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L’ALLENAMENTO PER CHI VUOLE SALIRE
DI GIANFRANCO RAVASI
Tre monti nominati nella Bibbia hanno un rilievo, un’incidenza tutta particolare. Cominciamo col « monte Sion ». Cominciamo di qui, anche se non è il primo dal punto di vista logico, non soltanto perché il monte Sion riassume in sé tutta la tensione verso l’alto delle pagine bibliche – come abbiamo potuto vedere anche attraverso lo sguardo che si leva verso l’alto e verso il monte, l’unico che può dare la salvezza – ma anche perché col monte Sion è stato identificato da parte della tradizione ebraica e cristiana prima e poi anche da parte di quella musulmana, un altro monte, che è radicale per tutte e tre le religioni monoteiste, ovvero il monte di Abramo, il monte Moria, monte che non è rintracciabile in nessun atlante.
Faremo solo tre considerazioni essenziali. La prima: l’identificazione tra Sion e monte Moria. Che cos’è il monte Moria? È per eccellenza il monte della fede. Sappiamo che nel racconto del capitolo 22 della Genesi, una pagina tra l’altro di straordinaria fragranza non solo teologica, ma anche narrativa, Abramo si trova di fronte alla prova più ardua della sua fede. Dio infatti lo invita quasi a smentire se stesso: Isacco non era forse il figlio della promessa e quindi il dono di Dio per eccellenza? Come andare contro la promessa stessa di Dio per ordine dello stesso Dio, uccidendo Isacco, cancellando per ciò stesso il senso della promessa? Si tratta qui, dunque, di un’esperienza che è l’esperienza più lacerante possibile, più tenebrosa. In quel momento appare un Dio amato e crudele allo stesso tempo e Abramo deve credere in lui correndo il rischio estremo, il rischio dell’assurdo, perdendo tutte le ragioni del credere, comprese le ragioni stesse della fede, cioè il figlio suo, dono di Dio. È per questo motivo che l’autore sacro, nel descrivere i tre giorni di viaggio per ascendere le pendici del monte Moria, mette in scena un dialogo tra Abramo e suo figlio continuamente ritmato sulle relazioni di paternità e filiazione: « padre mio », « figlio mio », si dicono continuamente tra di loro, aggrappandosi all’unico valore che essi hanno, quello della paternità e della filiazione, cioè a un valore umano, in quanto non c’è più ormai alcun valore evidente di fede che possa aiutare in questo pellegrinaggio verso l’assurdo. E lassù sul monte, alla fine, si consuma il dramma.
Come sappiamo questa pagina della Genesi ha avuto un commento straordinario in un’opera di grande finezza filosofica e teologica, Timore e tremore di Soeren Kierkegaard. Il filosofo danese fa una considerazione a mio avviso molto interessante nel parlare del monte Moria-Sion come monte della fede. Egli ricorda come questo viaggio, questa ascesa al monte sia sicuramente il paradigma per eccellenza del vero credere e commenta questa considerazione utilizzando un’immagine che tra l’altro appartiene al mondo dell’Oriente. Egli dice che quando la madre deve svezzare il suo bambino si tinge di nero il seno perché il piccolo non l’abbia più a desiderare; in quel momento il bambino odia sua madre perché gli toglie la sorgente del suo piacere, del suo cibo, del suo alimento; in quel momento il bambino sente che la madre in un certo senso lo costringe ad andare lontano da lei. Questo è un gesto che alla madre costa; vi sono, come sappiamo, delle madri che questo gesto non lo fanno mai. Tutti abbiamo conosciuto nella vita qualche persona di cui si usa dire che non ha avuto mai il cordone ombelicale staccato da sua madre; si tratta di quelle persone incapaci, sempre timorose, che sempre hanno bisogno di tornare al grembo della madre, che hanno paura del mondo. La madre, dunque, quando stacca il figlio da sé, compie un gesto che a lei costa, ma alla fine risulta un gesto d’amore perché in quel momento il figlio diventa finalmente una creatura libera che cammina per il mondo da sola.
Il gesto che Dio fa sul monte Moria vuol significare dunque che il credere deve essere frutto totale e assoluto di una decisione libera dell’uomo, non dipendere cioè dall’aver ricevuto dei doni, con la relativa certezza quindi che il credere sia simile a un evento economico, un dare e ricevere. È per questo motivo allora che nel finale si dà del monte Moria un’etimologia che, come spesso succede nelle etimologie bibliche, filologicamente non è probabilmente fondata: secondo tale etimologia il significato del termine sarebbe « là sul monte Dio provvede »; è dunque il monte della provvidenza di Dio, dell’amore di Dio nei confronti della sua creatura, è il luogo nel quale Dio vede che ormai la fede di Abramo è totale e assoluta, pronta anche a strapparsi il figlio dalle proprie viscere.
Seconda considerazione a proposito del monte Sion. Facciamo riferimento a Isaia (2, 1-5). Si tratta di una pagina anche questa di grande bellezza letteraria, è il grande Isaia, il Dante della letteratura ebraica. Qui si rappresenta il monte Sion avvolto di luce mentre delle tenebre planetarie, potremmo dire, si stendono su tutto il mondo. All’interno di questa oscurità si muovono processioni di popoli e queste processioni hanno come punto di riferimento questo monte, che certo non è il più importante della terra. I popoli vengono da regioni diverse, salgono il monte, il monte della parola di Dio, e una volta che sono saliti in Sion ecco che lasciano cadere dalle mani le armi; le spade vengono trasformate in vomeri e le lance in falci e Isaia dice: « Essi non si eserciteranno più nell’arte della guerra ». Sion diventa il luogo nel quale tutti i popoli della terra convergono e là fanno cadere l’odio e costruiscono invece la pace; cancellano la guerra e costruiscono un mondo di armonia.
E qui, per inciso, possiamo osservare come il testo di Isaia sia attuale; sempre nella storia di Israele le pietre di Sion sono striate di sangue, e ancor più, purtroppo, ai nostri giorni. Tutti i popoli hanno dunque, come dice la Bibbia, diritto di cittadinanza in Sion, non solo gli Ebrei; e tutti i popoli, quando trasformano i vomeri in spade, gli strumenti per lavorare la terra in strumenti di guerra, compiono un atto blasfemo nei confronti del sogno di Dio.
Nel salmo 87 possiamo incontrare una ulteriore conferma a quanto abbiamo appena detto. Troviamo qui una formula che in ebraico è ripetuta tre volte, anche se con una variazione: jullad sham / jullad bah, « tutti là sono nati / in essa sono nati » tutti i popoli della terra. Questa formula, tecnicamente parlando, era la formula propria dell’anagrafe, dell’iscrizione nei registri di una città. Nel salmo in questione l’elenco delle nazioni, dei luoghi che vengono citati, è in pratica la planimetria del mondo allora conosciuto; si va da Rahab, che indica l’Egitto, a Babel, che indica Babilonia, la superpotenza occidentale e quella orientale, quindi. Viene nominata anche la Palestina, i Filistei, anche loro con diritto di cittadinanza in Gerusalemme; vengono nominati tutti i popoli della terra, anche i più remoti: tutti trovano in Gerusalemme il loro luogo di nascita, tutti hanno un diritto nativo in Gerusalemme. Alla fine il poeta immagina che tutti questi popoli così diversi tra loro siano in Sion e siano là cantando e danzando, ripetendo questa loro professione d’amore nel monte Sion, il monte del tempio: « In te sono tutte le nostre sorgenti ».
Terza considerazione: dopo il monte della fede e il monte della pace, ecco ora profilarsi in Sion il monte di Dio per eccellenza, il monte dell’incrocio e dell’abbraccio tra Dio e l’uomo. È bellissimo il termine con cui viene definito nella Bibbia il tempio; di per sé è il termine che viene usato quando si parla del santuario mobile nel deserto, lo si chiama in ebraico ‘ohel mo’ed, cioè « la tenda dell’incontro », naturalmente la tenda dell’incontro degli Ebrei tra di loro: è, infatti, il luogo dell’assemblea, qahal in ebraico, l’assemblea dei figli di Israele. Ma è anche il luogo dell’incontro e dell’abbraccio dell’uomo con Dio. Possiamo osservare allora come il santuario di Sion non corrisponda ai templi magici: qui si tratta dell’incrocio, dell’intreccio, dell’abbraccio di due libertà. Tant’è vero che, se Israele è peccatore, Dio non è costretto a stare nel tempio di Sion. Conosciamo la riflessione che fanno, ad esempio, i profeti Geremia ed Ezechiele a proposito della presenza di Dio in Sion. Secondo Geremia, se Sion si trasforma in una spelonca di ladri, Dio allora non è più lì, non è costretto nel perimetro sacro e consacrato, quasi per una costrizione magica.
È significativo il capitolo ottavo del Primo Libro dei Re dove si parla della grande preghiera di dedicazione del santuario di Sion che Salomone pronuncia dopo aver eretto il tempio. Vi sono due frasi che ora riporteremo e che mostrano veramente come lì si compia il mo’ed, cioè l’incontro, il convegno. Al versetto 27 si dice: « I cieli e i cieli dei cieli, o Signore, non ti possono contenere, quanto meno questa casa che io ho costruita! ». Dio, che è infinito, non può essere compreso nel perimetro sacro di un tempio, Dio non può essere costretto magicamente a essere lì, ma come si dice al versetto 30: « Ascolta la supplica del tuo (…) popolo, quando pregheranno in questo luogo. Ascoltali dal luogo della tua dimora ». Possiamo qui osservare come Dio giunga dalla sua dimora celeste, che è il simbolo appunto della trascendenza, ad ascoltare il grido che l’uomo eleva verso di lui: ecco allora che il tempio di Sion diventa il luogo del dialogo.
Di Sion abbiamo dato dunque tre definizioni: in primo luogo monte della fede, della fede più pura, più assoluta, sotto il nome di monte Moria, il monte sul quale Abramo, padre di Israele, padre della nostra fede di cristiani, padre attraverso Ismaele dell’Islam, compie il suo atto di fede. Ciò che è importante qui non sono le opere, ma il suo atto di fede in Dio, fede pura e totale. Seconda definizione: luogo della pace, del sogno di Dio in un’umanità che si incrocia e si riunisce in Sion. Infine, terzo momento, luogo dell’intreccio delle mani di Dio e dell’uomo attraverso il santuario.
Passiamo ora al secondo monte che costituisce un momento obbligato di riflessione: il monte Sinai, un monte evidentemente carico di risonanze, a proposito del quale vorrei però anche in questo caso indicare solamente tre dimensioni. La prima: il Sinai è il luogo della teofania, della grande manifestazione del Dio misterioso. « Sul far del mattino vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte, un suono fortissimo di tromba, tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da terrore » (Esodo, 19-26). Siamo di fronte alla celebrazione per eccellenza del tremendum di Dio, è il luogo questo nel quale Dio ci fa scoprire tutta l’impotenza dell’uomo – chi è stato sul Sinai riesce anche a intuirlo proprio nell’atmosfera stessa di questo monte, monte solitario, monte desolato, arido, attraversato dal vento, prosciugato dall’incandescenza del sole, mutevole anche per i cangianti colori delle sue pietre durante la giornata.
Seconda riflessione: è anche il luogo della « teo-logia », cioè non solo della manifestazione, dell’apparizione di Dio, ma anche della parola di Dio. A questo proposito vorrei ricordare, oltre al Decalogo che ci giunge da questo monte – le dieci parole fondamentali sulle quali si organizza ancora la nostra pur dispersa e tante volte anche disordinata e distratta società – soprattutto un bellissimo versetto del quinto libro della Bibbia, il Deuteronomio, laddove Mosè, ricordando quell’esperienza, dice: « Il Signore vi parlò dal fuoco, voi udivate soltanto qôl devarîm [cioè una voce di parole, un suono di parole], ma non vedevate alcuna figura », non c’era nessuna temunah, nessuna figura, zulatî qôl, ma « soltanto una voce ». Bellissima questa intuizione che ci ricorda come sul monte noi scopriamo soltanto la voce circondata dal silenzio. Eccoci dunque a una seconda esperienza fondamentale: la parola da scoprire sul monte, la « teo-logia ».
In terzo luogo vorrei porre l’accento su di un vocabolo che non è evidentemente nella Bibbia e neppure è normalmente usato nella teologia; è un vocabolo coniato da Pierre Teilhard de Chardin per parlare del manifestarsi di Dio che si riflette in noi: egli utilizza il termine « diafania ». Teofania, teologia e ora diafania, ovvero il passare di un Dio « diafano » attraverso di noi, attraverso la terra, attraverso il monte in questo caso.
È dunque per questo motivo che il Sinai diventa anche il luogo dell’intimità di Dio, non unicamente del Dio terribile, affatto diverso da noi, totalmente altro, non soltanto del Dio che ti dà la sua parola, ma anche del Dio che persino si adatta a te, entrando misteriosamente accanto a te con tenerezza.
A questo punto non possiamo allora prescindere da due riferimenti biblici molto significativi. Innanzitutto quella bellissima, indimenticabile esperienza di Elia sul monte Horeb – un altro nome per il Sinai – che viene descritta nella Bibbia nel primo libro dei Re. Dio non si presenta qui con l’apparato teofanico, pur legittimo, Dio non è nel vento che spacca la roccia, non è nel fulmine, nella folgore, non è nel terremoto che sommuove la terra, ma semplicemente Dio è in « un mormorio di vento leggero ». In ebraico tutto ciò viene espresso con tre parole, tre parole che sono veramente un capolavoro anche dal punto di vista dell’intuizione: Elia scopre soltanto qôl demamah daqqah, cioè qôl « voce, suono », demamah « silenzio », daqqah « sottile ». Dio diventa una voce di silenzio sottile, un silenzio « bianco » che riassume in sé tutti i colori, come il bianco riassume tutto lo spettro cromatico. Dio si adatta talmente da avvolgerci pacatamente con la quiete del silenzio. Un’esperienza appunto che anche il laico, incontrando il silenzio, prova sulla montagna.
L’altro riferimento è al Sinai cristiano, cioè al monte delle Beatitudini. Come sappiamo gli esegeti spiegano che seppur la tradizione l’abbia identificato con quel bellissimo poggio che si affaccia sul lago di Tiberiade, in realtà si tratta di un monte teologico più che di un monte orografico, topografico. Tant’è vero che una parte del discorso che Matteo mette sul monte, Luca, nel capitolo sesto del suo Vangelo, lo ambienta in un luogo pianeggiante, campestre. Le Beatitudini probabilmente sono enunciate in un’area attorno alla sponda del lago di Tiberiade, abbiamo però bisogno di collocarle proprio su un monte, il monte della teofania, della teologia, della diafania perché in Matteo Cristo diventa il nuovo Mosè, il Mosè per eccellenza, che raccoglie e compendia tutto l’insegnamento di Mosè. Noi sappiamo che Gesù fa riferimento proprio ai testi del Sinai portandoli all’estreme conseguenze, radicalizzandoli, mostrando la vicinanza assoluta di Dio che, attraverso le Beatitudini e il discorso della montagna, si presenta come il Dio d’amore, della pienezza, della intimità assoluta. Lutero usava un’espressione paradossale in latino, persino ironica potrebbe apparire, per rappresentare Cristo in quel momento. Egli diceva che sul monte delle beatitudini Cristo è Mosissimus Moses, è il Mosè all’ennesima potenza. Tutto quello che Mosè aveva rappresentato ora Cristo ce lo rappresenta mostrandoci non solo la trascendenza, non solo la parola di Dio ma anche la sua intimità.
Giungiamo così al terzo e ultimo monte della Bibbia. Il monte che ora citeremo, quasi inesistente dal punto di vista orografico, è un punto di passaggio obbligato per noi cristiani: si tratta infatti del Golgota, del Calvario. Un monte che di sua natura è, come abbiamo detto, irrilevante – chi è stato a Gerusalemme sa che il monte è inglobato ormai all’interno della basilica del Santo Sepolcro -: si tratta di uno sperone roccioso di sei o sette metri, chiamato Golgota, in aramaico « cranio », probabilmente per la sua forma tondeggiante, o forse perché lì vicino c’erano le sepolture dei condannati a morte. L’etimologia qui ora non ci interessa; vogliamo però sottolineare come in Occidente tutti, anche coloro che non hanno nessuna fede in Cristo, sanno che cos’è il Calvario (traduzione latina della parola aramaica Golgota), tanto che l’espressione « un calvario di sofferenze » è diventata un modo di dire comune.
Se analizziamo questo luogo, soprattutto attraverso la teologia dei Vangeli e in particolare del quarto Vangelo, ci accorgiamo che esso è, sì, il monte della morte ma anche, a ben vedere, il monte della vita; è il monte dell’umanità, della tragedia di un Dio che assume la finitudine fino al punto da bere il calice della sofferenza, della solitudine, della tristezza, del silenzio di Dio (« Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? »); ma è insieme anche il luogo nel quale Giovanni già ci mostra la gloria dell’elevazione, della resurrezione. Il Calvario è già anche il monte dell’ascensione, è già il monte degli Ulivi, è il monte anche della glorificazione, dell’esaltazione, della speranza. Il Calvario è dunque insieme monte del dolore e del sangue e monte della gloria e dell’infinito. A questo punto giungiamo a capire come il Calvario riesca a riassumere quelle due dimensioni a cui sempre abbiamo fatto riferimento. Sul monte infatti è sempre Dio che noi cerchiamo, però siamo noi a salire, siamo noi che con la nostra fatica ascendiamo.
Vorrei concludere parlando della mistica della montagna. Sappiamo infatti come tutta la tradizione mistica abbia usato spesso la montagna come una parabola. Voglio qui accennare – sperando che magari qualcuno abbia l’occasione di riprendere in mano o di leggerlo se non l’ha mai fatto – a un libro, in verità arduo e che, tra l’altro, ha come punto di riferimento un monte biblico: intendo riferirmi alla Salita del monte Carmelo, uno dei capolavori, insieme con il Commento al Cantico dei Cantici, di Giovanni della Croce, Juan de la Cruz.
Giovanni della Croce scrive questo libro nel 1578, libro che poi non completa. È un testo raffinatissimo dal punto di vista della ricerca intellettuale, ma anche soprattutto dal punto di vista della mistica, un testo carico di simboli, ma anche di esperienze interiori. È curioso tra l’altro come il santo abbia disegnato più volte – tant’è vero che ne esistono più copie di sua mano e molte altre fatte dai suoi discepoli – un bozzetto del monte Carmelo, micrografandolo poi con scritte che indicano i vari percorsi, i vari itinerari di ascesi, di purificazione oltre che di illuminazione. Questo disegno, con le indicazioni relative al percorso di salita rappresentato in maniera folgorante, Giovanni lo dava alle suore di cui era confessore perché lo tenessero nel loro libro di preghiere.
Nel descrivere questa salita al monte egli inizia con una poesia, dichiarando di volerla poi commentare, mentre in realtà ne commenterà effettivamente solo una strofa. Nel monte Carmelo, il monte di Elia, il monte della sfida con l’idolatria (1 Re, 18), il monte dell’ordine carmelitano a cui Giovanni apparteneva, egli riassume tutta una serie di significati insieme ascetici e mistici. Il termine « ascesi » a noi purtroppo evoca solo l’idea della fatica, della purificazione in senso negativo; questo non è del tutto vero in quanto qui l’ascesi si intreccia già con la mistica.
« Ascesi » infatti, come dice il termine greco àskesis, non vuol dire « penitenza », ma semmai « esercizio ». Pensiamo ad esempio all’acrobata, a quei disegni così improbabili che egli fa e che sfidano le leggi stesse della fisica; l’acrobata compie tutto ciò con estrema facilità perché alla base c’è un esercizio che alla fine diventa creatività, disegno. E pensiamo anche alla professione della ballerina. Osservandone gli eleganti e dinamici tratti nell’atto della danza ci si rende conto di cosa voglia dire riuscire a costruire l’equilibrio sulla punta di un piede, che cosa comporti tutto quel gioco di movimenti che anche in questo caso rappresentano una sfida continua alle leggi della fisica. Per lei, però, tutto ciò non avviene ora attraverso il calcolo e la fatica, ma semmai attraverso un libero abbandono che produce e suppone divertimento e creatività.
Questa è l’ascesi, è fatica indubbiamente, è esercizio pesante, ma alla fine giunge a essere grande creatività che è al tempo stesso grande libertà.
(L’Osservatore Romano 30-31 agosto 2010)