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GIANFRANCO RAVASI – LE SETTE PAROLE DI PAOLO

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GIANFRANCO RAVASI – LE SETTE PAROLE DI PAOLO   
      
  Avevamo lascialo Paolo che nella prima parte del suo capolavoro teologico, la lettera ai Romani, descriveva la drammatica situazione dell’uomo, dominato da tre stelle oscure: la sarx-carne, l’hamartía-peccato, il nómos legge.
Ma quest’uomo non è abbandonato a sé stesso.
Entrano in scena – soprattutto nella seconda parte dello scritto paolino (capitoli 6-8) – quattro stelle luminose che incarnano la salvezza offerta da Dio.
La prima è espressa con la parola greca cháaris, « grazia », un termine che è rimasto nel nostro « caro-carezza », nel francese « charme » e nell’inglese « charm » (« fascino »): è l’apparire gioioso e amoroso di Dio nella notte dell’anima.
Egli squarcia la nostra solitudine, mettendosi lui per primo alla nostra ricerca, incamminandosi sulle nostre strade.
In principio c’è l’amore divino che non abbandona l’uomo a sé stesso.
È questo il senso del grido finale del celebre romanzo Diario di un curato di campagna di Georges Bemanos (1888-1948): «Tutto è grazia!».
Illuminato dalla grazia, l’uomo deve rispondere con la sua libertà di adesione o di rifiuto.
Ecco allora la seconda stella luminosa, la pístis, « fede ».
Essa è simile a braccia aperte che accolgono la cháris, cioè l’amore divino donato.
È afferrare una mano sicura che ci impedisce di sprofondare nel terreno molle della nostra carne e del nostro peccato.
È a questo punto che s’accende la terza stella, quella del pneuma, lo « Spirito ».
Ora, questo vocabolo può indicare anche il respiro della vita.
Potremmo, perciò, dire che, con l’abbraccio d’amore tra la grazia divina e fede umana sopra descritto, Dio infonde in noi il suo stesso respiro, il suo Spirito, cioè la sua vita.
È per questo che noi lo possiamo considerare come padre e ci possiamo sentire come fratelli di suo figlio, Gesù Cristo.
Tra lui e noi corre la stessa vita: «Voi avete ricevuto uno spirito (pneuma) di figli adottivi per mezzo del quale gridiamo Abba’, padre» (8,16).
L’uomo che, attraverso la fede, ha accolto la grazia e ha ricevuto lo Spirito della vita divina acquista una nuova condizione che è descritta con la quarta e ultima parola greca che Paolo usa in modo originale, la dikaiosyne, la « giustificazione ».
Essa è la stella terminale che sigilla la vicenda della nostra salvezza, partita dalle tenebre e approdata alla luce: l’uomo è ora « giustificato’, cioè reso giusto e perfetto: è – per usare un’immagine paolina – una « creatura nuova ». Le opere giuste che egli compirà saranno il frutto della salvezza ottenuta.
Attraverso sette parole, usate dall’Apostolo in modo creativo, abbiamo così ricostruito l’avventura della redenzione compiuta da Cristo e che Paolo precisa nelle pagine molto dense della lettera ai Romani. Ricordiamole ora in finale, distribuendole nei due ambiti. Innanzitutto quello negativo: sarx-carne, hamartía-peccato, nómos-legge.
Poi quello positivo: cháris-grazia, pístis-fede, pneuma-Spirito, dikaiosyne-giustificazione.
  
  

LE VENTIDUE PAROLE DELLA CREAZIONE – GIANFRANCO RAVASI

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LE VENTIDUE PAROLE DELLA CREAZIONE – GIANFRANCO RAVASI

Alfredo Chiappori continua la sua ricerca all’interno delle pagine più alte delle Scritture Sacre. Dopo aver percorso l’Apocalisse, il Cantico dei Cantici e il Salterio, ora si rivolge all’incipit assoluto della Bibbia e dell’essere, la Genesi, arrestandosi alla prima pagina, il capitolo d’apertura, e lambendo solo alcuni versetti della seconda. Come è noto, questi due fogli d’ingresso del libro biblico della creazione e dei patriarchi sono nati in epoche differenti e da inchiostri letterari diversi: il capitolo 1 è stato composto al tempo dell’esilio ebraico lungo i fiumi di Babilonia e perciò nel VI sec. a.C., mentre il secondo è da ricondurre a un racconto simbolico-sapienziale forse dell’èra salomonica (X secolo a.C.).

Una cabala di parole “numerate” Ci soffermeremo ora sul foglio ritagliato da Chiappori che ha come perimetro il primo versetto del primo capitolo, da un lato, e il versetto settimo del secondo capitolo della Genesi, dall’altro. In capite risuona quel Bereshît, “In principio”, che è la sigla dell’intero libro della Genesi ma è anche il titolo ideale di questo volume e del suo contenuto. Da quel foglio il pittore ha estratto ventidue parole, tante quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico. Esse scandiscono la grande suprema avventura della creazione. Elenchiamo quelle parole solenni prima di penetrare nel senso globale del loro disporsi a testo, cioè a “tessuto”, come appunto dice l’etimologia originaria di textus. Obbligatorio e fondamentale è il primo termine, Bereshît, “in principio”, a cui segue l’“abisso”-tehôm, simbolo del nulla. Su di esso passa la rûah, cioè lo “Spirito” creatore. Ed ecco sbocciare la rosa della “luce”, ’ôr, che ricaccia hosheq, cioè la “tenebra”, mentre si apre sopra l’orizzonte la volta del “firmamento”, raqia‘. Sotto di essa si agitano le “acque” primordiali, majîm, il cui colore riflette quello del “cielo”, shamajîm. Dalle acque emergono i continenti, cioè l’“asciutto”, jabashah: è la “terra”, ’eres, alla cui riva si muovono con veemenza i “mari”, jammîm. Ecco, però, ramificarsi lentamente sulla superficie terrestre i “germogli” vegetali, deshe’, mentre scende la “notte”, lajlah, a cui si alterna il “giorno”, jôm. La tenebra notturna è trapuntata di kokabîm, di “stelle”, destinate “ad illuminarla” (leha’îr). Giunge così il grande momento in cui appare la nefesh hajjah, cioè “l’essere vivente”, costituito dai “volatili”, ‘of, dai “mostri”, animali possenti e terrificanti, i tannînim. Siamo, così, in presenza di tutta la gamma zoologica secondo la varietà della specie (mînah). Ma, al vertice della creazione, entra in scena ha’adam, “l’uomo”, che da Dio non riceve solo la vita fisica ma anche un dono unico, la nishmat hajjîm, cioè un alito vitale misterioso che lo raccorda direttamente a Dio. E’ una “fiaccola del Signore che scruta tutti i recessi segreti del cuore”, si spiega nel libro biblico dei Proverbi (20, 27). E’, dunque, la coscienza. Queste ventidue parole sono scelte all’interno di una trama lessicale costruita in modo raffinato, una specie di cabala ieratica, ritmata soprattutto sul numero “sette” della settimana liturgica, numero di pienezza e di perfezione che occupa l’intera prima pagina ebraica della Genesi. Siamo, infatti, in presenza di sette giorni all’interno dei quali si distendono otto opere divine, scandite in due gruppi di quattro; sette sono le formule fisse usate per costruire la trama del racconto; sette volte risuona il verbo bara’, “creare”; trentacinque volte (7×5) è scandito il nome divino; ventun volte (7×3) entrano in scena “terra e cielo”, il primo versetto ha sette parole e quattordici (7×2) il secondo…

La creazione come evento sonoro A questo punto non resta a noi che gettare uno sguardo d’insieme sulla pagina sacra della creazione. E’ suggestivo notare che l’atto creativo nella Bibbia è concepito come un evento affidato alla parola. Lo sterminato silenzio del nulla è squarciato da un imperativo possente: Jehî’or… Wajjehî’or, “Sia la luce… E la luce fu”(1, 3). Forse è necessario commentare queste parole affidandoci alla Creazione di Haydn con la sua prodigiosa generazione di un celestiale e solare Do maggiore dal caos d’una modulazione infinita. O evocare la sfida di Wagner, di Holst e di Schönberg, ossessionati dall’idea di cogliere in battute il risveglio dell’universo. O inseguire lo sforzo di conquista della sonorità cosmica da parte della Sagra della primavera di Stravinskij, dove le sette note della scala, avvinghiate nell’accordo di tutti gli accordi possibili, percuotono dal cielo la terra per ridestarne l’impulso vitale e popolarne di vita la superficie. O creare la lacerazione dei suoni di Licht, l’opera cosmologica in sette parti di Stockhausen. Mentre la Genesi di Battiato sembrerebbe suggerirci una comparazione tra fedi diverse sempre attorno allo stesso tema. Per la Bibbia la creazione è sostanzialmente un evento sonoro: è la voce divina a dar origine all’essere. Anche nella cultura indiana il Prajapati, “il Signore delle creature”, fa sbocciare l’essere da una cellula sonora che dilagherà negli spazi infiniti per riaggregarsi poi nei canti dei fedeli. La parola è da subito decisiva, e lo è soprattutto per un popolo come Israele, che ha optato per il silenzio delle immagini: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo né di ciò che è quaggiù in terra né di ciò che è nelle acque sotto terra” imporrà il Decalogo (Esodo 20, 4). L’essere non è sospeso su un gorgo fatale, come immaginavano, prima ancora dei Greci, gli antichi Sumeri, che pensavano al dio creatore Enlil come a un “arruffio di fili di cui non si conosce il bandolo”. La creazione non è neppure frutto di una lotta teogonica e intradivina, come aveva cantato il poema accadico-babilonese Enuma Elish, nel quale un dio vincitore, Marduk, riduceva a materia l’antagonista Tiamat, la divinità “abissale” negativa sconfitta, trasformata dalla Bibbia nel citato tehôm, l’abisso sotterraneo acquatico-infernale. Per la Bibbia noi siamo, invece, “appesi” a una Parola primordiale: “In principio c’era il Logos”, cioè il Verbo, la Parola efficace, come scriverà Giovanni l’evangelista. In essa si concentrano tutti i sensi che il Faust di Goethe vorrà dissociare proprio commentando il testo giovanneo: il Wort-parola è anche Kraft-potenza, Sinn-significato e Tat-azione. In principio ci fu, dunque, un suono, un’armonia. Ne è convinto un altro antico autore d’Israele, colui che ha messo in bocca alla Sapienza divina creatrice uno splendido inno, racchiuso nel capitolo 8 del libro dei Proverbi. Raffigurata come ’amôn, “architetto” o “giovane” – difficile è decidere il valore di quel vocabolo ebraico -, la Sapienza alla fine della creazione si abbandona a una danza, a una specie di ebbrezza festosa espressa con un verbo ebraico che implica delizia, allegria, abbandono gioioso, ballo: “Io ero con Lui come ’amôn,/ ero la sua delizia ogni giorno,/ danzando davanti a Lui in ogni istante,/ danzando sulla distesa terrestre,/ trovando la mia allegria tra i figli dell’uomo” (Proverbi 8, 30-31). Catturato da questa immagine sarà anche il poeta di Giobbe che farà entrare sulla scena del cosmo in formazione il Creatore, accompagnato da una corale angelica: “Le stelle del mattino acclamavano in coro/ e tutti i figli di Dio gridavano la loro gioia” (Giobbe 38, 7). Resterà sempre una sfida per l’uomo cogliere quel canto primordiale che echeggia nel tempo e nello spazio se è vero, come dice Shakespeare nel Mercante di Venezia, che “fin la più piccola orbe che tu ammiri, compiendo il suo moto, canta come un angelo (like an angel sings)”. Persino la scienza moderna è ricorsa a un analogo simbolismo, il “Big Bang” – certamente più volgare e brutale – per descrivere quel Bereshît affidato alla Parola suprema.

La creazione come evento visivo C’è, però, nella prima pagina della creazione un’altra dimensione che idealmente si sposa con l’opera del pittore. Il creato è contemplato come un dato estetico e visivo. Per sette volte, infatti, risuona una formula fissa: Wajjar’ ’elohîm… kî tôb, “Dio vide che (il creato) era bello/ buono” (Genesi 1, 4.10.12.18.21.25.31). Il tardo libro biblico greco della Sapienza esorterà l’umanità a risalire da questa epifania di bellezza, che già affascina lo stesso Creatore, al suo Autore: “Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore” (Sapienza 13, 5). Il vocabolo “estetico” tôb, destinato a definire la creazione e l’esperienza visiva che di essa ha l’uomo, è di sua natura simbolico: abbraccia, infatti, una sensazione di piacere fisico ma anche di esaltazione spirituale e morale. Le stesse versioni possibili della frase citata evocano questa molteplicità di esperienze: “Dio vide che era cosa buona… Dio vide che era bello… Dio vide: Era bello!… And God saw, how beautiful/good it was…!” Un esegeta, Claus Westermann, giustamente osservava che “la bellezza/ bontà di ciò che è stato creato non è qualcosa di aggiunto dopo la sua creazione ma appartiene allo statuto della creazione”. Già il citato libro della Sapienza, che era convinto della “bellezza delle realtà visibili” (13, 7), identificava la ragione di questo fascino nel fatto che Dio “ha disposto tutto con misura, calcolo e peso” (11, 20). Il vertice di questa percezione visiva della bellezza è raggiunto quando la creazione approda alla sua pienezza con la creazione dell’uomo e della donna. Allora l’autore sacro usa il superlativo ebraico tôb me’od: “Dio vide che era bellissimo” (Genesi 1, 31). E’ quasi un atto contemplativo perfetto che il riformatore Giovanni Calvino così commentava: “Ogni giorno della creazione ha una semplice approvazione; ma ora che l’opera del mondo è compiuta in tutte le sue parti e che Dio vi ha messo l’ultima mano per rifinirla e connetterla, egli dichiara che è perfettamente buona perché comprendiamo che nella proporzione e nel rapporto reciproco delle opere di Dio c’è una perfezione somma alla quale nulla può essere aggiunto”. In sintesi potremo, allora, affermare che la creazione è un evento visivo e artistico oltre che sonoro, tant’è vero che non pochi esegeti riconducono la frase citata alla reazione soddisfatta dell’artista di fronte al suo capolavoro. Così Dio reagirebbe dopo aver plasmato l’universo. Un sapiente biblico del II sec. a.C., il Siracide, esclamava: “Quanto sono amabili tutte le sue opere! Eppure appena una scintilla noi ne possiamo osservare… Tutte le realtà sono a coppia, una di fronte all’altra, nulla Egli ha fatto d’incompleto. L’una conferma i pregi dell’altra: chi si sazierà di contemplare la sua gloria?” (Siracide 42, 22-25). Immerso in questo orizzonte di colori e di vita il pittore deve quasi essere il liturgo che svela il segreto armonico del creato. Come scriveva Borges nella Metamorfosi della tartaruga, “l’arte vuole sempre irrealtà visibili”. Essa, cioè, scende nel grembo segreto del sogno di Dio sotteso alla realtà e lo rende epifania, svelandoci il senso ultimo del creato. Proprio come suggeriva Paul Valéry nei Cattivi pensieri: “Il pittore non deve dipingere quello che vede ma quello che si vedrà”, la realtà nella sua pienezza escatologica, cantata dall’Apocalisse di Giovanni. E’ così che si compie quanto aveva intuito nei Guermantes Proust quando aveva sospettato che “il mondo non è stato creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale”. E forse è proprio per questo che si usa parlare di “creazione” per l’opera dell’artista.

GIANFRANCO RAVASI

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Gianfranco Ravasi |on 12 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

PAOLO – UN SANTO SULLE FRONTIERE DELLA CULTURA (2008) – Intervista a Ravasi

http://www.stpauls.it/jesus/0801je/0801je12.htm

PAOLO  – UN SANTO SULLE FRONTIERE DELLA CULTURA (2008)

di Giovanni Ferrò 

Secondo alcuni, è stato «l’inventore» del cristianesimo, perché avrebbe trasformato una piccola setta ebraica in una nuova, contagiosa, religione. Altri preferiscono definirlo «l’apostolo delle genti», perché ha dato respiro missionario alla Chiesa nascente, ancora ripiegata su se stessa. A duemila anni dalla sua nascita, Paolo di Tarso resta una delle figure più emblematiche e, a tratti, persino misteriose del Nuovo Testamento. Di certo, è stato un grande pastore, in grado di fondare comunità cristiane ovunque mettesse piede; ma anche un robusto teorico, l’uomo che ha prodotto un’originale sintesi tra la radice religiosa ebraica e la cultura greca, all’interno della cornice istituzionale della civitas latina. Per ricordare la figura e l’opera di questo santo, senza di cui il cristianesimo non sarebbe forse ciò che è, Benedetto XVI ha indetto, a partire dal giugno 2008, uno speciale Anno Paolino. Ma qual è stato lo stile di Paolo? Quale il suo insegnamento? E in che modo è possibile, oggi, tentare una nuova sintesi culturale, facendo i conti con un mondo diventato «adulto» e che cambia così rapidamente, prendendo a modello l’esempio di san Paolo? Siamo andati a chiederlo a monsignor Gianfranco Ravasi, biblista raffinato, per 18 anni prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, e soprattutto – da alcuni mesi – nuovo presidente del Pontificio Consiglio per la cultura, il dicastero vaticano che più di tutti ha il dovere di confrontarsi con l’universo del pensiero laico. Di seguito, l’intervista che monsignor Ravasi ci ha rilasciato..

L’intelligenza e l’amore di un uomo capace di rischiare Nei nobili corridoi della Biblioteca Ambrosiana, monsignor Gianfranco Ravasi si muove con la leggerezza e l’agio di chi si sente a casa. Nominato presidente del Pontificio Consiglio per la cultura il 3 settembre scorso, il più famoso biblista d’Italia ha lasciato l’incarico di prefetto di questa autorevole istituzione culturale milanese, fondata dal cardinale Federico Borromeo, e si è trasferito, armi e bagagli, in Vaticano. Però alla guida dell’Ambrosiana ha trascorso 18 anni. Comprensibile, dunque, che tra le « sue » mura tappezzate di libri antichi torni volentieri e con un pizzico di nostalgia. Per parlare di san Paolo, « teorico del cristianesimo » e santo del dialogo tra le culture, nonché delle sfide che la cultura contemporanea pone oggi alla Chiesa, siamo dunque venuti qui all’Ambrosiana, in piazza Pio XI, a due passi dal Duomo, dove monsignor Ravasi ci accoglie in un’enorme sala con piccoli banchi di legno che la rendono simile allo scriptorium di un antico monastero benedettino. Le coste di migliaia di volumi preziosi che raggiungono il soffitto e i ritratti di austeri personaggi alle pareti inducono una soggezione che il neoarcivescovo, con eleganza casual e colta bonomia, provvede subito a dissipare. Cosa vuol dire fare cultura per un’istituzione come la Santa Sede? «Prima di tutto c’è la questione piuttosto ardua di riuscire a definire che cosa è « cultura ». Indubbiamente, dopo un lungo periodo razionalistico che pensava alla cultura solo come a un fenomeno accademico, adesso sempre di più la si considera come una sorta di grande anima cosciente e coerente che attraversa tutto l’agire umano. Per questo motivo il Pontificio Consiglio ha un orizzonte vastissimo davanti a sé, che interseca anche il lavoro di altre strutture ecclesiali. Faccio qualche esempio: prendiamo il problema « scienza e fede », oppure il tema dei linguaggi, che personalmente ritengo capitale; o ancora il rapporto tra etica ed economia, un ambito su cui vorrei incrementare l’impegno del dicastero: l’economia non è soltanto un fenomeno tecnico-finanziario, è invece – come dice Amartya Sen – una scienza umanistica. Altro capitolo: il dialogo interreligioso, per il quale esiste un dicastero specifico, ma che presuppone una riflessione di matrice culturale. In questo senso, il Consiglio per la cultura è più un dicastero di prospettiva che non un organismo operativo in senso stretto. Fare cultura nella Chiesa diventa, insomma, una componente costante che attraversa, orienta e interpreta tutte le scelte pastorali». Di questi tempi si parla moltissimo di dialogo tra le fedi, ma anche – al contrario – di scontro tra culture e tra civiltà. Qual è il suo giudizio su questo quadro, tratteggiato così spesso a tinte fosche? «Nel dialogo tra le culture ci sono sempre state, nella storia, delle oscillazioni. Ci sono periodi in cui è quasi istintivo lo scontro, pensiamo per esempio alle guerre mondiali; e altri – magari immediatamente successivi – in cui prevale il desiderio di dialogo, il sogno dell’unità: è il caso della nascita dell’Onu nel 1945. Oggi siamo indubbiamente in un periodo di « caduta » nello scontro, ma mi pare si intraveda uno slancio verso la ripresa del dialogo. Comunque, non bisogna mai rassegnarsi ai meccanismi della storia. Credo quindi che la registrazione che ha fatto Huntington parlando di « scontro di civiltà », alla fine, è solo una sorta di accettazione dello status quo, non una proposta per affrontarlo o superarlo. Tanto è vero che il suo libro è stato molto apprezzato dai fondamentalisti islamici. La mera registrazione del fenomeno non è fare cultura. Per questo credo non ci si debba rassegnare alla logica dello scontro. E si debbano offrire proposte alternative di dialogo. Purtroppo, per quanto riguarda il campo religioso, il dialogo oggi è diventato difficile. Se guardiamo all’Ottocento, notiamo che il confronto-scontro avveniva tra grandi sistemi di pensiero. Il marxismo era una vera e propria Weltanschauung, così come il cristianesimo e il liberalismo. Si trattava di veri scontri tra opposte visioni dell’uomo, con pensatori di livello eccelso sui diversi fronti. Oggi invece, per via della modesta temperie culturale in cui viviamo, lo scontro avviene sul piano dell’ironia, del sarcasmo, dello sbeffeggio da una parte; e dall’altra, con insorgenze altrettanto modeste di tipo fondamentalista-apologetico. Questa è l’altra malattia che si aggiunge alla sindrome dello scontro: non è più uno scontro nobile e alto, è quasi un gioco di società». Il dialogo con il mondo della cultura è sempre più dialogo con un mondo laico, aconfessionale, distante dalla fede e dalla Chiesa. Come si fa a entrare in dialogo oggi con il mondo laico? «Uno dei capitoli su cui vorrei impegnarmi di più, come presidente del Pontificio Consiglio per la cultura, è quello che un tempo era la stessa ragion d’essere del dicastero, il cui nome originale era « Consiglio per il dialogo con i non credenti ». Il confronto con la laicità è quindi un tema da rinverdire e da riportare a un livello nobile. Su questo abbiamo tanta strada da fare. Ho alcune idee e progetti, però sarà un lavoro arduo e molto lento. Il problema, infatti, è che il nostro orizzonte non può e non deve essere soltanto il mondo europeo o occidentale, ma deve abbracciare tutti i continenti. E qui lo scenario si fa complesso e diversificato. Si affacciano sullo scenario internazionale culture come quella cinese o indiana che sono molto caratterizzate. Per confrontarcisi, occorre un’elaborazione complessa. D’altra parte, anche queste culture così forti e tipizzate risentono del processo di globalizzazione trionfante che investe l’intero pianeta. Bisogna quindi trovare un modello di confronto con la cultura « globale » dominante che però non penalizzi le identità particolari, che non possono essere semplicemente ignorate: perché, come si vede bene, le identità risorgono. Insomma, è fondamentale l’impegno al confronto con la laicità e la non credenza, ma con una laicità che oggi è il mondo intero». Di questo dialogo con la laicità, qui a Milano, è stato maestro il cardinale Martini. Quello stile dell’ex suo arcivescovo che cosa le ha insegnato? «La « Cattedra dei non credenti » è stata un’esperienza molto importante ma è stata figlia di un periodo particolare. A mio parere, ha insegnato una cosa fondamentale: l’ascolto dell’altro. E non è una cosa banale: ascoltare è un’attività che costa tanto quanto il parlare. Vuol dire non scegliersi l’interlocutore compiacente, vuol dire anche lasciarsi ferire dalle domande che vengono poste. Questo è un atteggiamento importantissimo. D’altro canto, la Cattedra ha avuto anche un punto debole, a causa del quale quell’esperienza alla fine è morta: è stato un evento che, sostanzialmente, non è entrato in un programma pastorale effettivo». Quanto sarà complicato introdurre uno stile del genere in una struttura come il Pontificio Consiglio? «Non sarà facile. È facile organizzare grandi incontri e grandi convegni a livello internazionale. Di questi ce ne sono tanti. La cosa più complicata è invece elaborare delle visioni, dei progetti, dei percorsi, che poi vanno verificati nella realtà concreta, a livello locale». Un disegno di san Paolo realizzato su pergamena, risalente al X secolo e conservato alla Biblioteca capitolare di Vercelli. Benedetto XVI ha indetto per il 2008 uno speciale Anno Paolino. Perché san Paolo è così importante nella Chiesa primitiva, e dunque nel farsi stesso della comunità cristiana? «Il discorso che abbiamo fatto finora va proprio a confluire su Paolo: intanto, Paolo è sì un pastore, ma è anche un grande teorico. Non è il « Lenin del cristianesimo », come lo definiva Gramsci. Però, certo, è colui che ha un grande progetto ermeneutico. Paolo vuole dare una interpretazione coerente del cristianesimo, un’interpretazione che sia interculturale, anzi inculturata: con lui inizia la grande operazione di trasmissione della fede con le categorie del pensiero greco, che durerà per 4-5 secoli e che culmina nei grandi Concili di Nicea e Costantinopoli. Paolo intuisce insomma che, se il cristianesimo non vuole essere una setta, deve riuscire a fare i conti con la cultura del proprio tempo: da qui la scelta di riscrivere – senza perderla – la propria radice ebraica. Infine, Paolo è anche un pastore: costruisce delle Chiese e le modella secondo paradigmi diversi. Noi abbiamo sicuramente almeno 3-4 modelli diversi di « Chiesa paolina ». Paolo d’altronde è stato un uomo di tre culture: quella ebraica, greca e romana. Quindi è vissuto in continuo ascolto e attenzione a questi mondi». Paolo, dunque, rompe le catene che rischiavano di rinchiudere la prima comunità nell’ambito angusto di una piccola setta ebraica e apre al cristianesimo un orizzonte universale? «Sì, rompe le catene di un cristianesimo solo giudaico. Però non rinuncia mai all’eredità ebraica, la considera una delle componenti insostituibili. Certo, non teme il confronto con la laicità, che allora voleva dire il paganesimo. E mette in conto il rischio dello scacco. È il caso emblematico dell’Areopago di Atene: un tentativo di dialogo e di incontro con un mondo del tutto « altro », usando lo stesso linguaggio e la stessa strumentazione culturale dell’ »altro ». Poi però Paolo si accorge dell’ »eccedenza » del messaggio cristiano, si accorge che non è possibile giungere a un accordo sulla base del semplice sincretismo. Se non è accettabile il fanatismo che « nega » l’altro, non è neppure sufficiente il sincretismo. E questo è un altro problema fondamentale del dialogo con il mondo laico: il confronto deve essere sempre civile, però alla fine c’è una « eccedenza » della fede che non posso non riconoscere». Che cosa intende con « eccedenza »? «L’eccedenza ha a che fare con la tutela della specificità della teologia. Altrimenti è una filosofia. In questo senso, per me, il libro fondamentale è Giobbe: un libro che è un continuo atto d’accusa contro gli « amici », cioè contro i sistemi di pensiero onnicomprensivi, anche quelli che difendono Dio. Tanto è vero che Giobbe alla fine abbandona la via del luogo comune, del sentito dire, e prende la via della visione. Questa è l’eccedenza. A questo dovremmo educare un po’ anche i nostri fedeli: bisogna ricordare che la fede non è spiegare o imparare poche cose, e non è praticare poche cose. È sempre un di più, molto di più. Come la salvezza è molto di più che la semplice « sanazione » del limite». Ultimamente, con il Motu proprio sull’antica liturgia, la lingua latina è tornata d’attualità. Indubbiamente, il latino ha svolto un ruolo fondamentale nella storia della Chiesa. Ma oggi è ancora vitale? «A mio parere, bisogna evitare in tutti i modi una delle grandi malattie del nostro tempo: la smemoratezza. In questa chiave, al di là della questione del suo ruolo nella liturgia, il latino – come stendardo – è importante: a livello generale, pensiamo cosa ha significato per l’elaborazione delle categorie teologiche, e del pensiero in generale, occidentali. Nella liturgia, poi, recuperare il latino significa recuperare anche la possibilità di comprensione di tutto il patrimonio musicale. Il punto ovviamente non è ripetere, ma comprendere e far vivere il passato. Coltivare la memoria del latino deve essere, in qualche modo, un’operazione innovativa». San Paolo è stato un grandissimo comunicatore. Oggi che viviamo nella società delle comunicazioni, perché invece la Chiesa fa così fatica a parlare al mondo? «Un tempo il mondo era mosso dalla Chiesa. A partire dall’Ottocento, ha preso a muoversi da solo, è diventato « adulto », come dice Bonhoeffer. E la Chiesa si è trovata a inseguirlo. Il problema centrale è quello del linguaggio: in passato i linguaggi erano coniati all’interno della Chiesa. Pensiamo al linguaggio artistico, musicale, alla stessa letteratura. Oggi non è più così. E la Chiesa, per tutelare la sua identità, si è aggrappata alle formulazioni che già conosceva. Oppure le ha rielaborate, cercando di restare al passo: è il caso, ad esempio, dei catechismi. Ma nel frattempo il mondo era già andato avanti, era passato oltre. Il punto è che, quando si muta il linguaggio, si muta la struttura del pensiero. In questo caso, dunque, la soluzione non sta nel rincorrere il medium, con un semplice aggiornamento tecnico: l’homo telematicus non è solo colui che è capace di usare il computer, è proprio un fenotipo antropologico differente. E la comunicazione telematica non è soltanto un fenomeno tecnico, è un fenomeno esistenziale. Questa realtà non si può soltanto deprecarla, rimanendo aggrappati al passato. Il punto è riuscire a « comunicare » in questo mondo, riuscire a parlare a questo uomo contemporaneo, senza però rassegnarsi all’esito che l’uomo contemporaneo ha raggiunto». In sintesi, qual è il segreto di un evangelizzatore così grande come Paolo? «Il segreto mi sembra questo: per annunciare in maniera autentica bisogna saper coniugare l’intelligenza e l’amore. Non basta solo l’intellettualismo, come non basta solo la partecipazione passionale. Le due cose si devono sposare. E Paolo, in questo senso, è stato un maestro. Bisogna quindi recuperare l’idea di una Chiesa « calda », ma al tempo stesso non perdere il rigore intellettuale. Talvolta oggi, invece, la teologia se ne va per suo conto, la catechesi è affidata alla buona volontà, mentre certa pastorale – in particolare nei movimenti – esalta solo la dimensione spiritualistica. Un’ultima cosa che ci insegna Paolo è la necessità di porsi sulle frontiere, anche le più difficili: non accontentarsi dei propri orti, ma affrontare anche il mare aperto, gli spazi apparentemente più ostili. E, in questo apostolato di frontiera, non temere di adottare tutti i mezzi e gli stili a disposizione, anche i più moderni e « alieni ». Però, senza perdere l’anima, cioè il radicamento indiscutibile nella grandezza di un messaggio. Cosa di cui non sono consapevoli, tante volte, i cristiani». E dove è oggi Paolo, nella Chiesa? In quale luogo ecclesiale è più vicino il suo spirito? Nei movimenti? Nei monasteri? Nelle piccole parrocchie? «Ci sono due frasi di Paolo significative a questo proposito. Una è « esaminate tutto, tenete ciò che è buono ». E l’altra: « Io mi sono fatto tutto per tutti ». Voglio dire: la concezione di Chiesa propria di Paolo – una Chiesa non monolitica e non anarchica, ma vivente, « somatica » – ci fa capire che il modello cristiano è quello della molteplicità, della diversità nell’unità. Nessuno può dire: « Questo è l’unico, vero cristiano ». Il cristianesimo nasce nella sua ecclesialità, nel suo essere tutti partecipi, pronti a prendere dall’altro gli aspetti positivi, in una continua osmosi. Per questo non bisogna avere mai disprezzo di qualsiasi tipo di esperienza ecclesiale. Però bisogna condannarla quando diventa integralista, arrogante, autosufficiente e pretende di affermare di essere l’unica: l’unità vitale del Corpo di Cristo è decisiva, ma può esistere solo nell’efficacia e nell’armonia dei suoi membri, dal capo ai piedi, come ricorda Paolo ai Corinzi».

Giovanni Ferrò  

IL REALISMO DI NASCERE NELLA STORIA – GIANFRANCO RAVASI

http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5038

GIANFRANCO RAVASI NE RIPROPONE UNA SINTESI E LA PRESENTA COME « IL REALISMO DEL NASCERE NELLA STORIA »!!! IL SUO ARTICOLO – A CURA DI FEDERICO LA SALA

IL REALISMO DI NASCERE NELLA STORIA

Dio abbandona gli edifici simbolici e sceglie una residenza carnale: il grembo. Gesù a Betlemme è il trionfo della maestà della vita. Così il Natale illumina e consacra tutte le esistenze. di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2010)

Una decina d’anni dopo la pubblicazione, avvenuta nel 1982, lo scrittore lombardo Giovanni Testori – a seguito di un incontro pubblico milanese, dedicato a un libro su Maria Maddalena a cui entrambi avevamo collaborato – mi inviò una sua opera poco nota intitolata La maestà della vita. Di lì a poco egli sarebbe morto (nel 1993). Ora, sfogliando di nuovo quelle pagine, m’imbatto in questo paragrafo: «lI Natale è la nascita assoluta che riflette e assume, illumina e redime, benedice e consacra tutte le nascite di prima e tutte le nascite di poi. Ogni uomo che venga alla luce ripete il miracolo del Natale di Cristo; perché è Dio che decide quella nascita; è Lui che vuole quella vita. È proprio ciascuna di quelle nascite, ciascuna di quelle vite, nessuna esclusa, che l’ha spinto da sempre a incarnarsi». Sono parole che invitano spontaneamente a riflettere proprio su quel verbo finale così tipico del cristianesimo, l’«incarnarsi» di Dio. Non per nulla si ripete spesso che l’«incarnazione» è nel cuore stesso dell’annuncio cristiano, ne è – assieme alla risurrezione – quasi il vessillo tematico.

La definizione immediata, spoglia di tecnicismi teologici, potrebbe essere così formulata sulla scia delle righe di Testori: il Figlio di Dio è nato, ha voluto avere un inizio nel tempo lui che era e che rimane eterno, proprio per condividere realmente con noi la storia, la « carne ». Come tutti noi, ha anche avuto una fine nel tempo, una morte. Con questo ingresso nella sequenza temporale ha deposto in tutte le nascite e in tutte le morti un seme divino, trascendente il tempo stesso. Come scrive Testori, il Natale del Figlio di Dio, «riflette e assume, illumina e redime, benedice e consacra tutte le nascite», tutte le vite. L’«incarnazione» è incisa nella memoria di tutti, anche di chi è agnostico, con una frase lapidaria del celebre prologo del Vangelo di Giovanni, un testo che è stato definito «una parabola teandrica», proprio per l’intreccio inestricabile che propone tra divinità e umanità. Da un lato, infatti, c’è il Logos che è «in principio» – come si dice del Creatore nell’incipit stesso della Bibbia (Genesi 1,1: «In principio Dio creò il cielo e la terra…») -, egli è «presso Dio» ed è Dio. D’altro lato, però, questo Logos divino, perfetto, creatore, assoluto – che è Wort, Parola, Kraft, Potenza, Sinn, Significato, Tat, Atto, per usare la famosa resa semantica offerta da Goethe nel suo Faust – si insedia nell’orizzonte contingente e mutevole del tempo e dello spazio: «Il Logos divenne carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14). Il Verbo eterno e divino assume la sarx, ossia la caducità temporale, divenendo ospite nomadico del nostro spazio: come è noto, il testo originario giovanneo usa, infatti, il verbo greco eskénosen che è il termine dell’«attendarsi», dell’accamparsi tra gli uomini che migrano di luogo in luogo. Naturalmente, l’allusività di Giovanni non ignora il valore simbolico della « tenda » che era il santuario mobile dell’Israele pellegrino nel Sinai, «tenda dell’incontro» tra Dio e Israele, ma al tempo stesso tenda della « presenza » divina: in ebraico « presenza » è shekinah, vocabolo curiosamente fondato sulle stesse tre consonanti (s-k-n-) dell’«attendarsi» greco (skenoun). Resta, comunque, grandioso il paradosso. Non è più di scena un telo o un edificio simbolico: questa nuova residenza divina è « carnale ». Tenendo conto che la sarx, « carne », è la resa ideale dell’ebraico basar, l’ambito in cui Dio si insedia e di cui diventa pienamente partecipe è la condizione umana, terrestre, carica di caducità e finitudine. Essa è assunta senza riserve, ha nella nascita il suo emblema, ma presuppone anche l’intero arco dell’esistere, fatto di un impasto di riso e lacrime, speranza e delusione, salute e malattia, sentimenti e umori, atti e parole, affetti e tradimenti, esperienze e silenzi. In questa luce è suggestiva la ripresa del tema che Jorge Luis Borges ha proposto nella sua poesia emblematicamente intitolata Giovanni 1,14, presente nella raccolta Elogio dell’ombra (1969): «Io che sono l’È, il Fu e il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo… / Vissi stregato, prigioniero di un corpo / e di un’umile anima… / Appresi la veglia, il sonno, i sogni, / l’ignoranza, la carne, / i tardi labirinti della mente, / l’amicizia degli uomini / e la misteriosa dedizione dei cani. / Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce». A lungo si potrebbe riflettere attorno a questo nodo d’oro nel quale «anche il soprannaturale è carnale», come affermava Charles Péguy nel suo poema Eva (1913). Là il Figlio di Dio diventa «frutto di un ventre carnale», assumendo e riassumendo in sé tutta l’umanità fatta di carne e di sangue. Si potrebbe, inoltre, individuare il tessuto delle allusioni e dei rimandi evocati da Giovanni nel suo testo: egli attinge alle categorie « Parola » e « Sapienza », care all’Antico Testamento, senza però escludere del tutto ammiccamenti al Logos greco, che si era infiltrato nello stesso giudaismo di Filone d’Alessandria d’Egitto, celebre pensatore giudeo-ellenistico del I secolo. Così, sarebbe pure possibile ritrovare una sottile ma efficace punta polemica contro l’affacciarsi, nella cristianità delle origini, di tentazioni gnostiche o docetiche. Esse – come ben si evince dagli stessi termini di matrice greca che evocano la « gnosi », la conoscenza alta e pura, e l’ »apparenza », il dokéin – rifiutavano la « pesantezza » della « incarnazione », di quel «diventare carne». Al massimo l’accettavano come metafora dell’epifania del Logos nel suo mostrarsi esteriore, del suo « apparire », oppure come espressione mitica dell’agire atemporale di Dio, mero rivestimento simbolico dell’Essere trascendente. L’evangelista Giovanni non cesserà di contrastare questa visione che estenua la presenza storica di Dio e che rende esangue il volto di Cristo, e lo farà soprattutto nelle sue Lettere, ribadendo che è possibile un’esperienza uditiva, visiva e tattile del «Verbo della vita» (1 Giovanni 1, 1-3), per cui la discriminante dell’autentica teologia cristiana è netta: «Ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio e ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Anzi, questo è lo spirito dell’Anticristo» (4,2-3). «Sono, infatti, apparsi nel mondo molti seduttori che non riconoscono Gesù venuto nella carne» (2 Giovanni 7). Il realismo dell’ »incarnazione » diventa, quindi, una sorta di carta di tornasole dell’autenticità della stessa professione di fede cristiana, anche se il termine greco specifico sárkosis, « incarnazione », non appare direttamente nel Nuovo Testamento e sarà adottato per la prima volta nel II secolo dal Padre della Chiesa Ireneo nella sua opera Contro le eresie (3, 18,3; 19, 1-2) e diverrà comune a partire solo dal IV secolo, quando si accentueranno le discussioni e le diatribe cristologiche. Noi ora vorremmo accennare brevemente solo a due questioni contestuali, simili a cerchi che si aprono attorno a questo tema teologico giovanneo. Il primo cerchio che isoliamo è il più ristretto, ed è quello che rimanda al resto del Nuovo estamento, antecedente al quarto Vangelo a livello cronologico. Certo, non vi possiamo identificare l’esplicitazione che Giovanni fa del tema, ma i prodromi sono del tutto evidenti. Per quanto riguarda gli altri Vangeli, cioè i Sinottici, la loro stessa impostazione narrativa, che parte dalla genealogia e dal racconto della nascita di Gesù (Matteo e Luca) e si sviluppa secondo una trama storica di eventi per approdare a una morte, è l’attestazione più limpida del legame intimo di Cristo con la « carne » fatta appunto di avvenimenti, tempo, spazio, esistenza. Egli è per eccellenza l’Emmanuele, Dio-con-noi, che procede spalla a spalla con l’umanità, rimanendo «con noi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (si vedano Matteo 1,23 e 28,20). Interessante, a livello più teorico, risulta – sempre in questo cerchio – il pensiero di san Paolo. Non possiamo, ovviamente, approfondire i percorsi tematici che al riguardo egli ci offre e che sono sempre uno specchio della complessità e della ricchezza del suo pensiero. È, comunque, facile reperire nel suo corpus epistolare alcune dichiarazioni indirette: «Dio ha mandato il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato» (Romani 8,3); «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Galati 4,4); «uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo…; egli fu manifestato nella carne umana» (1 Timoteo 2,5; 3,16); «in lui abita corporalmentetutta la pienezza della divinità» (Colossesi 2,9); «il Figlio di Dio è nato dal seme di Davide secondo la carne… e dagli Israeliti proviene Cristo secondo la carne» (Romani 1,3; 9,5). Questa sequenza testuale parla da sola. Riserviamo, però, un cenno specifico all’inno – forse prepaolino – che l’Apostolo incastona nella sua Lettera agli amati cristiani della città greca di Filippi. In quel testo, l’elemento capitale per il nostro discorso è in un contrasto tratteggiato dall’Apostolo. Da un lato, c’è la discesa umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna: egli precipita fino allo « svuotamento » (in greco kénosis) di tutta la sua gloria divina nella morte di croce, il supplizio dello schiavo, cioè l’ultimo degli uomini per poter essere, in tal modo, vicino e fratello dell’intera umanità. D’altro lato, ecco l’ascesa trionfale che si compie nella Pasqua quando Cristo si ripresenta nello sfolgorare della sua divinità, nell’ »esaltazione » gloriosa celebrata da tutto il cosmo e da tutta la storia ormai redenti. Questa visione grandiosa presenta innicamente sia l’umanità sia la divinità di Cristo, ed «enfatizza con solenne immediatezza – come scrive il teologo Giuseppe Mazza della Pontificia Università Gregoriana – lo scandaloso movimento dello svuotamento che si fa spoliazione, abbassamento e autoumiliazione» così che il Figlio di Dio possa «partecipare della natura umana, dissimile da quella divina». Citiamo, comunque, le parole della descrizione paolina del movimento « discensionale » dell’Incarnazione: «Cristo, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Filippesi 2,6-8). C’è, tuttavia, un eventuale secondo cerchio contestuale più ampio e fluido che sarebbe quello anticotestamentario, legato a categorie rilevanti come le citate Parola e Sapienza di Dio, le quali sono realtà trascendenti che entrano e operano nelle coordinate della storia e del cosmo. Noi, però, vorremmo anche accennare al cerchio ancor più largo e dai contorni vaghi, quello delle culture religiose dell’antico Vicino Oriente e della classicità greca. L’epifania della divinità sotto forme o apparenze umane è nota anche a esse, ma ignoto rimane il concetto esplicito di « incarnazione ». Detto in altri termini, nessuna divinità greca diventa « un uomo » nel senso vero della parola. Adone, Tammuz, Osiride discendono nell’oltretomba e vi riemergono senza, però, assumere la natura e la condizione umana, ma solo per rappresentare miticamente il cielo naturistico stagionale. L’ »incarnazione » resta, perciò, un unicum cristiano, lontana anche da un parallelo remoto, talora evocato, quello induista degli avatara che sono l’assunzione di una forma corporea umana o animale da parte della divinità, assunzione varia e molteplice, ritmica e ciclica secondo il succedersi delle ere. Manca, quindi, in questa visione ogni puntuale e diretta immissione nella trama del tempo e nella realtà di una persona umana, propria dell’evento Gesù Cristo. Scriveva significativamente nel suo Diario il filosofo Ludwig Wittgenstein: «Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell’anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo».

IL MISTERO HA UN VOLTO E UN CORPO (GIANFRANCO RAVASI)

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IL MISTERO HA UN VOLTO E UN CORPO  (GIANFRANCO RAVASI)               

Le iniziative di «Imago Veritatis» per l’ostensione della sacra Sindone

 06 febbraio 2010 

Se al mistero volessimo dare un volto e un corpo, come non pensare al sembiante e alla carne dell’Uomo della Sindone? Non è forse individuabile proprio nel mistero del «dolore e della morte la carta d’identità dell’uomo?». Così l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura sottolineando che innumerevoli artisti nel corso dei secoli, richiamandosi alla Sindone di Torino si sono interrogati nei modi e negli idiomi più diversi. Volto umano o volto divino? Quel volto non rappresentabile dell’Antico Testamento, quella voce senza immagine del roveto ardente, e che pure in modo ineffabile si era rivelato a Mosè parlandogli «bocca a bocca», a un certo punto ha manifestato il suo volto storico. Come ricorda il Vangelo di Giovanni, il Lògos si fa carne; e si introduce nella vicenda dell’uomo condividendone la sorte: una condivisione che giunge fino «a penetrare nella galleria oscura del dolore e della morte»; fino al «tradimento degli amici»; fino alla sofferenza e al silenzio di Dio; fino alla morte più brutta. Monsignor Ravasi ha parlato in occasione della presentazione ufficiale delle iniziative culturali che accompagneranno l’ostensione del sacro lino di Torino, il 4 febbraio a Roma, all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. Le iniziative realizzate in collaborazione con l’Associazione Sant’Anselmo, secondo il progetto «Imago Veritatis», sono due e consistono nella mostra «Gesù. Il volto, il corpo nell’arte» promossa e organizzata dal Consorzio di Valorizzazione Culturale la Venaria Reale con il patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura e nel concorso per le scuole «L’uomo della Sindone. Il volto e il corpo di Cristo». Dopo il saluto dall’ambasciatore Antonio Zanardi Landi, e l’introduzione di Ravasi, hanno preso la parola Andrea Gianni del direttivo di «Imago Veritatis» e presidente dell’Associazione Sant’Anselmo e monsignor Giuseppe Ghiberti presidente della Commissione diocesana Sindone di Torino. Gianni ha illustrato la storia dell’Associazione Sant’Anselmo da dieci anni impegnata a «guardare oltre» nel campo dell’editoria e della formazione storica, teologica e religiosa italiana. Ora nell’ambito della Sant’Anselmo è nata «Imago Veritatis», un progetto — sottolinea Gianni — «approvato dall’attuale segretario della Conferenza episcopale italiana monsignor Mariano Crociata, per la comunicazione della cultura cristiana attraverso la bellezza del cristianesimo così abbondantemente consegnata a uno dei migliori testimoni che si possa trovare: l’arte. Ma l’arte è esperienza spirituale in sé, cioè, primo testimone di quel senso religioso che è insito in ogni uomo, credente o meno che divenga». E nel caso specifico della Sindone, al richiamo all’immagine del Dio fatto uomo, nonché alla storicità e alla fisicità del Cristo, come non riconoscere in essa — conclude Gianni — l’ imago veritatis per eccellenza? Di quel lenzuolo in lino antico, tessuto a spina di pesce, lungo 4 metri e 42 centimetri e largo 1 metro e 12 — come ha ricordato monsignor Ghiberti — al di là degli studi, delle congetture e delle interpretazioni, non va mai trascurata la dimensione primaria che è quella della devozione e nell’essere segno di un fatto: «la Sindone si presenta anzitutto per ciò che è». Un invito a misurarsi con la persona e con quella persona. Ma questa persona la conosciamo davvero? E soprattutto la conoscono i giovani di oggi? A tale proposito è intervenuta Lucetta Scaraffia dell’università di Roma La Sapienza che illustrando la seconda iniziativa di «Imago Veritatis» — riguardante il concorso per alunni e studenti delle scuole del Piemonte, «Il volto e il corpo di Cristo» — ha osservato come molti ragazzi oggi non sappiano più chi sia Gesù. Non di rado lo ritengono una figura lontana, astratta e sorpassata come una divinità esotica o del mondo classico. Ma, al di là delle convinzioni religiose, Gesù è una figura storica e dunque — sottolinea Scaraffia — il concorso tende a sollecitare la curiosità e l’interesse dei più giovani, chiamati a confrontarsi con una serie di raffigurazioni del Cristo su cui riflettere per poi esprimersi nei modi a loro più consoni e consueti quali un tema, una riflessione, un disegno e così via. Da ultimo il direttore della Venaria Reale Alberto Vanelli ha illustrato l’eccezionale complesso architettonico e urbanistico della reggia barocca di Venaria la cui magnificenza fu ispirata a metà del Seicento da Carlo Emanuele ii di Savoia e che ora è divenuta simbolo di modernità e di cultura. Per l’opera di restauro di questa «Versailles piemontese» — nel suo genere l’intervento di recupero più grande tra tutti quelli realizzati fino ad ora in Europa — ci sono voluti duecento milioni di euro. La reggia che ha già ospitato attività espositive, convegni, concerti e si prepara ad accogliere la grande esposizione d’arte — curata da monsignor Timothy Verdon, della Stanford University e canonico del Duomo di Firenze — dal 2007 a ora ha già accolto oltre due milioni di visitatori. Verdon, collaboratore del nostro giornale, è tra i massimi conoscitori di arte sacra ed è coadiuvato da un comitato scientifico composto da Lucetta Scaraffia, Michele Bacci (università di Siena), Andrea Longhi (Politecnico di Torino), Andrea Gianni (Associazione Sant’Anselmo). Composta di opere di pittura e di scultura dal paleocristiano al barocco, la mostra «si pone in parallelo all’Ostensione mettendo in luce la prospettiva culturale di cui l’evento religioso fa parte». Mentre a Torino i pellegrini pregheranno di fronte al sacro lino — ha detto ancora il curatore dell’esposizione — la mostra della reggia di Venaria consentirà ai visitatori di riscoprire e di riflettere sulla centralità del corpo nel pensiero europeo, e d’interrogarsi sulla dimensione corporea e l’identità divina impliciti nella venerazione della Sindone e della Veronica. L’intera mostra è introdotta da un breve percorso storico-artistico, inteso a rammentare alcuni passaggi fondamentali per la rappresentazione del corpo in Occidente, «dall’assimilazione paleocristiana, del naturalismo grecoromano, alla spiritualizzazione bizantina fino alla nuova enfasi del primo francescanesimo per giungere alla riscoperta dell’estetica classica nel “protorinascimento” nel Duecento».

L’ALTRA GUANCIA O LA SPADA? – GIANFRANCO RAVASI

http://www.notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=9164:laltra-guancia-o-la-spada&catid=479:lectio-divina&Itemid=298

L’ALTRA GUANCIA O LA SPADA?

GIANFRANCO RAVASI

Diventato persino uno stereotipo, pronunciato spesso con una punta di ironia: « porgere l’altra guancia » è, come si sa, una citazione semplificata del Vangelo di Matteo (5,38-41 ) e, più precisamente, di quel discorso di Gesù detto « della Montagna », a causa del suo fondale forse più simbolico che reale. E’ interessante, comunque, risalire al testo integrale e al suo contesto. Cristo rievoca la cosiddetta « legge del taglione »: « Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente ». Su questa norma, espressa in modo apodittico e icastico, bisognerebbe essere più cauti di quanto si è soliti fare. Essa, infatti, non è – al di là della sua formulazione che suona brutale ai nostri orecchi – nient’altro che una colorata definizione della giustizia distributiva: a un delitto deve corrispondere una pena del tutto pari e coerente. Ora, se stiamo alle guerre e alle stesse ritorsioni che vengono praticate da certi stati (compreso lo stato di Israele), la legge del taglione è violata e sostituita da quella che porta il nome di un personaggio biblico, Lamek, il quale dichiarava senza esitazione: « Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settantasette » ( Genesi 4, 23-24 ). Gesù non vuole negare il principio della giustizia ma – come avviene in tutta la serie di casi che egli propone in quel discorso – vuole suggerire al suo discepolo di procedere oltre, imboccando la via dell’ amore, del perdono, della non-violenza. Ecco, allora, il suo insegnamento affidato a un trittico di esempi che sono simili a mini-parabole: « Io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; a chi ti vuol chiamare in causa per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello; e se uno ti costringe a fare un miglio, tu fanne con lui due ». Alla stessa legge di Lamek egli opporrà questa legge antitetica: « Non perdonerai fino a sette volte sette ma fino a settanta volte sette » (Matteo 18,22). E Gesù sarà sempre coerente con questo suo principio: si pensi al suo arresto e all’ invito rivolto al suo discepolo che tenta di difenderlo con una spada (« Rimetti la spada nel fodero… »). Ora, nello spirito di tutto quel discorso della Montagna – si pensi solo alla splendida ed emozionante pagina di apertura, le beatitudini – Gesù non vuole proporre né una legislazione ecclesiale o sociale né codificare una regola concreta. Egli delinea un atteggiamento radicale, una vera e propria opzione della coscienza; la sua è una spina messa nel fianco del buonsenso, dell’ovvio, del luogo comune così da mostrare una più alta potenzialità di vita, una ben diversa società, una meta, possibile eppur desueta, aperta all’uomo. In questa luce si può parlare di utopia ma nel senso più alto del termine e Gesù incarna in modo forse supremo la missione genuina delle religioni. Esse non devono ridursi a gestire l’esistente, come deve fare uno Stato, né ridursi al piccolo cabotaggio ma far tendere l’umanità verso un Oltre e un Altro. In questa prospettiva si colloca coerentemente il costante magistero di Giovanni Paolo II, anche in occasione degli attuali eventi tragici. Questo, però, non significa che la morale religiosa (e cristiana in particolare ) debba escludere la giustizia e la storicità con tutto il suo peso. Gesù stesso polemizza aspramente con la gestione del potere politico e religiosa di allora, facendo denuncie specifiche ( si legga, ad esempio, Matteo 23 ) ma anche col suo celebre detto: « Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio » riconosce un’ autonomia al potere politico. Paolo nella Lettera ai Romani affronta la questione fiscale affermando non solo la legittimità dell’autorità costituita – che nella fattispecie era quella imperiale di Nerone – e del suo sistema penale perché « non invano essa porta la spada » ( 13,1-7 ) . L’ Apocalisse, invece, attacca aspramente le repressioni e le ingiustizie di quello stesso potere romano, raffigurato sotto l’ immagine di Babilonia. Ecco, allora, la costante necessità per i cristiani di non perdere di vista l’ideale, riducendosi a un partito o a movimento di opinione, ma anche di non astrarsi dalla realtà racchiudendosi nel bozzolo della tensione apocalittica o mistica. E’ un difficile equilibrio che comporta, da un lato, la continua affermazioni dei grandi valori, della moralità alta, di ideali anche supremi, e d’altro lato, la necessità della loro « incarnazione » e quindi del confronto col groviglio delle vicende sociali, politiche, economiche. Riguardo a questo secondo versante vorremmo proporre un esempio che ben s’adatta ai giorni che stiamo vivendo. Intendiamo riferirci alla legittima difesa che di per sé eccede rispetto alla logica del « porgere l’altra guancia » ma che si colloca nel piano più « basso » della norma di giustizia. Famosa è la giustificazione etica addotta da Tommaso d’ Aquino: « L’azione di difendersi reca con sé un duplice effetto: l’uno è la conservazione della propria vita, l’altro è la morte dell’aggressore. Il primo è quello veramente voluto, l’altro non lo è » (Summa Theologiae II-III,64,7). La tradizione cristiana preciserà questa regola del « duplice effetto » in ambito pubblico elencando le condizioni da rispettare per ammettere la legittimità di questa autodifesa: che tutti gli altri mezzi si rivelino impraticabili e inefficaci, che l’uso di armi non crei mali e disordini più gravi del male da eliminare (proibita sarebbe, perciò, l’opzione nucleare), che non si colpiscano innocenti, che il danno inflitto dall’ aggressore sia durevole, grave e provato nelle sue responsabilità. E’ ciò che è affermato anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 (nn.2.263e 2.309) ed è ciò che è stato ripetuto dalla lettera dei vescovi cattolici americani al presidente Bush nei giorni scorsi: « La nostra nazione ha il diritto morale e il grave obbligo di difendere il bene comune contro tali attacchi terroristici…Ma ogni risposta militare dev’essere in accordo con i sani principi morali quali la probabilità di successo, l’immunità dei civili e la proporzionalità ». Ma lo stesso testo comprende anche una eco del principio evangelico da cui siamo partiti, formulato attraverso l’invito a impegnarsi per rimuovere le cause strutturali ingiuste, a ripudiare l’intolleranza etnica e religiosa, a considerare sempre arabi e musulmani come fratelli e sorelle, « parte della nostra famiglia nazionale e umana », e – citando una frase di Giovanni Paolo II – a « non cedere alla tentazione dell’odio e della violenza, impegnandosi al servizio della giustizia e della pace ». La chiesa, quindi, pur coinvolta nella giustizia che dovrebbe reggere la città di Cesare, non deve mai dimenticare la legge ultima del Regno di Dio.

Il Sole24Ore – 30/9/2001

GIUSEPPE – IL PADRE DI GESÙ, (PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI GIANFRANCO RAVASI : SAN PAOLO EDIZIONI, 2014)

https://liberidiscrivereblog.wordpress.com/2014/02/21/giuseppe-il-padre-di-gesu-gianfranco-ravasi-san-paolo-edizioni-2014/

GIUSEPPE – IL PADRE DI GESÙ,  (PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI GIANFRANCO RAVASI : SAN PAOLO EDIZIONI, 2014)  

La figura di San Giuseppe mi ha da sempre affascinato, per cui ho colto l’occasione di leggere Giuseppe – Il padre di Gesù di Gianfranco Ravasi, Edizioni San Paolo, con un misto di curiosità e aspettativa, e devo ammettere che sono tante le cose che ho appreso, alcune decisamente lontane dall’iconografia classica. Giuseppe, c’è poco da dire, è una figura misteriosa, circondata da un‘aura di riserbo e di silenziosa discrezione. Cosa sappiamo realmente di lui? Dai vangeli canonici poco, appare più come una figura dimessa, sullo sfondo della vita di Gesù, di Maria e degli apostoli. Sappiamo che era un uomo giusto e gentile, di età in un certo senso avanzata, dotato di una fede forte e profonda (messaggeri divini gli apparivano in sogno e lui non esitava a eseguire cosa gli veniva comandato) e di un certo coraggio, fidanzato e poi sposo di Maria, padre legale di Gesù, un gran lavoratore, un falegname, discendente della stirpe di Davide sebbene la sua condizione sociale fosse modesta. Ravasi comunque non si limita a presentarci la figura di Giuseppe che emerge dai vangeli canonici, e qui sta sicuramente la parte più interessante del libro, ma aggiunge anche notizie tratte dai vangeli apocrifi, quei testi anche molto antichi che non rientrano nei testi giudicati dalla chiesa di ispirazione divina. In appendice troviamo per esempio il testo integrale della Storia di Giuseppe il falegname, testo apocrifo in cui viene descritta la morte di Giuseppe, e apprendiamo per esempio che era vedovo quando sposò Maria e già padre di numerosi figli (i celebri fratelli di Gesù?). O a pagina 46, notizie tratte dal Vangelo arabo dell’infanzia, da cui apprendiamo i nomi dei due condannati che saranno crocifissi con Gesù a Gerusalemme, e le circostanze un po’ avventurose del loro incontro precedente in Egitto con la sacra famiglia. Curioso il capitolo intitolato Un falegname high-class in cui Ravasi riporta la polemica tra chi “vorrebbe continuare a classificare Gesù e la sua famiglia nella categoria della povertà e chi, invece, vorrebbe promuoverlo al rango della media borghesia”. Polemica della quale ero del tutto all’oscuro. Naturalmente è un testo scritto da un teologo, che riporta versetti e citazioni bibliche, ma con una certa leggerezza che permette anche ai meno avvezzi ai testi teologici di trovare spunti di riflessione interessanti. Curioso per esempio anche l’accostamento tra Lenin  e San Paolo di pagina 65, che non vi anticipo, lo scoprirete durante la lettura, o l’elenco di rappresentazioni pittoriche in cui appare l’effige di Giuseppe. Bella per esempio la copertina con la riproduzione di San Giuseppe con Gesù bambino, 1640-1642, di Guido Reni. Sebbene sia un testo relativamente breve, perfetto come regalo per la festa del papà, Giuseppe – Il padre di Gesù racchiude un ritratto approfondito della figura di Giuseppe, con un occhio all’universo bliblico e un altro alle tracce culturali, come sintetizza lo stesso autore nell’ introduzione. Letto in un pomeriggio, senza sforzo grazie a uno stile semplice e discorsivo, privo di asperità.         

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