Archive pour la catégorie 'Card. Gianfranco Ravasi'

Mons. Gianfranco Ravasi: Paolo rappacifica Evòdia e Sintinché (Fil)

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2005/382005.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI (2005)

PAOLO RAPPACIFICA EVÒDIA E SINTICHÉ (Fil)

Continua in questa domenica la lettura della Lettera di s. Paolo ai cristiani di Filippi. Nelle nostre memorie scolastiche questa città macedone — che portava il nome del suo fondatore, Filippo II, padre di Alessandro Magno (IV sec. a.C.) — è presente per la battaglia del 42 a.C. che vide lo scontro tra Ottaviano e Marco Antonio, da una parte, e Bruto e Cassio, dall’altra, e per quel celebre motto legato a questo evento: «Ci rivedremo a Filippi!», desunto dalla Vita di Giulio Cesare dello storico greco Plutarco. Per il cristianesimo Filippi, che ancor oggi offre una significativa testimonianza archeologica della sua gloria antica, è legata invece alla presenza di Paolo, qui giunto dopo la visione notturna avuta a Troade (nei pressi dell’antica Troia) nella quale un macedone implorava l’Apostolo: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (Atti 16,9).

Dopo Epafrodito, presentato la scorsa settimana, da quella Lettera paolina facciamo emergere due donne cristiane, attorno alle quali si è consumato anche un piccolo giallo esegetico. Ma cominciamo con l’ascoltare le parole di Paolo che scrive: «Esorto Evodia ed esorto Sintiche ad andare d’accordo nel Signore. E prego te pure, mio fedele collaboratore, di aiutarle, poiché hanno combattuto per il Vangelo insieme con me» (Filippesi 4,2-3).

Procediamo per ordine. Nella comunità cristiana di Filippi due cristiane si beccano tra loro tant’è vero che Paolo deve esortarle calorosamente ad “andare d’accordo”, letteralmente ad “avere le stesse idee”.

In questa vicenda, c’è un duplice paradosso. Il primo è esteriore ed è quasi divertente: i nomi delle due donne significano rispettivamente in greco “cammino buono, facile” (eu-odia), e “sorte comune”, “incontro” (syn-tyche), significati che vengono smentiti dai loro litigi. Il secondo paradosso è ben più lacerante: come ricorda Paolo, esse “hanno lottato”, con lui per il Vangelo
(il verbo usato è quello “atletico” più che militare) e ora smentiscono quel comune impegno di fede.

È a questo punto che entra in scena l’enigma a cui sopra si accennava. Infatti, l’Apostolo fa appello a un non meglio specificato “fedele collaboratore” perché funga da mediatore tra le due avversarie così da espletare la missione di pacificazione.

Ora, in greco “collaboratore” è syzygos (letteralmente “colui che condivide lo stesso giogo”, ossia lo stesso compito o incarico), un termine che può essere inteso anche come nome proprio. In questo caso, oltre a Epafrodito — già entrato in scena, a cui pensano anche in questo caso alcuni commentatori — e oltre a Clemente, un altro collaboratore a cui si fa cenno in questo stesso passo (4,3), salirebbe sulla ribalta un’altra figura della Chiesa filippese, questo misterioso Sizigo, non altrimenti noto ma dal nome suggestivo.

Certo è che anche una comunità così cara a Paolo e a lui costantemente vicina rivela al suo interno tensioni, divisioni e ripicche. Un fenomeno che esploderà a Corinto, come attesta la Prima Lettera indirizzata dall’Apostolo a quella Chiesa (1,1 1-13). Un elemento che ci mostra l”incarnazione” della parola di Dio nella storia di tutti i tempi, rivelando non solo gli splendori della fede ma anche le piccinerie e le miserie dei credenti.

Mons. Gianfranco Ravasi: San Paolo figlio di tre culture (presentazione di Paolo, Rm)

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2005/132005.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI

SAN PAOLO, FIGLIO DI TRE CULTURE (presentazione di Paolo, Rm)

Non ho mai avuto il coraggio di proporre san Paolo nella nostra galleria di ritratti perché ero consapevole di disegnare solo uno sgorbio, avendo a disposizione soltanto poche righe: si pensi che una delle ultime biografie paoline, la Vita di Paolo di Jerome Murphy O’Connor (Paideia 2003), si sviluppa per ben 472 fittissime pagine.

In questa domenica pasquale ho pensato di evocarlo per accostarlo all’apostolo protagonista della pagina evangelica che la liturgia propone, Tommaso. Il tema, infatti, che li unisce (o divide?) è quello della fede, uno dei nodi capitali del pensiero paolino.
Non traccerò, perciò, un profilo di questo apostolo straordinario, figlio di tre culture, l’ebraica della sua genesi umana e spirituale, la greca per la sua lingua, la romana per la sua identità civile, essendo nato nella colonia imperiale di Tarso in Cilicia, nell’attuale Turchia meridionale. Né cercherò di presentare quell’epistolario che è entrato nel Nuovo Testamento e che quasi ogni domenica èletto nella liturgia cristiana. Vorrei, invece, fermarmi proprio nel cuore della sua teologia che ha la sua splendida formulazione soprattutto nella Lettera ai Romani.

E proprio questa teologia che ha imposto a Saulo-Paolo (ricordiamo che Saul era il nome del primo re di Israele, appartenente – come l’Apostolo – alla tribù di Beniamino) una definizione ambigua, quella di « secondo fondatore del cristianesimo », quasi niettendolo in alternativa a Gesù. In realtà trascrive per un nuovo orizzonte socio-culturale un messaggio che aveva la sua radice nella Pasqua di Cristo. Ebbene, egli intreccia nella sua rappresentazione della salvezza due parole greche decisive, clufris e pistis.

La prima, charis (che è alla base dei nostri « caro », « carezza », « carità »), è la « grazia », ossia l’amore di Dio che per primo si mette sulla strada dell’umanità ferita dal peccato. Scriveva Paolo, citando Isaia: « Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non mi invocavano » (Romani 10,20). In principio c’è, dunque, la luce divina che brilla nell’oscurità della « carne » peccatrice della persona umana. È questo il senso del famoso grido finale del Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos: « Tutto è grazia! ».

Ma ecco apparire l’altra parola, pistis, « fede ». Essa è simile a braccia aperte che accolgono la chàris, la grazia donata da Dio in Cristo. Illuminato dal Signore, l’uomo deve rispondere con la sua libertà di adesione o di rifiuto. Egli può afferrare la mano divina che si tende a lui per sollevarlo fuori dalle sabbie mobili del peccato. Da questo abbraccio nasce quello che Paolo chiama l’uomo « giustificato », ossia salvato, pervaso dallo stesso spirito divino per cui egli si rivolge a Dio invocandolo come abba, ossia « babbo, padre » (Romani 8,15).

Lasciamo, così, l’Apostolo per eccellenza, immaginandolo in uno dei tanti ritratti a lui dedicati dalla storia dell’arte, spesso in compagnia dell’altro apostolo per antonomasia, Pietro. Proprio come ha fatto il pittore EI Greco (1541-1614) in una celebre tela con gli indimenticabili profili allampanati di questi due testimoni di Cristo, tela ora conservata al Museo nazionale di Stoccolma.

MONS. GIANFRANCO RAVASI: SÒSTENE, COLLABORATORE DI S. PAOLO (1Cor; Atti)

dal sito: 

http://www.novena.it/ravasi/2005/032005.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI (2005)

SÒSTENE, COLLABORATORE DI S. PAOLO (1Cor; Atti)

«Paolo, chiamato a essere apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla chiesa di Dio che è in Corinto…».

Si apre con queste parole, che costituiscono la cosiddetta subscriptio o titolatura epistolare, la prima Lettera di san Paolo ai Corinzi che proprio in questa domenica si inizia a leggere nella liturgia. Abbiamo, così, deciso di far emergere questo oscuro personaggio, in greco Sosthénes, tradotto in Sòstene, una figura attorno alla quale ruota un piccolo e irrisolto enigma.

Se, infatti, prendiamo in mano il racconto che Luca fa, negli Atti degli Apostoli, del soggiorno di Paolo a Corinto, scopriamo questa informazione: quando l’Apostolo fu deferito dagli ebrei residenti in quella città greca al tribunale romano presieduto da Gallione, dopo la sua assoluzione e messa in libertà, i giudei « afferrarono Sòstene, capo della sinagoga, e lo percossero davanti al tribunale » (18,17).

Tuttavia lo stesso Luca, poche righe prima, parlava di unaltro «capo della sinagoga, Crispo», che « aveva creduto nel Signore assieme a tutta la sua famiglia » (18,8).

Ecco, allora, l’enigma: chi era questo Sòstene? Era un altro nome di Crispo? Oppure era un altro ebreo a capo di un’altra sinagoga di Corinto? È da identificare col Sòstene che si incontra nell’apertura della Lettera sopra citata? Alcuni hanno appunto ipotizzato un unico personaggio che, una volta convertito, si sarebbe con passione schierato dalla parte di Paolo, tanto da divenire una sorta di « co-autore » della prima Lettera ai Connzi, collaboratore fedele dell’Apostolo. Ora, Paolo scrive la sua epistola da Efeso (16,8), che è nell’attuale Turchia: come può Sèstene co-firmare lo scritto? Forse egli si era recato in visita a Paolo con quella delegazione corinzia che è evocata proprio nella finale della Lettera: « Io mi rallegro della visita di Stefana, di Fortunato e di Acaico, i quali hanno supplito alla vostra assenza; essi hanno allietato il mio spirito e allieteranno anche il vostro » (16,17-18).

Forse, per la sua autorevolezza di ex-capo della sinagoga, egli presiedeva la delegazione e, così, Paolo l’aveva associato a sé nella stesura del testo che voleva destinare alla Chiesa corinzia, una comunità piuttosto turbolenta che aveva creato non pochi problemi all’Apostolo, come si riesce a dedurre dalla seconda Lettera che a essi Paolo in seguito indirizzerà. Sta di fatto che gli scritti paolini non mancano di far emergere nomi e volti di cristiani che partecipavano alla testimonianza e alla missione di evangelizzazione.

Così, vorremmo almeno far emergere quella Cloe che fa capolino poche righe dopo nella stessa Lettera (quelle che verranno lette la prossima domenica).
« Mi è stato segnalato », scrive Paolo, « dalla gente di Cloe che vi sono discordie tra voi » (1,1 1).

Probabilmente Cloe era un’imprenditrice che aveva traffici mercantili tra Corinto ed Efeso: era stata lei, attraverso i suoi dipendenti, a comunicare all’Apostolo la grave situazione di lacerazione in cui versava la Chiesa di Corinto. Era venuta da lei la spinta ideale alla risposta che Paolo e Sòstene avevano approntato per i cristiani corinzi.

Mons. Gianfranco Ravasi: Lidia, l’imprenditrice di Filippi (Atti 13,50)

dal sito: 

http://www.novena.it/ravasi/2004/182004.htm

Mons. Gianfranco Ravasi

Lidia, l’imprenditrice di Filippi (Atti 13,50)

A prima vista può sembrare una notazione di taglio antifeminnista, propria della cultura orientale di impronta maschilista (ma anche il mondo greco-romano al riguardo non scherzava!).

Nel brano degli Atti degli Apostoli proposto dalla liturgia di questa quarta settimana di Pasqua si ha la descrizione del successo che la predicazione di Paolo e di Barnaba registra tra i pagani nella città di Antiochia di Pisidia, nell’attuale Turchia centrale. Poi, però, Luca annota: « I Giudei sobillarono le donne pie di alto rango e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li cacciarono dal loro territorio » (13,50). Ora, nella vicenda missionaria di Paolo le cose non andarono sempre così. Anzi, spesso le donne furono ardenti sostenitrici della nuova fede. Vogliamo, allora, proporre un personaggio femminile minore degli Atti degli Apostoli che risponde proprio a questa caratteristica. Si tratta di una certa Lidia, una donna d’affari della città greca di Filippi, in Macedonia. Là, infatti, nacque la prima comunità

cristiana europea, dopo che l’Apostolo a Troade, nell’attuale Turchia, aveva avuto la visione notturna di un Macedone che lo supplicava: « Passa in Macedonia, e aiutaci! » (16,9).

Così, salpando da Troade, era approdato a Filippi e, dopo una sosta di alcuni giorni, di sabato si era recato fuori dalle porte della città lungo un fiume: là, infatti, si radunavano gli Ebrei locali che, non avendo una sinagoga, pregavano sulle rive di quel fiume così da avere a disposizione l’acqua per le abluzioni rituali. Paolo, com’era suo costume, si rivolse proprio a costoro. « C’era ad ascoltare una donna di nome Lidia, commerciante di porpora della città

di Tiatira, una credente in Dio, e il
Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo » (16,14).
Lidia portava un nome comune allora diffuso; era quello di una regione dell’Asia Minore, famosa per la sua prosperità (suo re era stato Creso!). Fu convertita all’ebraismo dal paganesimo: tale, infatti, è il valore della formula usata da Luca: « credente in Dio ». Era originaria di una città dell’Asia Minore, Tiatira, situata sul fiume Lico, famosa per le sue industrie di trattamento della porpora: la corporazione dei tintori di quel centro è attestata da molte iscrizioni venute alla luce.
Alla comunità cristiana di quella città era indirizzata una delle sette lettere dell’Apocalisse (2,18-29).
Anche Lidia apparteneva a quella corporazione di operatori commerciali che trattavano la porpora rossa e viola, ma si era trasferita poi a Filippi. la sua vita fu mutata proprio da quell’incontro.

Scrive Luca negli Atti: « Dopo essere stata battezzata insieme alla sua famiglia, ci invitò: Se avete giudicato che io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa. E ci costrinse ad accettare » (16,15). E, anche dopo la carcerazione che Paolo col suo collaboratore Sila dovette subire a Filippi, la casa di Lidia rimase sempre aperta, divenendo una sorta di chiesa domestica dove i cristiani filippesi, tanto cari all’Apostolo, si riunivano in fraternità e in preghiera (16,40).

Publié dans:Card. Gianfranco Ravasi |on 11 avril, 2008 |Pas de commentaires »

Mons. Gianfranco Ravasi: Aquila e Priscilla, sposi Cristiani (epistolario paolino: lettere ai Romani, ai Corinzi e a Timoteo, degli Atti degli Apostoli, capitolo 18).

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2004/032004.htm

Mons Gianfranco Ravasi

Aquila e Priscilla, sposi Cristiani (epistolario paolino: lettere ai Romani, ai Corinzi e a Timoteo, degli Atti degli Apostoli, capitolo 18).

In quella festa paesana che ha al centro una coppia anonima di sposi e che è narrata dal Vangelo di Giovanni (2,1-11), letto in questa domenica, c’è la storia di tante coppie cristiane che nella loro città o nel loro villaggio, ben lontano da Cana di Galilea, hanno consacrato il loro amore con la presenza santificante di Cristo. Vorremmo far emergere da quella folla immensa di sposi cristiani due figure neotestamentarie, Aquila e Prisca (o Priscilla). Esse occhieggiano nelle pagine dell’epistolario paolino (lettere ai Romani, ai Corinzi e a Timoteo) e in quelle degli Atti degli Apostoli (capitolo 18).

Il marito portava un nome latino, Aquila, grecizzato in Akylas, ma era un ebreo nativo del Ponto (regione dell’attuale Turchia). Da quel territorio era emigrato a Roma ove si era sposato con Prisca, chiamata col diminutivo di Priscilla, nome anch’esso romano.

Quando l’imperatore Claudio (41-50 d.C.) espulse da Roma con un editto gli Ebrei ivi residenti, anche i due, che si erano convertiti al cristianesimo, dovettero lasciare la capitale e rifugiarsi a Corinto, in Grecia.

Qui incontrarono Paolo e – come scrive Luca negli Atti degli Apostoli – « poiché erano del medesimo mestiere, Paolo si stabilì nella loro casa e lavorava con loro: erano, infatti, di mestiere fabbricatori di tende » (18,3).

Questa amicizia con l’Apostolo continuò anche quando egli si trasferì a Efeso, nell’attuale Turchia costiera: essi Io seguirono e lo aiutarono nell’attività missionaria, dedicandosi alla formazione, « con maggiore accuratezza », di un convertito di nome Apollo, che sarebbe poi diventato un acclamato predicatore cristiano (18,26).

Essi erano ancora con Paolo quando egli scrisse da Efeso la prima lettera ai Corinzi. Infatti, in finale a quel testo si legge: « Vi salutano molto nel Signore Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa » (16,19). È suggestiva la menzione della loro casa nella quale i cristiani si incontravano per ascoltare la Parola di Dio e per celebrare l’Eucaristia, trasformando così quell’appartamento in una « chiesa domestica », come accadeva nei primi anni del cristianesimo.

Cessato il divieto di Claudio, Aquila e Priscilla ritornarono a Roma e, allora, Paolo – scrivendo da Corinto ai cristiani della capitale la famosa lettera che è anche il suo capolavoro teologico -non esita a ricordare i suoi amici, tessendo una lode e un ringraziamento per il loro amore nei suoi confronti, un amore che gli aveva salvato la vita durante un tumulto scoppiato a Efeso, quando vivevano ancora insieme: « Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù: per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa e ad essi non io soltanto sono grato! » (Romani16,3-4).

Anche scrivendo per la seconda volta al discepolo e collaboratore Timoteo, Paolo non esiterà a menzionare questa coppia di sposi 2 Timoteo 4,19: « Saluta Prisca e Aquila », un vero modello di coniugi cristiani impegnati a testimoniare il Vangelo con la semplicità della loro vita e l’intensità del loro amore.

Publié dans:Card. Gianfranco Ravasi |on 11 avril, 2008 |Pas de commentaires »

Gianfranco Ravasi (2003) – Apollo, colto e gran predicatore (At 18,24)

 dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2003/272003.htm

Gianfranco Ravasi (2003) – (At 18,24)

Apollo, colto e gran predicatore

No, non parleremo ora di Apollo, figlio di Giove e di Latona e fratello di Diana, il dio romano del sole, della musica, della poesia, delle arti e della medicina. L
Apollo che vogliamo mettere in scena in greco Apollòs era un comune mortale: anzi, il suo nome era il diminutivo di Apollonio, un nome popolare nel mondo classico, a partire dallo scultore omonimo o da Apollonio Rodio, lautore del poema greco Gli Argonauti (III secolo a.C.), o dallApollonio filosofo ambulante pitagorico, famoso per i suoi presunti miracoli.

A parlare di Apollo, predicatore cristiano, siamo spinti dal fatto che in questa domenica leggiamo nella liturgia un brano della seconda Lettera di Paolo ai Corinzi. Ebbene, Apollo secondo gli Atti degli Apostoli (18,24) era un ebreo nato nella comunità della Diaspora giudaica di Alessandria dEgitto ed era un seguace dei discepoli del Battista che, anche dopo il ministero pubblico di Gesù, erano rimasti indipendenti e praticavano il battesimo di purificazione del loro maestro.Apollo era «un uomo colto, versato nelle Scritture» e gran oratore, e si era lasciato conquistare dalla figura di Cristo. Su stimolo di una coppia cri- I stiana di sposi, Aquila e Priscilla, amici di Paolo, era stato non solo formato con maggior profondità sulla dottrina cristiana, ma anche convinto a trasferirsi da Efeso, la città dellAsia minore (attuale Turchia occidentale egea) ove si trovava, a Corinto, in Grecia. «Giunto colà», scrive ancora Luca negli Atti degli Apostoli, «fu molto utile per coloro che, per opera della grazia, erano divenuti credenti. Confutava con vigore i Giudei, dimostrando pubblicamente attraverso le Scritture che Gesù è il Cristo»

(18,27-28).

È così che la sua figura si legò indissolubilmente alla comunità cristiana della città greca di Corinto. Il legame fu così intenso che si era costituito un gruppo di suoi seguaci, probabilmente convertiti dal paganesimo e affascinati dalla sua eloquenza forbita. Costoro tendevano a far parte a sé, isolandosi rispetto agli altri gruppi di convertiti dal giudaismo o di tendenze più o meno aperte o rigoriste. Di questa situazione di tensione nella Chiesa di Corinto si ha testimonianza in un passo della prima Lettera di Paolo ai Corinzi.LApostolo, venuto a conoscenza a Efeso, dove soggiornava, di queste divisioni attraverso i dipendenti di una donna manager di Corinto di nome Cloe, scriveva: «Mi è stato segnalato dalla gente di Cloe, o frateffi, che vi sono discordie fra di voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo! oppure: Io invece sono di Apollo! E altri: E io sono di Cefa! O ancora: Io sono di Cristo! Ma Cristo è stato forse diviso?» (1,1 1-13). È facile intuire il rischio che correva quella Chiesa, frantumata in correnti e movimenti che si guardavano in cagnesco o erano in concorrenza. Più avanti nella stessa lettera Paolo ritornerà sulla questione: «Quando uno dice: Io sono di Paolo! E un altro: Io sono di Apollo! Non vidimostrate semplicemente uomini? Ma che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? Solo ministri attraverso i quali siete venuti alla fede… Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Ora né chi pianta, né chi irriga è qualcosa, ma Dio che fa crescere»

(3,4-7).

In finale di lettera lApostolo cita ancora con rispetto «il fratello Apollo», che in quel momento era a Efeso con lui, annunziandone il ritorno, non però immediato, a Corinto (16,12). Da quel momento di Apollo non si saprà nulla. In passato alcuni (tra costoro ariche Lutero) ipotizzarono che fosse lautore della Lettera agli Ebrei.

Publié dans:Card. Gianfranco Ravasi |on 11 avril, 2008 |Pas de commentaires »

MONS. GIANFRANCO RAVASI (2003): TIMOTEO, PREZIOSO COLLABORATORE DI PAOLO

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2003/262003.htm

 

MONS. GIANFRANCO RAVASI (2003)

 

TIMOTEO, PREZIOSO COLLABORATORE DI PAOLO (2 Tim 4,6-8; Eb 13,23; 1Cor 16,10-11)

 

Certo, le figure dominanti di questa domenica sono Pietro e Paolo. Ma per tracciare accuratamente il profilo di ciascuno di loro non basterebbero alcune decine di puntate della nostra rubrica, che, tra l’altro, vuole far emergere solo personaggi di secondo piano. Così, abbiamo deciso di presentare uno dei discepoli più cari a Paolo, quel Timoteo a cui indirizza ben due lettere: anzi, nel brano della seconda, letto nella liturgia di questa domenica, gli consegna anche uno splendido e struggente testamento, mentre l’Apostolo sente avvicinarsi la sua ultima ora (4,6-8).

Timoteo, dal nome greco (“colui che onora Dio”), era nato a Listra di Licaonia, nell’attuale Turchia centrale, da padre greco e da madre giudeocristiana. Le sue origini familiari sono così rievocate da Paolo stesso: «Ricordo la tua fede schietta, che pervase prima tua nonna Loide e poi tua madre Eumce» (2 Timoteo 1,5). La sua figura emerge abbastanza nitidamente nel libro degli Atti degli Apostoli ove è registrato un fenomeno abbastanza curioso. Divenuto suo collaboratore, Paolo decise di far circoncidere Timoteo e questo «per riguardo ai giudei che risiedevano in quelle regioni: tutti, infatti, sapevano che suo padre era greco», cioè pagano (16,3).

È noto che per Paolo «la circoncisione non contava nulla, come l’incirconcisione» (1 Corinzi 7, 19); anzi, egli si era strenuamente battuto perché ai pagani convertiti al cristianesimo non fosse richiesto di transitare prima nel giudaismo circoncidendosi. Ora, però, per realismo pastorale e per quieto vivere, si rassegna a questa soluzione per non provocare i giudeo-cristiani e quell’area dell’Asia minore con la presenza di un predicatore non circonciso. Tuttavia è da notare che l’Apostolo non accetterà questa scelta per l’altro collaboratore più caro, Tito, che, «sebbene fosse greco, non fu obbligato a circoncidersi» (Galati 2,3).

Il nostro Timoteo è di scena ripetutamente nei capitoli 16-20 degli Atti degli Apostoli, durante il secondo viaggio missionario che conduce Paolo prima nella Turchia centrale, poi in Macedonia (a Filippi e a Tessalonica), per approdare infine a Corinto.
In ben sei lettere Paolo lo associa a sé nel saluto iniziale rivolto ai destinatari, corinzi, filippesi, colossesi, tessalonicesi (due lettere), e all’amico Filemone. Fa capolino anche nella finale della Lettera agli Ebrei, che non è però di Paolo: qui si legge che «il nostro fratello Timoteo è stato messo in libertà» (13,23). Forse si fa riferimento alla condivisione della prigionia romana di Paolo.

Certo è che questo prezioso collaboratore fu incaricato dall’Apostolo di missioni delicate, sia a Tessalonica, sia soprattutto a Corinto. In questa turbolenta comunità cristiana fu inviato per «richiamare alla memoria le vie indicate (da Paolo) in Cristo» (1Corinzi 4,17). Anzi, l’Apostolo presenta calorosamente questo suo «figlio amato e fedele nel Signore» perché venga trattato bene: «Quando verrà Timoteo, fate che non si trovi in soggezione presso di voi, giacché anche lui lavora come me per l’opera del Signore. Nessuno, allora, gli manchi di riguardo; al contrario, accomiatatelo poi in pace, quando ritornerà da me: io lo aspetto coi fratelli» (1 Corinzi 16,10-11).

Infine, Paolo lo incaricherà ufficialmente di gestire la comunità di Efeso (la tradizione lo considera il primo vescovo di quell’importante città della Turchia costiera). Scrive, infatti, nella prima Lettera a lui indirizzata: «Partendo per la Macedonia, ti raccomandai di rimanere a Efeso, perché tu invitassi alcuni a non insegnare dottrine diverse e a non badare più a favole…» (1,3-4). La leggenda vuole che egli morisse martire sotto l’imperatore Domiziano, mala notizia non ha fondamento storico ed è solo in un testo apocrifo, gli Atti di Timoteo (IV sec.) 

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