristo diventa il riferimento fondamentale su cui vivere l’esperienza d’amore, essendo egli la fonte della carità.
È per questo che la considerazione sui doveri dei mariti verso le mogli si trasforma in una catechesi sul rapporto tra Cristo e la Chiesa, sua sposa, purificata attraverso il lavacro battesimale. Il matrimonio diventa, perciò, simbolo dell’unione tra Cristo e la Chiesa, il “grande mistero”, come lo chiama Paolo, cioè il mirabile disegno salvifico di Dio. L’uso dell’immagine nuziale per rappresentare la relazione tra Dio e Israele era già stato praticato dall’Antico Testamento (vedi, ad esempio, Osea 1-3). Ora il matrimonio cristiano ­ illustrato sulla base di Genesi 2,24 ­ diventa segno della nuova alleanza ed è in questa luce che il passo è stato letto come la base della visione sacramentale dell’unione matrimoniale cristiana.

ALTRE ESORTAZIONI E SALUTO
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Dal rapporto tra i coniugi la “tavola” dei doveri familiari delineata dall’apostolo passa a quello tra i figli e i genitori, con un rimando esplicito al comandamento, presente nel Decalogo (Esodo 20,12), di onorare il padre e la madre. Tuttavia anche in questo caso si esalta la reciprocità: i genitori devono educare i loro figli senza esasperarli. Si riserva poi spazio al settore delle relazioni tra schiavi e padroni. È un’esortazione che risente del contesto storico in cui vive la Chiesa delle origini. Ma c’è una sottolineatura nuova e significativa. Da un lato, lo schiavo deve compiere il suo lavoro con onestà, consapevole che ogni azione del cristiano ha un valore agli occhi di Dio. Dall’altro lato, i padroni devono comportarsi senza violenze o minacce, perché c’è sopra di loro un Signore di tutti che non guarda allo stato sociale o di privilegio, ma giudica ognuno con giustizia.
Conclusa la “tavola” degli impegni del cristiano nella famiglia e nella società, la lettera si avvia alla fine con un’ampia esortazione ad affrontare con decisione la lotta spirituale contro il male, che insidia la vita del credente. Paolo fa esplicito riferimento al diavolo e alle forze oscure che dominano la storia. Egli le denomina secondo il linguaggio apocalittico come principati, potenze, dominatori del mondo tenebroso in cui siamo immersi, e spiriti del male che, invece, trascendono il nostro orizzonte terreno. Si ricorre, così, alla simbologia marziale dell’armatura da indossare. Anche Dio nell’Antico Testamento era raffigurato come un guerriero che si schierava, con il suo re-Messia, a difesa del bene e dei giusti contro l’assalto del male (Isaia 11,4-5; 59,16-18; Sapienza 5,17-23).
Le armi del cristiano sono la verità come cintura, la giustizia come corazza, le calzature per annunziare il vangelo, la fede come scudo, la salvezza come elmo, lo Spirito e la parola di Dio come spada (vedi anche 1Tessalonicesi 5,8). La lotta spirituale dev’essere sostenuta dalla preghiera allo Spirito Santo, perché sia vicino a tutti coloro che annunziano il vangelo. Paolo si colloca tra costoro ed è presentato dalla lettera «ambasciatore in catene» del messaggio di Gesù: anche se non si è certi su questa carcerazione (quella romana o un’antecedente prigionia, forse efesina), è sulla base di questa nota che si colloca lo scritto agli Efesini tra le cosiddette “lettere dalla cattività” (o prigionia).
La lettera è chiusa da un intenso saluto. Al suo interno c’è una particolare esaltazione dell’amore «incorruttibile» che deve unire il cristiano al suo Signore. Prima, però, si fa riferimento a un collaboratore dell’apostolo di nome Tichico, inviato come delegato di Paolo. Egli espleterà la stessa missione anche nei confronti dei cristiani di Colosse (Colossesi 4,7): era, perciò, un rappresentante dell’apostolo nell’area dell’Asia Minore o almeno in alcuni ambiti di essa, nei quali egli comunicava ufficialmente notizie e messaggi paolini.

Paolo
Apostolo di Gesù Cristo e delle Genti, ieri e oggi
Quando appare sul quadrante della nostra storia, Saulo, o con il nome latino Paolo, ha circa 30 anni.
Cartina geograficaA mezzogiorno. Sulla via che va da Gerusalemme in Giudea a Damasco in Siria (240 km circa). Giovane dottore in Legge, zelante difensore delle tradizioni dei padri nella fede, su quella via di Damasco insegue successo e gloria.
Si, quel giorno sognato e atteso doveva segnare sull’agenda personale una specie di solenne collaudo del suo primo nome, Sha-ù-l o Saulos (At 7,58). Nome semitico che significa ‘invocato con preghiere, desiderato ‘ e che lo faceva sentire importante nella storia del suo popolo: Sha-ù-l era il nome del primo grande re d’Israele!
« Io sono un giudeo, nato a Tarso, in Cilicia, educato nella città di Gerusalemme, istruito ai piedi di Gamaliele nelle rigorosa osservanza della legge dei padri, pieno di zelo per Dio… »(Atti degli Apostoli, capitolo 22).
Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo, quando ero nel Giudaismo: come perseguitavo la Chiesa di Dio, accanito com’ero nel difendere le tradizioni dei padri… Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò a sé con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo, perché io lo annunziassi ai pagani, io subito andai in Arabía… poi tornai a Damasco… Dopo tre anni salii a Gerusalemme a consultare Cefa… Personalmente ero sconosciuto alle chiese della Giudea che sono in Cristo: avevano solo sentito dire: « colui che un tempo ci perseguitava adesso annuncia quella fede che allora cercava di distruggere », e glorificavano Dio a causa mia. (lettera ai cristiani della Galazia, capitolo 1,13-24)Paolo prigioniero per Cristo, dipinto di Rembrant
Messo a ko sul ring della via di Damasco da Gesù di Nazaret, Colui che egli considerava il suo più grande rivale, tutta l’esistenza di Saulo si qualifica ormai in prima e dopo Damasco. E per amore di Gesù ‘il mio Signore’ diventa volontariamente il più piccolo colui che, per amore di se stesso, mirava con tutto l’essere a diventare il più grande
A me, il più piccolo di tutti (= paulissimus!) è stata concessa questa grazia: di annunziare a tutte le genti la straordinaria ricchezza che è Cristo Gesù. (Lettera ai cristiani di Efeso 3,8; vedi Lettera ai cristiani di Filippi 3).

conoscenza umana. la sua grazia sia su tutti coloro che lo cercano con amore.

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