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UNA LAMPADA SU UN SENTIERO BUIO – GIANFRANCO RAVASI

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UNA LAMPADA SU UN SENTIERO BUIO – GIANFRANCO RAVASI

Una lampada su un sentiero buio, la pioggia che scende dal cielo su un terreno arido e stepposo, una spada che penetra nella carne: è con questi tre simboli che la parola di Dio si autodefinisce nella Bibbia. Il Salmo 119, monumentale cantico della legge-parola del Signore, vede l’esistenza dell’uomo come una strada avvolta nelle tenebre. Ecco, però, una luce che sfavilla: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino»(Sal 119,105). Il profeta anonimo, cantore della liberazione di Israele dalla schiavitù «lungo i fiumi di Babilonia», chiamato convenzionalmente Secondo-Isaia, concludendo il suo libretto di oracoli disegna il panorama della Terra Santa: una luce che abbaglia, una distesa arida e screpolata e solo qualche magro ritaglio di terra coltivata. Ma a primavera e in autunno su questo scenario di fuoco e di caldo si stende il velo della pioggia e la terra è percorsa da un brivido di vita. Così è la storia di un popolo morto, fecondato dalla parola divina: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (IS 55,10-11).     Quella solenne e raffinata omelia della Chiesa delle origini che è la Lettera agli Ebrei vede ramificarsi all’interno del popolo di Dio la stessa pericolosa tentazione che aveva colpito Israele nel deserto sinaitico, la tentazione dello scoraggiamento, dell’inerzia, della nostalgia. Ecco allora la provocazione violenta di una spada che penetra e sconvolge: «La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione del-l’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). La Bibbia che ora apriamo deve, quindi, trasformarsi in lampada, in acqua viva, in spada. Ma perché avvenga questo, è necessario che si attui uno dei motti cari a chi si impegna alla conoscenza e alla diffusione della Bibbia: «Non basta possedere la Bibbia, bisogna anche leggerla; non basta leggere la Bibbia, bisogna anche comprenderla e meditarla; non basta comprendere e meditare la Bibbia, bisogna anche viverla». Ora, la comprensione profonda della parola di Dio – una parola incarnata in una storia e in uno spazio precisi – è simile a una conquista, a un assedio nei confronti di una cittadella fortificata nella quale si aprono molte brecce, ma il cui centro sembra restare inviolato e misterioso. Lo scrittore medievale Ruperto di Deutz parlava di una lotta corpo a corpo col libro sacro, simile a quella che Giacobbe dovette sostenere in quella notte oscura lungo le rive spumeggianti del fiume Iabbok (Gen 32): «Dolce lotta, più gioiosa di ogni pace». Qual è la scoperta che ci attende? Se sfogliamo le pagine della Bibbia è più facile che ci incontriamo con rumori di guerre che non con la pace di un eremo silenzioso; è più facile che vediamo una terra striata dal sangue e dalle ingiustizie che non il segno dorato di un mondo celeste perfetto; è più facile che nelle preghiere dei Salmi ci scontriamo con l’eterno grido di protesta dell’uomo sofferente («Perché Signore? […] Fino a quando starai a guardare?») che non con la serena contemplazione della natura; è più facile che ci imbattiamo nel brusio delle strade e della vita quotidiana che non nelle altissime intuizioni della mistica. La Bibbia è, quindi, l’intreccio tra Dio e la nostra storia: la pasqua del Cristo nasce dalla crocifissione, la vita sboccia dalla morte. Lo scopo della Bibbia non è quello di celebrare un Dio lontano, ma un Dio incarnato che salva la nostra storia: «La sua casa siamo noi, se conserviamo la libertà e la speranza» (Eb 3,6). Proprio per l’incarnazione della rivelazione biblica, questa edizione della Bibbia non è fatta solo di un nudo testo. Certo, al centro c’è la Parola, il Libro per eccellenza, offerto nella nuova versione curata dalla Conferenza episcopale italiana e detta comunemente Bibbia della CEI (BC, editio princeps del 2008). Ma questo testo è accompagnato da una guida, costituita da una delle più alte espressioni dell’esegesi contemporanea, la celebre Bible de Jérusalem (BJ) nella nuova versione del 1998. Nota in tutto il mondo attraverso molteplici traduzioni, questa Bibbia commentata è opera dei migliori esegeti cattolici francesi. Essi si sono idealmente e spesso realmente connessi alla città santa della Bibbia il cui nome, come dice il curioso anagramma ebraico di Ez 48,35, è YHWH «hammah», «il Signore è là». In questa «casa di Dio tra gli uomini» essi hanno preparato introduzioni, commenti, titoli esplicativi, referenze marginali ai passi paralleli. I testi, stesi sempre in modo piano ed essenziale, riflettono in filigrana un’estrema ricchezza di dati, rivelando sempre una grande finezza letteraria e teologica. L’edizione italiana che ora presentiamo offre anche alcune note di critica testuale preparate da un’équipe di biblisti italiani: esse hanno lo scopo di segnalare i casi in cui la BC sceglie una «lezione» e quindi una versione diversa rispetto a quella della BJ, dando le motivazioni per la nuova proposta. Con questa guida, la Scrittura diventerà anche testo letterario fragrante, espressione di poesia, di intuizioni altissime e dei mille segreti dell’esistenza. Con questa guida la Scrittura diventerà in modo più limpido parola di Dio, «saldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale» (Dei verbum, 21). Gregorio Magno in una lettera giustamente famosa indirizzata a un laico, il medico dell’imperatore, scriveva: «Cerca di meditare ogni giorno le parole del tuo Creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio perché tu possa più ardentemente desiderare i beni eterni e con maggior desiderio la tua anima si accenda di amore per Dio e per il fratello» (Epist. 31,54).

S.E Mons. Gianfranco Ravasi Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, delle Pontificie Commissioni per i Beni culturali della Chiesa e di Archeologia sacra

 

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 24 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

MITEZZA. LA VIRTÙ DIMENTICATA – DI GIANFRANCO RAVASI

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MITEZZA. LA VIRTÙ DIMENTICATA

DI GIANFRANCO RAVASI,

AVVENIRE di domenica 6 marzo 2011

«Imparate da me che sono mite e umile di cuore». Questa autodefinizione di Gesù nel Vangelo di Matteo (11,29) ci permette di ricollegare il tema del ‘cuore’ di Cristo a quello della mitezza, che è al centro di una delle beatitudini: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). Una beatitudine che ha una sua radice anticotestamentaria nel Sal 37,11: «I miti [in ebraico, però, si ha anawìm che indica anzitutto i 'poveri'] erediteranno la terra e potranno godere della pace in abbondanza». Una beatitudine che sarà raccolta anche dal Corano, che fa esplicito riferimento al passo salmico: «Noi abbiamo scritto nei salmi […] che la terra l’avrebbero ereditata i miei servi buoni» (21,105). Sulla definizione esatta di questi ‘miti’, che le tre religioni monoteistiche esaltano come i destinatari della terra promessa, ossia del regno di Dio nella sua pienezza, si hanno differenziazioni tra gli studiosi. C’è chi vi vede i non violenti, gli oppressi che non ricorrono alla forza, coloro che non scelgono il possesso e l’autoaffermazione così da non prevaricare sugli altri e c’è chi intuisce il profilo dei mansueti, dei diseredati e degli espropriati; c’è chi pensa agli umili e agli inoffensivi, fiduciosi nella volontà di Dio e chi li considera interiormente forti e, per questo, pazienti, dolci, generosi e così via. Certo è che due sono le beatitudini parallele, anche a causa dell’unico vocabolo ebraico soggiacente alla differente terminologia greca usata dai Vangeli: «Beati i poveri in spirito» e «Beati gli umili». Sono due atteggiamenti che hanno una radice comune e che si espandono verso Dio (beatitudine dei poveri) e verso il prossimo (beatitudine dei miti). Il filosofo Norberto Bobbio nel suo Elogio della mitezza (1993) aveva celebrato questa virtù come la più «impolitica» per eccellenza e si può comprendere questa sua posizione nel contesto della gestione della politica che ignora ogni compassione e si fonda sul potere e spesso sull’arroganza. In una visione più alta della politica, la mitezza avrebbe invece uno spazio rilevante. Essa, infatti, non è né codardia né mera remissività, come osservava lo stesso filosofo: «La mitezza non rinuncia alla lotta per debolezza o per paura o per rassegnazione». Anzi, essa vuole essere come un seme efficace piantato nel terreno della storia per il progresso, per la pace, per il rispetto della dignità di ogni persona. Ma vuole raggiungere questo scopo rifiutando la gara distruttiva della vita, la vanagloria e l’orgoglio personale e nazionalistico, etnico e culturale, scegliendo la via del distacco dalla cupidigia dei beni e l’assenza di puntigliosità e grettezza. Noi, però, vorremmo ora in modo più ampio e libero delineare il volto della mitezza nella sua accezione più comune, quella della nonviolenza; lo faremo ricorrendo a una sorta di polittico numerico, espressione sia dell’antitesi alla mitezza sia della sua pienezza. Inizieremo con l’equazione 7 a 77. È questo l’atteggiamento incarnato da uno dei discendenti di Caino, Lamech, il quale codifica la reazione tipica dell’anti-mite, colui che opta per la spirale della violenza. Celebre è quel suo terribile canto della spada sempre insanguinata: «Ho ucciso un uomo per una mia ferita e un giovane per una mia ammaccatura. Caino sarà vendicato sette volte, ma Lamech settantasette». È quell’immensa scia di sangue che pervade la terra e la storia e che non si decide mai di arrestarsi. Lo scrittore francese Charles Péguy (1873-1914) metteva in bocca a Dio queste parole: «Gli uomini preparavano tali orrori e mostruosità che io stesso, Dio, ne fui spaventato. Non ne potevo sopportare l’idea. Ho dovuto perdere la pazienza; eppure io sono paziente perché eterno. Ma non ho potuto trattenermi. Era più forte di me. Io ho anche un volto di sdegno». Il giudizio divino è, alla fine, la protezione dei miti. Passiamo a un’altra equazione numerico-simbolica: 1 a 1, quella sottesa alla cosiddetta legge del taglione. Si legge, infatti, nel libro dell’Esodo: «Vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, piaga per piaga» (21,23). La brutalità della formulazione, di taglio semitico, ci impedisce di vedere il progresso reale che qui si ha rispetto alla legge di Lamech: si ha, infatti, la codificazione della giustizia distributiva che sarebbe già un bel passo di civiltà. Non è forse vero che ebrei e cristiani e arabi ancora oggi nelle loro guerre adottano la norma della rappresaglia più feroce e non certo l’equilibrio della risposta giusta? Tuttavia è indiscutibile che anche in questa regola sangue chiama sangue ed è per questo che Cristo, pur attento alla giustizia, non esiterà a spezzare la catena del «taglione» (vocabolo derivante dal latino talis: tale la colpa, tale la pena), introducendo proprio lo stile della mitezza. Egli lo fa nella quinta delle sei antitesi del Discorso della Montagna, ricorrendo a una trilogia esemplificativa: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Io invece vi dico di non resistere al male; anzi, se uno ti colpisce alla guancia destra, volgigli anche la sinistra. A uno che vuol trascinarti in giudizio per prendersi la tunica, dagli anche il mantello; se uno ti vuol costringere per un miglio, va’ con lui per due» (Mt 5,38-41). Ci stiamo, quindi, spostando nella regione luminosa della mitezza, ove al radicalismo sanguinario di Lamech e al realismo duro del taglione si fa subentrare l’utopia dell’amore, un progetto che dev’essere incarnato con pazienza nella storia. Possiamo così passare a un’altra equazione: 7 a 1000. Essa, da un lato, calibra la giustizia nella sua pienezza (il 7), ma esalta il perdono e la misericordia fino all’infinito, raffigurato nel numero 1000. È ciò che viene espresso secondo il linguaggio semitico generazionale (per indicare che il peccato non è mai solo una questione esclusivamente individuale, ma sociale) in una specie di autoritratto divino, in quella che un esegeta, Albert Gelin, ha definito «la carta d’identità biblica di Dio»: «Il Signore, il Signore, Dio di pietà e misericordia, lento all’ira e ricco di grazia e verità, che conserva grazia per mille generazioni, sopporta colpa, trasgressione e peccato, ma senza ritenerli innocenti, che visita la colpa dei padri sui figli e sui figli dei figli fino alla terza e fino alla quarta generazione» (Es 34,6-7). Da accostare a questa dichiarazione ce n’è un’altra, sempre messa in bocca a Dio, che ribadisce la scelta fondamentale del Signore: «Forse mi compiaccio della morte dell’empio? Oracolo di Dio, mio Signore. Convertendosi dalla sua condotta, forse non vivrà? […] Oh, non mi compiaccio certo della morte di alcuno, oracolo del Signore Dio. Convertitevi e vivrete» (Ez 18,23.32). La nostra sequenza numerica può, così, approdare a un’altra equazione: 7 a 70 x 7. È questa la formula del perdono e dell’amore cristiano che Gesù delinea in una risposta a un modello numerico suggerito dall’apostolo Pietro: «Signore, quante volte, se il mio fratello peccherà contro di me, dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». Gesù gli risponde: «Non ti dico fino a 7 volte, ma fino a 70 volte 7» (Mt 18,21-22). Come si vede, c’è un’allusione per contrasto alla legge della vendetta da cui siamo partiti, ovvero all’equazione 7 a 77. Qui essa è radicalizzata e condotta, attraverso il ricorso al simbolismo settenario, a una pienezza assoluta positiva. La meta da raggiungere è quella di un Dio che fa piovere su giusti e ingiusti e fa risplendere su tutti il suo sole (cfr. Mt 5,45-46). Ormai l’appello supera le frontiere dell’amico­nemico e giunge sull’invito che è lanciato sempre nel Discorso della Montagna: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (5,44). L’appello di Gesù andrà anche oltre lo stesso confine dell’io. Infatti, pur riconoscendo la validità dell’imperativo della legge «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18), egli accentuerà e travalicherà quella comparazione: «Amatevi gli uni agli altri, come io ho amato voi» (cfr. Gv 13,34). Ossia con un amore infinito com’è quello divino e un amore che giunge sino a rinunciare a se stessi: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici» (15,13). Vorremmo a questo punto concludere con un apologo dello scrittore argentino Jorge L. Borges (1899-1986), che prende spunto dal celebre racconto di Abele e Caino, trasformandolo in un apologo sulla colpa, il rimorso e il perdono. Abele e Caino s’incontrano dopo la morte di Abele nel tempo eterno di Dio. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella che non aveva ancora ricevuto il nome. Alla luce delle fiamme Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e, lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca, chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele, però, disse: «Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più: stiamo qui insieme come prima». Allora Caino replicò: «Ora so che mi hai perdonato davvero, perché dimenticare è perdonare». Solo con il perdono tutto ricomincia da capo ed è nuovo.

COMMEMORAZIONE DI TUTTI FEDELI DEFUNTI – 2 NOVEMBRE – G.RAVASI

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COMMEMORAZIONE DI TUTTI FEDELI DEFUNTI – 2 NOVEMBRE

Gianfranco Ravasi

Giobbe 19, 1.23-27; Romani 5, 5-11; Giovanni 6, 37-40

L’Ordo Exequiarum si apre con una premessa che potrebbe idealmente illuminare questa celebrazione di origine medievale e monastica spesso deviata da forme pietistiche e persino superstiziose. «Nei riti funebri per i suoi figli la Chiesa celebra con fede il Mistero pasquale, nella fiduciosa speranza che coloro i quali sono diventati, per il battesimo, membri del Cristo morto e risorto, attraverso la morte passino con lui alla vita». Il destino glorioso del Cristo uomo e Dio è lo stesso destino del fedele a lui «conformato» nella fede e nel battesimo. La morte non è, allora, l’estuario tragico nel baratro del nulla, ma l’ingresso nella comunione piena con Dio già gustata in frammento durante l’arco limitato dell’esistenza terrestre. Questo è anche il messaggio del lezionario della prima Messa odierna per tutti i fedeli defunti. In apertura abbiamo un passo denso ed oscuro di quel capolavoro in assoluto che è il libro di Giobbe. Il nucleo tematico centrale di questo poema non è tanto il problema del male quanto piuttosto l’analisi della vera fede contro tutti i surrogati teologici e filosofici (gli «amici» di Giobbe): essa nel dolore innocente sperimenta la sua «agonia» più lacerante ma anche rischia la sua soluzione più alta e mistica. Giobbe a metà del suo tempestoso e torrenziale contendere con Dio si ferma e intravede un barlume di speranza. Esso è contenuto nella nostra pericope. La Vulgata, molti Padri Latini e la liturgia hanno esplicitato l’oscuro testo ebraico originale ed hanno visto in questa pagina una dichiarazione di fede nella risurrezione: Scio quia redemptor meus vivit et in novissimo die surrecturus sum et rursus circumdabor pelle mea et in carne mea videbo Deum meum (S. Gerolamo). Il «redentore» (in ebraico go’el) di cui parla Giobbe è Dio stesso, il «redentore» di Israele dalla schiavitù d’Egitto, è colui che deve nella tribù salvare dalla schiavitù e dalla miseria il parente prossimo (vedi Gb 16, 18-22). Nello schema di tipo giuridico dell’Alleanza si chiarisce, allora, la speranza del grande sofferente biblico: il «difensore-redentore» divino, come nel dibattimento processuale, interverrà per liberare l’uomo umiliato. Egli è l’«ultimo», viene dopo tutti gli altri falsi difensori umani rivelatisi in realtà accusatori (gli amici), e difenderà Giobbe ormai vicino alle soglie della morte giustificandolo davanti a tutti. Gobbe, ridotto allora a pelle e ossa, vicino alla polvere della tomba, sentirà la parola giudicatrice e liberatrice di Dio. La mutua immanenza del Cristo nel fedele e del fedele in Cristo è anche per Giovanni la causa del recupero integrale dell’essere umano a Dio. L’idea è sviluppata anche nell’odierna pericope evangelica che, pur essendo inserita nel grandioso discorso sul pane di vita pronunciato da Gesù a Cafarnao, ha però un’organizzazione e una storia indipendenti. I versetti celebrano la volontà del Padre che gli uomini abbiano la sua stessa vita e che per questo siano risuscitati nella comunione di vita finale con lui (6, 40). Chi crede nel Figlio ha già ora la vita eterna (cioè la vita divina): essa sarà portata a pienezza nella risurrezione finale. La salvezza presente e futura è conseguenza della comunione personale col Figlio mediante la fede. La vita di grazia che ora possediamo si proietta sul futuro («ultimo giorno»). Non è un possesso statico, ma è un dinamismo che si apre sull’eternità ed esclude quindi il nulla e la distruzione. Nello sviluppo del discorso Giovanni applicherà la relazione fede-vita-risurrezione anche all’eucaristia costruendo la nuova sequenza eucaristia-vita-risurrezione. Dice infatti Gesù in 6, 54: «Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno». La comunione col Cristo nella fede e nell’eucaristia ci strappano dalla morte e dal nulla e ci inseriscono nella stessa esistenza di Dio: «A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita. Chi sarà vittorioso erediterà questi beni; io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Apoc 21, 7).

SPUNTI PASTORALI 1.    La celebrazione odierna è una ripresa della liturgia pasquale e come tale entra correttamente anche nel culto domenicale. Cristo, attraversando la nostra realtà più specifica, la morte, la vince e irradia in noi la sua realtà più specifica, la vita divina. 2.    La liturgia odierna è, perciò, sostanzialmente centrata sulla speranza, una speranza che nasce dalla fede nella Pasqua. La morte resta sempre un oscuro passaggio, una lotta («agonia») e un mistero. Ma la morte e la risurrezione del fratello Cristo diventa radice di speranza. Il rischio si illumina; conquistati dalla sua vita siamo strappati al nulla). 3.    Il lezionario odierno, contro ogni nichilismo, pessimismo e contro ogni materialismo gaudente, ripropone il mistero che è seminato nell’essere di ogni uomo. Attraverso l’amore del Cristo (II lettura) e la nostra comunione con lui (Vangelo) noi siamo conquistati alla vita e siamo in qualche modo «resi divini e infiniti» (Elisabetta della Trinità). Il valore dell’uomo va, perciò, al di là dei beni che possiede, cose inesorabilmente morte. 4.     È necessario purificare la morte cristiana da ogni «pornografia» della morte, come è stato scritto a proposito di certe celebrazioni funebri statunitensi che tentano di cancellare con la retorica consumistica o con la magia questa drammatica realtà umana. Dignità, dolore, sincerità, realismo, vicinanza sono virtù umane da conoscere e da far conoscere anche al bambino che spesso è tenuto lontano da qualsiasi cenno alla morte. Ma il cristiano deve conoscere anche la fiducia, la speranza e la contemplazione pasquale

da: Gianfranco Ravasi – Celebrare e vivere la Parola, Commenti al lezionario festivo anni A-B-C Àncora editrice, 1997, pp 839-842

 

GIANFRANCO RAVASI – UNO SPICCHIO DI CIELO

http://www.parrocchiadimussolente.it/index.php/home/articoli-da-riviste-giornali/13-2011-il-mattutino-a-cura-di-gianfranco-ravasi

04/01/2011

GIANFRANCO RAVASI – UNO SPICCHIO DI CIELO

Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni crematori, non veda il dominio della morte? Sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza. Non ci credete? Invece è così! Il filo spinato, il fumo denso che esce dai comignoli dei forni, le urla degli aguzzini, uomini e donne stremati per i lavori forzati, un odore di morte e un respiro di disperazione. Tutto questo è il lager nazista di Auschwitz. In quella folla di vittime c’è una giovane donna ebrea olandese dotata di una straordinaria intelligenza e di un cuore mistico. Nei fogli sgualciti di un taccuino annota il suo « diario » e il suo sguardo non si perde nel grumo oscuro del male che la avvolge, ma si leva lassù, in quello spicchio di cielo che riesce a intravedere nella baracca in cui è relegata. Ed è in quella contemplazione che «il dominio della morte» circostante scompare e appaiono i campi infiniti del firmamento e la danza delle stelle, e in quei segni brillano la libertà e la bellezza che invano gli oppressori cercano di cancellare sulla terra. Nel cuore fiorisce, allora, la speranza, la pace, la serenità. Noi che, invece, abbiamo tutto spesso non crediamo che questo sia possibile e siamo incupiti, insoddisfatti, agitati. Scriveva ancora questa donna: «La mia vita è un ininterrotto ascoltare – dentro me stessa e gli altri – Dio. In realtà è Dio che ascolta dentro di me- Di sera, quando, coricata sul letto, mi raccolgo in te, mio Dio, lacrime di gratitudine mi inondano il volto ed è questa la mia preghiera». Tra le vittime delle camere a gas di Auschwitz del 30 settembre 1943 – secondo un rapporto della Croce Rossa – c’era anche lei, Etty (Ester) Hillesum di 29 anni.

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 12 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

I TRE FILI DEL CONCILIO – DEL CARDINALE GIANFRANCO RAVASI

http://www.stpauls.it/vita/1210vp/editoriale.htm

I TRE FILI DEL CONCILIO

DEL CARDINALE GIANFRANCO RAVASI

È difficile resistere alla memoria autobiografica: giunsi a Roma, non ancora ventenne, per iniziare i miei studi in teologia proprio nel pomeriggio dell’11 ottobre 1962. Ero, quindi, anch’io presente quella sera tra l’immensa folla che, in piazza San Pietro, ascoltava l’ormai celebre « discorso della luna » di Giovanni XXIII, così come sono stato tra coloro che, tre anni dopo, l’8 dicembre 1965 assistevano alla solenne conclusione dell’assise conciliare con Paolo VI, per non parlare poi delle varie volte in cui – attraverso l’autorizzazione di un vescovo – avevo partecipato alle sessioni in San Pietro, seguendo gli interventi dei Padri conciliari. Il concilio Vaticano II, però, non è intrecciato con la mia vita solo per ragioni biografiche. Lo è per un dato più radicale che è condiviso anche da tutti coloro che non misero mai piede a Roma in quegli anni, eppure furono in modo benefico « contaminati » da quell’evento.
Naturalmente, di fronte alla massa enorme della documentazione conciliare e alla relativa sterminata bibliografia dalle tonalità più diverse e fin antitetiche, anzi, davanti anche soltanto all’eredità ufficiale di quell’assise con le sue quattro costituzioni, nove decreti e tre dichiarazioni, è difficile identificare in maniera semplificata un nodo d’oro che tutto tenga insieme, decifri il senso ultimo e delinei l’anima genuina. Preferirei, allora, ricorrere piuttosto a una trilogia fatta di fili robusti che percorrono e reggono quel tessuto così complesso, ornato e policromo.
Il primo di questi fili è, in verità, molto fluido, simile quasi a una trama che ha attraversato, fin dall’annuncio dell’indizione da parte di Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959 nella basilica di San Paolo, tutto il Concilio e l’intero mezzo secolo che abbiamo alle spalle. Si è, infatti, respirata e vissuta un’atmosfera intensa e unica, un fremito che paradossalmente faceva guardare la Chiesa lungo due direzioni antitetiche eppure complementari. Da un lato, infatti, ci si proiettava verso il mondo in evoluzione e, quindi, verso orizzonti futuri, facendo risuonare quella parola allora un po’ emozionante, « aggiornamento ». Ma d’altro lato, si voleva liberare dal manto un po’ polveroso di una storia secolare il cuore pulsante del Vangelo, la vitalità delle origini cristiane, la matrice ecclesiale originaria, compiendo una sorta di sguardo retrospettivo. Proprio per quest’ultimo aspetto alcuni Padri considerati « progressisti » ribattevano ai colleghi obiettori di essere loro stessi i veri servatores, i « conservatori » dello spirito genuino della tradizione, mentre gli oppositori in ultima analisi si rivelavano novatores, sostenendo tesi e prassi posteriori. Il clima di riscoperta delle radici cristiane come autentica « novità » era vissuto allora in modo forte, talora fin frenetico: si spiegano così anche la successiva degenerazione e il parallelo allentarsi di quella tensione spirituale. Tuttavia, penso che questa eredità d’indole generale non si sia mai spenta del tutto, tant’è vero che ancor oggi l’aggettivo « conciliare » suscita sempre un palpito, una vibrazione, una scossa interiore, un appello a vivere più efficacemente il cristianesimo.
Un secondo filo che si dipana non solo in tutti i documenti conciliari, ma che è divenuto un raggio solare che ha illuminato fino ai nostri giorni tutta la Chiesa, è stato quello della parola di Dio. Essa, certo, ha avuto la sua stella polare nella costituzione significativamente denominata Dei Verbum. Inizialmente si era ipotizzato un titolo più riduttivo, De Sacra Scriptura, rimandando esclusivamente alla Bibbia. Ma poi, si è marcato il fatto che la parola di Dio precede ed eccede la Sacra Scrittura: quest’ultima, infatti, è l’attestazione oggettiva della rivelazione di Dio che echeggia già nella creazione e nella storia e che si effonde attraverso lo Spirito Santo successivamente illuminando la Scrittura nella tradizione, in cui si compie quanto suggestivamente dichiarava san Gregorio Magno in un’omelia su Ezechiele: Scriptura cum legente crescit. Ecco, allora, il titolo finale De divina revelatione.
Non per nulla, volendo riportare ancora nel centro vitale della Chiesa la parola di Dio a distanza di decenni da quel documento conciliare, Benedetto XVI a suggello del Sinodo del 2008 ha posto come incipit della sua esortazione apostolica post-sinodale la formula Verbum Domini. La Parola, infatti, col Concilio ha brillato in modo rigoroso e netto nella liturgia, nella catechesi, nella spiritualità (la lectio divina!), nella pastorale, nella cultura, nella teologia. A quest’ultimo proposito, ricordo in quegli anni l’ardua transizione che i docenti dell’Università gregoriana avevano dovuto compiere, rendendo i loro corsi sempre più modellati sulla Bibbia come sorgente, superando l’uso secondo cui era la riflessione speculativa a convocare i passi biblici a supporto delle tesi già elaborate. Un’inversione metodologica che ora è normale nei trattati teologici ma che allora sembrava una rivoluzione, anche se altro non era che un ritorno alle origini. I Padri della Chiesa, infatti, com’è stato fatto notare da molti, non parlavano (o scrivevano) della Bibbia, ma parlavano la Bibbia.
Giungiamo, così, al terzo e ultimo filo, quello del confronto e del dialogo col mondo, con la società e con la cultura contemporanea. Emblematica, al riguardo – come tutti riconoscono – fu la Gaudium et spes, un ampio testo di ben 93 paragrafi, capace di dipingere un affresco dell’orizzonte nel quale la Chiesa si trovava immersa. In realtà, tutto il patrimonio dottrinale e pastorale del Vaticano II era in filigrana animato dall’istanza di comprendere e di incontrare un tempo che si rivelava sempre più complesso e incline ad allontanarsi dalla fede non solo cristiana, ma anche dal puro e semplice ambito del religioso e del sacro. Ecco, allora, il configurarsi di un’antropologia che potesse frenare la corsa alla secolarizzazione, alla
È così che il Concilio volle delineare il ritratto della persona umana nella sua dignità di « immagine » divina, nella sua libertà, coscienza, intelligenza, nei suoi splendori e miserie. Questo ritratto era collocato all’interno della società attraverso la ricerca del bene comune e l’affermazione dell’autonomia della politica e delle realtà terrene. Senza ignorare le degenerazioni che intaccano il singolo, la famiglia, la comunità universale, l’approccio adottato era, però, sempre positivo, anche quando ci si confrontava con fenomeni articolati e delicati come la scienza, l’economia e persino l’ateismo e le crisi spirituali. Certo, la mappa socioculturale descritta dal Concilio può risultare in alcune aree superata o datata (si pensi solo all’attuale civiltà informatica).
Ma questo si trasforma proprio in un insegnamento. Certo, il messaggio evangelico è in ogni tempo unico, è lo stesso ieri, oggi e sempre, come afferma per il Cristo la Lettera agli Ebrei (13,8). Esso, però, deve continuamente incarnarsi nelle mutevoli coordinate storiche entro le quali siamo innestati. Questa « contemporaneità » permanente di Cristo e della sua parola è il grande monito costante del concilio Vaticano II. Un po’ come affermava il filosofo danese Soeren Kierkegaard: «L’unico rapporto che si può avere con Cristo è la contemporaneità. Rapportarsi a un defunto è un rapporto estetico: la sua vita ha perduto il pungolo, non giudica la mia vita, mi permette solo di ammirarlo». Il Vivente, invece, com’è il Cristo risorto, «mi costringe a giudicare la mia vita in senso definitivo». Ed è ciò che il concilio Vaticano II ha ribadito con passione e convinzione a tutta la Chiesa.

Vita Pastorale n. 9 ottobre 2012

CARD. RAVASI : AL SUONO DELLA TROMBA

http://www.novena.it/catechesi/catechesi17.htm

CARD. RAVASI : AL SUONO DELLA TROMBA

 » Il Signore, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo e quindi noi, ancora vivi, saremo rapiti con loro… » (1 Tessalonicesi 4,16-17)

Ora è la seconda città della Grecia, importante nodo stradale e commerciale, ricca di monumenti bizantini. Allora era la capitale della Macedonia e san Paolo ricordava con piacere l’accoglienza fraterna che gli avevano riservato i pagani, ma con amarezza anche la dura reazione degli Ebrei là residenti, che avevano contro di lui ordito una sommossa popolare costringendolo a una fuga indecorosa (Atti 17,1-10). Il fedele discepolo Timoteo aveva poi recato all’Apostolo, che si trovava a Corinto, notizie della neonata Chiesa tessalonicese e dei suoi primi problemi. Paolo aveva deciso, allora, di inviare un messaggio a quella comunità, «da leggersi a tutti i fratelli».
È l’anno 51: è questo il primo scritto paolino a noi giunto e quasi certamente il primo testo (cronologicamente parlando) del Nuovo Testamento. A chi vorrà leggerlo integralmente verranno incontro tonalità differenti. C’è il registro autobiografico dei ricordi, segnato dalla nostalgia, aperto però alla speranza di un nuovo incontro. C’è il filone teologico che si sviluppa attorno a tre temi: l’amore fraterno, il mistero pasquale di Cristo e la sua parousía o ritorno finale a suggello della storia. C’è, poi, anche il tema morale e pastorale: l’Apostolo, in 5,12-28, esorta la comunità a vivere un’esistenza cristiana perfetta e pura e lo fa attraverso una sequenza di quattordici imperativi.
Il nostro frammento testuale si innesta nel filone teologico, affrontando il tema del ritorno di Cristo alla fine della storia. Lo scenario che san Paolo tratteggia è, però, modulato sul linguaggio apocalittico a quel tempo dominante che ricorreva a immagini, metafore e simboli. Così, stando sul vago, cerca di risolvere un quesito che rodeva l’anima dei cristiani tessalonicesi, convinti che quell’ultimo evento fosse imminente. Essi domandavano: in quell’istante supremo in cui risorgeranno coloro che sono morti in pace e in comunione con Cristo, i cristiani ancora vivi quale sorte avranno?L’Apostolo ricalca l’apparato delle visioni epifaniche apocalittiche: cori celesti, trombe divine, vortici, nubi, cieli squarciati. Non è, quindi, una descrizione puntuale, ma una rappresentazione simbolica di quel passaggio dal tempo all’eterno, dallo spazio terreno all’infinito di Dio. I morti e gli ancora viventi entreranno nell’orizzonte trascendente: ai Corinzi, poi, dirà che «non tutti dovremo morire [in quel momento estremo], tutti però saremo trasformati» (1Corinzi 15,51). Soddisfatta questa curiosità dei Tessalonicesi, ciò che a Paolo preme è ribadire che il destino di tutti i fedeli è quello di «andare incontro al Signore… e così essere per sempre con lui» (4,17).
Per completezza dobbiamo, però, aggiungere una nota conclusiva. Contro l’eccitazione di coloro che, convinti dell’imminenza di quel momento ultimo, abbandonavano le loro responsabilità e i quotidiani impegni terreni, Paolo raccomanda di «fare tutto il possibile per vivere in pace, occupandosi delle proprie cose e lavorando con le proprie mani, come vi abbiamo ordinato, conducendo una vita decorosa di fronte agli estranei [i non credenti], senza aver bisogno di nessuno » (4,11-12). In passato abbiamo già avuto occasione di registrare come questo appello sia andato a vuoto, perché – nella Seconda Lettera che egli indirizzerà ai cristiani di Tessalonica – l’Apostolo sarà costretto a rivolgere loro una tirata d’orecchi ricordando che «chi non vuole lavorare, neppure mangi!» (si legga 2Tessalonicesi 3,6-15). 

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 29 septembre, 2015 |Pas de commentaires »

DIO E L’INFINITO NELLA BIBBIA – CARD. GIANFRANCO RAVASI

http://www.aleteia.org/it/religione/documenti/dio-e-infinito-nella-bibbia-1973001

DIO E L’INFINITO NELLA BIBBIA

Praticamente assente come categoria filosofica e fisica, l’infinito si intreccia alla dimensione dello spazio e al suo costituirsi come orizzonte di incontro di Dio con l’uomo

CARD. GIANFRANCO RAVASI

Nella fama popolare lo scrittore americano ottocentesco Edgar Allan Poe è rimasto autore di inquietanti gialli di indole metafisica. Egli, però, ci ha lasciato anche vari scritti teorici. In uno di essi, Eureka del 1848, osservava: “La parola ‘infinito’ – come le parole ‘Dio’, ‘spirito’ e alcune altre, i cui equivalenti esistono in tutte le lingue – non è espressione di un’idea, ma espressione dello sforzo verso quell’idea”. Questa considerazione ben s’adatta alla Bibbia, quando essa viene sfogliata alla ricerca di temi teorici, di categorie filosofiche e teologiche simili a quelle che il mondo greco-romano ha sviluppato in modo sistematico sulla via della speculazione. E’ proprio il caso del concetto di infinito: senza esitazioni il Concilio Vaticano I (1870) applicava questo aggettivo a Dio, così come secoli prima il Concilio Lateranense IV (1215) lo definiva “immensus”. Ma per una civiltà come quella semitica, che elaborava il suo pensiero attraverso i simboli e l’esperienza concreta, il concetto di infinito – per usare le parole di Poe –, più che un’idea chiara e distinta, era “espressione di uno sforzo” per conquistare e raffigurare quell’idea.
Accadeva così anche per il concetto di nulla, che veniva rappresentato attraverso il mare, visto in opposizione alla terra abitata (cf Gb 38,8-11), oppure ricorrendo alle tenebre, all’abisso e al deserto (cf Gen 1,2). Per noi queste realtà non sono il nulla, ma in una mentalità simbolica incarnavano l’assenza di terra, di luce, di materia, di vegetazione, considerate come l’essere per eccellenza. Per questo stesso motivo non è possibile cercare la parola “infinito” nella Bibbia; bisognerà procedere per una via simbolica, seguendo lo sforzo degli autori sacri di immaginare quell’idea. Tre sono i percorsi che proponiamo. Il primo è il semplice e immediato: l’infinito è la negazione di un limite, di una frontiera, in ebraico ‘en-sof, “senza confine”, oppure en-qeqez, “senza bordo, fine”. Illuminante è il contrappunto tra finito e infinito in questo versetto salmico: “Di ogni cosa perfetta ho visto il limite: il tuo decreto è esteso, senza limiti” (Sal 119,96). Infinito può essere, però, anche il peccato dell’uomo, le cui iniquità sono innumerevoli (cf Gb 22,5), ma per analogia si può anche parlare di “una folla innumerevole” (Qo 4,16), così come lo sono i libri pubblicati (cf Qo 12,12), l’universo “grande e senza fine, eccelso e senza misura” (Bar 3,25) e le genealogie umane “interminabili” (1Tm 1,4).
E’ però soprattuto Dio ad essere descritto così. L’autore della lettera agli Ebrei, citando il Sal 102,28 ricorda in 1,12 che “gli anni di Dio non finiranno”, mentre del sacerdote Melchisedek, simbolo di Cristo, si afferma che è “senza principio di giorni e fine di vita” (Eb 7,3), evocando in tal mondo l’idea parallela di eternità. Così dell’agàpe, l’amore cristiano, san Paolo dice che “non ha fine” (1Cor 13,8) e usa un avverbio greco che indica il “dappertutto” (oudépote), cercando di rendere visiva questa presenza illimitata e insuperabile. Ma a questo punto è necessario imboccare la seconda via che la Bibbia adotta per evocare il tema dell’infinito. E’ quella più congeniale alle culture antiche (ma non solo), ossia il ricorso ai simboli che, pur essendo di per sé limitati e a livello materiale e fisico, possono rimandare allusivamente a un’immensità innumerevole e a una trascendenza illimitata. E’, ad esempio, il caso dei granelli di polvere del terreno o della sabbia del litorale marino (cf Gen 13,16), oppure quello dello stelle in cielo (cf Gen 15,5). Un’altra simbolica ricorre ai numeri “innumerabili” come il “mille”: la bontà divina si stende per mille generazioni, mentre la sua giustizia solo fino a tre o quattro generazioni (cf Es 20,5-7; 34,7). I cori angelici sono “mille migliaia e miriadi di miriadi” (Dn 7,10).
Un altro paradigma simbolico per esprimere l’infinito è, invece, di taglio alfabetico ed è caro all’Apocalisse: “Io sono l’Alfa e l’Omega” (Ap 1,8; 21,6; 22,13) e talora s’accosta alla formulazione dell’eternità attraverso l’arco integrale del tempo applicato a Dio, “Colui che è, che era e che viene”. La prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco esprimono una figura stilistica detta “polarismo”: attraverso i due estremi si vuole indicare tutto ciò che in essi è contenuto; quindi la totalità dell’essere.
E’ evidente che in questi percorsi simbolici l’elemento di base è una realtà finita che viene tesa a raffigurare l’Oltre e l’Altro infinito ed eterno. Questo discorso, infatti, vale anche per il concetto di “eternità”. Si pensi che in ebraico ‘olam, che spesso è reso con “eternità”, di per sé significa l’arco intero del tempo (e anche dello spazio) ed è così che in greco aiôn – che designa il “secolo” presente, cioè l’intero arco storico – diventa emblema di eternità, soprattuto nella formula “nei secoli” (Lc 1,33), ereditata dalla liturgia cristiana nell’espressione “nei secoli dei secoli”.
Analogo per l’idea di infinito è il ricorso al “cielo”, anzi al superlativo “cieli dei cieli”. Molto nitida al riguardo è una frase delle preghiera di consacrazione del tempio di Salomone, ove il confronto dialettico tra finito (tempio) e infinito è così espresso: “Ma veramente Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere, quanto meno lo potrà questo tempio che ho costruito!” (1Re 8,27).
Ed è da questa intuizione che procediamo verso l’ultima via biblica per definire l’infinito, in questo caso secondo una dimensione sempre più teologica, che è di grande pertinenza per lo sviluppo del tema generale di questo libro. Ci sono molti testi che puntano direttamente a illustrare l’onnipresenza, l’onnipotenza e l’onniscienza di Dio, ed è per questa strada che si esalta la sua infinità, che non conosce limiti spaziali o temporali, dato che egli “riempie il cielo e la terra” (Ger 23,24). Egli supera ogni frontiera cosmica, invalicabile all’uomo: “Chi è salito al cielo e ne è disceso?”, si chiede Agur, sapiente orientale citato dal libro dei Proverbi, in una serie di domande retoriche: “Chi ha raccolto il vento nelle sue palme? Chi ha racchiuso le acque nel mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra?” (Pr 30,4; si legga anche Gb 38-39). “La perfezione dell’Onnipotente”, afferma Zofar, il terzo degli amici di Giobbe, “è più alta dei cieli: che cosa puoi fare? E’ più profonda degli inferi: che ne puoi sapere? E’ più estesa della terra nella sua dimensione ed è più vasta del mare” (Gb 11,7-9).
In questa stessa linea si muove l’apostolo Paolo, quando agli Efesini augura di essere capaci di “afferrare, insieme a tutti i santi, la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, cioè a conoscere l’amore del Cristo che trascende ogni conoscenza” (Ef 3,18). Evidente è il paradosso di comprimere nella conoscenza umana ciò che di sua natura è in-comprensibile e trascendente, ossia l’amore divino che travalica le coordinate spaziali dell’essere. Noi, dichiara ancora l’Apostolo nella sua celebre allocuzione all’Aeropago ateniese, “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” in Dio che supera ogni nostro confine e tracciato, inglobandolo e rivelandosi sempre oltre. In questa linea è decisivo il Sal 139 (138), un gioiello poetico, dedicato all’esaltazione dell’onnipresenza del Creatore e quindi alla sua infinità onnicomprensiva, per cui ogni fuga da lui è impossibile, come già riconosceva un testo aramaico di El-Amarna (Egitto): “Se noi saliamo in cielo, se noi scendiamo agli inferi, la nostra testa è sempre nelle tue mani, o Dio”.
Nella prima strofa del Salmo (vv. 1-6) si esalta l’onniscenza divina totale e assoluta. Dio mi conosce “quando mi siedo e quando mi alzo, quando cammino e quando sosto”: sono anche in questo caso “polarismi” che indicano le azioni estreme della vita umana, ma vogliono riassumerne tutte le altre in esse comprese, essendo a lui aperti i segreti profondi dei nostri pensieri e delle nostre parole prima ancora che sboccino. L’infinito divino è celebrato, invece, soprattutto nella seconda strofa (vv. 7-12), quando si descrive il “folle volo” dell’uomo per sottrarsi a Dio. Tutto lo spazio è percorso, dalla verticale cielo-inferi fino all’orizzontale est-ovest (aurora-mar Mediterraneo). Canta il Salmista: “Dove potrei andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire lontano dalla tua presenza? Se scalassi i cieli, là tu sei, se discendessi negli inferi, eccoti. Se prendessi le ali dell’aurora e riuscissi ad abitare all’estremità del mare, anche là mi guiderebbe la tua mano e mi prenderebbe la tua destra” (vv. 7-10).
Ma anche tutto il tempo con la sequenza circadiana (che riguarda, cioè, la sequenza delle ventiquattro ore, e quindi il ciclo notte-giorno) è superato da Dio, che anche in tal modo svela la sua eternità. Nella terza strofa (vv.13-18) anche qualcosa di infinitamente piccolo come l’embrione umano nel grembo della madre è conosciuto in tutto il suo potenziale, destinato a fiorire nella vita fatta di opere e pensieri. Dio è quindi colto come infinito proprio per questa sua capacità di onnipresenza trascendente ed è forse questo il concetto più caro all’autore sacro: la sua ricerca dell’infinito approda non all’infinito filosofico o fisico, ma all’Infinito teologico.
In questa luce potremmo riconoscere – sulla scia delle parole di uno scrittore politico francese lontano da temi religiosi diretti, Georges Sorel (1847-1922), nelle sue Riflessioni sulla violenza del 1908 – che “quello che di migliore v’è nella coscienza umana è il tormento dell’infinito”.

[Testo tratto da Gianfranco Ravasi, "Dove sei, Signore?" (Edizioni San Paolo)]

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