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LE OPERE DELLA CARNE E I FRUTTI DELLO SPIRITO – (Galati 5, 16.19-25) Gianfranco Ravasi

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LE OPERE DELLA CARNE E I FRUTTI DELLO SPIRITO – (Galati 5, 16.19-25)

Gianfranco Ravasi

(Pontificio Consiglio della Cultura)

Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne… Sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso: chi le compie non erediterà il regno di Dio.
Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito. (Galati 5, 16.19-25)
C’è una particolare legge dello stile orientale, detta dell’“inclusione”: quando si vuole definire il perimetro di un brano, lo si inizia e lo si conclude con la stessa frase. È ciò che accade nel testo paolino che la liturgia della solennità di Pentecoste ci propone, traendolo dalla Lettera ai Galati (5, 16-25), testo che noi abbiamo citato in forma abbreviata. Infatti, il brano si apre con l’appello: «Camminate secondo lo Spirito» e finisce ripetendo: «Camminiamo secondo lo Spirito». Ben sappiamo che il “cammino” è il simbolo della vita.
Ecco, allora, due modelli antitetici di esistenza, quello secondo lo Spirito di Dio e quello che si basa sulla “carne” che nel linguaggio di san Paolo designa il principio del peccato. La “via” luminosa e libera dello Spirito si contrappone al “desiderio” cupo e schiavizzante del vizio e del male. Diamo, allora, uno sguardo a questi due modelli di vita che l’Apostolo concretizza attraverso una duplice lista di vizi e di virtù, sulla scia della tradizione filosofica greca, soprattutto stoica, che aveva già elaborato simili cataloghi etici.
È, però, significativo notare prima la denominazione generale usata da Paolo. I vizi sono definiti «opere della carne», perché nascono dall’azione del peccatore, mentre le virtù sono «frutti dello Spirito», perché sbocciano dall’uomo che ha in sé la grazia efficace dello Spirito di Dio. È per questo che Paolo considererà sempre le opere buone non come un merito da accampare nei confronti di Dio, ma come il frutto che deve necessariamente maturare dalla grazia divina in noi accolta. Per comprendere questa visione basti pensare alla madre che non diventa tale per alcuni atti di affetto che compie nei confronti della sua creatura, ma, proprio perché è madre, non può che donare la sua opera e il suo amore al figlio.
Quindici sono, invece, gli atteggiamenti immorali “carnali”. Essi si raggruppano tra loro. Ecco la trilogia sessuale della fornicazione, dell’impurità e della dissolutezza, a cui seguono due vizi di indole “religiosa”, cioè l’idolatria e la magia, che non escludevano tra l’altro una componente sessuale, dato che comportavano spesso la prostituzione sacra (così accadeva nel culto della dea Afrodite e di Cibele). Ben sette elementi hanno di mira i disordini nelle relazioni interpersonali e sono il segno anche delle tensioni nelle stesse comunità cristiane: inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie. Si conclude col peccato di gola, nei suoi tipici eccessi, cioè nelle ubriachezze e nelle orge, caratteristiche del mondo contemporaneo greco-romano.
Ma, di fronte a questi bassifondi della morale, Paolo apre ai suoi lettori l’orizzonte luminoso dello Spirito che genera nel cuore e nella vita dei fedeli nove virtù, il cui corteo è articolato in forma ternaria. Ecco la prima triade, aperta dall’amore e seguita dalla gioia e dalla pace. Subentrano poi la magnanimità, la benevolenza e la bontà, che ricalcano la precedente trilogia per quanto riguarda il rapporto col prossimo. Infine, la fedeltà, la mitezza e il dominio di sé, che sono virtù di indole personale. È su questa triplice triade che deve modellarsi il nostro “cammino secondo lo Spirito”, ossia la nostra nuova esistenza di redenti da Cristo

QUANDO ARRIVA IL GIORNO DELL’INCONTRO – DI GIANFRANCO RAVASI

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QUANDO ARRIVA IL GIORNO DELL’INCONTRO

DI GIANFRANCO RAVASI

l passaggio di Cristo nella regione della morte ha trasformato il morire di tutti

« Fratello, se vieni a visitare la mia tomba, non devi piangere. Non è giusto addolorarsi per l’unione con Dio. Dopo la mia morte non cercare la mia tomba sulla terra: la mia tomba è nel cuore di coloro che amano ». Più di una volta ho sostato anch’io a Konya, in Turchia, sotto la grandiosa cupola verde ove è collocato il cenotafio di Gialal ed-Din Rumi, il grande poeta mistico musulmano del XIII secolo. Accanto si leggono appunto le parole che ho citato e che egli aveva dettato per la sua epigrafe. Esse ci svelano una delle tante coincidenze spirituali tra le grandi religioni nella loro anima autentica. Un’antica preghiera musulmana invoca: « Dio mio, concedimi di morire nel desiderio di incontrarti. Concedimi di prepararmi al giorno dell’Incontro ».
La morte, dunque, non come estuario che sfocia sul nulla, ma come l’Incontro per eccellenza con Dio nella casa del suo regno. Come dice Rumi, la nostra vera tomba non è nel sepolcro, ma nel cuore di coloro che amano, cioè quelli che hanno amore e fede dentro di sé, e quindi custodiscono una scintilla o un germe di eternità. E l’eternità è l’orizzonte a cui siamo destinati dopo la morte. Certo, ben diversi sono i sentimenti dominanti ai nostri giorni. Li esprimeva suggestivamente il cantautore Francesco Guccini nella sua Canzone di notte n.2: « Ognuno vive dentro ai suoi egoismi / vestiti di sofismi, / e ognuno costruisce il suo sistema / di piccoli rancori irrazionali, / di cosmi personali / scordando che poi infine tutti avremo / due metri di terreno ». Già Cristo aveva considerato questa visione minimalista della vita nella parabola del ricco insensato che accumula senza posa per piombare in una morte sulla quale echeggia una voce terribile: « Quello che hai preparato di chi sarà? » (Luca, 12, 20).
Sulla scia della celebrazione pasquale che si distende in questi giorni, riproponiamo un tema che è nel cuore di ogni creatura, nonostante lo sforzo di esorcizzarlo, quello del morire, ma lo faremo da un’angolatura teologica, anzi cristologica. Se stiamo ai Vangeli, Gesù incontra direttamente tre cadaveri: quelli della figlia di Giairo (Marco, 5, 35-43), del figlio di una vedova del villaggio galilaico di Nain (Luca, 7, 11-17) e dell’amico Lazzaro (Giovanni, 11). Davanti alla morte anche Cristo soffre, la percepisce come un dramma; lui stesso, sentendola incombere su di sé, è travolto dall’angustia. Annota Marco: nel Getsemani, Gesù « cominciò a sentire paura e angoscia. Disse a Pietro, Giovanni e Giacomo: La mia anima è triste fino alla morte » (14, 33-34). E la sua implorazione è quella di ogni uomo che supplica di essere liberato dallo spettro della fine: « Abba’, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! »; e l’evangelista ricorda: « pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora » (14, 35-36).
Quando, alla fine, la morte gli piomba addosso, essa ha i contorni di una vera e propria tragedia. La sofferenza fisica lo attanaglia brutalmente, gli amici lo lasciano solo e, su tutto, incombe il silenzio del Padre: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». Anzi, per Marco e Matteo, quella di Gesù è quasi una brutta morte: « Gesù, lanciando un forte grido, spirò… Gesù gridò di nuovo a gran voce ed emise lo spirito » (Marco, 15, 37; Matteo, 27, 50). Cristo rivela, in questo momento estremo, l’Incarnazione nella sua verità più lacerante: il Figlio di Dio, morendo, diventa veramente nostro fratello, perché la carta d’identità fondamentale di ogni figlio di Adamo reca sempre la data della morte, assente nella carta d’identità di Dio.
Eppure, anche in quell’istante e nei successivi, quando è un cadavere nelle mani ora crudeli dei soldati, ora pietose degli amici, Gesù non cessa di essere il Figlio di Dio. Ecco, allora, la radicale lettura cristiana della morte. Già appariva in quei tre incontri che sfociavano non su una risurrezione definitiva: la figlia di Giairo, il figlio della vedova e Lazzaro hanno, infatti, dovuto successivamente morire. Tuttavia, Cristo, facendo rivivere costoro temporaneamente, illustrava in maniera reale ed efficace il destino ultimo dell’umanità, la risurrezione, ossia la vita per sempre in Dio, il Vivente. La stessa redazione evangelica di quei miracoli di risurrezione tiene in filigrana quella di Cristo così da trasformarli in « segni » pasquali (esplicito è, al riguardo, Giovanni con la vicenda di Lazzaro). Questa luce avvolge in pienezza il morire di Cristo. Infatti, l’evangelista Luca all’abbandono del Padre, descritto da Matteo e Marco, sostituisce l’abbandono di Gesù al Padre: « Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito! Detto questo, spirò » (23, 46). E Giovanni, come è noto, presenta la morte in croce non più come il nadir dell’umanità di Gesù, bensì come lo zenit epifanico della sua divinità: « Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono » (8, 28) e non c’è bisogno di ricordare che « Io Sono » è l’autodefinizione divina del Sinai (Esodo, 3, 14).
Da un lato, Cristo col peso reale della sua umanità non minimizza né elide lo scandalo del morire, la sua dimensione di oscurità, il suo bagliore cupo di dolore. D’altro lato, però, la sua divinità, attraversando la regione tenebrosa della morte, la irradia con la luce della sua eternità. Il Venerdì Santo della crocifissione e il Sabato Santo della sepoltura, segni decisivi dell’Incarnazione, si aprono alla Domenica di Pasqua, che è – per usare una famosa frase del profeta Zaccaria – « un unico giorno, non avrà più né dì né notte, ma verso sera risplenderà di nuovo la luce » (14, 7), evidente metafora dell’eternità. Come scriveva suggestivamente in Resistenza e resa, il diario della sua « passione » nel lager nazista, Dietrich Bonhoeffer, « venire a capo del morire non significa ancora venire a capo della morte (…) Non è dall’ars moriendi, ma è dalla risurrezione di Cristo che può spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore ».
Un vento che san Paolo ha sentito soffiare così fortemente da farlo diventare non solo l’asse della sua cristologia, fin dal suo primo scritto che professa la « morte per noi » del Figlio di Dio (1 Tessalonicesi, 5, 10), ma anche dell’antropologia cristiana. Infatti, il passaggio reale di Cristo nella regione della morte trasforma il morire di tutti: egli « è morto per tutti, perché quelli che vivono (…) vivano per colui che è morto e risorto per loro » (2 Corinzi, 5, 15). In questa prospettiva la morte di Gesù è la liberazione della nostra prima e seconda morte, per usare il linguaggio dell’Apocalisse. Infatti, da un lato, « se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più (…) Egli morì una volta per tutte, ora vive e vive per Dio » (Romani, 6, 8-10). Egli, dunque, feconda il grembo della morte con la sua divina « rugiada luminosa », volendo ricorrere a un’immagine isaiana (26, 19) e ci fa risorgere non a vita transitoria ma alla vita eterna di Dio.
D’altro lato, però, egli ci libera anche dalla « seconda morte, lo stagno di fuoco » (Apocalisse, 20, 14), ossia dalla morte spirituale del peccato: « Cristo morì per i nostri peccati (…) Voi consideratevi morti al peccato, e viventi per Dio, in Cristo Gesù » (1 Corinzi, 15, 3; Romani, 6, 11). Oltre alla risurrezione dalla morte fisica, Cristo ci dona la giustificazione che libera dalla morte spirituale. Potente e fin audace è la frase della Seconda Lettera ai Corinzi: « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio » (5, 21). Proprio per questo duplice effetto, l’evento pasquale – come si diceva – è capitale sia nella cristologia sia nell’antropologia cristiana. Paolo è, al riguardo, esplicito nella sua celebre asserzione: « Se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede » (1 Corinzi, 15, 14). Naturalmente la riflessione teologica paolina è molto più complessa, ma il cuore del suo pensiero batte proprio nella morte-risurrezione di Cristo come principio e sorgente della nostra morte-risurrezione integrale (fisica e morale) e il battesimo ne è l’efficace rappresentazione « sacramentale ».
Un’ultima nota attorno al tema della morte di Cristo. Quell’evento è certamente un’umiliazione estrema per un Dio. San Paolo, nel celebre inno incastonato nella Lettera ai Filippesi, parla di una « kenosi » (ekènosen), un termine che indica uno svuotamento: « pur essendo nella condizione di Dio…, svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo…, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce » (2, 6-8). Ora, questa scelta di solidarietà nei confronti dell’umanità è espressione di amore. È così che nel Nuovo Testamento la croce di Cristo diventa un segno d’amore. Chi non ricorda l’emozionante avvio del racconto della passione di Gesù secondo Giovanni: « Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (13, 1)?
Anzi, in quella donazione suprema si può intravedere l’amore del Padre: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna » (3, 16). È un atto di amore libero e genuino, come osserva Paolo: « A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi » (Romani, 5, 7-8). A questo punto scatta una lezione per il fedele, è la via dell’imitazione da seguire.
Il filosofo danese dell’Ottocento Soeren Kierkegaard, nel suo Esercizio del cristianesimo, scriveva: « Che differenza c’è tra un ammiratore e un imitatore? L’imitatore è, ossia vuole essere chi egli ammira; l’ammiratore, invece, loda l’altro ma rimane personalmente fuori ». Ebbene, san Giovanni, nella sua Prima Lettera, di fronte alla morte di Cristo per amore (il « dare la vita per la persona che si ama », come aveva detto lo stesso Gesù) ci invita non tanto all’ammirazione ma all’imitazione: « In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che Cristo ha dato la sua vita per noi. Allora, anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli » (3, 16).

(©L’Osservatore Romano 12-13 aprile 2010)

“CHI TROVA UN AMICO, TROVA UN TESORO”…LO DICE LA BIBBIA! – CARD. GIANFRANCO RAVASI

http://www.aleteia.org/it/stile-di-vita/articolo/amicizia-chi-trova-amico-tesoro-siracide-bibbia-riflessione-commento-5784269825769472

“CHI TROVA UN AMICO, TROVA UN TESORO”…LO DICE LA BIBBIA!

L’AMICIZIA È UN GRADINO DELLA SCALA DELL’AMORE PER DIO

CARD. GIANFRANCO RAVASI 

Una forma essenziale e vitalissima di questo amore che sfida la solitudine e sopravvive alle inclemenze del tempo e della storia è l’amicizia. Ne parleremo fondandoci, naturalmente, sulla concezione biblica dell’amicizia, ma non trascurando di allargare l’orizzonte verso altre visioni spirituali e umane di questa che è insieme una virtù e un dono.
“Di tutti quei beni che la sapienza procura per la felicità il più grande è l’acquisto dell’amicizia”. Questa, che è una delle Sentenze di Epicuro (n. 27), esprime in modo lapidario l’apprezzamento costante che l’amore amicale ha goduto in tutte le culture, al punto da costituire una vera e propria tipologia letteraria, filosofica e psicologica. La Bibbia celebra a più riprese questa relazione “assolutamente indispensabile alla vita, perché senza amici nessuno vorrebbe vivere, pur se ricco di tutti gli altri beni”: il Siracide intesse un vero e proprio elogio dell’amicia (6,5-17; cfr. 37,1-6), elaborando tra l’altro il detto proverbiale secondo il quale “chi trova un amico, trova un tesoro” (6,14).
Emblematica è la figura amicale incarnata da Davide e Gionata. Facile è anche evocare l’amicizia di Cristo nei confronti dei discepoli, chiamati “amici” e non “servi” (Gv 15,14-15). Potremmo allegare altri esempi storici di amicizia, a partire dal legame di Paolo con Timoteo, Tito, Filemone e con i Filippesi, per passare attraverso il rapporto tra san Francesco e santa Chiara, tra san Girolamo e Paola ed Eustochio, tra san Francesco di Sales e santa Giovanna Frémiot de Chantal, e giungere infine al sodalizio tra Hans Urs von Balthasar e Adrienne von Speyr, esempi nei quali è significativa anche la complementarietà dei due sessi.
L’amicizia, però, pur avendo una sua componente sentimentale, va oltre la sessualità e l’eros; supera l’utilitarismo e l’interesse e si insedia nel campo della libera donazione, della comunione e dell’intimità di vita e di esperienza. E’ per questo che Aristotele la collca soprattutto nella sfera personale e nella categoria della virtù. Cicerone nel suo Lelio o dell’amicizia (c. 3) dichiara, anzi, che “è la virtù che produce l’amicizia […]. E’ un’alleanza che offre agli uomini il mezzo migliore e più felice per camminare insieme verso il bene supremo”.
Questa qualità etica dell’amicizia è puntualizzata da Tommaso d’Aquino, che però riconduce il legame amicale a una dimensione più ampia di taglio sociale, confermando la tesi secondo cui l’amicizia “più che una virtù, è una conseguenza della virtù”. Emergono, così, sostanzialmente due volti dell’amicizia. Il primo è quello del dialogo e della comunione interpersonale generato dalla libertà, dalla simpatia anche dallo Spirito d’amore, dalla grazia “caritativa”. C’è, dunque, un aspetto di intimità e di “solitudine” tra i due, messo già in evidenza da Aristotele e da Cicerone e così esplicitato da Plutarco: “L’amicizia si compiace della compagnia, non della folla […]. Se si divide un fiume in diversi canali, il suo corso diventa debole e sfinito. Così è dell’amicizia: s’indebolisce a misura che si divide”. Agostino nelle Confessioni, parlando del legame con un amico carissimo morto, afferma: “Io percepii come l’anima mia è l’anima sua erano un’anima unica in due corpi; perciò avevo in orrore la vita poiché non volevo vivere dimezzato” (4, 6, 2).
E’ un vincolo che nel fedele si trasforma nella philadelphía, cioè nella fraternità cristiana. Pensiamo al rapporto intenso di sant’Ambrogio con i fratelli carnali Satiro e Marcellina. San Bernardo scrive al riguardo cose molto fini anche dal punto di vista psicologico non solo nei suoi Sermoni sul Cantico, ma anche nel suo epistolario. A Ermengarda, già contessa di Bretagna, confessa: “Il mio cuore è al colmo della gioia quando so che il vostro è in pace; la vostra soddisfazione genera la mia; quando il vostro animo sta bene, il mio si sente pieno di salute […]. Provo sempre gioia maggiore a venire da voi, perché preferisco vedervi anche solo di quando in quando piuttosto che non vedervi del tutto” (Lettera 117). Al contrario, il padre della Chiesa di Cappadocia, san Basilio (IV secolo), nelle sue Costituzioni monastiche sarà severo denunciando il rischio di amicizie particolari e del formarsi di gruppi, capaci di frazionare la vita comunitaria.
E’ necessario, in verità, conservare l’equilibrio tra le due esigenze. E’ legittimo il comporsi di un dialogo personale, di un collegamento più ristretto di ideali e di sintonie, purché non degeneri in esclusivismo e in grettezza e gelosia. Lo scrittore monastico Giovanni Cassiano (IV secolo) nelle sue Conferenze spirituali distingue tra l’agápe, l’amore sempre e a tutti necessario, anima dell’esistenza personale e comunitaria, e la diáthesis, che è l’amicizia (o “carità affettiva”) rivolta a coloro con i quali si ha un legame più diretto. L’elemeno capitale nell’amicizia cristiana è appunto il riconoscimento che è essa è un riflesso dell’amicizia di Dio per ogni sua creatura e del Cristo per i suoi discepoli. E’ per questo che lo scrittore spirituale medievale inglese Aelredo di Rievaulx (1109-1167) nel suo classico scritto L’amicizia spirituale è convinto che nella relazione amicale perfetta “l’uomo mediante l’amico diventa amico dell’Uomo-Dio”.
L’amicizia è un gradino della scala dell’amore per Dio; nel viso dell’amico si riflette il volto di Cristo. E’ ciò che già san Pier Damiani (1007-1072), cardinale e celebrato autore di testi teologici, affermava scrivendo a un amico: “Portando gli occhi sul tuo viso, a te che mi sei caro, io elevo il mio sguardo a colui che io desidero di raggiungere unito a te” (Lettera 2,12). Si configura, così, quell’amicizia spirituale o mistica che di sua natura s’irradia nell’altra dimensione, quella ecclesiale e sociale. Anzi, l’amicizia deve diventare – come spesso si sottolinea nei documenti del Concilio Vaticano II – una modalità di apostolato; l’evangelizzazione dev’essere sostenuta da un simile atteggiamento; la comunità ecclesiale deve più spesso coltivare al suo interno relazioni d’amicizia; il celibato e la verginità del sacerdote e dei consacrati non vengono appannati, ma sostenuti da una corretta amicizia sia con i confratelli e le consorelle sia all’esterno, con il popolo di Dio; i gruppi e i movimenti ecclesiali hanno in questa linea un modo per esprimersi e per operare efficacemente, premurandosi però di evitare esclusivismo e integralismi.
Potremmo definire l’amicizia come un carisma personale, dato però – come tutti i carismi – per il bene comune e animato dall’amore. Come si legge nell’Imitazione di Cristo: “Non devi volere che qualcuno sia tutto preso nel suo cuore da te o che il tuo cuore sia tutto preso dall’amore di qualche persona; ma fa’ che, sia in te sia in ogni altra persona giusta, regni Gesù” (2, 8, 3). E’ proprio per questa natura “aperta” che l’amicizia deve avere anche un rilievo sociale e politico. E’ ciò che ha messo in luce in modo provocatorio il giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt (1888-1985), attento anche alle questioni teologiche (Teologia politica del 1922 e Teologia politica II del 1970). Nella sua opera Il concetto del politico (1927) Schmitt ha individuato la componente strutturale della politica proprio nella relazione di opposizione “Freund-Feind”, “amico-nemico” (così come il rapporto “buono-cattivo” caratterizza l’etica e il “bello-brutto” l’estetica). La politica è una relazione che si instaura tra gli uomini nel momento in cui scatta la possibilità di un conflitto: il nesso politico originario è fondato sull’associazione e sulla dissociazione che si basano sull’amicizia e sull’inimicizia. Ma Schmitt va oltre e vuole precisare su base evangelica il suo presupposto, rimandando a Mt 5,44: “Amate i vostri nemici”.
Egli, però, fa notare che il testo greco usa il termine echtrós, in latino inimicus, l’avversario personale, e non polémios, cioè hostis, il nemico pubblico. La distinzione, a suo avviso, è rilevante. Il nemico politico (hostis) non è colui per il quale nutriamo odi privati (cioè l’inimicus), bensì colui con il quale combattiamo una guerra. Gesù si limiterebbe, perciò, a invitare all’amore che perdona il nemico personale, l’inimicus, come per certi versi suggerivano i precetti epicurei o aristotelici.
Ben diversa sarebbe la questione riguardante l’hostis, il nemico sociale, nei cui confronti – sempre secondo Schmitt – è legittimo intraprendere l’azione bellica che la politica e il diritto non possono e non devono escludere o giudicare, ma solo regolamentare. E’ su questa dialettica tra amici e nemici che le comunità nazionali regolano all’interno e all’esterno la loro storia politica.
Lasciando tra parentesi la discussione su questa visione, facciamo notare che l’interpretazione del passo evangelico non è fondata né filologicamente né ideologicamente. Da un lato, infatti, il greco biblico (e quello tardo) non conosce la distizione lessicale evocata da Schmitt e sotto il termine echtrós colloca sia l’avversario privato sia il nemico pubblico. D’altro lato, poi, la prospettiva del Discorso della Montagna è di taglio radicale e totale, proponendo un modello che spezza e supera proprio quel realismo politico caro a Schmitt sulla scia di Machiavelli. Nella proposta di Cristo la tensione è verso la pienezza dell’amore che va oltre la giustizia retributiva in ogni ambito, privato e comunitario, e si protende all’infinito amore di Dio, come si ribadisce nel prosieguo della frase sull’amore per i nemici: “affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi” (Mt 5,45).
Concludiamo la nostra breve riflessione su questa realtà umana così preziosa (e fragile) con una battuta presente in un saggio sull’amicizia del filosofo americano Ralph Waldo Emerson (1803-1882): “L’unico modo per avere un amico è essere un amico”. Detto in altri termini, la vera amicizia è reciproca, essendo uno dei tanti volti dell’amore. E l’amore esige donazione e non solo possesso, è dono ricevuto ed è impegno verso l’altro. Non per nulla il poeta latino Orazio nelle sue Odi (1, 3, 8) definiva l’amico come animae dimidium meae (“metà dell’anima mia”), definizione di stampo “nuziale” perché amicizia e amore, come si diceva, attingono alla stessa sorgente, pur avendo poi percorsi autonomi.

[Tratto da Gianfranco Ravasi, “Vivere nell'amore. Amatevi gli uni gli altri” (Edizioni San Paolo)]

 

INQUIETARE E CONSOLARE IL CUORE DEI MODERNI – GIANFRANCO RAVASI

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_ravasi14.htm

INQUIETARE E CONSOLARE IL CUORE DEI MODERNI

GIANFRANCO RAVASI

LA PAROLA DI DIO, TEMA CENTRALE DEL SINODO DEI VESCOVI (OTTOBRE 2008)…

(« Avvenire », 4/10/’08)

C’è chi le ha pazientemente contate: sono 305.441 le parole originarie « ebraiche » (e in piccola parte « aramaiche ») dell’ »Antico Testamento », più di 421.000 se si contano anche le « particelle » aggiunte a quelle parole: mentre 138.013 sono i vocaboli « greci » che compongono il « Nuovo Testamento ». Attorno a questo piccolo « mare testuale » detto « Bibbia », cioè i « Libri » per eccellenza, si è allargato uno sconfinato « oceano » di commenti, di omelie, di meditazioni, persino di deformazioni e di critiche « sarcastiche ». Eppure quelle parole continuano «a inquietare e a consolare tutte le situazioni umane», come diceva quel grande credente e genio che era Pascal.
Ora tornano ancora a risuonare e persino a provocare, e non solo perché una « folla » di quasi 1.300 persone, le più disparate, a partire da stasera le proclameranno integralmente nel cuore di Roma e dagli schermi televisivi per un’intera settimana, giorno e notte, quasi fossero « pungoli » o « picchetti » da piantare nel « liquame » delle « chiacchiere » (l’immagine è di uno sconcertante sapiente biblico, il « Qohelet »). Torneranno quelle parole ad animare soprattutto il « Sinodo dei Vescovi », nella consapevolezza che è giunto il tempo di scuotere l’intorpidimento che, come una « nebbia », scolora la forza di quelle « Scritture » che custodiscono al loro interno una « Parola » trascendente, la voce stessa di Dio.
Mosè ricordava agli Israeliti che sul Sinai non avevano contemplato una « statua sacra », ma ascoltato una « qol devarîm », una « voce di parole » che risuonava in mezzo al fuoco (« Deuteronomio 4,12″). Difficile è dire ora quali saranno le strade che i « Padri Sinodali » suggeriranno alla Chiesa per una riappropriazione rinnovata, intensa e appassionata della « Bibbia ». Certo, sullo sfondo rimarranno le grandi questioni teologiche del rapporto tra « Rivelazione », « Scrittura » e « Tradizione ». Ma saranno soprattutto gli interrogativi sulla comunicazione e sull’interpretazione ad avanzare, tenendo conto dei mutamenti radicali di linguaggio avvenuti in questi ultimi decenni, dopo la potente impronta lasciata dal « Concilio Vaticano II », col suo « appello » all’amore per la « Parola di Dio ». Sarà, come dice il titolo stesso che Benedetto XVI ha imposto al « Sinodo », la «vita della Chiesa» ad essere coinvolta, così da riaccendere il fervore per la « Parola di Dio » annunziata e spiegata nella liturgia (che è la prima casa della « Bibbia »), meditata nella « Lectio Divina », studiata nella « catechesi », vissuta come «lampada per i passi nel cammino della vita» morale. Ma quel titolo aggiunge anche che la « Bibbia » governa e illumina «la missione della Chiesa», cioè il suo affacciarsi oltre i propri confini. Pensiamo al dialogo con l’ »ebraismo », che con noi condivide una vasta porzione di quelle « parole sacre »; allo stesso « Islam », che nel « Corano » ha una « filigrana » di rimandi biblici; all’incontro « ecumenico » con le altre Chiese e comunità « ortodosse » e « protestanti », che testimoniano un antico e appassionato amore per le « Scritture ». Ma pensiamo anche alla cultura « laica », che deve ritornare a leggere e comprendere quei testi perché essi sono «la lingua materna dell’Occidente», come suggeriva Goethe: «l’alfabeto colorato in cui per secoli i pittori (ma non solo) hanno intinto il loro pennello», per usare una famosa frase di Chagall.
Una certezza reggerà, al di là degli esiti, noi « Padri Sinodali », gli esperti, gli invitati e soprattutto l’intera comunità ecclesiale. È quella che San Paolo esprimeva, mentre il suo corpo era in « catene », scrivendo al discepolo Timoteo, che «la « Parola di Dio » non può essere incatenata» (« II, 2, 9″). Essa, infatti, è – come confessavano i « profeti » – un fuoco inestinguibile che arde e illumina, è una pioggia che dall’alto feconda e rigenera il terreno arido della storia. 

IL GIOCO DI DIO – GIANFRANCO RAVASI

http://www.famigliacristiana.it/blogpost/il-gioco-di-dio.aspx

IL GIOCO DI DIO

GIANFRANCO RAVASI

27 ottobre 2011

 » Ero con lui come una giovane, ero la sua delizia ogni giorno, giocavo davanti a lui in ogni istante,
giocavo sul globo terrestre… » (Proverbi 8,30-31)

«Mentre la beata Umiliana giaceva nel suo letto, ecco un bambino di quattro anni, dal volto bellissimo. Giocava con impegno proprio nella sua cella davanti a lei che gli disse: “Carissimo bambino, non sai fare altro che giocare?”. E il bambino: “Che altro vuoi che faccia?”. E la beata: “Voglio che tu mi dica qualcosa di bello su Dio”. E il bimbo: “Credi che sia bene che uno parli di sé stesso?”. E con queste parole disparve». Questo episodio della vita della beata Umiliana de’ Cerchi (1219-1246), narrato dal suo biografo, fra Vito da Cortona, ha certamente alla base un’allusione alla frase evangelica sul diventare piccoli come bambini per essere grandi nel Regno dei cieli (Matteo 18,4).
Tuttavia, l’originalità sta nell’applicazione a Dio stesso dell’immagine del bambino che gioca. Ora, nel passo biblico che noi abbiamo estratto da un inno grandioso in cui la Sapienza divina si autopresenta, si ha una sorprendente metafora per definirla: è quella da noi tradotta con «giovane». In realtà, in ebraico abbiamo un termine che non ricorre altrove nella Bibbia, ’amôn (si trova, però, due volte nella variante hamôn) e che potrebbe designare anche un “architetto, artefice”, ma è possibile pure la resa “ragazzo, giovane”.
Sia nell’uno sia nell’altro caso la Sapienza del Creatore – che in questo inno è personificata sotto i tratti di una figura femminile – sarebbe raffigurata con simboli che evocano arte, festa, bellezza. A spingerci verso l’immagine della ragazza è proprio il verbo successivo che per due volte parla di “gioco”. Nelle distese immense dei cieli, negli spazi mirabili della natura Dio sembra del tutto immerso in un atto creativo libero e appassionato, un po’ come accade al bambino quando sta giocando. Tutte le sue energie intellettuali e fisiche sono assorbite in quel piacere intimo e totale. È ciò che si ripete per l’artista quando è coinvolto nella sua attività creatrice: nulla lo distrae e il suo spirito e il suo corpo sono totalmente consacrati all’opera che sta uscendo dalle sue mani.
Ebbene, non di rado in teologia si è ricorsi proprio al simbolo del gioco e della creazione artistica per parlare “analogicamente” di Dio. Chi conosce qualcosa di questa scienza sacra avrà sentito parlare, ad esempio, dell’“analogia estetica” sviluppata dal teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, oppure di quella “ludica” (cioè legata all’immagine del gioco) suggerita dall’americano Harvey Cox. Il gioco puro, senza l’inquinamento dell’interesse o della violenza come avviene oggi in certi sport, il gioco innocente e libero del bambino può essere un’analogia, cioè un modo umano adatto a descrivere la divinità, la felicità di Dio e in Dio.
L’abbandono di tutto l’essere che l’artista, come si diceva, sperimenta nell’istante creativo si trasforma in un segno visibile dell’infinita perfezione della mente e dell’azione del Creatore. C’è, a questo proposito, un testo molto suggestivo di Lutero che, ammiccando idealmente al passo del libro dei Proverbi da noi proposto, così dipinge la meta ultima della storia e dell’essere: «Allora l’uomo giocherà con il cielo e con la terra, giocherà con il sole e con tutte le creature. Tutte le creature proveranno anche un piacere immenso, un amore immenso, una gioia lirica, e rideranno con te, o Signore, e tu a tua volta riderai con loro».

27 ottobre 2011

L’ALLENAMENTO PER CHI VUOLE SALIRE – DI GIANFRANCO RAVASI

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2010/199q04a1.html

L’ALLENAMENTO PER CHI VUOLE SALIRE

DI GIANFRANCO RAVASI

Tre monti nominati nella Bibbia hanno un rilievo, un’incidenza tutta particolare. Cominciamo col « monte Sion ». Cominciamo di qui, anche se non è il primo dal punto di vista logico, non soltanto perché il monte Sion riassume in sé tutta la tensione verso l’alto delle pagine bibliche – come abbiamo potuto vedere anche attraverso lo sguardo che si leva verso l’alto e verso il monte, l’unico che può dare la salvezza – ma anche perché col monte Sion è stato identificato da parte della tradizione ebraica e cristiana prima e poi anche da parte di quella musulmana, un altro monte, che è radicale per tutte e tre le religioni monoteiste, ovvero il monte di Abramo, il monte Moria, monte che non è rintracciabile in nessun atlante.
Faremo solo tre considerazioni essenziali. La prima: l’identificazione tra Sion e monte Moria. Che cos’è il monte Moria? È per eccellenza il monte della fede. Sappiamo che nel racconto del capitolo 22 della Genesi, una pagina tra l’altro di straordinaria fragranza non solo teologica, ma anche narrativa, Abramo si trova di fronte alla prova più ardua della sua fede. Dio infatti lo invita quasi a smentire se stesso: Isacco non era forse il figlio della promessa e quindi il dono di Dio per eccellenza? Come andare contro la promessa stessa di Dio per ordine dello stesso Dio, uccidendo Isacco, cancellando per ciò stesso il senso della promessa? Si tratta qui, dunque, di un’esperienza che è l’esperienza più lacerante possibile, più tenebrosa. In quel momento appare un Dio amato e crudele allo stesso tempo e Abramo deve credere in lui correndo il rischio estremo, il rischio dell’assurdo, perdendo tutte le ragioni del credere, comprese le ragioni stesse della fede, cioè il figlio suo, dono di Dio. È per questo motivo che l’autore sacro, nel descrivere i tre giorni di viaggio per ascendere le pendici del monte Moria, mette in scena un dialogo tra Abramo e suo figlio continuamente ritmato sulle relazioni di paternità e filiazione: « padre mio », « figlio mio », si dicono continuamente tra di loro, aggrappandosi all’unico valore che essi hanno, quello della paternità e della filiazione, cioè a un valore umano, in quanto non c’è più ormai alcun valore evidente di fede che possa aiutare in questo pellegrinaggio verso l’assurdo. E lassù sul monte, alla fine, si consuma il dramma.
Come sappiamo questa pagina della Genesi ha avuto un commento straordinario in un’opera di grande finezza filosofica e teologica, Timore e tremore di Soeren Kierkegaard. Il filosofo danese fa una considerazione a mio avviso molto interessante nel parlare del monte Moria-Sion come monte della fede. Egli ricorda come questo viaggio, questa ascesa al monte sia sicuramente il paradigma per eccellenza del vero credere e commenta questa considerazione utilizzando un’immagine che tra l’altro appartiene al mondo dell’Oriente. Egli dice che quando la madre deve svezzare il suo bambino si tinge di nero il seno perché il piccolo non l’abbia più a desiderare; in quel momento il bambino odia sua madre perché gli toglie la sorgente del suo piacere, del suo cibo, del suo alimento; in quel momento il bambino sente che la madre in un certo senso lo costringe ad andare lontano da lei. Questo è un gesto che alla madre costa; vi sono, come sappiamo, delle madri che questo gesto non lo fanno mai. Tutti abbiamo conosciuto nella vita qualche persona di cui si usa dire che non ha avuto mai il cordone ombelicale staccato da sua madre; si tratta di quelle persone incapaci, sempre timorose, che sempre hanno bisogno di tornare al grembo della madre, che hanno paura del mondo. La madre, dunque, quando stacca il figlio da sé, compie un gesto che a lei costa, ma alla fine risulta un gesto d’amore perché in quel momento il figlio diventa finalmente una creatura libera che cammina per il mondo da sola.
Il gesto che Dio fa sul monte Moria vuol significare dunque che il credere deve essere frutto totale e assoluto di una decisione libera dell’uomo, non dipendere cioè dall’aver ricevuto dei doni, con la relativa certezza quindi che il credere sia simile a un evento economico, un dare e ricevere. È per questo motivo allora che nel finale si dà del monte Moria un’etimologia che, come spesso succede nelle etimologie bibliche, filologicamente non è probabilmente fondata: secondo tale etimologia il significato del termine sarebbe « là sul monte Dio provvede »; è dunque il monte della provvidenza di Dio, dell’amore di Dio nei confronti della sua creatura, è il luogo nel quale Dio vede che ormai la fede di Abramo è totale e assoluta, pronta anche a strapparsi il figlio dalle proprie viscere.
Seconda considerazione a proposito del monte Sion. Facciamo riferimento a Isaia (2, 1-5). Si tratta di una pagina anche questa di grande bellezza letteraria, è il grande Isaia, il Dante della letteratura ebraica. Qui si rappresenta il monte Sion avvolto di luce mentre delle tenebre planetarie, potremmo dire, si stendono su tutto il mondo. All’interno di questa oscurità si muovono processioni di popoli e queste processioni hanno come punto di riferimento questo monte, che certo non è il più importante della terra. I popoli vengono da regioni diverse, salgono il monte, il monte della parola di Dio, e una volta che sono saliti in Sion ecco che lasciano cadere dalle mani le armi; le spade vengono trasformate in vomeri e le lance in falci e Isaia dice: « Essi non si eserciteranno più nell’arte della guerra ». Sion diventa il luogo nel quale tutti i popoli della terra convergono e là fanno cadere l’odio e costruiscono invece la pace; cancellano la guerra e costruiscono un mondo di armonia.
E qui, per inciso, possiamo osservare come il testo di Isaia sia attuale; sempre nella storia di Israele le pietre di Sion sono striate di sangue, e ancor più, purtroppo, ai nostri giorni. Tutti i popoli hanno dunque, come dice la Bibbia, diritto di cittadinanza in Sion, non solo gli Ebrei; e tutti i popoli, quando trasformano i vomeri in spade, gli strumenti per lavorare la terra in strumenti di guerra, compiono un atto blasfemo nei confronti del sogno di Dio.
Nel salmo 87 possiamo incontrare una ulteriore conferma a quanto abbiamo appena detto. Troviamo qui una formula che in ebraico è ripetuta tre volte, anche se con una variazione: jullad sham / jullad bah, « tutti là sono nati / in essa sono nati » tutti i popoli della terra. Questa formula, tecnicamente parlando, era la formula propria dell’anagrafe, dell’iscrizione nei registri di una città. Nel salmo in questione l’elenco delle nazioni, dei luoghi che vengono citati, è in pratica la planimetria del mondo allora conosciuto; si va da Rahab, che indica l’Egitto, a Babel, che indica Babilonia, la superpotenza occidentale e quella orientale, quindi. Viene nominata anche la Palestina, i Filistei, anche loro con diritto di cittadinanza in Gerusalemme; vengono nominati tutti i popoli della terra, anche i più remoti: tutti trovano in Gerusalemme il loro luogo di nascita, tutti hanno un diritto nativo in Gerusalemme. Alla fine il poeta immagina che tutti questi popoli così diversi tra loro siano in Sion e siano là cantando e danzando, ripetendo questa loro professione d’amore nel monte Sion, il monte del tempio: « In te sono tutte le nostre sorgenti ».
Terza considerazione: dopo il monte della fede e il monte della pace, ecco ora profilarsi in Sion il monte di Dio per eccellenza, il monte dell’incrocio e dell’abbraccio tra Dio e l’uomo. È bellissimo il termine con cui viene definito nella Bibbia il tempio; di per sé è il termine che viene usato quando si parla del santuario mobile nel deserto, lo si chiama in ebraico ‘ohel mo’ed, cioè « la tenda dell’incontro », naturalmente la tenda dell’incontro degli Ebrei tra di loro: è, infatti, il luogo dell’assemblea, qahal in ebraico, l’assemblea dei figli di Israele. Ma è anche il luogo dell’incontro e dell’abbraccio dell’uomo con Dio. Possiamo osservare allora come il santuario di Sion non corrisponda ai templi magici: qui si tratta dell’incrocio, dell’intreccio, dell’abbraccio di due libertà. Tant’è vero che, se Israele è peccatore, Dio non è costretto a stare nel tempio di Sion. Conosciamo la riflessione che fanno, ad esempio, i profeti Geremia ed Ezechiele a proposito della presenza di Dio in Sion. Secondo Geremia, se Sion si trasforma in una spelonca di ladri, Dio allora non è più lì, non è costretto nel perimetro sacro e consacrato, quasi per una costrizione magica.
È significativo il capitolo ottavo del Primo Libro dei Re dove si parla della grande preghiera di dedicazione del santuario di Sion che Salomone pronuncia dopo aver eretto il tempio. Vi sono due frasi che ora riporteremo e che mostrano veramente come lì si compia il mo’ed, cioè l’incontro, il convegno. Al versetto 27 si dice: « I cieli e i cieli dei cieli, o Signore, non ti possono contenere, quanto meno questa casa che io ho costruita! ». Dio, che è infinito, non può essere compreso nel perimetro sacro di un tempio, Dio non può essere costretto magicamente a essere lì, ma come si dice al versetto 30: « Ascolta la supplica del tuo (…) popolo, quando pregheranno in questo luogo. Ascoltali dal luogo della tua dimora ». Possiamo qui osservare come Dio giunga dalla sua dimora celeste, che è il simbolo appunto della trascendenza, ad ascoltare il grido che l’uomo eleva verso di lui: ecco allora che il tempio di Sion diventa il luogo del dialogo.
Di Sion abbiamo dato dunque tre definizioni: in primo luogo monte della fede, della fede più pura, più assoluta, sotto il nome di monte Moria, il monte sul quale Abramo, padre di Israele, padre della nostra fede di cristiani, padre attraverso Ismaele dell’Islam, compie il suo atto di fede. Ciò che è importante qui non sono le opere, ma il suo atto di fede in Dio, fede pura e totale. Seconda definizione: luogo della pace, del sogno di Dio in un’umanità che si incrocia e si riunisce in Sion. Infine, terzo momento, luogo dell’intreccio delle mani di Dio e dell’uomo attraverso il santuario.
Passiamo ora al secondo monte che costituisce un momento obbligato di riflessione: il monte Sinai, un monte evidentemente carico di risonanze, a proposito del quale vorrei però anche in questo caso indicare solamente tre dimensioni. La prima: il Sinai è il luogo della teofania, della grande manifestazione del Dio misterioso. « Sul far del mattino vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte, un suono fortissimo di tromba, tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da terrore » (Esodo, 19-26). Siamo di fronte alla celebrazione per eccellenza del tremendum di Dio, è il luogo questo nel quale Dio ci fa scoprire tutta l’impotenza dell’uomo – chi è stato sul Sinai riesce anche a intuirlo proprio nell’atmosfera stessa di questo monte, monte solitario, monte desolato, arido, attraversato dal vento, prosciugato dall’incandescenza del sole, mutevole anche per i cangianti colori delle sue pietre durante la giornata.
Seconda riflessione: è anche il luogo della « teo-logia », cioè non solo della manifestazione, dell’apparizione di Dio, ma anche della parola di Dio. A questo proposito vorrei ricordare, oltre al Decalogo che ci giunge da questo monte – le dieci parole fondamentali sulle quali si organizza ancora la nostra pur dispersa e tante volte anche disordinata e distratta società – soprattutto un bellissimo versetto del quinto libro della Bibbia, il Deuteronomio, laddove Mosè, ricordando quell’esperienza, dice: « Il Signore vi parlò dal fuoco, voi udivate soltanto qôl devarîm [cioè una voce di parole, un suono di parole], ma non vedevate alcuna figura », non c’era nessuna temunah, nessuna figura, zulatî qôl, ma « soltanto una voce ». Bellissima questa intuizione che ci ricorda come sul monte noi scopriamo soltanto la voce circondata dal silenzio. Eccoci dunque a una seconda esperienza fondamentale: la parola da scoprire sul monte, la « teo-logia ».
In terzo luogo vorrei porre l’accento su di un vocabolo che non è evidentemente nella Bibbia e neppure è normalmente usato nella teologia; è un vocabolo coniato da Pierre Teilhard de Chardin per parlare del manifestarsi di Dio che si riflette in noi: egli utilizza il termine « diafania ». Teofania, teologia e ora diafania, ovvero il passare di un Dio « diafano » attraverso di noi, attraverso la terra, attraverso il monte in questo caso.
È dunque per questo motivo che il Sinai diventa anche il luogo dell’intimità di Dio, non unicamente del Dio terribile, affatto diverso da noi, totalmente altro, non soltanto del Dio che ti dà la sua parola, ma anche del Dio che persino si adatta a te, entrando misteriosamente accanto a te con tenerezza.
A questo punto non possiamo allora prescindere da due riferimenti biblici molto significativi. Innanzitutto quella bellissima, indimenticabile esperienza di Elia sul monte Horeb – un altro nome per il Sinai – che viene descritta nella Bibbia nel primo libro dei Re. Dio non si presenta qui con l’apparato teofanico, pur legittimo, Dio non è nel vento che spacca la roccia, non è nel fulmine, nella folgore, non è nel terremoto che sommuove la terra, ma semplicemente Dio è in « un mormorio di vento leggero ». In ebraico tutto ciò viene espresso con tre parole, tre parole che sono veramente un capolavoro anche dal punto di vista dell’intuizione: Elia scopre soltanto qôl demamah daqqah, cioè qôl « voce, suono », demamah « silenzio », daqqah « sottile ». Dio diventa una voce di silenzio sottile, un silenzio « bianco » che riassume in sé tutti i colori, come il bianco riassume tutto lo spettro cromatico. Dio si adatta talmente da avvolgerci pacatamente con la quiete del silenzio. Un’esperienza appunto che anche il laico, incontrando il silenzio, prova sulla montagna.
L’altro riferimento è al Sinai cristiano, cioè al monte delle Beatitudini. Come sappiamo gli esegeti spiegano che seppur la tradizione l’abbia identificato con quel bellissimo poggio che si affaccia sul lago di Tiberiade, in realtà si tratta di un monte teologico più che di un monte orografico, topografico. Tant’è vero che una parte del discorso che Matteo mette sul monte, Luca, nel capitolo sesto del suo Vangelo, lo ambienta in un luogo pianeggiante, campestre. Le Beatitudini probabilmente sono enunciate in un’area attorno alla sponda del lago di Tiberiade, abbiamo però bisogno di collocarle proprio su un monte, il monte della teofania, della teologia, della diafania perché in Matteo Cristo diventa il nuovo Mosè, il Mosè per eccellenza, che raccoglie e compendia tutto l’insegnamento di Mosè. Noi sappiamo che Gesù fa riferimento proprio ai testi del Sinai portandoli all’estreme conseguenze, radicalizzandoli, mostrando la vicinanza assoluta di Dio che, attraverso le Beatitudini e il discorso della montagna, si presenta come il Dio d’amore, della pienezza, della intimità assoluta. Lutero usava un’espressione paradossale in latino, persino ironica potrebbe apparire, per rappresentare Cristo in quel momento. Egli diceva che sul monte delle beatitudini Cristo è Mosissimus Moses, è il Mosè all’ennesima potenza. Tutto quello che Mosè aveva rappresentato ora Cristo ce lo rappresenta mostrandoci non solo la trascendenza, non solo la parola di Dio ma anche la sua intimità.
Giungiamo così al terzo e ultimo monte della Bibbia. Il monte che ora citeremo, quasi inesistente dal punto di vista orografico, è un punto di passaggio obbligato per noi cristiani: si tratta infatti del Golgota, del Calvario. Un monte che di sua natura è, come abbiamo detto, irrilevante – chi è stato a Gerusalemme sa che il monte è inglobato ormai all’interno della basilica del Santo Sepolcro -: si tratta di uno sperone roccioso di sei o sette metri, chiamato Golgota, in aramaico « cranio », probabilmente per la sua forma tondeggiante, o forse perché lì vicino c’erano le sepolture dei condannati a morte. L’etimologia qui ora non ci interessa; vogliamo però sottolineare come in Occidente tutti, anche coloro che non hanno nessuna fede in Cristo, sanno che cos’è il Calvario (traduzione latina della parola aramaica Golgota), tanto che l’espressione « un calvario di sofferenze » è diventata un modo di dire comune.
Se analizziamo questo luogo, soprattutto attraverso la teologia dei Vangeli e in particolare del quarto Vangelo, ci accorgiamo che esso è, sì, il monte della morte ma anche, a ben vedere, il monte della vita; è il monte dell’umanità, della tragedia di un Dio che assume la finitudine fino al punto da bere il calice della sofferenza, della solitudine, della tristezza, del silenzio di Dio (« Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? »); ma è insieme anche il luogo nel quale Giovanni già ci mostra la gloria dell’elevazione, della resurrezione. Il Calvario è già anche il monte dell’ascensione, è già il monte degli Ulivi, è il monte anche della glorificazione, dell’esaltazione, della speranza. Il Calvario è dunque insieme monte del dolore e del sangue e monte della gloria e dell’infinito. A questo punto giungiamo a capire come il Calvario riesca a riassumere quelle due dimensioni a cui sempre abbiamo fatto riferimento. Sul monte infatti è sempre Dio che noi cerchiamo, però siamo noi a salire, siamo noi che con la nostra fatica ascendiamo.
Vorrei concludere parlando della mistica della montagna. Sappiamo infatti come tutta la tradizione mistica abbia usato spesso la montagna come una parabola. Voglio qui accennare – sperando che magari qualcuno abbia l’occasione di riprendere in mano o di leggerlo se non l’ha mai fatto – a un libro, in verità arduo e che, tra l’altro, ha come punto di riferimento un monte biblico: intendo riferirmi alla Salita del monte Carmelo, uno dei capolavori, insieme con il Commento al Cantico dei Cantici, di Giovanni della Croce, Juan de la Cruz.
Giovanni della Croce scrive questo libro nel 1578, libro che poi non completa. È un testo raffinatissimo dal punto di vista della ricerca intellettuale, ma anche soprattutto dal punto di vista della mistica, un testo carico di simboli, ma anche di esperienze interiori. È curioso tra l’altro come il santo abbia disegnato più volte – tant’è vero che ne esistono più copie di sua mano e molte altre fatte dai suoi discepoli – un bozzetto del monte Carmelo, micrografandolo poi con scritte che indicano i vari percorsi, i vari itinerari di ascesi, di purificazione oltre che di illuminazione. Questo disegno, con le indicazioni relative al percorso di salita rappresentato in maniera folgorante, Giovanni lo dava alle suore di cui era confessore perché lo tenessero nel loro libro di preghiere.
Nel descrivere questa salita al monte egli inizia con una poesia, dichiarando di volerla poi commentare, mentre in realtà ne commenterà effettivamente solo una strofa. Nel monte Carmelo, il monte di Elia, il monte della sfida con l’idolatria (1 Re, 18), il monte dell’ordine carmelitano a cui Giovanni apparteneva, egli riassume tutta una serie di significati insieme ascetici e mistici. Il termine « ascesi » a noi purtroppo evoca solo l’idea della fatica, della purificazione in senso negativo; questo non è del tutto vero in quanto qui l’ascesi si intreccia già con la mistica.
« Ascesi » infatti, come dice il termine greco àskesis, non vuol dire « penitenza », ma semmai « esercizio ». Pensiamo ad esempio all’acrobata, a quei disegni così improbabili che egli fa e che sfidano le leggi stesse della fisica; l’acrobata compie tutto ciò con estrema facilità perché alla base c’è un esercizio che alla fine diventa creatività, disegno. E pensiamo anche alla professione della ballerina. Osservandone gli eleganti e dinamici tratti nell’atto della danza ci si rende conto di cosa voglia dire riuscire a costruire l’equilibrio sulla punta di un piede, che cosa comporti tutto quel gioco di movimenti che anche in questo caso rappresentano una sfida continua alle leggi della fisica. Per lei, però, tutto ciò non avviene ora attraverso il calcolo e la fatica, ma semmai attraverso un libero abbandono che produce e suppone divertimento e creatività.
Questa è l’ascesi, è fatica indubbiamente, è esercizio pesante, ma alla fine giunge a essere grande creatività che è al tempo stesso grande libertà.

(L’Osservatore Romano 30-31 agosto 2010)

SCANDALO E STOLTEZZA – (1 CORINZI 1, 22-25) [di Ravasi, credo]

http://www.cultura.va/content/cultura/it/organico/cardinale-presidente/texts/famiglia-cristiana-articoli0/scandalo-e-stoltezza-in-cristo-crocifisso.html

(questo commento è del Pontificio Consiglio per la Cultura, dovrebbe essere di Ravasi, sono in dubbio che sia copyright, comunque eccolo)

SCANDALO E STOLTEZZA – (1 CORINZI 1, 22-25)

Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.
Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. (1 Corinzi 1, 22-25)

Le poche righe della Prima Lettera ai Corinzi, che la liturgia della terza domenica di Quaresima ci propone, sono tra i passi più celebri dell’epistolario paolino. Contro la tentazione – che affiorava tra i cristiani di una città greca colta come Corinto – di ridurre il cristianesimo a un sistema filosofico, di riportare la fede a una mera “gnosi”, cioè a una concezione intellettualistica, l’Apostolo propone con veemenza il cuore stesso dell’evento e dell’annunzio cristiano, la croce con Gesù crocifisso.
Il brano è tutto intessuto su una serie di contrasti. I Giudei esigono per credere i “segni”, cioè i prodigi miracolosi; i Greci optano per la “sapienza” che è ricerca razionale e argomentazione probante. Al contrario il cristianesimo presenta un Crocifisso, cioè un condannato a morte secondo il supplizio capitale riservato agli schiavi e ai terroristi di allora. I Giudei, di fronte a questo segno, reagiscono scandalizzandosi; i Greci, invece, vi ironizzano sbeffeggiandolo come una “stoltezza” insensata. Eppure quell’emblema piantato nella terra della storia è la vera “potenza” e l’autentica “sapienza”.
È ciò che scoprono tutti coloro che, infrangendo gli schemi del senso comune, si avviano sull’erta dell’esperienza cristiana, siano essi Giudei siano appartenenti ai pagani. È questa la provocazione evangelica, è questo il cuore della predicazione paolina. Si ribaltano paradossalmente le categorie umane. Infatti, la morte di Cristo così infame e misera, vero e proprio nadir infernale per la sapienza comune, si trasforma nello zenit celeste della salvezza e della gloria. Il contrasto è formalizzato dall’Apostolo in una frase di grande incisività ed efficacia: «La stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini».
Nelle note che ci ha lasciato, il teologo martire dei nazisti, Dietrich Bonhoeffer, osservava con Paolo che «Dio non ci salva per la sua onnipotenza, ma per la sua impotenza manifestata in Cristo crocifisso». La croce, divenuta segno universale di dolore e quindi significativa per tutti, anche per i non credenti, ha per i cristiani un valore ulteriore. Lo vorremmo esprimere con le parole di un nostro scrittore Ignazio Silone (1900-1978), desunte dal suo dramma L’avventura di un povero cristiano (1968).
«Se il cristianesimo viene spogliato delle sue cosiddette assurdità per renderlo gradito al mondo e adatto all’esercizio del potere, cosa ne rimane? La ragionevolezza, il buon senso, le virtù naturali esistevano già prima di Cristo e si trovano anche ora presso molti non cristiani. Che cosa ci ha portato Cristo in più? Appunto alcune apparenti assurdità. Ci ha detto: amate la povertà, amate gli umiliati e gli offesi, amate i vostri nemici, non preoccupatevi del potere, della carriera, degli onori, delle cose effimere, indegne di anime immortali».

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