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LA SOFFERENZA NELLA BIBBIA – di GIANFRANCO RAVASI

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LA SOFFERENZA NELLA BIBBIA

Il dolore umano resta invalicabile. La ragione ne comprende alcuni aspetti, ma non tutti i varchi le sono aperti. La Bibbia insegna che la sofferenza dell’uomo è un mistero che fa parte di un piano trascendentale, del quale possiamo intuire la coerenza generale. Un’ampia porzione del male, diffuso nel mondo, è riconducibile alla libertà e quindi al comportamento di chi possiede il libero arbitrio. Il dolore dell’umanità costringe ciascun uomo a porsi un forte interrogativo sull’egoismo, le prevaricazioni, le ingiustizie messe in atto a danno di altre persone. Al contrario, sostenere il sofferente, anche senza cancellare pienamente il suo dolore, significa continuare l’opera di Cristo.

BIBBIA E SOFFERENZA

LA ROCCIA DA SCALARE

di GIANFRANCO RAVASI

«Perché soffro? È questa la roccia dell’ateismo». La famosa battuta del dramma La morte di Danton (1835) di George Buchner, uno dei più intensi scrittori dell’Ottocento tedesco, riassume in modo folgorante uno dei due approdi antitetici a cui conduce l’esperienza del dolore, in particolare del dolore innocente. Chi non ricorda quel passo dei Fratelli Karamazov ove Dostoevskij s’interroga: «Se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l’armonia eterna, che c’entrano i bambini? È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocchi pure a loro comprare l’armonia con la sofferenza?».
Per millenni l’umanità ha cercato di scalare o spianare quella roccia. Già l’antica sapienza egizia registra la sconfitta della ragione con le emozionanti righe del « Papiro di Berlino 3024″ (2200 a.C.), significativamente intitolato dagli studiosi Dialogo di un suicida con la sua anima, dialogo che ha come approdo solo la morte vista come liberazione, guarigione, profumo di mirra, brezza dolce della sera, fior di loto che sboccia. L’accanimento della teodicea, cioè del tentativo di difendere Dio dall’attacco dell’ »ateismo » che fa leva sul proprio dolore, ha dovuto sempre confrontarsi con le alternative lapidarie del filosofo greco Epicuro, così come ce le ha trasmesse lo scrittore cristiano Lattanzio nella sua opera De ira Dei (capitolo 13): «Se Dio vuol togliere il male e non può, allora è impotente. Se può e non vuole, allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può, perché allora esiste il male e non viene eliminato da lui?».
È proprio attorno a questi dilemmi e soprattutto quando si entra nella ragione tenebrosa della sofferenza personale che si celebrano le apostasie, come affermava il pensatore agnostico francese Jean Cotureau: «Non credo in Dio. Se Dio esistesse, sarebbe il male in persona. Preferisco negarlo piuttosto che addossargli la responsabilità del male». E proprio per difendere Dio da questa accusa infamante, si è fatto di tutto nella storia dell’umanità, ricorrendo appunto a quella teodicea a cui sopra si accennava, percorrendo le strade più disparate, talvolta quasi impraticabili. Si è, così, ricorso al dualismo, introducendo – accanto al Dio buono e giusto – un’altra divinità negativa e ostile, un Dio del male (pensiamo, a titolo esemplificativo, al manicheismo e a tante forme apocalittiche estremiste). Si è appellato alla cosiddetta « teoria della retribuzione », per altro ben attestata anche nella Bibbia, come vedremo: il binomio delitto-castigo ci invita a scoprire in ogni dolore un’espiazione di colpa, se non personale, almeno altrui (e così si cercherebbe di giustificare anche la sofferenza dell’innocente).
Per altri sarebbe, invece, da imboccare la via pessimistica radicale: la realtà è strutturalmente negativa proprio per il suo limite creaturale (da spiegare sarebbe eventualmente la felicità o il bene quando si presentano nella vita!). Nel Mito di Sisifo (1942) lo scrittore francese Albert Camus osservava: «C’è un solo problema importante per la filosofia, il suicidio. Decidere, cioè, se metta conto di vivere o no». Per contrasto, non è mancata anche una lettura ottimistica altrettanto radicale della realtà per cui il male è solo un non-essere, un dato concettuale, un’apparenza da superare scoprendo la serenità profonda dell’essere. In questa luce si pongono le visioni panteistiche come lo stoicismo greco-romano o il brahmanesimo indiano per il quale il male è solo maya, cioè « illusione ». In questa linea si collocano anche certe concezioni evoluzionistiche che considerano il dolore come il residuato di un mondo ancora imperfetto e in costruzione. Le energie cosmiche e il progresso umano sono la via da percorrere per la graduale eliminazione di ogni negatività.

Giobbe, l’impaziente
La cittadella fortificata del dolore, comunque, rimane non del tutto valicabile dalla ragione umana, anche se in essa possono aprirsi brecce e varchi. Il suo centro ultimo, come insegna la Bibbia che ora interrogheremo su questo tema, può essere chiuso e non necessariamente nell’assurdo, ma anche nel « mistero » di un progetto metarazionale e trascendente del quale possiamo al massimo intuirne una coerenza generale. C’è, però, un dato preliminare rilevante: un’ampia porzione del male diffuso nel mondo è riconducibile alla libertà e quindi al peccato dell’uomo. È, allora, necessario partire con l’esame di coscienza ideale che è proposto da Genesi 2-3 ove è protagonista appunto ha-adam, in ebraico « l’uomo » di tutti i tempi e di tutte le regioni del mondo. Al progetto di armonia con Dio, con la natura e con il suo simile, descritto come desiderio del Creatore nel capitolo 2, egli, nella sua libertà, decide di opporre un progetto alternativo di alienazione, violenza, sopraffazione, imperialismo (si vedano il capitolo 3 e la storia successiva di Caino, del diluvio e di Babele).
Il dolore dell’umanità, allora, in molti casi, prima di appellare al mistero dell’agire divino, deve trasformarsi in un atto di accusa che l’uomo lancia contro il proprio agire immorale. Prima di gridare a Dio protestando perché lascia morire di fame o senza cure molti bambini o ne fa nascere altri deformi, l’uomo deve interrogare il suo egoismo, le sue prevaricazioni, la sua politica, le sue oppressioni e ingiustizie, la sua scienza distruttrice.
Detto questo, bisogna però riconoscere che c’è – per usare un’espressione del commento a « Giobbe » del filosofo francese Philippe Nemo – un « eccesso di male » che deborda dall’azione e dalla responsabilità umana. È appunto il « libro di Giobbe » a porre sul tappeto questa interrogazione per ragioni strettamente teologiche, cioè per scoprire il vero volto di Dio. Infatti, il testo di Giobbe – equivocato come simbolo di pazienza (cfr. Gc 5,11) – è una ricerca lacerante della genuina realtà divina che nel dolore appare in modo scandalosamente sconcertante: «La rabbia di Dio mi perseguita per dilaniarmi, contro di me digrigna i denti, contro di me il mio nemico affila gli occhi. Ero sereno e lui mi ha stritolato, mi ha afferrato per la nuca e mi ha sfondato il cranio, ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri prendono la mira su di me, senza pietà trafigge i reni, per terra versa il mio fiele, infierisce su di me come un generale trionfatore» (Gb 16,9.12-14). Dio, quando si ha la pelle torturata dal dolore, non è visto come un padre, ma come un imperatore trionfatore, come un arciere sadico che trafigge l’uomo senza pietà. In quei momenti l’unica preghiera è solo una domanda di tregua: «Quando la finirai di spiarmi e mi lascerai inghiottire la saliva?» (7,19). «Inghiottire la saliva» è un curioso modo orientale per indicare un istante di respiro e di tregua.
Per l’uomo tormentato dalla sofferenza l’unico spiraglio liberatore sembra essere la morte: «Se devo sperare, è solo l’Ade la mia casa, nelle tenebre stenderò il mio giaciglio. Al sepolcro io grido: Padre mio sei tu! Ai vermi: Madre mia, sorelle mie!» (17,13-14). Giobbe nel dolore si spoglia di qualsiasi appoggio umano e spirituale. Il suo itinerario è quello della fede pura e nuda, priva di facili appoggi, lontana dagli schemi freddi che gli amici teologi gli oppongono per spiegare il mistero del male. Ed è proprio attraverso la povertà assoluta del soffrire che Giobbe giunge al vero Dio. Verso di lui l’uomo apre un’offensiva processuale per farlo deporre in un’ideale assise giudiziaria perché giustifichi il suo strano infierire sull’uomo: «Ecco qui la mia firma. L’Onnipotente mi risponda! Il mio Rivale scriva il suo protocollo! Sono pronto a rendergli conto di tutti i miei passi; come un principe, mi presento davanti a lui» (31,35.37).
E sorprendentemente Dio accetta di fare la sua deposizione, imboccando la via del dialogo. Il Signore pronunzia due discorsi monumentali, che sono anche le pagine poeticamente più alte del libro. Da quelle strofe grandiose emerge il mondo delle meraviglie cosmiche (terra, mare, astri, costellazioni, aurore, leoni, ibis, gazzelle, struzzi, bufali, cavalli, camosci), ma anche tutta la sfera delle energie caotiche e negative che attentano allo splendore della creazione, energie personificate nei due mostri simbolici Behemot e Leviatan (capitoli 38-41). Giobbe è un pellegrino stupito tra questi misteri, di cui egli non sa sondare che qualche particella microscopica mentre Dio li percorre totalmente con la sua onniscienza e onnipotenza.
Giobbe, allora, comprende che, accanto alla piccola logica dell’uomo che riesce solo a comprendere e a sistemare piccoli frammenti della realtà e che quindi ha ragione di trovarsi a disagio di fronte al male, esiste un grande e superiore « progetto » di Dio, infinitamente più completo e invalicabile ai nostri piccoli schemi. Questo progetto divino è capace di collocare al suo interno anche gli aspetti che a noi risultano debordanti o inutili o dannosi. Gli amici di Giobbe si illudevano, come molti « consolatori », di conoscere questo progetto identificandolo con le loro facili spiegazioni teologiche, soprattutto con la già menzionata teoria della retribuzione per cui ogni dolore è generato da una colpa. Ma la realtà li smentiva, come smentiva anche Giobbe, quando credeva che non esistesse nessuna via per sistemare la sofferenza nell’arco della storia della salvezza. Il dolore non è, quindi, spiegato a Giobbe ma, incontrando il vero Dio, Giobbe comprende che il Dio infinito e sapiente potrà inquadrarlo nel suo supremo disegno di salvezza. Solo così Giobbe si abbandona alla mano divina.

Una teologia del dolore
Con Giobbe, dunque, si passa da un’antropologia della sofferenza a una vera e propria teologia. Egli è fermamente convinto che, proprio perché « mistero » terribile e supremo, la realtà del dolore non può essere « razionalizzata », addomesticata attraverso un facile teorema teologico. Il male e il dolore urlano con tutta la loro forza contro la mente dell’uomo. Ma il poeta biblico è altrettanto fermamente convinto che esiste una ’esah, una « razionalità » da mistero, cioè superiore e totalizzante, quella di Dio: essa riesce a collocare in un progetto ciò che per l’uomo sembra invece debordare da ogni progetto. E Giobbe, allora, resta contemporaneamente teso verso la disperazione e la bestemmia a cui lo conduce « logicamente » la sua intelligenza e verso la speranza e l’inno di lode a cui lo conduce la sua autentica fede.
In questa stessa linea nettamente teologica – che corre accanto a quella più « filosofica » della retribuzione, della sofferenza come catarsi e pedagogia dell’uomo (così l’ultimo amico di Giobbe, Elihu), del limite creaturale (Qohelet) – si colloca la figura del Servo sofferente del Signore cantato da Isaia in quattro carmi (capitoli 42; 49; 50; 53), figura riletta in chiave messianica dal cristianesimo. Noi seguiremo ora il fondamentale quarto canto del Servo del Signore (Is 52,13-53,12). Egli nasce come un virgulto in un deserto solitario, ma cresce e si configura come un essere «disprezzato, reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire». Ma quella sofferenza non è frutto della punizione di una colpa, come insegnava la citata tesi della retribuzione legata al binomio « delitto-castigo ». È il peccato degli altri che viene espiato da quel giusto. Il suo dolore è salutare per noi tutti, dà salvezza e pace, genera in noi pentimento e perdono.
«Egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo stati guariti» (versetti 4-5). La sua donazione è totale e docile come quella dell’agnello sacrificale che vede irrompere su di sé la spada del sacerdote. E ciò che attende il Servo è ormai la morte e la sepoltura, sigillo di una vita di dolore e di disprezzo. Anche se il suo cadavere è buttato nella fossa dei perversi, una lapide ideale è posta sulla sua tomba: «Non ha commesso violenza, non ci fu inganno nelle sue parole» (versetto 9). Ma la morte non è la foce definitiva verso cui corre la vita del Servo. Anzi, la morte fa fiorire il mistero di fecondità che quel virgulto conteneva. Ora il Servo giusto contempla la luce, si sazia nella dolcezza della gloria che è il vedere Dio. «Il giusto mio servo giustificherà molti, si addosserà la loro iniquità» (versetto 11). La cornice conclusiva del carme ribalta la vicenda e presenta l’innocenza del Servo, la cui sofferenza espiatrice ha liberato gli uomini peccatori.
La sua vita, passione e morte sono state sacrificio espiatorio per noi, il suo silenzio è stato orazione esaudita, il suo dolore è stato la nostra giustificazione e riconciliazione con Dio. Per questa pagina del Secondo Isaia, allora, il dolore ha in sé una forza insospettata, una fecondità straordinaria che aiuta il compiersi della storia della salvezza. Per vie misteriose il soffrire unisce intimamente a Dio e produce al tempo stesso solidarietà salvifica coi fratelli. Apparentemente la sofferenza sembra una maledizione, in realtà essa diventa un principio di vita, come avviene per i dolori del parto (cfr. Gv 16,21).

La compagnia di Cristo
Una delle grandi figure della letteratura spirituale e filosofica del ’900 è stata certamente Simone Weil, una donna di straordinaria intensità umana, di origine israelitica, impegnata nel mondo sociale e politico, vissuta lungamente in contatto con l’esperienza cristiana e autrice di opere folgoranti. In uno di questi suoi scritti la Weil osserva: «La sola fonte di chiarezza abbastanza luminosa per illuminare il dolore è la croce di Cristo. Non importa, in quale epoca, non importa in quale Paese, dovunque ci sia un dolore, la croce di Cristo non è che la verità». Queste parole ci invitano a portare il nostro viaggio all’interno del pianeta oscuro del dolore « secondo le Scritture », fino all’ultima tappa della Bibbia, quella del Nuovo Testamento.
Durante la sua vita terrena Cristo ha messo al centro della sua attenzione proprio il mistero del dolore. Il vangelo di Marco è quasi per metà un racconto di Cristo in compagnia di malati. C’è stato un teologo, René Latourelle, che ha scritto: «Eliminare i miracoli di Gesù dai vangeli sarebbe come immaginare l’Amleto di Shakespeare senza Amleto». E i miracoli di Gesù non sono gesti spettacolari autopromozionali, destinati a sollecitare applausi e successi (quante volte Gesù impone il silenzio al malato guarito!), ma piuttosto orientati a liberare l’uomo dal male e dal dolore.
Emblematico di questa vicinanza del Cristo ai sofferenti è il suo atteggiamento nei confronti dei lebbrosi. Essi erano non solo dei malati ma degli scomunicati. Secondo le prescrizioni ufficiali della legge biblica dovevano vivere ai margini delle città, isolati dal loro passato e da ogni affetto; dovevano segnalare la loro presenza qualora sulla loro strada si fosse presentata una persona sana (Lv 14). La lebbra, infatti, era considerata – secondo la teologia « retribuzionistica » dell’Antico Testamento – frutto di una colpa gravissima di cui diventava punizione ed espiazione. Gesù, invece, spazzando via tutte queste remore, non solo si avvia sulla strada di questi « appestati », ma… Ascoltiamo la narrazione di Marco (1,41-42): «Gesù, mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: « Lo voglio, guarisci! ». Subito la lebbra scomparve ed egli guarì».
Di fronte a un morbo, che oggi potremmo comparare al grande incubo dell’Aids, Gesù non si lascia coinvolgere in sofismi religiosi, non si fa tentare da preoccupazioni artificiose di autodifesa come fanno certi cristiani benpensanti, ma è pronto subito a condividere, a curare, ad amare. E, così, davanti a Gesù sfilano poveri, malati, angosciati, persone colpite da mali morali, fisici, sociali e psichici. Per tutti egli ha una parola e un gesto di speranza, proponendo così alla sua Chiesa di essere sempre accanto a chi soffre, anzi di considerare questi «fratelli più piccoli» la realtà più preziosa del Regno di Dio.
Possiamo, allora, dire che in Gesù è Dio stesso che viene incontro all’umanità sofferente per liberarla dalla tirannia del male. Una liberazione lenta e progressiva, destinata ad approdare a quella città perfetta in cui dolore e morte non saranno più i cittadini privilegiati, ma da essa saranno espulsi. Nel ritratto della Gerusalemme celeste, simbolo del mondo che Cristo ha inaugurato e che noi dobbiamo collaborare a costruire, l’Apocalisse ci offre questo profilo: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro e tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno» (21,3-4).
Cristo, però, sperimenta non solo all’esterno, ma anche in se stesso la forza tenebrosa del dolore. Egli piange davanti alla tomba dell’amico Lazzaro; egli sa che «deve molto soffrire ed essere respinto e poi venire ucciso» (Mc 8,31). E soprattutto egli entra nella passione che è un itinerario continuo di sofferenze, è la « via dolorosa », la « via crucis » per eccellenza. È un’esperienza condotta nella solitudine, anche degli amici più cari («Non siete stati capaci di vegliare una sola ora?»), nel silenzio di Dio («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»), nella lotta fisica dell’agonia (il sudore di sangue), nelle torture (flagellazione e incoronazione di spine), nella crocifissione, nella catastrofe finale della morte.
Un personaggio di un film di Bergman, il sagrestano di Luci d’inverno, al pastore in crisi di fede ricorda la scena della sofferenza di Cristo: «Pensi al Getsemani, signor pastore. Tutti i discepoli si erano addormentati. Non avevano capito nulla. Ma non era ancora il peggio. Quando il Cristo fu inchiodato sulla croce e vi rimase, tormentato dalle sofferenze, esclamò: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». Il Cristo fu preso da un grande dubbio nei momenti che precedettero la sua morte. Dovette essere quella la più crudele delle sue sofferenze. Voglio dire il silenzio di Dio». Eppure era proprio passando attraverso il dolore e la morte, qualità « impossibili » a Dio, che Cristo diventava veramente uno di noi e poteva liberare e salvare attraverso la sua divinità la nostra miseria, il nostro limite, il nostro male.
In questa luce il dolore diventa il segno supremo d’amore e di fraternità del Cristo nei confronti dell’uomo. Non per nulla egli aveva ripetuto durante la sua vita terrena: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). È illuminante, al riguardo, quanto scriveva il teologo Dietrich Bonhoeffer il 16 luglio 1944 nel lager di Flossenburg ove sarebbe stato, di lì a poco, impiccato: «Dio è impotente e debole nel mondo e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta… Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza ma in virtù della sua sofferenza». La frase è certamente paradossale, ma coglie una dimensione fondamentale dell’Incarnazione: Cristo ci aiuta, capisce il nostro dolore, lo può fare perché l’ha incontrato e l’ha vissuto come noi. E questa solidarietà del Figlio di Dio è efficace e liberatrice.
In tale luce è comprensibile la dichiarazione di Paolo: «A voi è stata concessa la grazia non solo di credere in lui, ma anche di patire per lui» (Fil 1,29). Anzi, l’apostolo può scrivere questa frase sorprendente: «Io gioisco nelle sofferenze che sopporto per voi e completo nel mio corpo ciò che manca dei patimenti di Cristo per il suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Questa dichiarazione non va intesa, ovviamente, nel senso che la passione di Cristo sia incompleta o che possa mancare qualcosa alla sua croce: la morte e la risurrezione di Gesù sono, infatti, l’evento definitivo della salvezza. Il credente soffre in comunione con Cristo, nel suo Corpo che è la Chiesa, e anche il suo dolore acquista valore redentivo: la redenzione, infatti, pur compiuta nella morte e nella gloria di Cristo, si distende nel tempo e nello spazio dell’umanità.

Le lacrime nell’otre di Dio
Al termine di questo lungo viaggio nella galleria oscura della sofferenza, facciamo risuonare le Beatitudini di Cristo. Esse sembrano una voce lontana dal groviglio della vita, delle paure e delle sofferenze: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati… Beati voi che ora piangete, perché riderete» (Mt 5,4; Lc 6,21). Queste parole, però, non vogliono essere una facile e illusoria consolazione. Come diceva il poeta francese Paul Claudel: «Dio non è venuto a spiegare la sofferenza: è venuto a riempirla della sua presenza». Le spiegazioni filosofiche della realtà del dolore sono spesso sterili. Cristo non è venuto a giustificare lo scandalo del male inquadrandolo in un sistema di pensiero convincente. Egli è venuto a condividere il nostro limite, assumendolo in sé.
Ma, proprio perché egli è il Figlio di Dio, attraverso il dolore e la morte, ha lasciato in essi un seme di divinità, di eternità. L’amore di Dio non ci protegge da ogni sofferenza ma ci sostiene in ogni sofferenza. L’esperienza del dolore può essere disperante e angosciante, anche perché è come essere in una prigione che ci costringe e ci soffoca.
L’ingresso del Figlio di Dio in quel carcere segna una svolta: egli non elimina la nostra condizione di creature fragili e limitate, ma apre la porta e ci prende per mano per condurci oltre quel carcere, cioè oltre la sofferenza e la morte. La fede ha il compito di svelarci ciò che attende il nostro soffrire e morire: non è il gorgo oscuro del nulla e del non-senso, ma la liberazione definitiva del male, come ci ricorda l’Apocalisse (21,4). Ora, durante il cammino della storia, il Signore «raccoglie nell’otre suo le lacrime: non sono forse scritte nel suo libro?» (Sal 56,9). Ci è, quindi, solidale e compagno di strada, in attesa di condurci verso la nuova creazione che redime ogni male. Noi non dobbiamo «avere speranza in Cristo soltanto in questa vita», perché, come osserva Paolo, «saremmo da compiangere più di tutti gli uomini»; dobbiamo, invece, sperare nella meta della storia, segnata già dalla Pasqua di Cristo: là «Dio sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,19.28).
Tutti coloro che, durante l’itinerario della storia, curano i malati e sono vicini a chi soffre non fanno che anticipare la meta del Regno di Dio, la costruiscono con le loro mani, accanto alle mani decisive di Dio. Sostenere il sofferente, anche senza cancellare pienamente il dolore, è una continuazione dell’opera di Cristo ed è un’anticipazione della liberazione offerta dal Regno. Tergere le lacrime dagli occhi dei sofferenti è compiere lo stesso gesto che Dio riserverà alla fine del tempo (Is 25,8; Ap 21,4). È in questa luce che a tutti costoro è riservata la citata benedizione di Cristo re: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,34-36).

Gianfranco Ravasi 

CARD. RAVASI, MEDITAZIONI PER QUARESIMA (2013): DOPO IL « BUIO » DEL PECCATO, LA « LUCE » DELLA BELLEZZA

http://www.zenit.org/it/articles/dopo-il-buio-del-peccato-la-luce-della-bellezza

CARD. RAVASI, MEDITAZIONI PER QUARESIMA (2013): DOPO IL « BUIO » DEL PECCATO, LA « LUCE » DELLA BELLEZZA

Dall’Uomo senza Dio all’Uomo sapiente e felice: proseguono le meditazioni del cardinale Ravasi negli Esercizi Spirituali per la Quaresima davanti al Papa e alla Curia Romana

Citta’ del Vaticano, 22 Febbraio 2013 (Zenit.org) Salvatore Cernuzio

Continua l’itinerario tracciato dal cardinale Gianfranco Ravasi, nelle predicazioni degli Esercizi spirituali per la Quaresima davanti al Papa e alla Curia Romana. Un itinerario finora “negativo”, ha detto il porporato, che dalla “notte della creatura umana”, ovvero il dolore nella sua forma fisica e morale, giunge ad una nuova tappa: il peccato.
Concentrandosi sul peccato come “aberrazione che ci allontana da Dio”, il presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, nella sua XI meditazione, ha rotto il tradizionale binomio proposto da Dostoevskij del “Delitto e Castigo”, evolvendolo, alla luce della “genuina spiritualità biblica”, nel trinomio: “Delitto Castigo Perdono”.
La riflessione inizia “sceneggiando” un pensiero di Pascal, dove un’anima in dialogo con Dio, chiede al Divino Creatore di non illuminarla così in profondità da mostrarle i suoi peccati, perché questo l’avrebbe portata alla disperazione. Ma il Padre eternamente buono risponde: “Non disperare perché i tuoi peccati ti saranno rivelati nel momento stesso in cui tutti saranno perdonati”.
È in questo modo che si introduce “la stretta componente di base del sacramento della riconciliazione” ha detto Ravasi. “I peccati devono apparire in tutta la loro rottura, in tutta la loro forza, negatività e oscurità”; se però – ha aggiunto – si confessano a Dio, Egli “li ripresenta nel momento stesso in cui li perdona”.
Nelle Sacre Scritture, ha poi spiegato il porporato, “il peccato è visto sempre come un atto personale che nasce dalla libertà umana”. È una realtà “che può avere anche risvolti psicologici, ma è, prima di tutto, teologica”. Per questo – ha sottolineato – il Sacramento della Riconciliazione “non potrà mai essere equiparato ad una seduta psicanalitica, perché è assolutamente fondamentale la consapevolezza di Dio che il peccatore ha”.
Il peccato non è altro che “lo smarrimento della strada giusta” ha precisato il cardinale. Convertirsi significa, dunque, “cambiare rotta”, “cambiando mentalità” e “lasciando alle spalle le cose alle quali siamo aggrappati”.
“Nella società non sempre si dà la possibilità di ricominciare – ha poi osservato – alcuni sono ormai bollati. Anche se nella legislazione ci sono tentativi di ricomporre e riproporre ancora alla società uno che ha sbagliato, rimane sempre questa sorta di timbro sulla persona che è stata giudicata peccatrice”.
Questo invece “nella Bibbia non esiste”, ha affermato il Capo Dicastero, ricordando l’immagine proposta da Isaia di un Dio che “getta alle spalle i tuoi peccati, in modo che non li guarda più, quindi non ci sono più. È la cancellazione vera”.
Proseguendo il filone nella riflessione pomeridiana, il cardinale ha approfondito il tema (riproposto anche nei Salmi 14 e 53) de “L’assenza e il nulla”, due mali che portano l’uomo a vivere lontano da Dio e lo conducono “nel mondo dell’ateismo pratico”.
Nonostante un’apparente sinonimia, l’assenza e il nulla sono due termini che indicano significati diversi. Se l’assenza – ha spiegato Ravasi – è la “nostalgia di Dio”, il nulla è invece “il vero male della cultura odierna”.
Esso rappresenta “l’indifferenza, la superficialità, la banalità”, è “una cosa molle che però non ha nessuna nostalgia” e, proprio per questo, molto più pericolosa. “Pastoralmente – ha affermato – noi incontriamo più spesso purtroppo questa seconda forma di ateismo”, ed “è per questo che io continuo a pensare come si può incidere in qualche modo in questa sorta di nebbia, di mucillagine”.
Si unisce poi un termine affine: il silenzio di Dio, un orizzonte oscurato che spesso, anche al credente, è capitato di provare. “Pensiamo anche a noi stessi – ha detto Ravasi – tutte le volte che abbiamo provato, magari attraverso la tiepidezza, attraverso lo scoraggiamento, il silenzio di Dio. Per noi non era del tutto scomparso dall’orizzonte però non Lo sentivamo più”.
A ciò si aggiunge “la società contemporanea” che “ha creato nelle nostre città una folla di solitudini”, ha detto il porporato. Il pensiero è andato, in particolare, ai tanti preti che “vivono questa esperienza”, verso cui Ravasi ha invocato una maggiore attenzione da parte dei vescovi.
Tuttavia la speranza c’è: lo dice il Salmo 22, dove il salmista, dopo aver provato il silenzio di Dio, riesce ad esclamare: “Tu mi hai risposto!”. È la preghiera infatti l’ancora di salvezza, perché “le nostre suppliche non cadono mai nel nulla”. Tanto che – ha ricordato il cardinale – anche un ateo come il drammaturgo Eugene Ionesco, prima di morire scrisse: “Pregare. Non so chi. Spero Gesù Cristo”.
Come nel ciclo della natura, alla ‘notte’ succede la ‘luce dell’alba’. Dopo aver parlato del “buio” del peccato e dell’assenza di Dio, il presidente del Dicastero per la Cultura, nella XII meditazione, si è soffermato infatti sulla “luce”, alimentata dal “sapore della felicità”.
Un sapore dato dalla sapienza e dalla bellezza. “Il verbo ‘sápere’ – ha spiegato Ravasi – in latino ha come primo significato avere sapore. Ed è successivo, il significato di sapere. È avere gusto. Per questo motivo, lo stolto si dice anche insipiente e, per certi versi, anche insipido, perché il vero sapiente è colui che dà senso alla vita”.
Questa insipienza si verifica spesso oggi, il più delle volte in una forma scadente di « mera volgarità ». Anche il mondo della comunicazione di massa segue questa scia, ha denunciato il cardinale, « prediligendo spesso, come in questi giorni, la pula al grano, il ‘chiacchiericcio’ alla verità”.
Infine c’è la bellezza che, nelle sue forme più alte, è anch’essa strada per la salvezza. In particolare i Salmi, secondo il porporato, “sono poesia, canto e musica” che seguendo la “via della bellezza”, portano “a pregare e parlare di Dio”. La bellezza però “porta anche inquietudine” – ha concluso Ravasi – perché “non lascia indifferenti”. E soprattutto – come disse il cardinale Ratzinger – “la bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo destino ultimo”.

PAOLO FILOSOFO NASCOSTO – DI GIANFRANCO RAVASI

http://www.giuseppebarbaglio.it/articoli/Ravasi_Paolo.pdf

Un saggio sul pensiero dell’ Apostolo: per capirlo non resta che affidarsi alle sue «Lettere»: più che sistematicità si scoprirà una coerenza nella interpretazione del Vangelo

PAOLO FILOSOFO NASCOSTO

Gramsci l’aveva sbrigativamente definito «il Lenin del cristianesimo» e Nietzsche un «disevangelista». Nel suo discorso emerge la prospettiva di un cambio di mentalità

DI GIANFRANCO RAVASI

Chi prende in mano il volume di Giuseppe Barbaglio può forse credere di essere davantiall’ennesimo profilo della teologia di Paolo sul modello, per esempio, del sostanzioso e importante saggio dell’inglese James D. G. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo, tradotto da Paideia nel 1999.
Il titolo e il programma dell’opera subito ci fanno capire che c’è qualcosa di diverso, anche perché lo stesso esegeta aveva già pubblicato una Teologia di Paolo, riedita dalle Dehoniane nel 2001. Il suo progetto non è quello di identificare a livello sincronico il piano teologico dell’Apostolo, isolandone il fulcro portante (Cristologia? Giustificazione per la fede? Mistica? Mistero pasquale? Tensione apocalittica verso il trionfo finale divino?…), ma di inseguire il suo « pensare » elaborato attraverso un processo molto fluido, diacronico, non costretto nello stampo freddo di un sistema né confezionato in un atélier teologico asettico ma sollecitato dalle urgenze e dalle istanze del ministero missionario e pastorale.
La « vulgata » inconsciamente prevalente anche in molti cristiani è, infatti, quella di un Paolo freddo ideologo, «padre del sottile Agostino, dell’arido Tommaso d’Aquino, del tetro calvinista, del bisbetico giansenista», del tutto alieno da quel Gesù che è «padre di tutti coloro che cercano nei sogni dell’ideale il riposo delle anime loro», come scriveva enfaticamente Ernest Renan nel suo Saint Paul (1869). Nietzsche l’aveva poi bollato come un « disangelista », ossia l’antitesi di un « evangelista », Albert Schweitzer (sì, il famoso dottor Schweitzer era un teologo prima di essere un filantropo) lo esaltava come «il santo patrono di coloro che pensano» e Gramsci l’aveva sbrigativamente denominato «il Lenin del cristianesimo»! In realtà, Paolo era stato innanzitutto un pastore, un annunziatore e un testimone, anche se spesso i suoi testi erano rimasti quasi esclusivo appannaggio di teologi. Ebbene, Barbaglio vorrebbe cercare di individuare la vera qualità di questo particolare pensatore. È indubbio che quello paolino sia un pensiero teologico che ha un apriori che lo precede e una fonte che lo alimenta: la sua è una razionalità tutta interna alla stanza della fede cristiana, spesso ribadita da quel « sappiamo » che connota la tradizione della fede ancorata alla rivelazione divina. Ma quel pensiero, che pure è nutrito dell’eredità biblica e della stessa cultura grecoromana, secondo Barbaglio non è formulato attraverso un disegno previo e una trattazione conseguente bensì fiorisce attraverso un genere di sua natura « occasionale » come quello epistolare. Si ha, così, un pensare provocato dagli interlocutori (emblematici sono i capitoli 6 e 8 della Prima Lettera ai Corinzi) che diventa provocatorio nei loro confronti, interagendo con le loro istanze ma rappresentando anche quelle dell’Apostolo stesso. Egli, infatti, «intende suscitare in loro un cambiamento di mente e di vita e lo fa con la pienezza della sua autorità di apostolo e di padre della comunità, ma anche
affidandosi alle risorse dell’argomentazione e alla funzione illuminante della ragione». Alle spalle di Paolo non c’è, dunque, un progetto antecedente e coerente. Su questa convinzione Barbaglio è radicale e indubbiamente solleciterà reazioni da parte di molti colleghi che coi loro saggi hanno spesso asserito il contrario (ritrovando, per esempio, sotteso alla Lettera ai Romani il nucleo preliminare dell’ideologia paolina). «La teologia di Paolo – scrive, invece, Barbaglio – è la teologia delle sue lettere. Un pensiero teologico dell’apostolo altro da quello presente nelle sue lettere è pura congettura soggettiva, in ogni modo per noi zona oscura e inattingibile». È così che il procedimento adottato dalla riflessione paolina e dalla relativa analisi di Barbaglio non si àncora a un disegno predeterminato ma a una prospettiva ermeneutica: «Il fattore di unità della riflessione di Paolo è piuttosto formale: consiste nel suo metodo di far teologia, nel processo di pensare Dio e Cristo; egli rilegge e ridefinisce i punti nodali della credenza primitiva cristiana, il vangelo nelle sue diverse valenze… Il suo è sempre unitariamente un pensare ermeneutico, teso a comprendere la ricchezze nascoste nel credo protocristiano… La coerenza del pensatore Paolo è di carattere ermeneutico: egli fa emergere le implicazioni dell’eschaton che si è fatto storia in Gesù morto e risorto». Con questa scelta metodologica Barbaglio procede all’identificazione del diagramma teologico in divenire dell’Apostolo, affidandosi obbligatoriamente a due traiettorie estrinseche ormai codificate, anche se non prive di qualche esitazione in sede storico-critica, quelle della selezione delle lettere direttamente paoline (escludendo quelle di « scuola ») e della loro sequenza cronologica. È ovviamente questa la sezione più sostanziosa dell’opera, articolata in dieci tappe che partono dal «vangelo della gratuita elezione divina» (1 Tessalonicesi 1-3) e avanzano attraverso le varie fasi in cui quel vangelo si ramifica e si anima: la croce di Cristo (1 Corinzi 1-4), la libertà dei gentili (Galati), la rivelazione della giustizia divina, la giustificazione e la vita nuova, la fedeltà di Dio a Israele (Romani), la morte e risurrezione di Cristo come primizia (1 Corinzi 15), la vita nello Spirito per approdare alla figura stessa dell’apostolo delineata in relazione al vangelo (2 Corinzi). La lettura di questa pagine, sempre costruite su un’esegesi fine e spesso originale del testo paolino, rivelano in modo inequivocabile la lunga e amorosa assuefazione dell’autore all’epistolario paolino, confermata per altro dalla sua bibliografia. Si ha, così, la possibilità di inseguire un pensiero
affascinante nonostante i sentieri di altura che propone e le non poche asprezze e asperità. Naturalmente su alcune opzioni interpretative o sulla ricostruzione evolutiva del pensiero paolino potrà accendersi la discussione tra gli esegeti. Alla fine l’impressione che si ricava è piuttosto paradossale: pur scegliendo di essere un teologo occasionale, epistolare, pastorale, Paolo si rivela un pensatore coerente e capace di delineare un quadro teologico armonico. Certo, decisiva è stata la roccia su cui si è fondato, quella del vangelo di Cristo che lo precede, come consequenziale e cruciale è stata la prospettiva ermeneutica da lui adottata. Tuttavia si ha anche la sensazione di essere in presenza di un pensatore che sapeva tenere ben stretto il filo del suo pensiero, senza
perdere di vista da dove era salpato e la meta verso la quale sarebbe approdato. L’opera di Barbaglio segna, comunque, con la sua tesi originale (e tutt’altro che peregrina) e col suo meticoloso vaglio testuale una tappa importante e per certi versi imprescindibile negli studi paolini contemporanei. 

 

L’ARMONIA È L’ALTRO VOLTO DEL BENE – DI GIANFRANCO RAVASI

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/246q08a1.html

Verso l’incontro di Benedetto XVI con gli artisti

(L’Osservatore Romano 24 ottobre 2009)

L’ARMONIA È L’ALTRO VOLTO DEL BENE

DI GIANFRANCO RAVASI

« La bellezza è come una ricca gemma, per la quale la montatura migliore è la più semplice ». Questa deliziosa annotazione dei Saggi di Francesco Bacone è una salutare sferzata sia a un’arte che si raggomitola su se stessa seguendo canoni stilistici sempre più indecifrabili, sia a una critica che adotta un esoterismo oracolare tale da impedire, piuttosto che facilitare, l’accesso al senso profondo dell’opera d’arte. Alle soglie dell’incontro tra Benedetto XVI e gli artisti, che si svolgerà il 21 novembre prossimo in quella vera « ricca gemma » che è la Cappella Sistina, non vogliamo ora riproporre il tema centrale di quell’evento, ossia il rinnovato dialogo tra fede e arte, ritessendo un’alleanza che in quest’ultimo secolo si è infranta, nonostante il vigoroso appello che 45 anni fa, nel 1964, Paolo VI aveva rivolto agli artisti di allora nella stessa straordinaria cornice spaziale.
È nostra intenzione, invece, suggerire una modesta e semplificata analisi su quel « grande codice » della nostra arte che è pur sempre la Bibbia, l’atlante iconografico sfogliato per secoli e ora relegato sullo scaffale polveroso dell’oblio negli atelier degli artisti. Non punteremo però su un’analisi dell’influsso esercitato dalle Scritture Sacre sull’esercizio artistico espresso in un immenso catalogo di opere, quanto piuttosto su un argomento molto delicato e anch’esso accantonato ai nostri giorni, quello della bellezza. Le stesse cattedre o i saggi di estetica cercano di star lontani dall’interrogarsi su questo soggetto così fluido e inafferrabile, anche perché ogni definizione o verifica risulterebbe simile a uno stampo freddo che congela l’incandescenza della bellezza. Aveva ragione Ezra Pound quando nel suo Artista serio osservava che « non ci si mette a discutere su un vento d’aprile: semplicemente gli si va incontro e si è rianimati. Lo stesso accade quando ci si imbatte in un pensiero di Platone che vola veloce o in un affascinante profilo di un volto o di una statua ».
Consapevoli di questo limite, ci accontenteremo di vedere come la Bibbia riesce a dire a suo modo qualcosa sul bello, ovviamente lasciando tra parentesi il bello che tanti autori sacri hanno manifestato attraverso le loro opere « ispirate » (un nome per tutti, Giobbe). « In confronto col pensiero greco colpisce anzitutto la scarsa importanza che il concetto del bello ha nell’Antico Testamento. Complessivamente questo problema non riscuote l’interesse del pensiero biblico ». Così scriveva Walter Grundmann nella voce kalòs, « bello », di uno dei monumenti dell’esegesi tedesca, il Grande Lessico del Nuovo Testamento. A lui faceva eco Joachim Wanke quando, in un altro strumento importante come il Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, osservava che « in entrambi i Testamenti il bello nel senso della concezione platonica ed ellenistica non è preso in considerazione ». Anzi, lo stesso autore – evocando indirettamente le parole paoline sulla croce « scandalo » e « stoltezza » per la cultura ambiente nella quale il cristianesimo è sbocciato e fiorito – notava che « la croce è certo la più radicale dissoluzione del concetto classico di perfezione e bellezza ».
Ora, è indubbio che il mondo greco-latino – sia pure in forme molto variegate – ha dedicato al tema del bello riflessioni di straordinaria intensità e fascino, anche se in senso stretto la filosofia estetica è una branca del sapere piuttosto recente, essendo stata codificata – almeno a livello terminologico – solo nel Settecento col pensatore tedesco Alexander Baumgarten. È evidente, però, che la grande metafisica greca e la sua gnoseologia avevano già offerto le basi per esaltare il nesso tra essere, vita e bellezza, così da poter affermare col filosofo Plotino che il bello è « la fioritura dell’essere », la sua perfezione. Inoltre la contemplazione pura e libera dell’armonia delle forme costituiva una componente dell’arte e della letteratura di quella civiltà.
Tutto questo – bisogna riconoscerlo – non appassiona gli autori sacri dai quali è assente l’atteggiamento « romantico » di chi si sofferma abbacinato e affascinato davanti alle meraviglie cosmiche o allo splendore delle forme (anche se qualche eccezione, come vedremo, è possibile). Si ha, infatti, una concezione molto più funzionale del bello, al punto tale che si verifica già a livello lessicale un fenomeno molto significativo. Il principale termine estetico ebraico è tôb: esso ricorre 741 volte e ha significati molto fluidi che vanno dal « buono » al « bello », all’ »utile » e al « vero », al punto tale che la stessa antica traduzione greca della Bibbia detta « dei Settanta » è ricorsa ad almeno tre aggettivi greci diversi per rendere questo vocabolo (agathòs, « buono », kalòs, « bello » e chrestòs, « utile »).
Similmente nel greco neotestamentario il termine kalòs, che ricorre 100 volte, è normalmente sinonimo dell’altra parola greca, agathòs, « buono », tranne in un unico caso, quando Luca (21, 5) ricorda che, davanti al tempio erodiano di Gerusalemme, « alcuni parlavano delle sue belle pietre (lìthoi kaloì) ». Il vocabolo è destinato, invece, sempre a delineare le qualità morali di un atto o di una persona o di una realtà, oppure la sua capacità operativa. Così, tanto per fare qualche esempio, si parla di « opere buone », di « buona condotta », di « buona coscienza », usando sempre l’aggettivo kalòs. Cristo, come è noto, si autodefinisce nel Vangelo di Giovanni (10, 11.14) come « pastore kalòs », ma il significato primario – come si ha nelle versioni – è quello di « buon pastore », e così accade in altri usi di quell’aggettivo (« buon diacono, buon soldato, buoni amministratori, buon maestro »).
San Paolo usa il verbo kalopoièin per dire « fare il bene » (2 Tessalonicesi, 3, 13) ed è suggestiva l’esclamazione della folla che, di fronte ai miracoli di Gesù, esclama: « Ha fatto kalôs ogni cosa! » (Marco, 7, 37), laddove è evidente che quel « bello » è in realtà un « bene ». Potremmo andare avanti a lungo in queste esemplificazioni per scoprire sempre che il « bello » neotestamentario – anche su influsso dell’Antico Testamento e dell’ebraico – altro non è che il « buono », il « bene », la bravura, la legittimità o anche l’utilità come « il buon frutto, seme, perla, pesce, albero », sempre espressi con l’aggettivo kalòs. Detto questo, bisogna, però, fare un ulteriore passo. Non è che gli autori sacri ignorino la bellezza in quanto tale, tant’è vero che esiste un altro termine ebraico, jafeh, che significa « stupendo, incantevole, bello » in senso stretto, come na’weh è « affascinante ». Solo che raramente la finalità di questa ammirazione è meramente estetica.
Così, quando il salmista « contempla il Tuo (di Dio) cielo, opera delle Tue dita, la Luna e gli astri che tu hai fissato », apparentemente abbandonandosi alla scoperta della bellezza imponente degli spazi siderali, la domanda che si pone rivela la vera finalità di quella contemplazione che è, invece, di taglio teologico-esistenziale: « Che cos’è mai l’uomo perché te ne ricordi, l’essere umano perché te ne curi? » (Salmo, 8, 4-5). Anche il profeta Geremia – che pure è considerato da alcuni come il poeta biblico più attento alla bellezza della natura e ai suoi ritmi – quando, ad esempio, si sofferma ad ammirare « un ulivo verde e maestoso » o « un tamerisco nella steppa, in luoghi aridi e desertici e in una terra di salsedine » (11, 16; 17, 6), lo fa con un atteggiamento « morale » e non estetico, pronto com’è a cavarne subito una lezione etica per Israele.
Similmente la straordinaria e potente evocazione presente nelle 16 interrogazioni rivolte da Dio a Giobbe nel primo dei due discorsi divini finali di quel libro non ha lo scopo di dipingere un meraviglioso arazzo di scene cosmiche e animali quasi « a colori » – come sembrerebbe al lettore immediato – bensì di rivelare all’uomo l’esistenza di una ‘esah, di un « progetto » trascendente insito al creato e di affermarne la legittimità, la coerenza, nonostante l’apparente incomprensibilità per la razionalità umana. Anche un libro che nasce in piena atmosfera greca come quello della Sapienza (siamo verso la fine del I secolo prima dell’era cristiana) non ha dubbi sul fatto che « belle sono le realtà che si contemplano » (13, 7) ma l’autore premette subito questa limpida considerazione: « Dalla grandezza e dalla bellezza delle creature per analogia si contempla il loro artefice » (13, 5). È quella che la filosofia definirà appunto come « l’analogia » per risalire dal creato al Creatore attraverso un percorso di conoscenza « naturale ».
Era ciò che appariva simbolicamente in una pagina poetica mirabile, il Salmo 19. Lo sfolgorare del sole, comparato a uno sposo che esce all’alba dalla stanza nuziale o a un eroe atletico che si scatena nella corsa lungo la sua orbita è in realtà epifania di una parola divina cosmica: « I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia l’opera delle sue mani. Il giorno al giorno affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette la conoscenza » (19, 2-3). La colossale coreografia cosmica che il Salmo 148 suppone non è tanto una sfilata di 22 (o 23) creature, tante quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico, da ammirare con stupore; è, invece, un coro di alleluia che si leva al Creatore all’interno di una sorta di cattedrale cosmica. Lo stesso si deve ripetere per altri testi salmici, a prima vista simili a « uno schizzo del mondo, dipinto in pochi tratti », come definiva il Salmo 104 il padre della moderna climatologia e oceanografia, Alexander von Humboldt (1769-1859): in realtà, anche in quel caso il poeta biblico vuole esaltare l’opera del Creatore che « manda il suo spirito » per dar origine alla vita e « rinnovare la Terra ».
In questa stessa linea dobbiamo collocare anche quella straordinaria capacità narrativa svelata dalle 35 parabole di Gesù (72, se si allarga l’elenco anche alle immagini o alle metafore sviluppate). Sappiamo, infatti, che Cristo è un oratore affascinante. Egli parte dal mondo dei suoi uditori fatto di terreni aridi, di semi e seminatori, di erbacce e di messi, di vigne e di fichi, di pecore e di pastori, di cagnolini, di uccelli, di gigli, di cardi, di senapa, di pesci, di scorpioni, serpi, avvoltoi, tarli, di venti, di scirocco e tramontane, di lampi balenanti e piogge o arsure. Ci sono nei suoi discorsi bambini che giocano sulle piazze, cene nuziali, costruttori di case e di torri, braccianti e fittavoli, prostitute e amministratori corrotti, portieri e servi in attesa, casalinghe e figli difficili, debitori e creditori, ricchi egoisti e poveri ridotti alla fame, magistrati inerti e vedove indifese ma coraggiose, ci sono monete piccole e grandi, ci sono tesori nascosti e mense con cibi puri e impuri secondo le regole kasher dell’ebraismo e altro ancora.
Tuttavia, noi sappiamo che Cristo non si ferma davanti ai voli degli uccelli o alla fragranza delicata e sontuosa dei gigli del campo per comporre una lirica, bensì per condurre chi li sta contemplando verso altre mete. Non per nulla le parabole iniziano spesso così: « Il Regno dei cieli è simile a ». L’estetica è, quindi, funzionale all’annunzio, bellezza e verità s’intrecciano, l’armonia è un altro volto del bene. In questo senso si ammonisce l’annunciatore a dire Dio in modo bello (quanto questo monito è stato disatteso nella storia della predicazione e lo è ancor oggi, ad esempio, nell’arte sacra!). Non per nulla già il salmista esortava i fedeli così: « Cantate a Dio con arte! » (Salmi, 47, 8). E la « gloria » divina è sempre raffigurata nella Bibbia come immersa nello splendore della luce e nella pienezza della perfezione.
Dobbiamo, però, riconoscere che si assiste anche a un processo in cui la bellezza acquista un suo spazio rilevante, sia pure sempre nella cornice di quella finalità teologica a cui l’autore biblico tende. È significativo il caso della creazione descritta nel capitolo 1 della Genesi. Là, infatti, al termine dei singoli atti creativi di Dio è apposta una « formula di approvazione », ribadita sette volte (1, 4.10.12.18.21.25.31), che suona così: « Dio vide che era tôb ». Sappiamo già che questo termine significa sia « buono » sia « bello ». È evidente che qui l’aspetto estetico, a nostro avviso, ha un certo primato. La « visione » stessa, la soddisfazione per l’opera compiuta, l’immagine del Creatore-artista inducono a rendere quella frase così: « Dio vide che era bello », oppure: « Dio vide: era bello! ». Certo, non si esclude la positività dell’essere creato, ma è indubbio che la qualità estetica – come annotava un esegeta, Claus Westermann – « non è qualcosa di aggiunto alla creazione, ma appartiene al suo stesso statuto e alla sua struttura ».
Dopo tutto, anche la Bibbia riconosce che « belle » erano Rebecca, Sara, Betsabea, la regina persiana Vasti, Ester, Giuditta, come lo erano anche il piccolo Mosè, Davide, il suo figlio Adonia, i giovani ebrei di Babilonia. È su questa scia che dobbiamo porre quel gioiello poetico che è il Cantico dei cantici nel quale l’accento sulla dimensione estetica della natura e della persona umana è marcato, sia pure senza mai dimenticare la finalità dell’esaltazione dell’amore, la realtà superiore e trascendente celebrata da quei versi mirabili. Al centro, infatti, si ha un « giardino chiuso », anzi, un « paradiso » (pardes) vegetale (4, 13), che spesso si trasforma in vigne lussureggianti con viti in fiore; si ha un vero e proprio « erbario » dominato dal giglio rosso palestinese (o forse l’anemone), accompagnato dal narciso, mentre folto è il bosco dell’amore con cedri, ginepri, meli, melograni, palme, alberi odorosi, fichi, mandragore, rovi, alberi selvatici, noci e così via. Monti, colline, rupi, valli, deserti, campi, sorgenti, fiumi, acque, laghi, fiamme, scintille si stendono davanti al lettore. Su questa terra, avvolta in una dolce primavera (2, 8-17), vola la colomba, l’uccello-simbolo per eccellenza, emblema di amore, tenerezza, bellezza e fedeltà, corrono gazzelle e cerbiatti, altrettanto rilevanti a livello simbolico, appaiono i greggi, i cavalli, i leoni, i leopardi, le volpi, i corvi, mentre latte e miele rimandano a vacche e api.
Ma è soprattutto il corpo umano, femminile e maschile, dipinto in tavole colme di eros (4, 1-5; 5, 10-16; 6, 4; 7, 10), a costituire il vertice della bellezza creata, come è attestato dall’esclamazione stupita e reiterata: « Quanto sei affascinante (jafah), compagna mia, quanto sei affascinante! (…) Quanto sei affascinante, mio amato, quanto sei incantevole (na’îm) » (1, 15-16). « Tutta affascinante (jafah) sei, compagna mia, difetto non c’è in te! » (4, 7). La stessa natura è descritta nella sua bellezza attraverso una sorta di transfert: il paesaggio, infatti, si trasforma in uno specchio dell’anima e delle sue sensazioni di felicità, di armonia, di pienezza. Tuttavia, come già si affermava, la dimensione somatica non è mai meramente estetica, ma è il punto di partenza e d’arrivo di un reticolo di relazioni interpersonali, di sensazioni interiori, di esperienze psicologiche e spirituali. Sta di fatto, però, che questa meta trascendente è raggiunta attraverso un’intensa e creativa contemplazione estetica ed estatica della corporeità che, nel mondo biblico, non è mai solo fisicità ma unità psico-fisica della persona.
L’esaltazione della bellezza nelle sue epifanie cosmiche ha, però, una sua espressione particolare in una pagina biblica tarda, all’interno di un inno collocato nella sezione finale dell’opera del Siracide, un sapiente del II secolo prima dell’era cristiana. L’inno inizia in 42, 15 e si conclude in 43, 33. La prospettiva, da noi sempre sottolineata, dell’intreccio tra estetica e teologia permane, ma è evidente il fiorire limpido della contemplazione lirica della bellezza del creato. L’aspetto teologico è esplicito in apertura e chiusura del canto allorché Dio si leva sull’universo con l’efficacia della sua parola, lo splendore della sua gloria, la sua trascendenza e onniscienza. Per la Bibbia la natura è sempre « creato », è un « cosmo » ordinato che risponde a un progetto e a un disegno capace di riflettere il suo autore: « Come il Sole che sorge illumina tutto il creato, così della gloria del Signore è piena la sua opera » (42, 16). Per questo, di fronte all’architettura cosmica, l’uomo non può che esclamare: « Egli è tutto! » (43, 27).
Il Siracide, però, rivela in modo più esplicito rispetto alla precedente tradizione un atteggiamento lirico. Egli s’affaccia con stupore sulle meraviglie dell’universo e le fa sfilare davanti ai suoi occhi abbacinati da tanta bellezza. È questo il contenuto della parte centrale, vero cuore poetico dell’inno. Questa sequenza, che è quasi pittorica o filmica, parte dal firmamento limpido e luminoso, nel quale irrompe innanzitutto il Sole a cui è riservato un bozzetto che marca l’incandescenza del suo irraggiarsi (43, 1-5). Subentra naturalmente il quadretto dedicato alla Luna, celebrata soprattutto nella sua funzione « cronologica », essendo la matrice del calendario lunare liturgico e civile (43, 6-8). A essa si associano le stelle, concepite come sentinelle che vegliano nella notte (43, 9-10). Ecco, subito dopo, irrompere maestoso l’arcobaleno, tracciato nel cielo dalla stessa mano divina (43, 11-12). La serie successiva, pur connettendosi alla volta celeste, ha una sua autonomia: entra, infatti, in scena la meteorologia col suo apparato di fulmini, dotati di « raggi giustizieri », delle nubi che « volano come uccelli da preda », dei chicchi di grandine simili a polvere, del tuono che fa sobbalzare la terra, dei venti impetuosi (43, 13-17).
Sempre lungo il filo dei fenomeni meteorologici, una sorta di deliziosa miniatura è dedicata alla neve la cui caduta lieve è comparata al volo degli uccelli e degli stormi di cavallette: « il suo candore abbaglia gli occhi e, al vederla fioccare, il cuore rimane estasiato » (43, 18). A essa è associata la brina, simile a grani di sale che rendono brillanti come cristalli i rami su cui essi si posano (43, 19). Queste immagini invernali trascinano con sé l’evocazione della gelida tramontana che fa ghiacciare le superfici delle acque, rivestendole quasi di una corazza (43, 20). Paradossalmente la scena del gelo ha effetti analoghi a quelli estivi perché anch’esso brucia la vegetazione come accade quando domina l’arsura (43, 21): in tal modo il poeta riesce a trasferire il lettore nell’estate infuocata, ove è attesa la rugiada che feconda la terra riarsa (43, 22). L’ultima sequenza di immagini ci sposta sul mare ove sono « piantate » come oasi o fiori le isole. Del suo mistero fatto di abissi, di tempeste imponenti, di mostri e terrori, ben noti alla cosmologia biblica, restano le testimonianze dei naviganti che possono solo affidarsi alla parola divina che salva (43, 23-26).
L’esclamazione iniziale dell’inno, scandita da un interrogativo retorico, è l’ideale espressione di un’ammirazione lirica che scopre il fulgore della bellezza: « Ogni opera supera la bellezza dell’altra: chi può stancarsi di contemplare il loro splendore? » (42, 25). La dimensione estetica è, quindi, riconosciuta, anche se – lo ripetiamo ancora una volta – essa non è mai del tutto fine a se stessa ma diventa sempre, più o meno esplicitamente, una via pulchritudinis, un percorso bello e glorioso per approdare al Creatore, al suo progetto e alla sua opera. E la stessa bellezza letteraria di molte pagine bibliche ha come meta ultima la proclamazione dell’infinita bellezza e verità della Parola divina.

Publié dans:ARTE, c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 14 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

IL PROFONDO MISTERO DELLA SALVEZZA IN CRISTO (di Mons. G. Ravasi)

http://www.parrocchie.it/calenzano/santamariadellegrazie/Anno%20Pastrorale.htm#vita

IL PROFONDO MISTERO DELLA SALVEZZA IN CRISTO

(di Mons. G. Ravasi)

Brevi sono il saluto e l’augurio di apertura di questa lettera. Ben più solenne è, invece, la benedizione iniziale, che ha l’andatura di un inno e si presenta come uno splendido abbozzo del disegno di salvezza rivelato e attuato in Cristo. Dall’orizzonte celeste, cioè dal mistero trascendente di Dio, scendono le benedizioni “spirituali”, cioè i doni di santità che trasformano i credenti. Si delinea, così, l’itinerario a cui essi sono chiamati all’interno del progetto di Dio: prima ancora della loro esistenza, Dio li aveva scelti e destinati a divenire figli adottivi attraverso Cristo; tutto questo avrebbe realizzato la piena gloria di Dio che si compie nel suo donarsi all’umanità, nel suo amore rivelato in Gesù, il Figlio «Prediletto». La salvezza dell’uomo è, quindi, la gioia, la lode, la gloria più alta di Dio.
E questa salvezza si attua attraverso la morte di Gesù, sorgente della redenzione, del perdono e della grazia effusa nell’umanità. Noi conosciamo, dunque, «il mistero della volontà» divina perché non solo ci è stato rivelato, ma anche perché lo viviamo all’interno della storia. Infatti, la «pienezza dei tempi» è l’ingresso di Cristo nel mondo per trasformare la realtà umana secondo il disegno prestabilito fin dall’eternità da Dio. Tutti noi siamo “ricondotti” in Cristo insieme con l’intero universo creato: l’immagine usata rimanda al «capo» che tiene coeso il corpo. Ogni realtà è destinata a trovare senso e unità in Cristo, costituito da Dio come capo unico e universale.
È interessante notare come Paolo in questa visione grandiosa della salvezza sottolinei un aspetto che gli sta a cuore. In 1,11-13 distingue, infatti, due pronomi: da un lato, c’è il «noi», i primi eredi della promessa divina, cioè gli Ebrei, coloro che hanno alimentato la speranza messianica prima della venuta di Cristo; d’altro lato, c’è il «voi», cioè l’orizzonte dei pagani, che hanno ascoltato e accolto nella fede «la parola della verità», il vangelo, e così sono stati consacrati dallo Spirito Santo. L’apostolo passa poi a un ringraziamento per la fede e l’amore testimoniato dai cristiani di Efeso, ai quali augura di ottenere una pienezza nella conoscenza del mistero di salvezza, che ha al centro la risurrezione di Cristo. Essa è cantata in 1,20-23 in una specie di professione di fede di tono innico, dalla quale emerge la figura del Risorto che è il Signore di tutto l’universo e di tutte le sue energie, ma che è anche il capo di quel corpo che è la Chiesa.

DALLA MORTE ALLA VITA PER ESSERE UNA COSA SOLA IN CRISTO
Nel capitolo 2, continuando l’intreccio dei due pronomi «noi» e «voi», si esalta la redenzione operata da Cristo per l’umanità peccatrice, sia ebraica sia pagana. L’amore misericordioso di Dio ci ha strappato a Satana, «il principe delle potenze dell’aria», e ci ha fatto partecipare alla stessa vita di Cristo attraverso l’esperienza battesimale che ci ha condotto alla gloria della risurrezione. La salvezza è, quindi, non solo liberazione dal male, ma anche intimità, comunione, partecipazione alla vita divina.
In un linguaggio tipicamente paolino si ribadisce la vicenda della salvezza, che è dono della grazia divina a chi risponde con la fede, e che non è frutto delle opere umane. La centralità di Cristo è ribadita in una pagina di grande intensità, che ha in qualche sua parte un’andatura innica e lirica. Il tema fondamentale della salvezza è considerato secondo un’angolatura che è già stata adottata precedentemente: con la sua morte in croce, Cristo ha costituito un’unica comunità, cancellando le divisioni tra i circoncisi e coloro che erano «stranieri ai patti della promessa», cioè tra Ebrei e pagani. Cristo è, allora, definito come la «pace» per eccellenza, che, nella tradizione biblica, era il tipico dono messianico (Isaia 9,5; Michea 5,4).
Egli ha abbattuto le barriere che dividevano questi due popoli: «il muro di separazione» a cui Paolo fa riferimento potrebbe alludere sia alla legge mosaica sia al setto divisorio posto tra il cortile degli Ebrei e quello dei pagani nel tempio erodiano di Gerusalemme, parete invalicabile, pena la condanna a morte. Cristo ha anche eliminato le osservanze legali che caratterizzavano la religiosità giudaica, e ha fatto sì che tutti si ritrovassero uniti, i vicini e i lontani (vedi Isaia 57,19 e Zaccaria 9,10), destinati a costituire un solo corpo, a essere concittadini e familiari di Dio, appartenenti alla stessa comunità che è la Chiesa, la famiglia di Dio. Tutti costituiscono un tempio vivo, che ha la sua pietra angolare in Cristo e il basamento negli apostoli e nei profeti, cioè negli annunciatori del vangelo (vedi 1Corinzi 3,10-11.16). La rappresentazione di questa unità generata dalla croce di Cristo è preziosa per definire la missione di Paolo aperta ai pagani.

PAOLO, APOSTOLO DEL MISTERO DI CRISTO
Egli, infatti, è stato chiamato da Dio proprio a svelare il «mistero di Cristo» che ha nel suo cuore la salvezza universale: «I pagani sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e a essere partecipi della promessa» (3,6), cioè a fruire della dignità donata al popolo ebraico e, così, a costituire l’unico popolo di Dio che è la Chiesa, corpo di Cristo. A questo annunzio l’apostolo ha dedicato se stesso perché il disegno divino, che era celato nel mistero, venisse reso noto a tutti, anche alle potenze cosmiche e celesti, e attuato nella storia.
A questo punto Paolo rivolge un’appassionata preghiera a Dio Padre, creatore di tutti gli esseri, perché trasformi la coscienza dei cristiani così da giungere alla piena maturità della fede e dell’amore. Potranno allora scoprire il cuore profondo del mistero divino, che è l’infinito amore di Dio offerto a noi in Cristo, un amore che ci avvolge conducendoci alla pienezza, un amore totale che abbraccia tutto l’essere, rappresentato secondo le quattro dimensioni sotto le quali la tradizione popolare concepiva la realtà: ampiezza, lunghezza, altezza e profondità. Con un’acclamazione di lode finale a Dio Padre (3,20-21) si chiude la prima parte della lettera.

LE ESIGENZE DELLA VITA CRISTIANA
Con il capitolo 4 si apre una seconda parte della lettera, di taglio più esistenziale: si intende delineare un profilo della vita cristiana, fondata sull’unità di tutti i credenti nell’unico corpo di Cristo. Si ha innanzitutto un appello a riscoprire questa «unità dello spirito», rafforzata dal «legame della pace», ricordando la sua sorgente, cioè l’unico Dio che agisce in tutti, l’unico Cristo Signore e Salvatore, l’unica fede e l’unico battesimo. Se tutti hanno ricevuto la grazia, ciascuno la manifesta secondo forme diverse che sono espressioni dei doni divini effusi dal Cristo risorto (si cita nel versetto 8 il Salmo 68,19 in modo libero, applicandolo all’ascensione e alla glorificazione celeste di Cristo).
Paolo elenca cinque doni spirituali che costituiscono altrettanti ministeri destinati a condurre alla maturità cristiana tutta la comunità dei credenti: apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri. Ma il modello che tutti dobbiamo tenere davanti agli occhi per raggiungere la maturità della fede è Cristo stesso, che è la pienezza per eccellenza. Solo con questa meta passiamo dall’infanzia, che è ancora debolezza e immaturità, alla maturità. E la via per raggiungere questa completezza spirituale è la «verità nell’amore». Solo così si configura il corpo di Cristo nella sua armonia e nella sua perfetta compagine. Si presenta in questa pagina il tema del corpo di Cristo che è la Chiesa in un modo lievemente differente rispetto a 1Corinzi 12. Là, infatti, la Chiesa era il corpo di Cristo in modo globale; qui si dice che Cristo è il capo e i cristiani sono il corpo. Comune è, però, il rilievo dato all’amore come anima dell’intero organismo.
Si passa poi a una riflessione sull’esperienza battesimale vissuta dai fedeli. Essa è stata una svolta radicale che ha totalmente mutato la realtà dell’uomo. Il battezzato, infatti, deve lasciare alle spalle «l’uomo vecchio», con la sua miseria e il suo peccato, e deve rivestire la qualità di «uomo nuovo», che è il profilo voluto da Dio creatore e che è la condizione umana inaugurata e attuata dalla morte e risurrezione di Cristo. Il tema delle due creature, la vecchia e la nuova, la peccatrice e la redenta, era già apparso in Romani 6,4-6, in 2Corinzi 5,17 e riapparirà in Colossesi 3,10.
Questo mutamento radicale che si è compiuto nel cristiano deve generare un differente comportamento morale, che la lettera esemplifica in alcuni impegni che rimandano al Decalogo e a moniti presenti già nell’Antico Testamento. Si citano, infatti, Zaccaria 8,16 sull’impegno di servire la verità e il Salmo 4,5 per quanto riguarda l’ira; ma si evoca anche il «non rubare», il «non pronunziare falsa testimonianza» del Decalogo e l’esortazione, frequente nella Bibbia, a combattere il peccato di parola. In particolare, in questa che è una nuova lista di vizi da evitare, si sottolinea l’importanza dell’amore e della concordia fraterna, la cui assenza rattrista lo Spirito Santo che è effuso in noi.

IL COMPORTAMENTO DEL CRISTIANO
L’amore è, infatti, il cuore della morale cristiana. Il modello ideale è Cristo, che si è donato a noi attraverso la morte in croce, definita come «sacrificio di soave odore», cioè come una vittima sacrificale gradita a Dio e capace di cancellare ogni peccato (per l’espressione usata, tipica dell’Antico Testamento, vedi Genesi 8,21; Esodo 29,18; Salmo 40,7). Il cristiano, purificato da questo atto d’amore divino, deve abbandonare lo stile di vita precedente, che l’apostolo illustra attraverso alcuni vizi emblematici del paganesimo come volgarità, impurità, idolatria. Queste realtà impediscono il legame con Cristo e quindi con la vera vita e la luce. Si ricorre, infatti, alla tradizionale opposizione ­ cara anche al giudaismo ­ tra tenebra e luce, come simboli di due stati di vita antitetici.
I cristiani nel battesimo sono stati illuminati da Cristo e, perciò, dalla tenebra sono divenuti «luce nel Signore» (vedi 1Tessalonicesi 5,4; Romani 13,12; Colossesi 1,12-13). Come conferma si cita un frammento di inno battesimale presentato quasi come fosse una parola biblica («sta scritto» è la formula introduttoria alle citazioni bibliche): immersi nelle tenebre del sonno e della morte, noi siamo risorti e abbagliati dalla luce di Cristo. Si precisa, allora, come dev’essere la vita dei figli della luce. Paolo segnala due atteggiamenti fondamentali.
Da un lato, bisogna fare buon uso del tempo, cioè di questa èra di salvezza in cui ci ha introdotto la Pasqua di Cristo. In essa bisogna scorgere e seguire la volontà di Dio, che ci conduce alla pienezza della vita. D’altro lato, è necessario lasciare spazio allo Spirito che trasforma l’esistenza del credente in un canto di lode e ringraziamento a Dio. Il discorso si fa ora ancor più concreto e si delinea una specie di tavola dei doveri della vita familiare (vedi anche Colossesi 3,18-4,1). Si devono, però, notare due differenze rispetto ai paralleli del mondo giudaico e greco-romano: si sottolinea la reciprocità dei doveri degli sposi, nonostante il contesto maschilista in cui l’apostolo viveva (che pure lascia qualche traccia); inoltre, Gesù Cristo diventa il riferimento fondamentale su cui vivere l’esperienza d’amore, essendo egli la fonte della carità.
È per questo che la considerazione sui doveri dei mariti verso le mogli si trasforma in una catechesi sul rapporto tra Cristo e la Chiesa, sua sposa, purificata attraverso il lavacro battesimale. Il matrimonio diventa, perciò, simbolo dell’unione tra Cristo e la Chiesa, il “grande mistero”, come lo chiama Paolo, cioè il mirabile disegno salvifico di Dio. L’uso dell’immagine nuziale per rappresentare la relazione tra Dio e Israele era già stato praticato dall’Antico Testamento (vedi, ad esempio, Osea 1-3). Ora il matrimonio cristiano ­ illustrato sulla base di Genesi 2,24 ­ diventa segno della nuova alleanza ed è in questa luce che il passo è stato letto come la base della visione sacramentale dell’unione matrimoniale cristiana.

ALTRE ESORTAZIONI E SALUTO
Dal rapporto tra i coniugi la “tavola” dei doveri familiari delineata dall’apostolo passa a quello tra i figli e i genitori, con un rimando esplicito al comandamento, presente nel Decalogo (Esodo 20,12), di onorare il padre e la madre. Tuttavia anche in questo caso si esalta la reciprocità: i genitori devono educare i loro figli senza esasperarli. Si riserva poi spazio al settore delle relazioni tra schiavi e padroni. È un’esortazione che risente del contesto storico in cui vive la Chiesa delle origini. Ma c’è una sottolineatura nuova e significativa. Da un lato, lo schiavo deve compiere il suo lavoro con onestà, consapevole che ogni azione del cristiano ha un valore agli occhi di Dio. Dall’altro lato, i padroni devono comportarsi senza violenze o minacce, perché c’è sopra di loro un Signore di tutti che non guarda allo stato sociale o di privilegio, ma giudica ognuno con giustizia.
Conclusa la “tavola” degli impegni del cristiano nella famiglia e nella società, la lettera si avvia alla fine con un’ampia esortazione ad affrontare con decisione la lotta spirituale contro il male, che insidia la vita del credente. Paolo fa esplicito riferimento al diavolo e alle forze oscure che dominano la storia. Egli le denomina secondo il linguaggio apocalittico come principati, potenze, dominatori del mondo tenebroso in cui siamo immersi, e spiriti del male che, invece, trascendono il nostro orizzonte terreno. Si ricorre, così, alla simbologia marziale dell’armatura da indossare. Anche Dio nell’Antico Testamento era raffigurato come un guerriero che si schierava, con il suo re-Messia, a difesa del bene e dei giusti contro l’assalto del male (Isaia 11,4-5; 59,16-18; Sapienza 5,17-23).
Le armi del cristiano sono la verità come cintura, la giustizia come corazza, le calzature per annunziare il vangelo, la fede come scudo, la salvezza come elmo, lo Spirito e la parola di Dio come spada (vedi anche 1Tessalonicesi 5,8). La lotta spirituale dev’essere sostenuta dalla preghiera allo Spirito Santo, perché sia vicino a tutti coloro che annunziano il vangelo. Paolo si colloca tra costoro ed è presentato dalla lettera «ambasciatore in catene» del messaggio di Gesù: anche se non si è certi su questa carcerazione (quella romana o un’antecedente prigionia, forse efesina), è sulla base di questa nota che si colloca lo scritto agli Efesini tra le cosiddette “lettere dalla cattività” (o prigionia).
La lettera è chiusa da un intenso saluto. Al suo interno c’è una particolare esaltazione dell’amore «incorruttibile» che deve unire il cristiano al suo Signore. Prima, però, si fa riferimento a un collaboratore dell’apostolo di nome Tichico, inviato come delegato di Paolo. Egli espleterà la stessa missione anche nei confronti dei cristiani di Colosse (Colossesi 4,7): era, perciò, un rappresentante dell’apostolo nell’area dell’Asia Minore o almeno in alcuni ambiti di essa, nei quali egli comunicava ufficialmente notizie e messaggi paolini.

SE DIO È UN NEONATO SENZATETTO – GIANFRANCO RAVASI (2007)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_ravasi12.htm

SE DIO È UN NEONATO SENZATETTO – GIANFRANCO RAVASI (2007)

I 21 versetti del « Vangelo di Luca » che descrivono la nascita del Cristo
sono stati sintetizzati da Paolo in una sola espressione:
«Quando venne la pienezza dei tempi,
Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge».
Il « neo-presidente » del « Pontificio Consiglio della Cultura »
spiega perché tutto, in questa storia,
parla di un povertà che racchiude il massimo della potenza, quella divina.

SE DIO È UN NEONATO SENZATETTO
«Il censimento romano, segno di schiavitù,
ci ricorda che Cristo nasce da un popolo oppresso,
e in mezzo a quei poveri che i potenti considerano pedine insignificanti
sullo scacchiere dei loro giuochi politici.
Eppure il figlio di Maria sarà il centro del tempo e della stessa famiglia umana.
Sarà proprio questo bambino povero
a segnare nella storia i secoli in un « prima » e in un « dopo » di lui».

GIANFRANCO RAVASI
(« Avvenire », 16/12/’07)
Il « Simbolo apostolico » professa la fede del Natale così: «Natus de Spiritu Sancto ex Maria Virgine» e il « Credo Niceno Costantinopolitano » che ogni domenica proclamiamo nella liturgia ripete: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». I ventun versetti del « Vangelo di Luca » (2,1-21), che descrivono gli eventi che accompagnano la nascita del Cristo erano già stati sintetizzati da Paolo in una sola espressione simile a un piccolo Credo: «Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4).
Prima di iniziare il nostro viaggio spirituale all’interno di questi versetti e dei loro temi principali, fermiamoci davanti all’icona della « Madonna del Natale » per abbozzarne e contemplarne i tratti essenziali attraverso alcuni versi della « XIX Ode di Salomone », appartenente a quei quaranta inni che furono ritrovati nel 1905 in un manoscritto siriaco e che costituiscono un documento importante dell’antica poesia cristiana. Anche nel testo di Luca il racconto della nascita di Gesù si allarga lungo due orizzonti « antitetici »: alla povertà estrema della cornice terrestre si associa un’eco cosmica e celeste. Mentre nella narrazione parallela della nascita del Battista la circoncisione era il dato fondamentale così da occupare ben otto versetti, per Gesù la circoncisione occupa un solo versetto contro i venti della nascita. Il Battista conduce al Cristo l’alleanza della circoncisione, il Cristo con la circoncisione accoglie il popolo della prima alleanza divenendone membro, compimento e salvezza. Il Natale è il centro anche del grandioso inno di apertura del « Vangelo di Giovanni »: «Il Verbo si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14).
Il verbo greco che allude alla tenda dell’arca dell’alleanza, « skenoun », contiene le tre consonanti radicali della parola ebraica « Shekinah » (« s-k-n »), il termine con cui il giudaismo definiva la « Presenza » divina nel tempio di Sion, come abbiamo già avuto occasione di ricordare. Il Natale è cantato anche dalla « Lettera agli Ebrei », una potente e monumentale omelia « neotestamentaria », che applica al Cristo il « Salmo 8″, un inno notturno destinato a celebrare l’uomo e la sua grandezza e ora applicato al Cristo, uomo perfetto che entra nella storia per redimerla, strappandola al male.
Il testo di Luca è poi alla base della creatività popolare che sui sobri versetti evangelici ha ricamato arabeschi spesso fantasiosi. Il riferimento scontato è ai vangeli apocrifi, in particolare al « Protovangelo di Giacomo » del III secolo, ma spunti affascinanti si possono cogliere in centinaia di testi cristiani antichi, come in questa dichiarazione messa in bocca a Gesù da parte di uno scritto « gnostico » egizio, l’ »Interpretazione della gnosi »: «Io divenni piccolo perché attraverso la mia piccolezza potessi portarvi in alto donde siete caduti… Io vi porterò sulle mie spalle» (XI, 10,27-34). Solo per evocare la fertilità poetica e spirituale di queste tradizioni popolari, pensiamo che cosa significhi il soggetto del Natale di Cristo nella storia dell’arte, che cosa rappresenti il presepio, quante siano le tipologie orientali e occidentali della Madre Maria col Bambino Gesù! Pensiamo all’accumulo dei particolari attorno a quella scena così essenziale. Ad esempio, il bue e l’asino sono introdotti solo da un apocrifo, lo « Pseudo-Matteo », redatto nel VI-VII secolo; ma già nel IV secolo l’arte li aveva presentati nel sarcofago romano del « Museo Pio » e in quello di « Stilicone » della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano.
Origene nel III secolo rimandava a un passo di Isaia (1,3: «Il bue conosce il padrone e l’asino la greppia del suo padrone»), mentre i Padri della Chiesa trovavano nei due animali un curioso simbolismo che San Gregorio di Nazianzo così definisce: «Tra il giovane toro (bue) che è attaccato alla Legge giudaica e l’asino che è gravato dal peccato dell’idolatria pagana giace il Figlio di Dio che libera da entrambi i pesi». Con Francesco e il suo presepio di Greccio i due animali diventano, invece, espressione dell’adorazione e della gioia cosmica per la nascita del Salvatore di ogni cosa. Un anonimo francescano del ’300, autore delle « Meditazioni sulla vita di Cristo » (« Città Nuova », Roma, 1982), immagina allora «il bue e l’asino piegarsi sulle zampe anteriori, sporgere i musi sulla mangiatoia soffiando con le narici, quasi fossero dotati di ragione e capissero che il bambino, così miseramente riparato in quella freddissima stagione, aveva bisogno di essere riscaldato». Secondo il « Physiologus », poi, nella notte del solstizio d’inverno, gli animali selvatici mandano due volte un forte raglio: sarebbe la reazione del diavolo che nella notte santa s’indigna perché col Bambino Gesù sorge il «nuovo giorno» e viene infranta la «potenza delle tenebre».
Il Natale ha poi alimentato la meditazione dei Padri della Chiesa (pensiamo ai « Sermoni del Natale » di Leone Magno), ha generato musiche colte e popolari (« Stille Nacht »; « Tu scendi dalle stelle »; « Adeste, fideles »…), ha trionfato nella liturgia, e nell’Occidente cristiano è divenuto la festa più sentita.

Dopo questa lunga premessa, torniamo al testo lucano per far affiorare lo spirito genuino del Natale del Figlio di Maria, spogliandolo dei rivestimenti fantasiosi e retorici. Cerchiamo anche noi il bimbo di Maria, non tanto per esprimergli tenerezza ma per conoscere il suo mistero. La maternità di Maria ha due coordinate esterne ben dichiarate dall’evangelista.
La prima coordinata è quella « spaziale », legata a Betlemme, «la città di Davide», come dice Luca, nonostante che nell’Antico Testamento questo sia il titolo ufficiale di Gerusalemme (2Sam 5,7.9). Gesù giunge a noi dallo spazio umano, fisico e spirituale della « promessa davidica ». È per questo che in alcune testimonianze dell’arte cristiana non si oppone solo la Gerusalemme terrestre a quella celeste, ma anche la Betlemme terrestre a quella del cielo. Da Betlemme l’umanità viene assunta in Dio. Nello spazio di Betlemme la nostra attenzione si fissa su due punti « topografici ». Il primo è quello del parto di Maria, una mangiatoia per animali probabilmente scavata nella roccia, perché il « katalyma » (in greco «albergo, casa, alloggio, stanza») non aveva spazio per il Signore dello spazio. La tradizione cristiana, sostenuta da San Girolamo che vivrà per decenni a Betlemme, parlerà di una grotta simile a quelle adiacenti alle povere case di allora. Giovanni era nato nella casa sacerdotale del padre, Cristo nasce nell’emarginazione, privo di un guanciale.
Eppure nel racconto di Luca c’è un particolare sottolineato con tenerezza: Maria «avvolse il bambino in fasce e lo depose nella mangiatoia» (v. 7). Del Battista si dice soltanto: «Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio» (1,57).
Attorno a quella grotta, a quel punto dello spazio di Betlemme si erge ora la solenne « Basilica Giustinianea », iniziata però da Elena nel IV secolo. Una basilica ancor oggi intatta perché non mai distrutta, diversamente dalle altre chiese di Terra Santa: i musulmani l’avevano risparmiata perché dedicata anche a Maria, che pure essi veneravano, e i persiani non l’avevano distrutta perché sul frontone avevano visto la sfilata dei Magi coi loro costumi persiani.
L’altro punto topografico che vogliamo evocare è il cosiddetto «campo dei pastori», la campagna circostante a Betlemme percorsa da « seminomadi » pastori. Due residenze provvisorie, due località misere, due segni di quotidiana miseria diventano il centro di una speranza cosmica. È famosa l’iscrizione greca di Priene che usa il termine « evangelo » per la nascita di Augusto: «La nascita del dio (Augusto) ha segnato l’inizio della « buona novella » (« evangelo ») per il mondo». Un evangelo, questo, proclamato in palazzi di marmo e nell’impero più potente del mondo; un evangelo, quello della nascita di Gesù, proclamato in una mangiatoia e tra nomadi: «Vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi, vi è nato un salvatore!» (vv. 10-11). Il primo evangelo ben presto genererà cattive notizie di oppressioni, di tasse, di guerre, di schiavitù: l’evangelo di Cristo è «liberazione per i prigionieri, lieto messaggio per i poveri, vista per i ciechi, libertà per gli oppressi» (Lc 4,18).
C’è una seconda coordinata da considerare, quella « temporale ». Essa è scandita dalle ore dell’imperatore Ottaviano Augusto (31 a.C.-14 d.C.) ed è precisata da Luca con l’indicazione del famoso « primo censimento », ordinato dal legato di Siria Quirinio. Non è il caso ora di entrare nel merito della secolare discussione su questa informazione che apparentemente sembra errata, essendo documentato solo un censimento di Quirinio del 6 d.C., quando Gesù aveva ormai dodici anni. È probabile che si tratti di una « prima » operazione censuale, ordinata durante un incarico straordinario ricoperto da Quirinio prima di essere formalmente nominato legato di Siria. Vogliamo solo ricordare che con questi dati appare nitidamente il valore dell’incarnazione, cioè dell’ingresso di Dio negli eventi e nel tempo umano. Efrem il Siro unirà i due estremi del parto da Maria e della morte in croce per esaltare l’incarnazione nella sua realtà: «La sua morte in croce attesta la sua nascita dalla donna. Infatti se un uomo muore, dev’essere pure nato… Perciò la concezione umana di Gesù è dimostrata dalla sua morte in croce. Se uno nega la sua nascita, venga smentito dalla croce» (« Sermone su Nostro Signore », 2). Il censimento romano, segno di schiavitù, ci ricorda che Cristo nasce da un popolo oppresso e in mezzo a quei poveri che i potenti considerano pedine insignificanti sullo scacchiere dei loro giuochi politici.
Eppure il figlio di Maria sarà il centro del tempo e della stessa famiglia umana. Sarà proprio questo bambino povero a segnare nella storia i secoli in un « prima » e in un « dopo » di lui. La liturgia bizantina canta per il Natale del Signore questa bella antifona…
« L’autore della vita è nato dalla nostra carne dalla madre dei viventi. Un bambino da lei è nato ed è il Figlio del Padre. Con le sue fasce scioglie i legami dei nostri peccati e asciuga per sempre le lacrime delle nostre madri. Danza e sussulta, creazione del Signore, poiché il tuo Salvatore è nato…
Contemplo un mistero strano e inatteso: la grotta è il cielo, la Vergine è il trono dei cherubini, la mangiatoia è il luogo dove riposa l’incomprensibile, il Cristo Dio.
Cantiamolo ed esaltiamolo! ».
Attorno al figlio di Maria si raccoglie una serie di spettatori diversi ma tutti convergenti verso quella scena e quella figura.
I primi sono « i pastori » ai quali è riservata una vera e propria annunciazione come a Maria, Giuseppe e Zaccaria: apparizione dell’angelo, l’invito a «non temere», l’annunzio di una nascita straordinaria, il segno della mangiatoia (vv. 9-12). Eppure i pastori erano considerati impuri dal giudaismo ufficiale di allora e quindi erano esclusi dalla vita religiosa pubblica. Essi cercano e trovano, come è indicato dai molti verbi di movimento che percorrono tutto il racconto: «Andiamo… vediamo… conosciamo… andarono senza indugio… trovarono… videro… riferirono… tornarono…». Una costellazione di verbi di ricerca, di rivelazione, di adorazione che rende i pastori primi missionari del Cristo, suoi « evangelizzatori ».
C’è poi un’altra classe di persone, «tutti quelli che udirono», cioè « la folla ». Essi «si stupiscono», restano solo colpiti, la reazione non ha seguito: «Essi ascoltano la parola, la ricevono con gioia, ma non hanno radici» (Lc 8,13).
Ci sono poi « gli angeli » col loro annunzio a cui fa seguito un inno. L’annunzio, presente nel v. 11, sviluppa cinque dati teologici significativi. Il testo suona così: «Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore». Innanzitutto l’«oggi», il presente costante della salvezza, vissuto nella liturgia, espressione della pienezza dei tempi. C’è poi la nascita, che è indizio di un inizio e quindi di una storia concreta; il terzo elemento è lo spazio, la «città di Davide». L’«oggi» eterno di Dio penetra nelle dimensioni « spazio-temporali » dell’uomo per fecondarle e trasfigurarle. Il quarto articolo di fede del Credo angelico è l’affermazione che Cristo è Salvatore (vedi Lc 1,69; Gv 4,42). Il quinto elemento è posto al vertice: Cristo è il « Kyrios », il Signore, il titolo che definiva il Dio dell’Antico Testamento. Come si vede, si proclama già la fede pasquale perché Gesù apparirà veramente come Signore nella sua risurrezione. È interessante notare che l’arte orientale ha reso questo aspetto pasquale del Natale in modo curioso: l’icona russa della « Natività », appartenente alla « Scuola di Novgorod » (XV secolo) rappresenta Gesù bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia che ha la forma di un sepolcro.
Accanto all’annunzio gli angeli pongono un inno, un altro dei cantici del vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca. È un « carme » che risuonerà nelle nostre liturgie festive: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (v. 14). La gloria è l’adorazione di Dio; Dio si manifesta agli uomini attraverso il suo amore, la sua « eudokía », la sua «buona volontà», il desiderio ardente del bene della sua creatura. Da questo atto di bontà nasce la «pace», il « shalôm » biblico che abbraccia prosperità, gioia, serenità, tranquillità, pienezza di vita. Il bambino di Maria, «principe della pace» (Is 9,5), «è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, per creare dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce. Egli è venuto, perciò, ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,14-17).
L’ultimo personaggio che è presente alla scena del Natale è la figura più importante, è lei, la « Theotókos », la Madre di Dio, come proclamerà il « Concilio di Efeso ». Maria «serbava tutte queste cose e le meditava nel suo cuore» (v. 19): essa «ha ascoltato la Parola e la conserva in un cuore onesto e buono» (Lc 8,15). Maria conserva e, come dice l’originale greco, «mette insieme», cioè dà un senso a tutto ciò che sta accadendo, scoprendo il piano divino sotteso agli eventi. È la sapiente per eccellenza, che penetra nei segreti della salvezza che Dio ci sta offrendo e che si attuano anche per suo tramite.
Concludiamo la nostra descrizione, associandoci al cantore siro Romano il Melode, nato in Siria attorno al 490, convertitosi al cristianesimo e vissuto come diacono tutta la vita presso il santuario mariano del quartiere «di Ciro» a Costantinopoli, ove fu sepolto dopo il 555 e prima del 562. Romano, secondo la tradizione, avrebbe composto un migliaio di inni; i codici ce ne hanno trasmesso solo 85 e non tutti autentici. Eppure anche questi bastano a rivelarci la statura poetica di questo artefice dell’innografia bizantina, venerato come santo dalle Chiese d’Oriente che lo ricordano il 1° ottobre. I suoi inni, appartenenti al genere detto « kontakion », sono in realtà omelie in poesia. Al Natale sono dedicati tre inni. Nel primo, Romano mette sulle labbra di Maria questo dolcissimo « monologo-dialogo » col Figlio…

« Dimmi, o Figlio, come sei stato seminato in me e come sei nato!
Ti vedo, o mie viscere, e stupisco.
Il mio seno è gonfio di latte e non sono sposa. Ti vedo avvolto nelle fasce e scorgo ancora intatto il sigillo della mia verginità.
Sei tu, infatti, che l’hai serbato tale quando ti sei degnato di nascere, o nuovo Bambino, Dio anteriore ai secoli!
O Re eccelso, che cosa c’è di comune tra te e le nostre miserie?
O creatore del cielo, perché vieni tra noi, uomini della terra?
Ti sei lasciato incantare da una grotta e un presepio ti è caro? (I, 2-3).
Lo Spirito stese le sue ali sul grembo della Vergine ed ella concepì e partorì e divenne madre-vergine con molta sollecitudine.
Rimase incinta e partorì senza dolore un figlio… Lo generò in esempio, lo possedette in grande potenza, lo amò in salvezza, lo custodì nella soavità, lo mostrò nella grandezza.
Alleluia! ».

DIO E L’INFINITO NELLA BIBBIA – GIANFRANCO RAVASI

http://www.aleteia.org/it/religione/documenti/dio-e-infinito-nella-bibbia-1973001

DIO E L’INFINITO NELLA BIBBIA

TESTO TRATTO DA GIANFRANCO RAVASI, « DOVE SEI, SIGNORE? »

Praticamente assente come categoria filosofica e fisica, l’infinito si intreccia alla dimensione dello spazio e al suo costituirsi come orizzonte di incontro di Dio con l’uomo
Nella fama popolare lo scrittore americano ottocentesco Edgar Allan Poe è rimasto autore di inquietanti gialli di indole metafisica. Egli, però, ci ha lasciato anche vari scritti teorici. In uno di essi, Eureka del 1848, osservava: “La parola ‘infinito’ – come le parole ‘Dio’, ‘spirito’ e alcune altre, i cui equivalenti esistono in tutte le lingue – non è espressione di un’idea, ma espressione dello sforzo verso quell’idea”. Questa considerazione ben s’adatta alla Bibbia, quando essa viene sfogliata alla ricerca di temi teorici, di categorie filosofiche e teologiche simili a quelle che il mondo greco-romano ha sviluppato in modo sistematico sulla via della speculazione. E’ proprio il caso del concetto di infinito: senza esitazioni il Concilio Vaticano I (1870) applicava questo aggettivo a Dio, così come secoli prima il Concilio Lateranense IV (1215) lo definiva “immensus”. Ma per una civiltà come quella semitica, che elaborava il suo pensiero attraverso i simboli e l’esperienza concreta, il concetto di infinito – per usare le parole di Poe –, più che un’idea chiara e distinta, era “espressione di uno sforzo” per conquistare e raffigurare quell’idea.
Accadeva così anche per il concetto di nulla, che veniva rappresentato attraverso il mare, visto in opposizione alla terra abitata (cf Gb 38,8-11), oppure ricorrendo alle tenebre, all’abisso e al deserto (cf Gen 1,2). Per noi queste realtà non sono il nulla, ma in una mentalità simbolica incarnavano l’assenza di terra, di luce, di materia, di vegetazione, considerate come l’essere per eccellenza. Per questo stesso motivo non è possibile cercare la parola “infinito” nella Bibbia; bisognerà procedere per una via simbolica, seguendo
lo sforzo degli autori sacri di immaginare quell’idea. Tre sono i percorsi che proponiamo. Il primo è il semplice e immediato: l’infinito è la negazione di un limite, di una frontiera, in ebraico ‘en-sof, “senza confine”, oppure en-qeqez, “senza bordo, fine”. Illuminante è il contrappunto tra finito e infinito in questo versetto salmico: “Di ogni cosa perfetta ho visto il limite: il tuo decreto è esteso, senza limiti” (Sal 119,96). Infinito può essere, però, anche il peccato dell’uomo, le cui iniquità sono innumerevoli (cf Gb 22,5), ma per analogia si può anche parlare di “una folla innumerevole” (Qo 4,16), così come lo sono i libri pubblicati (cf Qo 12,12), l’universo “grande e senza fine, eccelso e senza misura” (Bar 3,25) e le genealogie umane “interminabili” (1Tm 1,4).
E’ però soprattuto Dio ad essere descritto così. L’autore della lettera agli Ebrei, citando il Sal 102,28 ricorda in 1,12 che “gli anni di Dio non finiranno”, mentre del sacerdote Melchisedek, simbolo di Cristo, si afferma che è “senza principio di giorni e fine di vita” (Eb 7,3), evocando in tal mondo l’idea parallela di eternità. Così dell’agàpe, l’amore cristiano, san Paolo dice che “non ha fine” (1Cor 13,8) e usa un avverbio greco che indica il “dappertutto” (oudépote), cercando di rendere visiva questa presenza illimitata e insuperabile. Ma a questo punto è necessario imboccare la seconda via che la Bibbia adotta per evocare il tema dell’infinito. E’ quella più congeniale alle culture antiche (ma non solo), ossia il ricorso ai simboli che, pur essendo di per sé limitati e a livello materiale e fisico, possono rimandare allusivamente a un’immensità innumerevole e a una trascendenza illimitata. E’, ad esempio, il caso dei granelli di polvere del terreno o della sabbia del litorale marino (cf Gen 13,16), oppure quello dello stelle in cielo (cf Gen 15,5). Un’altra simbolica ricorre ai numeri “innumerabili” come il “mille”: la bontà divina si stende per mille generazioni, mentre la sua giustizia solo fino a tre o quattro generazioni (cf Es 20,5-7; 34,7). I cori angelici sono “mille migliaia e miriadi di miriadi” (Dn 7,10).
Un altro paradigma simbolico per esprimere l’infinito è, invece, di taglio alfabetico ed è caro all’Apocalisse: “Io sono l’Alfa e l’Omega” (Ap 1,8; 21,6; 22,13) e talora s’accosta alla formulazione dell’eternità attraverso l’arco integrale del tempo applicato a Dio, “Colui che è, che era e che viene”. La prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco esprimono una figura stilistica detta “polarismo”: attraverso i due estremi si vuole indicare tutto ciò che in essi è contenuto; quindi la totalità dell’essere.
E’ evidente che in questi percorsi simbolici l’elemento di base è una realtà finita che viene tesa a raffigurare l’Oltre e l’Altro infinito ed eterno. Questo discorso, infatti, vale anche per il concetto di “eternità”. Si pensi che in ebraico ‘olam, che spesso è reso con “eternità”, di per sé significa l’arco intero del tempo (e anche dello spazio) ed è così che in greco aiôn – che designa il “secolo” presente, cioè l’intero arco storico – diventa emblema di eternità, soprattuto nella formula “nei secoli” (Lc 1,33), ereditata dalla liturgia cristiana nell’espressione “nei secoli dei secoli”.
Analogo per l’idea di infinito è il ricorso al “cielo”, anzi al superlativo “cieli dei cieli”. Molto nitida al riguardo è una frase delle preghiera di consacrazione del tempio di Salomone, ove il confronto dialettico tra finito (tempio) e infinito è così espresso: “Ma veramente Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere, quanto meno lo potrà questo tempio che ho costruito!” (1Re 8,27).
Ed è da questa intuizione che procediamo verso l’ultima via biblica per definire l’infinito, in questo caso secondo una dimensione sempre più teologica, che è di grande pertinenza per lo sviluppo del tema generale di questo libro. Ci sono molti testi che puntano direttamente a illustrare l’onnipresenza, l’onnipotenza e l’onniscienza di Dio, ed è per questa strada che si esalta la sua infinità, che non conosce limiti spaziali o temporali, dato che egli “riempie il cielo e la terra” (Ger 23,24). Egli supera ogni frontiera cosmica, invalicabile all’uomo: “Chi è salito al cielo e ne è disceso?”, si chiede Agur, sapiente orientale citato dal libro dei Proverbi, in una serie di domande retoriche: “Chi ha raccolto il vento nelle sue palme? Chi ha racchiuso le acque nel mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra?” (Pr 30,4; si legga anche Gb 38-39). “La perfezione dell’Onnipotente”, afferma Zofar, il terzo degli amici di Giobbe, “è più alta dei cieli: che cosa puoi fare? E’ più profonda degli inferi: che ne puoi sapere? E’ più estesa della terra nella sua dimensione ed è più vasta del mare” (Gb 11,7-9).
In questa stessa linea si muove l’apostolo Paolo, quando agli Efesini augura di essere capaci di “afferrare, insieme a tutti i santi, la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, cioè a conoscere l’amore del Cristo che trascende ogni conoscenza” (Ef 3,18). Evidente è il paradosso di comprimere nella conoscenza umana ciò che di sua natura è in-comprensibile e trascendente, ossia l’amore divino che travalica le coordinate spaziali dell’essere. Noi, dichiara ancora l’Apostolo nella sua celebre allocuzione all’Aeropago ateniese, “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” in Dio che supera ogni nostro confine e tracciato, inglobandolo e rivelandosi sempre oltre. In questa linea è decisivo il Sal 139 (138), un gioiello poetico, dedicato all’esaltazione dell’onnipresenza del Creatore e quindi alla sua infinità onnicomprensiva, per cui ogni fuga da lui è impossibile, come già riconosceva un testo aramaico di El-Amarna (Egitto): “Se noi saliamo in cielo, se noi scendiamo agli inferi, la nostra testa è sempre nelle tue mani, o Dio”.
Nella prima strofa del Salmo (vv. 1-6) si esalta l’onniscenza divina totale e assoluta. Dio mi conosce “quando mi siedo e quando mi alzo, quando cammino e quando sosto”: sono anche in questo caso “polarismi” che indicano le azioni estreme della vita umana, ma vogliono riassumerne tutte le altre in esse comprese, essendo a lui aperti i segreti profondi dei nostri pensieri e delle nostre parole prima ancora che sboccino. L’infinito divino è celebrato, invece, soprattutto nella seconda strofa (vv. 7-12), quando si descrive il “folle volo” dell’uomo per sottrarsi a Dio. Tutto lo spazio è percorso, dalla verticale cielo-inferi fino all’orizzontale est-ovest (aurora-mar Mediterraneo). Canta il Salmista: “Dove potrei andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire lontano dalla tua presenza? Se scalassi i cieli, là tu sei, se discendessi negli inferi, eccoti. Se prendessi le ali dell’aurora e riuscissi ad abitare all’estremità del mare, anche là mi guiderebbe la tua mano e mi prenderebbe la tua destra” (vv. 7-10).
Ma anche tutto il tempo con la sequenza circadiana (che riguarda, cioè, la sequenza delle ventiquattro ore, e quindi il ciclo notte-giorno) è superato da Dio, che anche in tal modo svela la sua eternità. Nella terza strofa (vv.13-18) anche qualcosa di infinitamente piccolo come l’embrione umano nel grembo della madre è conosciuto in tutto il suo potenziale, destinato a fiorire nella vita fatta di opere e pensieri. Dio è quindi colto come infinito proprio per questa sua capacità di onnipresenza trascendente ed è forse questo il concetto più caro all’autore sacro: la sua ricerca dell’infinito approda non all’infinito filosofico o fisico, ma all’Infinito teologico.
In questa luce potremmo riconoscere – sulla scia delle parole di uno scrittore politico francese lontano da temi religiosi diretti, Georges Sorel (1847-1922), nelle sue Riflessioni sulla violenza del 1908 – che “quello che di migliore v’è nella coscienza umana è il tormento dell’infinito”. 

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 9 décembre, 2014 |Pas de commentaires »
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