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Mons. Gianfranco Ravasi : San Paolo ai Corinzi, Guai a me se non evangelizzo (1 Cor 9,16)

dal sito:

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/78/2008-10/03-82/RAVASI_1Cor.pdf

GIANFRANCO RAVASI

SAN PAOLO AI CORINZI

Diocesi di Forlì-Bertinoro

Sintesi di 3 relazioni tenute al Centro S. Fedele di Milano (1989)

ANNO PAOLINO 2008/2009

Guai a me se non evangelizzo (1 Cor 9,16)


PRIMA LETTERA AI CORINZI

Le coordinate geografiche, storiche, letterarie e teologiche delle lettere ai Corinzi

« Paolo alla Chiesa di Dio che è in Corinto… »

LA FIGURA DI PAOLO
Fin dalla prima riga, Paolo si presenta con una autodefinizione solenne, essenziale: Paolo chiamato apostolo di Cristo Gesù per la volontà, la scelta, la decisione di Dio. Su Paolo abbiamo notizie biografiche, ma egli è praticamente tutto in questo essere chiamato per volere di Dio, essere « impugnato », essere tenuto stretto da qualcuno che lo supera. Realtà che ha continuamente in sé anche il bagliore dell’incompiuto, ha in sé continuamente il momento della oscurità. Attraverso queste letture ci accorgeremo che Paolo è un uomo sentimentale, un uomo che ha in sé tutte le pulsione dei sentimenti, compreso lo sdegno e le emozioni interiori più delicate. Paolo è senz’altro un teorico, ma ha accanto al pensiero una vita interiore e soprattutto una attività missionaria di pastore di chiese.

LE COORDINATE DELLA PRIMA LETTERA
Tre coordinate esterne ci fanno da guida per conoscere la comunità a cui Paolo si rivolge. Paolo è duro, appassionato, dolce, aspro, mostrando tutta la gamma di sentimenti propri del pastore.
1. La coordinata spaziale: la città greco-romana di Corinto. Corinto è la capitale della provincia romana dell’Acàia, conquistata nel 146 a.C. Una città romana rimasta fondamentalmente ellenista e nel momento in cui Paolo svolge la sua missione era una immensa metropoli con due porti. E come spesso succede per i luoghi di mare, era diventata emblema del vizio.
2. La coordinata storica
a) Datazione della permanenza di Paolo a Corinto: Paolo arriva a Corinto nell’inverno del 50-51 e rimane nella città greca un anno e mezzo; ha alle spalle una delusione, il fallimento della predicazione ad Atene. A Corinto inizia una nuova attività. La testimonianza di Luca in Atti 18 ci da i due dati storiografici che ci permettono di ricostruire la vicenda storica di Paolo a Corinto.
b) Datazione della stesura della prima lettera ai Corinti. Per una serie di ragioni basate su analisi generali della biografia di Paolo, la prima lettera è stata scritta probabilmente nella primavera del 57 alla fine del terzo viaggio missionario: sono trascorsi sei anni dal primo arrivo. Sappiamo anche da dove è stata scritta: « Resterò ad Efeso fino a Pentecoste » (1Cor 16,8). Potrebbe inoltre essere stata scritta attorno alla Pasqua del 57.
3. La coordinata ecclesiale
- La comunità cristiana di Corinto è costituita innanzitutto da Giudei, poi da Romani, essendo zona di occupazione, e da Greci. Questa miscela di razze causava tensioni all’interno della comunità, ma soprattutto la tensione più pericolosa che creava una situazione esplosiva era quella fra le classi: ci sono gli aristocratici e coloro che a stento riescono a sopravvivere. Il testo è proprio la testimonianza della drammaticità della vita in questa comunità divisa. Questa è una lettera ecclesiale, pastorale che cerca di ricucire le smagliature di questa chiesa che è un corpo di Cristo spezzato.
- Paolo affronta anche il discorso della mistificazione intellettuale lottando contro il fascino della sapienza greca e misterica.
- Contro la corruzione Paolo affronta il problema della morale, in particolare della morale sessuale.
- Paolo d’altra parte vede che tutto ciò è pur sempre espressione di una comunità vivacissima: affronta allora il tema della Chiesa come corpo le cui membra non sono disperse. – Nel cap. 15 Paolo esprime il suo pensiero riguardo al nostro destino ultimo e alle realtà ultime. Ma la vera radice teologica di questa coordinata dell’ecclesiologia di Paolo è sempre e soltanto la croce di Cristo, il Cristo crocifisso e risorto.
CONCLUSIONE
Paolo invita i cristiani di Corinto a trovare Cristo, un Cristo che è « tutto in tutti », senza trascurare una continua attenzione anche alle piccole questioni. La lettera è una sequenza di indicazioni concretissime.

La teologia della Chiesa (cc.1-6)

« Non sapete che siete tempio di Dio? »

PREMESSA
Tutte le volte che affrontiamo dei testi biblici, lasciamo degli spazi aperti da colmare con una lettura e uno studio personale in modo da pervenire ad una lettura integrale del testo. Sono spazi da colmare con il cuore. Da ultimo questi spazi sono da colmare col rispetto del sapiente che sa di non riuscire a capire tutto.

I TRE TEMI DEI PRIMI SEI CAPITOLI 
1. La sofia, la sapienza.
Un tema obbligato per una la cultura greca in città come Corinto. Paolo sviluppa la grande tentazione che vedeva serpeggiare nella comunità cristiana: la tentazione del fascino della sapienza. Paolo non è un oscurantista. Rifiuta però ogni concezione gnostica della sapienza. La gnosi è una scheggia di cristianesimo impazzito il quale sosteneva che quanto più l’uomo cresce nel sapere tanto più con quel sapere si salva. Abbiamo qui il cuore di un tesi fondamentale del pensiero paolino: non è possibile l’autosalvazione. Paolo attacca da una parte gli intellettuali greci che pretendono di salvarsi con il sapere, e dall’altra il mondo ebraico che afferma la possibilità di salvarsi attraverso le opere.
- Cristo entra nella storia, entra come uno squarcio, come un forma scandalosa. Si contrappongono, così, due sapienze: la sapienza di Dio che è scardinante e la sapienza del mondo apparentemente ordinante. Paolo è convinto che l’annuncio cristiano è in sé scandaloso, è insensato, è « moria », è « stupidità ». I giudei vanno in cerca di « semela » prove, in modo tale che la fede non sia mai un rischio. I greci cercano la sapienza, questo sistema rigoroso perfetto. Noi, i cristiani, annunciamo (il Kerigma cristiano) il Cristo crocifisso che è pietra di inciampo (skandalon) per i Giudei e « stupidità » (moria) per i Greci. Ma per tutti i chiamati noi predichiamo Cristo che è potenza e sapienza di Dio.
- Questa sapienza umana si scontra anche con la vocazione cristiana, cioè con la scelta di Dio. Qui abbiamo uno dei temi cari alla Bibbia: il tema del « secondo », il tema del debole che fa saltare le scale dei valori umani.
- La sapienza umana si scontra anche con la « mia » testimonianza. Paolo usa il suo comportamento come testimonianza.
Paolo contrappone poi la vera sapienza che per il credente è la maturità nella fede; è un cristianesimo maturo fatto di adulti nella fede. Paolo sviluppa inoltre il primato della grazia con categorie di sapienza perché sta parlando al mondo greco.
2. La chiesa
Paolo prende in considerazione il tema della chiesa locale che è in Corinto, descrivendola con due simboli:
- Agricolo: come un campo da coltivare. Troviamo qui la funzione del primato di Dio e la collaborazione dell’uomo alla salvezza.
- Edilizio: un edificio. Dio è il fondamento, noi continuiamo ad erigere con i nostri materiali spesso scadenti.
Paolo vede la presenza di Dio in due grandi momenti: entro la comunità ecclesiale riunita e entro la coscienza di ogni uomo.

3. La morale
Il testo ci presenta due questioni concrete della Chiesa di Corinto per illustrare l’esigenza di moralità che deve essere nell’interno di questo tempio.
a. Incestuoso. Paolo valuta un tipo particolare di incesto e lo condanna come un venir meno della santità-purezza ecclesiale. L’apostolo dà una norma: quella di far scoprire alla persona che si è posta fuori dalla grazia e dalla forza dello spirito la necessità di tornare al focolare dello spirito che ha lasciato.
b. Paolo combatte la visione di una sessualità ridotta a pura fisicità.
Introduce il tema della prostituta come simbolo dei culti idolatrici.

CONCLUSIONE
II discorso non è facile, ma trasparente.
- Paolo ci ha parlato del mistero della vera sapienza che ci trascende ed è
qualcosa che ci viene donato.
- La chiesa che Paolo ci presenta è una chiesa dove il primato è di Cristo e di
Dio, una chiesa che abbia al centro il Cristo e annunci il suo regno.
- In tutte le lettere Paolo ha il suo riferimento concreto che è il Cristo, anche
quando affronta questioni concrete.

Matrimonio, verginità, liturgia, carismi, risurrezione  – (cc. 7-16)

« Quanto alle cose di cui mi avete scritto io vi dico… »

Paolo scrive ad una comunità precisa rispondendo a dei quesiti precisi che la comunità gli pone. Per questo è costretto a stare sui due estremi verso cui cadevano i cristiani di Corinto: il lassismo, che Paolo combatte con forza e durezza, e il rigorismo, la radicalità del rifiuto dell’orizzonte della sessualità perché impuro. Paolo come tutti gli autori sacri, filtra la parola di Dio attraverso se stesso. Questo testo è come una lente affumicata che permette di guardare il sole che è la Parola di Dio.

1. STATI DI VITA E CRISTIANESIMO
a) Legittimità e diritti del matrimonio (7,1-9)
Paolo combatte la tendenza rigorista che per proibire il sesso proibiva anche la relazione matrimoniale. I diritti e i doveri dell’uomo e della donna sono presentati in parallelo per mostrare che esiste una parità sostanziale tra i due. C’è però una difficoltà che deriva dal fatto che Paolo sta dando un consiglio e non un ordine. La versione latina porta « venia » e per Agostino dove c’è questo termine c’è sempre una colpa. Da qui è nata una lettura negativa di tutto il testo.
b) Indissolubilità (7,10-16)
- Sul sacramento del matrimonio la Parola del Signore è indissolubile; il matrimonio cristiano tende verso l’indissolubile e l’eterno.
- Privilegium Paolinum: introdurrebbe un vero e proprio divorzio. Se è impossibile la convivenza tra i due per ragioni di libertà di fede, si separino con la possibilità di un nuovo matrimonio.
c) Mantenere il proprio stato di vita sociale (7,17-24)
L’appello di Paolo è a rimanere nello stesso stato di vita in cui si era quando si è stati chiamati al cristianesimo. Due esempi: circoncisione e non circoncisione e la schiavitù.
d) La verginità (7,25-35)
Paolo sembra svalutare il matrimonio a scapito della verginità, ma egli sta parlando della verginità non dal punto di vista biologico. La verginità come segno del tempo escatologico, come segno della donazione per Dio e per tutti, del momento in cui saremo donati completamente nella grande liturgia celeste.
e) La vedovanza (7,36-40)
Paolo presenta una questione particolare della comunità di Corinto su cui non si è ancora giunti ad una definizione precisa: la vedovanza cristiana.

2. QUESTIONE DEGLI IDOLOTITI
Paolo riafferma innanzitutto il principio della libertà: gli idoli non sono nulla. Afferma poi il principio della carità: non scandalizzare nessuno e rispetto per i più deboli. Infine il principio della prudenza: non esagerare. Paolo condanna il lassismo di Corinto.

3. L’ASSEMBLEA LITURGICA
Paolo richiama uno stile di partecipazione all’assemblea liturgica, ma soprattutto afferma che non basta celebrare il rito dell’eucaristia se poi c’è una cornice di divisione. Egli ricorda l’ultima cena di Gesù: carità ed eucaristia sono inscindibili.

4. I CARISMI
Paolo disegna un suo progetto di Chiesa legato alle caratteristiche di unicità e pluralità: è un corpo vivente. E in questo contesto affronta il tema dei carismi: doni dello Spirito per ogni persona.
- 12,4-6: la molteplicità dei carismi che sempre si rannoda ad un unica sorgente. Diversi carismi ma un solo spirito.
- 12,12ss: ricorre al simbolo del corpo che è di sua natura vivente. È molteplice e tutte le parti sono necessarie e tutto si compagna in armonia. « Voi siete corpo di Cristo e sue membra ». Cristo continua come anima ad offrire la salvezza ed annunciare la sua parola attraverso la comunità cristiana.
- C. 13: è la celebrazione di quest’anima profonda che unisce tutto il corpo, tutto l’essere dell’uomo, che unisce l’uomo a Cristo e a Dio. Paolo capisce
che se non c’è questo nodo profondo dell’amore tutto si sfalda ed il corpo
non è segno della presenza di Cristo.

La missione dell’apostolo

« Noi fungiamo da ambasciatori per Cristo »

MORTE E RISURREZIONE NELLA 1A CORINZI
II cap. 15 è una delle pagine capitali del pensiero paolino, perché ha nel centro il messaggio pasquale che lui ha ricevuto e che ora trasmette: ci troviamo di fronte al credo paolino.
- vv. 3-5. La risurrezione di Cristo è coniugata con la sua morte proprio perché il mistero pasquale è morte e risurrezione. La dimensione della umanità di Cristo è condividere l’essere specifico dell’uomo. Il suo essere uomo è sigillato dal sepolcro. Però Gesù è risorto ed è apparso: Paolo non cita solo i primi testimoni, ma anche se stesso come un « aborto ».Architrave di questo testo è la risurrezione di Cristo che è radice della nostra risurrezione.

LA NOSTRA RISURREZIONE
Paolo sviluppa una lunga riflessione sulla nostra risurrezione e spezza tutte le interpretazioni del come risorgeremo: « nella nostra personalità siamo come il seme, allora saremo albero ». Continuità e diversità. La nostra risurrezione è una ri-creazione, una creazione nuova in cui Dio salvaguardando il nostro seme della prima creazione offrirà una umanità perfetta e compiuta. Contrappone un Adamo peccatore, che siamo tutti noi, da cui nascerà l’Adamo perfetto di cui c’è già stato un esemplare: l’Adamo-Cristo.
- 15,54-57: in una visione colossale Paolo immagina l’ultimo duello che segnerà il senso di tutta la nostra vicenda, quello fra morte e vita. In questa lotta la vittoria finale sarà del bene, della vita, di Cristo e di Dio. È la grande rappresentazione del « morire » della morte. Il suo pungiglione è reso inoffensivo. Alla fine, « Dio sarà tutto in tutti ».

Mons. Gianfranco Ravasi – l’ultima messa « milanese »: “IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”

Metto questo articolo – un po’ in ritardo rispetto all’evento – il saluto di Mons. Ravasi alla città di Milano, il riferimento a Paolo e molto breve, tuttavia posto molto volentieri questo “saluto” perché, sono certa, che tutti amiamo Mons. Gianfranco Ravasi e vale, veramente, la pena di leggere le sue, ultime – perlomeno nel ministero che stava svolgendo – commosse parole, alla città di Milano, dal sito:

http://www.parrocchiamilanino.it/scossa_on_line/in_vetrina/mito2007_ravasi.pdf

Basilica di Sant’Ambrogio in Milano

23 settembre 2007

Ultima messa “milanese” celebrata da monsignor Gianfranco Ravasi

“IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”

Il saluto di mons. Gianfranco Ravasi alla città di Milano, alla “sua” città di Milano, per una felice combinazione di eventi, apparentemente indipendenti fra loro ma nei quali chi crede non fatica a riconoscere la “logica di Dio” di cui parla Bernanos, ha trovato una degna e appropriata cornice nel festival “MiToSettembreMusica”: che per tre settimane ha offerto a Milano appuntamenti musicali di ogni genere. Forse il momento più alto di essi è stato, appunto, la Messa per coro e strumenti a fiato di Igor Stravinsky, eseguita dal Coro Filarmonico e dell’Ensemble strumentale della Filarmonica della Scala il 23 settembre in Sant’Ambrogio durante la funzione liturgica domenicale celebrata dall’ex prefetto della Biblioteca Ambrosiana proprio alla vigilia dell’investitura ufficiale alla direzione del Pontificio Collegio della Cultura, fortemente voluta da Benedetto XVI; incarico lasciato dal cardinale Poupard per raggiunti limiti di età. Così la messa in Sant’Ambrogio è diventata proprio l’occasione per lo scambio di saluti fra questo importante uomo di fede e di cultura e la città da lui tanto amata. Amore ricambiato dalla folla che ha gremito la basilica fin nei confessionali e nei più remoti angoli delle cappelle; oltre che all’esterno, nel portico di Ansperto.

Folla di credenti e non credenti, categorie care entrambe al nuovo vescovo ed alle quali, come sempre, si è rivolto durante l’omelia. Folla di persone che, con la propria semplice presenza, si sono unite al saluto iniziale di mons. Marcandalli il quale, a nome del Capitolo della basilica e citando sant’Agostino, ha fatto riferimento alla grande musica unita alla celebrazione liturgica come di opportunità per tutti, credenti e non credenti, di sfiorare la “bellezza tanto antica e sempre nuova” di Dio. Persone che, suscitando anche un impercettibile moto di bonaria contrarietà nel sacerdote sul quale, per un momento, ha prevalso l’uomo di cultura, al Coro si sono addirittura sovrapposte nella recita di non pochi versi del Credo. Quasi a manifestare, anche con questa “intemperanza”, il desiderio di non essere semplici spettatori di un evento, per quanto significativo, ma di essere vera Chiesa. Persone sicuramente coinvolte emotivamente ma, vorremmo dire meglio, coinvolte spiritualmente, per l’opportunità, certo non usuale, di poter cantare l’Alleluja durante la messa assieme al Coro della Scala! Ma l’emozione si è fatta sentire anche per il grande ed esperto comunicatore. L’ha ammesso lui stesso nel corso della sua ultima predica da “milanese”: nella quale ha unito ad un commosso saluto un monito “sociale” e di critica all’idolatria della ricchezza. “LA SCOSSA” era presente e ritiene di fare un gradito servizio ai propri lettori offrendo loro l’opportunità di poterla leggere nell’ampia sintesi che di seguito ne proponiamo (non rivista dal celebrante).

Sant’Ambrogio 23 settembre 2007

Sintesi della predica di monsignor Gianfranco Ravasi

“IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”

“Ho più volte celebrato il rito sacro della liturgia in questa basilica, ma oggi mi percorre un particolare fremito di cui renderò ragione alla fine di questa omelia. Molti fra i presenti non possono comprendere parole che per chi è credente salgono all’infinito di Dio. Ma per tutti è possibile accogliere il messaggio di elevarsi oltre la quotidianità. Il testo biblico suscita due riflessioni, due fili che si dipanano dai testi letti. Il primo attraversa tutte e tre le letture che hanno un comune carattere “sociale” (

prima lettura dal libro del profeta Amos: Am 8, 4-7; seconda lettura dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo: 1 Tm 2, 1-8; Vangelo dal Vangelo secondo Luca: Lc 16, 1-13 // le letture sono riportate in coda alla predica – NdR).

L’intreccio delle relazioni fra società e politica è un groviglio oscuro e quotidiano, a volte è un arruffìo di fili che esplode in scandali. E’ il mistero umano della polis. Città non solo di mura ma di persone con reazioni sensitive capaci di creare realtà mirabili come di precipitare nel baratro dell’odio. Amos era un profeta contadino chiamato a predicare in città. Alla sua epoca i poveri erano pedine calpestate di una scacchiera sulla quale altri decidevano le mosse.

Nella lettura dell’apostolo Paolo c’è, invece, la dimensione positiva dell’attestazione di fedeltà all’Impero Romano. Il Cristianesimo non vuole far esplodere le strutture politiche e sociali, se queste hanno una funzione utile per la società, ed invoca, anzi, sul capo dei politici, la mano di Dio che li illumini.

Gesù, infine, parla oggi attraverso una parabola tanto sorprendente quanto poco conosciuta.

E’ lo stesso Gesù del “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” espressione mediante la quale traccia una netta linea di demarcazione tra due sfere; comunque non completamente indipendenti ed estranee fra loro: l’uomo è fatto di spirito e di carne, di vita interiore e sociale. Gesù incide nell’esistenza umana, Gesù parte dalla terra sulla quale l’uomo poggia i piedi, non dall’aria sopra le persone. Parla di campi, fiori, problemi sociali… Di figli: alcuni osservanti, altri incomprensibili. Parla di Erode definendolo “volpe astuta”. Quello che ci propone in questa domenica è un parallelo con i politici oggi ancora valido: un amministratore corrotto che falsifica i bilanci di una società. Gesù parte dal dato di fatto negativo trasmettendo un primo messaggio: vedete l’astuzia dei figli delle tenebre? Arrivano subito a trovare il nucleo fondamentale delle cose; invece voi, figli della luce, siete distratti, acquiescenti, pigri…Porta a modello un cattivo esempio non per il suo contenuto, per l’azione, ma per l’atteggiamento che vi è sotteso. Invita a vegliare. E’ un invito anche per il nostro tempo, la cui malattia peggiore è la tiepidezza. Nel nostro tempo non ci sono più male o più ingiustizia di quanti ce ne siano stati in passato.

Quando sono nato io il mondo era in mano a due criminali: Hitler e Stalin. L’Europa era striata dal sangue… morte e distruzione erano in agguato ovunque. Oggi la situazione è più grave, ma non per il male e la cattiveria. Oggi il male è la superficialità, la banalità, la stupidità… un linguaggio che è come una chiacchiera. “Lo stupido dice quel che sa, il sapiente sa quel che dice” recita un detto rabbinico. “Sapere” deriva dal latino sàpere, che vuol dire aver sapore e gusto intenso, e perciò richiede riflessione e meditazione. Il “forte” silenzio che percepisco ora, mi dice che questa affermazione vale anche per i non credenti che sono presenti qui in chiesa: non si può vivere di banalità, l’uomo vero non è quello mostrato dalla TV. Pascal diceva che l’uomo supera infinitamente l’uomo, che, anche se non crede, ha in sé l’amore, la via per elevarsi.

La seconda riflessione, più breve, parte dall’ammonimento di Gesù: “non potete servire Dio e Mammona”. Mammona è una parola aramaica entrata nelle lingue successive. Ha la stessa radice di amen, il verbo della fede, della fiducia in Dio, nel trascendente. Siamo ininterrottamente sospesi fra due adorazioni: da una parte l’amen verso Dio e la sua legge morale e dall’altra l’idolatria delle cose. Lo scrittore Leonardo Sciascia ha detto, su mammona, che il mondo degli uomini è diviso in due settori individuabili da una stessa frase che può essere letta con accenti diversi. “La ricchezza è morta” e “la ricchezza è bella anche se è morta”, è lo splendore del vitello d’oro luccicante e brillante. Dobbiamo decidere dove stiamo se con l’amen morale o con l’idolatria verso le cose. Se abbiamo qualcosa in mano non possiamo adoperarla per accarezzare o sollevare chi può avere bisogno di noi. Se abbiamo le mani occupate per tenerci stretta la ricchezza non abbiamo spazio per altro. Anche per i credenti e per la Chiesa c’è il rischio di adorare la ricchezza morta.

Infine vengo ora ai saluti, ed è per me un’emozione forte. Da domani torno a Roma, città della mia giovinezza e dei miei studi di teologia. Il mio orizzonte non sarà il Vaticano ma i dicasteri per il mondo e le chiese nel mondo: non la Chiesa ma le Chiese. So che mi aspetta un programma molto intenso di viaggi e di incontri. Sono grato a monsignor Marcandalli per il suo saluto a nome del capitolo di Sant’Ambrogio, sono grato anche a chi è fuori della Chiesa, nel portico di Ansperto… e alla Scala, mio grande amore, che ringrazio perché mi permette di salutare con l’armonia e lo splendore della musica di Stravinski. Stravinski era un credente, cristiano ortodosso, e ha composto questa messa per la liturgia. Non è quindi una musica da ascoltare ma una musica nella quale entrare; per prepararsi a comporla aveva letto Agostino e Bossuet, un vescovo e predicatore del ‘600. Questa Messa è risuonata a Milano per la prima volta nell’ottobre del 1948, alla Scala, diretta da Ernest Ansermet. Per me è il rinnovarsi della centralità di una grande dolcezza. Per questo dico grazie a Dio per la musica, grazie per tutti coloro che fanno musica, come in questi giorni del festival MiTo, e, prima di tutti, dico grazie alla Scala. Nel VI secolo Cassiodoro primo vescovo cattolico della Calabria ammoniva: “Se continuiamo a commettere ingiustizie Dio ci lascerà senza musica: avremo solo rumore, fracasso o silenzio.” Assurdo deriva da sordo, senza la musica siamo nell’assurdità. Oggi, invece, la Messa di Stravinsky unisce l’armonia della voce umana e l’armonia strumentale.

Qui saluto i milanesi e i lombardi con le parole di Bernardino Telesio filosofo del ‘500 che, nominato vescovo dal Papa Pio IV, non voleva accettare l’incarico. Con le sue parole voglio ricordare la mia città in cui ho visto i tramonti e le albe, nella quale ho vissuto ed ho camminato…“La mia città può far benissimo a meno di me, sono io che non posso fare a meno di voi; essa che mi scorre nelle vene e che mi pulsa dentro, nel battito del mio cuore”.

Mons. Gianfranco Ravasi

LE LETTURE DELLA MESSA:

PRIMA LETTURA

Am 8, 4-7

Dal libro del profeta Amos.

Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: «Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo le misure e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano». Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: certo non dimenticherò mai le loro opere.

SECONDA LETTURA

1 Tm 2, 1-8

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo.

Carissimo, ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo dico la verità, non mentisco , maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese.

VANGELO

Lc 16, 1-13

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli:

«C’era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore. L’amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d’olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona».

Publié dans:Card. Gianfranco Ravasi |on 20 novembre, 2008 |Pas de commentaires »

Mons. Ravasi – Lectio per la Pasqua all’Univeristà del Sacro Cuore – tema iniziale Fil 2,5-11

dal sito: 

http://www2.unicatt.it/pls/catnews/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=13776

UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE

La Lectio per la Pasqua di Mons. Ravasi

Una riflessione sul significato profondo dell’incarnazione di Cristo, della Sua passione e della Sua resurrezione è stata dedicata da Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura agli studenti della sede di Roma dell’Università Cattolica

[Pubblicato: 20/03/2008]

Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,5-11).

Loccasione per questa speciale lectio di preparazione alla Pasqua è stata offerta lo scorso 12 marzo dai Mercoledì della Cattolica, gli incontri culturali promossi dal Consiglio della Facoltà di Medicina e Chirurgia dellAteneo, prendendo spunto dalle parole rivolte da San Paoloa una delle comunità che in assoluto gli sono più care, quella della città macedone di Filippi. La locuzione avere gli stessi sentimenti di in greco è resa da un solo verbo: « φρονειν” ha esordito Mons. Ravasi Tale verbo ha uniridescenza semantica che esula dal puro orizzonte del sentimento, andando a significare non solo sentire, ma anche pensare, ragionare, avere una disposizione danimo aperta. Questa frase, che poi si innesta su quella che è probabilmente la citazione di un inno in uso nella Chiesa delle origini, è un appello ad avere dentro di noi non soltanto un sentimento, ma uno stato danimo, implica non solo una componente esperienziale, ma anche una componente razionale. Per Paolo limitazione di Cristo è fondamentale, ed egli presenta come modello, nellinno che segue, entrambi i volti del Cristo. Prima il volto lacerato e dolente del crocifisso, di colui che precipita dallorizzonte alto della trascendenza per assumere la forma di uno schiavo; che subisce il supplizio degli schiavi, dei rivoluzionari, dei ribelli, la croce, emblema oscuro e vergognoso.
Qui Mons. Ravasi ha fatto una breve digressione, riferendosi alla polemica che ogni tanto emerge sull
eliminazione del crocifisso, considerato un simbolo troppo specifico, di parte, quasi in contraddizione con una cultura molteplice come quella in cui ci stiamo sempre più immergendo: Ma il crocifisso ha un valore simbolico universale. Natalia Ginzburg, scrittrice ebrea di formazione sostanzialmente agnostica, nel 1988 sul quotidiano lUnità così scriveva a seguito di una delle ricorrenti polemiche contro la presenza del crocifisso in unaula scolastica o in unaula di tribunale: E il segno del dolore umano, della solitudine, della morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro destino umano. Il crocifisso fa parte della storia dellumanità. Dellumanità tutta, non solo del Cristianesimo! ha sottolineato il biblista.
E ha proseguito:
Questa considerazione preliminare, deve essere declinata soprattutto qui, di fronte a voi, medici, operatori sanitari e studenti di medicina, che sistematicamente fate lesperienza del dolore umano: questa esperienza così radicale che trova lì, in quelluomo crocifisso, la sua sintesi. Nel Vangelo, a partire dalla domenica delle Palme, c’è lo sforzo di riassumere in Cristo tutto lo spettro della sofferenza umana. La paura della morte nellorto del Getsemani: Padre se è possibile passi da me questo calice. La solitudine: gli amici fuggono, Giuda lo tradisce, Pietro lo rinnega. Poi ancora, la sofferenza fisica in senso stretto. La tortura. La lunga agonia. Infine, prima della morte, il silenzio di Dio: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato. Proprio qui è il centro della grande proclamazione cristiana: una divinità che non assiste come un imperatore indifferente alle disgrazie delluomo. Un Dio che, infinito ed eterno per definizione, sceglie di partecipare della fragilità e caducità legate alla condizione umana. Cristo non si comporta come un benefattore che china la mano verso il miserabile, come qualche volta fanno i medici. La rappresentazione del medico nei confronti del paziente è quella delluomo di potere, non di colui che condivide, anche solo fisicamente, per necessità. Il medico è in piedi, in posizione eretta, in una posizione di dominio. Il malato invece ha la posizione del morto, la posizione orizzontale, la posizione dellimpotenza. Ma, come dice Dietrich Bonhoeffer, teologo morto nei campi di concentramento nazisti: Dio in Cristo non ci salva in virtù della sua onnipotenza, Dio in Cristo ci salva in virtù della sua impotenza. Per voi medici, in particolare, che avete nel mondo della sofferenza la vostra vocazione, lavere gli stessi sentimenti di Cristo è fondamentale. Egli è il vostro vero patrono
.
Il Vangelo di Marco ha proseguito Ravasi – è, praticamente per metà, dedicato a rappresentare Cristo nellatto di guarire i malati. Tra le guarigioni più simboliche c’è quella del lebbroso, limmondo per eccellenza, che secondo la legge del Levitico rendeva impuro chi gli si accostava: Gesù lo tocca e lo guarisce, assumendo simbolicamente su di sé la malattia, la sofferenza, la miseria e limpurità dellumanità sofferente
.
L
inno che San Paolo fa seguire alla dichiarazione di principio, non finisce però col Cristo crocifisso. Subito dopo segue la rappresentazione del volto glorioso di Gesù, che Mons. Ravasi evoca con accenti lirici: Egli diventa una grande figura che domina labside del cosmo, il mondo intero lo contempla nella gloria della Resurrezione. Dopo il Venerdì Santo c’è la mattina di Pasqua, il momento in cui il discepolo deve scoprire il volto radioso di Cristo, la speranza della luce, di ciò che è oltre il dolore e la morte. Per poterlo riconoscere è necessario un altro canale di conoscenza, gli occhi carnali, non bastano più, servono gli occhi della fede. Così, la mattina della Domenica, Maria di Magdala, recandosi al cimitero, non riconosce Cristo finché Egli non le parla, chiamandola per nome. Finché cioè non le dà una nuova vocazione, quella dellessere credente. È la via della fede, la via nuova della conoscenza del Mistero profondo. È allinterno dellesperienza di fede autentica, che riusciamo a ritrovare il germe della speranza. Perchè il Cristo – e attraverso lo sguardo della fede noi riusciamo a capirlo – attraversando il dolore e la morte lo ha fatto da Dio e come tale li ha irradiati di fecondità, ha deposto cioè un seme di immortalità, di eterno e di infinito dentro il dolore e il morire delluomo. Così il Lunedì, i due discepoli, non riconoscono Gesù risorto, che li accompagna nel cammino verso Emmaus, spiegando loro, in chiave cristologica, le Scritture, finché, giunti finalmente nella cittadina, Lui non spezza il pane: in quel momento si consuma il riconoscimento e litinerario è compiuto. Nellascolto della Parola e nella frazione del pane, i due discepoli di Emmaus fanno esperienza di fede, la stessa che faremo Domenica di Pasqua e che facciamo ogni domenica, quando, nella liturgia, incontriamo Cristo che spiega la nostra sofferenza e la trasfigura in quellabisso di luce che è il volto della Speranza, della Gioia, della Pasqua
.

Valentina Zecchiaroli

PAOLO, UN’AUTOBIOGRAFIA IN GAL 1,11-24

PAOLO, UN’AUTOBIOGRAFIA IN GAL 1,11-24

 

questo è il titolo che la BJ edizione italiana da a questa parte della lettera ai Galati, l’interpretazione di questa lettera non è facile, a detta anche di Mons. Ravasi – sto leggendo il suo commento ai Galati – quello che mi interroga è proprio questa presentazione molto personale, questo annuncio del vangelo che Paolo fa in questa parte della lettera; ho in mano una, abbastanza breve, spiegazione di Mons. Ravasi, la propongo, stralciandola dall’intero commento alla lettera paolina, perché sembra una sorta di autobiografia che Paolo fa, una autobiografia nella quale il protagonista non è più Paolo con la sua storia: la nascita gli studi, la conversione ecc., i luoghi dove è nato, cresciuto, ma una biografia che parte da Gesù, il primo personaggio di questa non è più Paolo stesso, ma Gesù il primo protagonista, Paolo non si mette al centro della sua storia, ma mette Gesù Cristo al centro della sua storia, e questo a me sembra un passaggio particolarmente importante, sia delle lettere, sia della persona di Paolo, della sua fede; come un indicare a chi ascolta la sua parola, legge le sue lettere, chi è veramente al centro della vita dell’uomo; questo il mio pensiero, ora ascoltiamo ciò che dice Ravasi:

 

un breve passaggio dall’ introduzione a questa parte:

 

« Teniamo… presente che Paolo, come apostolo e pastore, è profondamente coinvolto nel messaggio che annuncia e che da noi viene richiesta l’apertura del cuore, perchè tocchiamo le radici del nostro credere cristiano, perché diventi anche in noi efficace e non rimanga « 

 

commento a Gal 1,11-24, il commento prosegue fino a 2,14 considerando un’unica unità, ma io mi fermo a questo breve, ma intenso scritto, la parola a Mons. Ravasi:

 

« IL VANGELO ANNUNCIATO DA PAOLO (Gal 1,11-2,14 – lettura solo di 1,11-24)

… che con la parola Paolo non intende il testo scritto, ma la persona stessa di Gesù Cristo che è tutt’uno con il suo messaggio. Sappiamo anche che Paolo ripete che non esiste altro vangelo al di fuori di quello da lui annunciato.

a) Origine del vangelo annunciato da Paolo

Paolo puntualizza l’origine, la genesi del vangelo. Vediamo come egli esprime ciò nella lingua greca, usufruendo della potenzialità espressiva di tre preposizioni che nella traduzione italiana va un po’ perduta. In 1,11-12 egli scrive:

<Vi dichiaro, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo>

Innanzitutto l’espressione è una parafrasi; in greco c’è semplicemente Katà ànthropon, , .

Dice poi: , in greco parà anthrópou,cioè non l’ha ricevuto , per derivazione (parà) umana. Da una lato quindi un vangelo che non è fondato su ragionamenti umani, dall’altro la sua trasmissione che non è avvenuta attraverso la comunicazione normale da uomo a uomo, il dialogo intraumano.

Infine Paolo dice: , in greco: dià apokalýpseos, che Gesù Cristo ha fatto.

Il movimento indicato delle tre proposizioni originali è comprensibile anche a chi non sappia il greco: si parte dal basso con katà in riferimento alla fondazione non umana; parà esprime lo scorrimento orizzontale, il canale umano; ambedue le cose vengono escluse; infine dià indica la vera mediazione, che è verticale, viene dall’alto, è rivelazione.

Usando ora il linguaggio teologico possiamo dire che Paolo sottolinea il carattere trascendente del vangelo da lui predicato: non sboccia da terreno umano, ma scende dal cielo di Dio.

b) Forza dell’evangelo

Dopo averne esposto l’origine, Paolo passa a considerare la forza del vangelo, realtà divina efficacie, potente, che non nasce da semplici meccanismi o dinamismi umani, che non è prodotto del nostro volere, della nostra esperienza, del nostro desiderio, ma si compie come dono dall’alto. Lui stesso, Paolo, ne è una prova, un testimone: il vangelo ha distrutto ogni sua opposizione istantaneamente con un’irruzione dall’esterno. In questo contesto, Paolo riprende la parola apokálypsis, che aveva usato poco prima, e specifica , . Paolo racconta in prima persona con poche pennellate la sua conversione, narrata anche negli Atti degli apostoli, con gli interventi stilistici tipici di luca, per ben tre volte (c. 9, 22 e 26). Qui vi è messa alla radice la forza stessa del vangelo, il messaggio di salvezza del Cristo.

<Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri> (1,11-15)

È il passato di Paolo, l’orizzonte lascito alle spalle dopo esservi stato profondamente immerso, avvolto in esso come in una ragnatela che lo possedeva integralmente.

<Ma (ecco il ‘ma’ delle grandi svolte) quando colui che mi scelse fin dal senso di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me (in greco abbiamo en emòi, quindi non ‘a me’, ma ‘dentro di me’ ) suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare uomo...> (1, 16-17).

Le poche volte in cui Paolo accenna alla sua conversione, alla chiamata e all’ in lui del Cristo, usa lo schema: ; al centro si inserisce la lama che trafisse la sua esistenza.

c) Sviluppo nella biografia di Paolo del vangelo da lui annunciato

Qui Paolo si lascia prendere dal filo autobiografico che lentamente si configura come elemento teologico. Ci interesseremo, ora, di una questione storica, cioè della vicenda personale di Paolo, perché essa ha continui riverberi, connotati e qualità di tipo teologico. È il messaggio che dobbiamo con attenzione scoprire e non la semplice informazione storica.

1) IL RITIRO NEL DESERTO

Paolo dice: . È un breve cenno autobiografico nei vv. 16-17:

<...senza consultare nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi tornai a Damasco.>

Dopo l’evento sulla via di Damasco, la conversione, egli non va a Gerusalemme, si ritira in Arabia. Col termine Arabia si indicava una regione sterminata, Paolo intende probabilmente la zona meridionale dell’attuale Giordania, L’Arabia Nabatea, dove passavano le carovane dei famosi mercanti nabatei che diedero origine a quella singolare, unica e stupenda città che è Petra. »

 

il testo di Ravasi prosegue da 2,1 quando Paolo, in seguito va a Gerusalemme.

Mons. Gianfranco Ravasi: Il matrimonio

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2006/332006.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI

IL “MATRIMONIO”
Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato sé stesso per lei. (Efesini 5,25)

Dio creò l’uomo a sua immagine, « a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27). L’”immagine” di Dio si riflette nella bipolarità sessuale: attraverso la sua fecondità generativa, la coppia continua la creazione e quindi collabora col Creatore nel far procedere la storia della salvezza. La vicenda matrimoniale nella sua forma esemplare e archetipica è tratteggiata nel capitolo 2 della Genesi, quel testo a cui rimanderà anche Gesù nella sua visione dell’amore nuziale: l’uomo si sente incompleto, privo di un aiuto che gli sia kenegdò, in ebraico “che gli stia di fronte”, in un dialogo paritario. Ecco, allora, la creazione della donna che partecipa della stessa realtà dell’uomo rappresentata simbolicamente dalla costola, ossia dalla medesima carne, come dice il bel canto d’amore di 2,23: «Questa volta essa è carne dalla mia carne, e osso dalle mie ossa».

Non per nulla i due nomi in ebraico hanno la stessa origine: ‘ish, “uomo”, al maschile, e ‘isshah, “donna”, al femmmile. «L’uomo abbandona suo padre e sua madre e i due sono una carne sola» (2,24). Siamo di fronte al matrimonio nella sua anima profonda di unità di vita e d’amore. Naturalmente la legislazione biblica successiva registrerà anche i fallimenti di questo modello, introdurrà norme sulla dote (il mohar), sul divorzio (Deuteronomio 24,1-4), sull’adulterio e così via. Ma resterà sempre vivo quel progetto ideale divino, vera stella polare a cui riferirsi.

Significativo è, al riguardo, il Cantico dei cantici che esalta l’amore nella sua bellezza legata alla passione, all’eros, al sentimento, ma anche nella sua reciprocità totale di donazione: «11 mio amato è mio e io sono sua», dice la donna protagonista con l’uomo di questo poemetto; «io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6,3). Anche la profezia ricorrerà al simbolismo matrimoniale per celebrare l’alleanza che intercorre tra il Signore e il suo popolo: «Così dice il Signore: mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto…» (Geremia 2,2; vedi Osea 2).

È a questo modello alto che rimanda Cristo nei passi ove parla del matrimonio che egli vede come una donazione totale, assoluta ed eterna nello spirito primordiale della Genesi. In questa luce egli esclude il ripudio-divorzio: «Io vi dico: chiunque ripudia sua moglie — eccetto il caso di pornéia — la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata commette adulterio» (Matteo 5,32;19,9). L’eccezione che viene introdotta è probabilmente legata alla prassi della Chiesa di Matteo e per alcuni riguarderebbe il concubinato (e non sarebbe in questo caso un’eccezione in senso stretto), oppure certe forme matrimoniali vietate dalla tradizione giudaica (come le nozze tra consanguinei). Rimane, comunque, ferma nel messaggio di Gesù la concezione indissolubile del matrimonio cristiano.

È in questa prospettiva che esso diventa un segno efficace del Vamore di Dio che si dona. San Paolo, che delinea a più riprese la relazione marito-moglie (spesso riflettendo il diritto e la cultura del tempo), non ha esitazione nel trasformare il matrimonio in un grande simbolo cristologico ed ecclesiologico. È ciò che avviene in Efesini 5,25-33, ove la donazione piena d’amore tra i due è messa in parallelo a quella tra Cristo e la Chiesa. La conclusione è significativa: «Questo mistero [nuzialej è grande: Io dico per Cristo e per la Chiesa». La parola “mistero” nella versione latina di san Girolamo era tradotta con sacramentum e così il passo divenne un’affermazione sulla sacramentalità del matrimonio che è, comunque, espressa implicitamente nella pagina paolina.

LE PAROLE PER CAPIRE

SERVIRE – Il verbo, oltre all’accezione comune che parla di servitù, servizio e persino sdiiavitù, ha nella Bibbia un altro significato più alto: rimanda, infatti, all’atto di culto (“servizio religioso”), all’adesione fedele ai comandamenti del Signore (si legga Giosuè 24, ove il verbo “servire” risuona 14 volte). “Servo del Signore” diventa, allora, un titolo onorifico che è applicato anche al Messia e allo stesso Cristo.

SCANDALO – In greco skandalon, indica l”inciampo” che fa cadere chi sta camminando. In senso morale è la realtà che tenta al male o che genera sconcerto interiore. Per questo Gesù condanna aspramente chi “scandalizza” coscientemente (Matteo 18,6-9), ma sa anche di essere lui stesso principio di scandalo per chi deforma il suo messaggio (Giovanni 6,61).

Mons. Gianfranco Ravasi : La « Pace »

dal sito: 

http://www.novena.it/ravasi/2006/282006.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI (2006)

LA “PACE”
Cristo è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un popolo solo, abbattendo il muro di separazione. (Efesini 2,14)
Il Regno di Dio non è questione di « cibo o di bevanda ma è giustizia, pace e gioia nello Spinto Santo»: così scriveva Paolo ai cristiani di Roma (14,17). Purtroppo, però, la storia umana è striata costantemente dal sangue di guerre e di violenze e la Bibbia, che è la rivelazione di Dio nella storia e sulla storia, non può non essere segnata dalle battaglie e dalle ingiustizie: ben 600 passi evocano guerre e uccisioni e 1.000 descrivono l’ira divina giudicatrice sul male perpetrato dall’umanità. Eppure il progetto divino, descritto nel capitolo 3 della Genesi comprendeva una triplice e perfetta armonia dell’uomo con Dio, con la natura e col proprio simile (la donna).

Anzi, la meta verso cui converge l’intero itinerario della storia è, per la Bibbia, la pace messianica, in ebraico shalòm (donde l’arabo salam), in greco eirène. Nel Talmud, il testo delle tradizioni giudaiche, si legge che «la pace è per il mondo quello che è il lievito per la pasta». La concezione dello shalòm è poliedrica, perché il vocabolo nella sua radice suppone qualcosa di ‘compiuto, perfetto” e, allora, la pace biblica comprende non solo l’assenza della guerra ma anche benessere, prosperità, giustizia, gioia, pienezza di vita. Come diceva il Salmo 85, «giustizia e pace si baceranno» (v. 11), e il filosofo ebreo olandese Baruch Spinoza affermava giustamente che «la pace non è assenza di guerra soltanto, è una virtù, uno stato d’animo che dispone alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia».

Emblematica in questo senso è la proclamazione angelica del Natale di Gesù: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Luca 2,14). Terra e cielo sono uniti in un’armonia d’amore, come aveva annunziato Isaia in quell’affresco in cui gli animali tra loro ostili si rappacificano con l’arrivo del re-Emmanuele messianico (11,6-8). Il volere della parola di Dio è, infatti, che tutti i popoli abbiano a «forgiare le loro spade in vomeri, le loro lance in falci e che un popolo non alzi più la spada contro un altro popolo e non si esercitino più nell’arte della guerra» (Isaia 2,4). Il re messianico per primo è colui che fa sparire carri e cavalleria, infrange l’arco di guerra e «annunzia pace a tutte le genti» (Zaccaria 9,10).

Nasce, così, una visione di pace universale che il Nuovo Testamento esalta in Cristo, «nostra pace, che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia…, per creare in sé stesso dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due in un solo corpo… distruggendo in sé stesso l’inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Efesini 2,14-15). Cristo, dunque, è colui che abbatte le divisioni, sorgenti di odio e di conflitti. Egli, infatti, nel Discorso della montagna, non aveva esitato a invitare i suoi discepoli ad «amare i nemici e a pregare per i persecutori» (Matteo 5,43-45).

È, così, che la Chiesa diventa segno di unità e di pace tra i popoli, come appare nella scena di Pentecoste allorché in tutte le lingue e culture si cancella la divisione babelica (Atti 2; Genesi 11), e come si fa balenare per la meta ultima della storia umana, quando «una moltitudine immensa di ogni nazione, razza, popolo e lingua» intonerà insieme l’inno della salvezza (Apocalisse 7) e tutti finalmente ascolteranno «ciò che dice il Signore Dio: egli parla di pace» (Salmo 85,9).

LE PAROLE PER CAPIRE

GERMOGLIO – Questo suggestivo simbolo vegetale è applicato — con vocaboli ebraici diversi — al re-Messia. Spunta dal tronco arido di lesse, il padre di Davide, simbolo della dinastia gerosolimitana (Isaia 11,1), diventa in Geremia «il germoglio giusto» (23,5; 33,15) e il profeta Zaccaria lo usa come nome proprio simbolico del sovrano messianico futuro (3,8).

GIUDA – È il quarto figlio che il patriarca Giacobbe ebbe dalla prima moglie ha. Egli dette il nome alla tribù dalla quale discendettero sia Davide sia lo stesso Gesù. Per questo il regno meridionale ebraico fu chiamato “di Giuda”, anche perché la tribù più importante era appunto quella di Giuda: essa abitava la Giudea, la regione ove era situata la capitale Gerusalemme.

Mons. Gianfranco Ravasi: « Predestinazione »

dal sito:

http://www.novena.it/ravasi/2006/272006.htm

MONS GIANFRANCO RAVASI (2006)

“ PREDESTINAZIONE ”
Ci ha scelti prima della creazione de! mondo…, predestinandoci a essere suoifig!i adottivi. (Efesini 1,4-5)


La parola “predestinazione” trascina spontaneamente nella convinzione comune il rimando a uno dei maggiori esponenti della Riforma protestante, il francese Giovanni Calvino (1509-1564), che effettivamente elaborò su questo tema una sua dottrina destinata ad avere articolazioni successive molto complesse, soprattutto nei suoi discepoli, e a suscitare contrasti veementi. In realtà, la questione ha le sue radici nel Nuovo Testamento e si connette a una serie ditemi affini come quelli dell’elezione, della grazia, della vocazione e della libertà. Il passo paolino che più funge da riferimento è nell’inno posto in apertura alla Lettera agli Efesini (1,3-14).

Là si usa un verbo greco pro-orizein che letteralmente significa “determinare in anticipo i confini”, di una realtà o di un evento. Siamo, quindi, in presenza di un “progetto”, di un piano divino (in greco pròthesis) che scaturisce dalla volontà di salvezza di Dio Padre, attuata in Cristo Gesù (in greco eudokia). Tutte queste parole echeggiano proprio nelle frasi centrali di quell’inno:
«Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo… predestinandoci (pro-orizein) a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito (eudokia) della sua volontà… In Cristo siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati (pro-orfzein) secondo il piano (pròthesis) di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà» (1,4-5.1 1).

C’è, dunque, un grande disegno divino, concepito fin dall’eternità: in esso Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Timoteo 2,4). È questa la volontà salvifica universale di Dio: «Dio non ci ha predestinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (1 Tessalonicesi 5,9). Si tratta, dunque, di un progetto gratuito ed efficace, eterno e certo, per cui tutti sono chiamati a essere nella luce, nella gloria e nella dignità dei figli di Dio stesso. Questo, però, non significa che nella storia Dio salverà tutti gli uomini, prescindendo dalla loro libertà perché smentirebbe sé stesso che ha creato l’umanità dotata di libera scelta.

Dio salverà certamente — ed era questo il suo “progetto” quando creò l’uomo — quanti non si oppongono coscientemente, deliberatamente, ostinatamente alla sua eudokia, alla sua “buona volontà”, al suo amore salvatore. La “predestinazione”, intesa in questo senso biblico, esalta quindi e non penalizza la creatura libera, rendendo l’uomo un autentico interlocutore di Dio e, con lui, arbitro e signore del suo destino ultimo. Grazia e fede si devono, quindi, intrecciare perché il “progetto”, la pròthesis divina si attui: «Dio vi ha scelti come primizia per la salvezza attraverso l’opera santificatrice dello Spirito e la fede nella verità» del Vangelo (2 Tessalonicesi 2,13).

La visione calvinista era, invece, più rigida: il disegno eterno e imperscrutabile di Dio predestina alcuni a ricevere la grazia salvifica di Cristo in modo così efficace da essere in condizione di non potersi opporre alla volontà divina. Tutto questo era sostenuto per esaltare il primato assoluto di Dio e della sua grazia sopra la libertà umana. In realtà Dio è così grande da non essere umiliato nel rispettare la libertà della creatura, peraltro da lui voluta. È in questa luce che devono essere interpretati i passi biblici sulla “predestinazione”: tra di essi suggeriamo la lettura del bellissimo paragrafo di Romani 8,28-30.

LE PAROLE PER CAPIRE

SICOMORO – Questo albero, coltivato dal profeta Amos, fa parte della vegetazione subtropicale. Originario dell’Egitto, ha un nome di origine greca che significa “fico a forma di mora”, forse a causa della configurazione dei suoi frutti. Dalle sue cortecce si ricavava una sorta di sughero. È divenuto celebre nel racconto di Zaccheo, “capo dei pubblicani”, salito a Gerico su un sicomoro per vedere Gesù (Luca 19,1-10).

RICAPITOLARE – Questo verbo presente nell’inno di apertura della Lettera agli Efesini (1,10), contiene la parola greca kefalé/kefàlaion che indica o la testa, per cui Cristo è il capo di tutto l’essere creato e in particolare della Chiesa, oppure l’asse attorno a cui si avvolgeva il rotolo scritto di pergamena, così da considerare Cristo come colui che “ricapitola” in sé ogni cosa, dando significato a tutta la realtà.

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