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FIN DALL’INFANZIA UN VOLTO COMINCIA A SVELARSI – Gianfranco Ravasi

http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01071997_p-12_it.html

« E VOI, CHI DITE CHE IO SIA? »

FIN DALL’INFANZIA UN VOLTO COMINCIA A SVELARSI

Gianfranco Ravasi

«Il Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione dei suoi discepoli di fronte alla domanda: Ma voi, chi dite che io sia?». Queste parole, che raffigurano in modo limpido e immediato ogni esperienza di incontro e di scontro con Cristo, sono di uno scrittore che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, Mario Pomilio, che le ha poste all’interno del suo Quinto evangelio. Ebbene, quella domanda affiorata sulle labbra di Gesù a Cesarea di Filippo non attraversa solo i secoli ma riecheggia nell’intimità di ogni persona. E la risposta è data in mille forme, talora sorprendenti, altre volte sconcertanti. A me ha sempre fatto impressione quella che Kafka ha offerto all’amico Gustav Janouch: «Cristo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi».

Modesta e marginale, la mia testimonianza – come per quella di altri – può risultare impacciata proprio perché la domanda artiglia la coscienza nel suo segreto e « pesca » in quella profondità dove domina il silenzio personale, l’intimità, forse anche l’inesprimibile. Due considerazioni sono, però, possibili e immediate. Innanzitutto la mia esperienza è quella di un credente e di un sacerdote, cioè di una persona che ha pur sempre coinvolto se stessa, la sua identità, la sua vicenda umana intrecciandola con quella di Gesù Cristo. In questa dimensione l’elemento fondamentale è paradossalmente esterno all’ « io » del testimone. È illuminante in questo senso Paolo quando descrive la sua « via di Damasco » usando due verbi di rivelazione e uno di lotta: «Cristo è apparso anche a me (…) Dio si degnò di rivelarmi suo Figlio (… )Sono stato afferrato da Cristo Gesù» (Corinzi 15,8; Galati 1,16; Filippesi 3,12).

Detto in altri termini, all’inizio dell’incontro con Cristo c’è « un’epifania », cioè non la mia ricerca ma il suo apparire. Per questo un filosofo credente come Soeren Kierkegaard alla data 16 agosto 1839 del suo Diario invocava: «Gesù, vieni in cerca di me sui sentieri dei miei travisamenti ove io mi nascondo a te e agli uomini!». Nella mia esperienza interiore c’è proprio questo svelarsi del divino non tanto su una via folgorata dalla voce celeste, come per Paolo, quanto piuttosto in una serie di pacate e delicate « epifanie » che affiorano fin dall’infanzia. E curiosamente esse si insediano in uno spirito che portava con sé – allora in forma intuitiva ed esile – già un senso intenso della fragilità della vita e delle cose, del fluire del tempo e dell’inconsistenza della realtà.

Davanti a un frutto che si decomponeva, al fischio di un treno che lacerava la notte e si spegneva, al primo incontro con la morte, alle sofferenze della guerra, al padre assente perché perseguitato politico, nel mio animo infantile non cresceva la desolazione o la tristezza naturale ma lentamente si configurava quell’ « epifania » inattesa e ancora informe. È stato ancora Paolo a farmi capire in seguito questo contrasto e la sua pacificazione quando, stupendosi lui stesso delle parole di Isaia (« il profeta osa dire ») scriveva questa « confessione » divina: «Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non si rivolgevano a me!» (Romani 10,20). Prima della risposta alla domanda « Ma voi, chi dite che io sia? », Cristo aveva per me (e per tutti) già detto chi egli realmente fosse.

In principio c’è, dunque, la sua parola che ti scuote e sconcerta. Certo è sempre possibile rivolgere altrove lo sguardo e ostruire l’orecchio con altre voci e suoni e questa è pure una storia mia e un po’ di tutti nell’itinerario degli anni, nei percorsi non sempre lineari della vita. Per questo ritengo altrettanto capitale un’altra domanda di Gesù, quella di Cafarnao. Essa è diventata il titolo di una « vita di Cristo » di un altro scrittore a me particolarmente caro, Luigi Santucci: Volete andarvene anche voi? E’ un interrogativo che viene fatto serpeggiare tra i discepoli proprio dopo una grande « epifania », quella della continua presenza di Cristo sotto il segno del pane e del vino eucaristici. Un interrogativo che non sempre ha la pronta replica di Pietro: «Da chi mai andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!». Tuttavia anche se si va altrove, Cristo non cessa di seguirci, con discrezione o con insistenza. Quando in seguito mi dedicai allo studio teologico, mi fece impressione una frase di Dietrich Bonhoeffer, il teologo ucciso dai nazisti, che nella sua Cristologia annotava: «Cristo non è tale in quanto Cristo-per sé, ma nel suo riferimento a me. Il suo esser-Cristo è il suo esser-per me».

Nella mia storia personale c’è, però, una seconda dimensione che devo mettere in luce ed è quello dell’essere stato un esegeta, cioè uno studioso delle Scritture Sacre e quindi delle parole evangeliche di Cristo. Già da ragazzo – avevo cominciato a studiare il greco da solo subito dopo le scuole elementari – mi avevano affascinato quelle 64327 parole greche che compongono i quattro Vangeli. In seguito quei versetti furono da me sempre più approfonditi; scoprivo nuove iridescenze in ogni termine e lentamente si configurava un profilo di Cristo che coniugava in sé due fisionomie. Da un lato, c’era la figura di Gesù di Nazareth, il rabbì ambulante le cui labbra dicevano cose sorprendenti ma in una lingua « barbarica » e concreta, le cui mani compivano gesti straordinari ma non « pubblicitari », i cui piedi seguivano una meta grandiosa e celeste ma calpestavano le polverose strade della Palestina, i cui interlocutori erano spesso un’accolta di miserabili o di altezzosi burocrati del sacro e della legge e persino dei traditori. Mi ha a lungo interessato – per usare una terminologia più « tecnica » – il Gesù storico, così come è rintracciabile attraverso l’analisi critica dei testi evangelici.

D’altro lato, però, c’è la figura di Cristo, Figlio di Dio, che offre un volto illuminato dallo splendore della Pasqua. I Vangeli sono innanzitutto un canto al risorto che sboccia dall’incontro con lui, dalla fede e dall’annuncio gioioso. Mi sono, perciò, impegnato nel sottolineare, anche attraverso i miei scritti, le conferenze e una quasi decennale presenza televisiva, questo aspetto che in passato era talmente dominante da diventare esclusivo, così da cancellare il volto storico di Cristo, ma che in questi ultimi tempi è stato quasi messo tra parentesi. Prima una certa visione « sociologica », poi una concezione storicistica e apologetica si è protesa a dimostrare il Gesù storico, nella convinzione che solo così si fondasse la vera Cristologia. Ebbene, Gesù Cristo è uno ma in due nature; ogni divisione lo impoverisce e lo allontana. Egli è uno di noi e con noi ma è anche oltre noi e sopra di noi. E’ per usare il vocabolario di Giovanni, Logos, « parola » perfetta e suprema divina, ed è sarx, « carne » e storia. Conservare l’unità di Gesù Cristo, senza scindere la sua persona in un Gesù nazaretano e in un Cristo pasquale è un compito importante di chi annunzia il Vangelo con fedeltà.

Lo studio esegetico, perciò, non è un freddo esercizio filologico (anche se suppone uno scavo nel testo con rigore e finezza). E’ anche un’avventura del nostro spirito che è invitato a rispondere alla domanda di Cesarea da cui siamo partiti. Mi è sempre piaciuta una frase del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein: «Ho voluto indagare i contorni di un’isola; ma ciò che ho scoperto sono i confini dell’Oceano». Si comincia conoscendo un linguaggio concreto, una figura datata e circoscritta a quell’antica provincia dell’Impero romano, eventi e dati storici, ma alla fine ci si accorge che quella persona è immersa nell’Oceano della divinità, è appunto « il Cristo, il Figlio del Dio vivente », come rispose in quel giorno Pietro, figlio di Giona.

(Cenni biografici – Gianfranco Ravasi, nato nel 1942, sacerdote della diocesi di Milano dal 1966, è Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, docente di esegesi Biblica alla facoltà Teologica dell’Italia settentrionale e membro della Pontificia Commissione Biblica. Scrittore prolifico, è autore di numerosissimi libri e di trasmissioni televisive. cura la rubrica « Mattutino » nella prima pagina del quotidiano Avvenire).

GIANFRANCO RAVASI. LA SUA VERA CARNE TRASFIGURATA – SULLA TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

http://kairosterzomillennio.blogspot.it/2012/02/omelie-sulla-trasfigurazione.html

GIANFRANCO RAVASI. LA SUA VERA CARNE TRASFIGURATA – SULLA TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE

«Il Cristo glorioso non cancella la verità dell’Incarnazione». Pubblichiamo la relazione del prefetto della Biblioteca Ambrosiana al convegno sul “Volto dei volti” che si è tenuto nell’ottobre 2001 alla Pontificia Università Urbaniana.
La nostra sarà una lettura particolare della scena della Trasfigurazione. La considereremo, infatti, come un vero e proprio “dramma” nel senso originario del termine. Struttura, svolgimento, attori, scansioni temporali fanno sì che l’evento sia capace di riproporsi davanti ai nostri occhi nella sua azione e nel suo messaggio con una sua efficacia rappresentativa. I dati del testo – che, come è noto, ci è offerto nella triplice redazione sinottica (Mt 17,1-9; Mc 9,2-10; Lc 9,28-36)1 – saranno da noi ricomposti secondo una trama affidata a sette personaggi che, a livelli diversi e secondo ruoli differenti, reggono l’intero “dramma”.
Gesù, il protagonistaE proprio perché una rappresentazione solenne ha bisogno di una sua colonna sonora ideale, noi subito proponiamo come filo musicale un oratorio moderno, quello che Olivier Messiaen ha composto tra il 1965 e il 1969 per coro misto, sette solisti strumentali e una grande orchestra (alla prima furono in tutto 216 esecutori!), intitolandolo La Transfiguration de Notre-Seigneur Jésus Christ2. Eseguita per la prima volta il 7 giugno 1969 a Lisbona in occasione del festival Gubelkian e il 29 ottobre dello stesso anno al Palais de Chaillot di Parigi, quest’opera è simile a una grandiosa cattedrale armonica (dura almeno un’ora e mezzo). Complessa nella sua articolazione in due settenari eppure lineare nella sua monumentalità, essa si basa sul racconto matteano della Trasfigurazione oltre che sui testi liturgici e persino su citazioni dellaSumma Theologiae di Tommaso d’Aquino – tutti rigorosamente in latino –, ma anche con evocazioni strumentali esotiche (cembali turchi, crotali, marimba, gong, tamtam, xilorimba, vari strumenti folclorici e così via). Il tutto sfocia nel corale finale della luce della Gloria, basato sul Salmo 26,8: «Signore, io amo la bellezza della tua casa e il luogo ove abita la tua gloria!». E Messiaen commenta: «La Gloria ha abitato la montagna della Trasfigurazione, la Gloria abita il Santo Sacramento delle nostre chiese, la Gloria abiterà l’eternità».
E se proprio non ci sarà possibile avere a disposizione un così monumentale commento musicale, basterà ricorrere alla più semplice ma deliziosa composizione per pianoforte di Franz Liszt, intitolata appunto In festo Transfigurationis Domini nostri. Come fondale per il nostro “dramma” è difficile non pensare subito alla celebre tela di Raffaello conservata ai Musei Vaticani (1520), ma anche all’affresco del Beato Angelico nel convento fiorentino di San Marco (1441), ad Andrej Rubliov, con la sua icona della Metamorfosi (1405), a Giovanni Bellini con una tela (1480) presente a Napoli nella Galleria di Capodimonte. Tanti altri pittori, però, ci offrono la possibilità di creare lo sfondo ideale di questa scena. Uno sfondo che può essere costituito anche da una foto di quella vetta che tradizionalmente è identificata come il monte anonimo della Trasfigurazione evangelica, cioè il Tabor, con i suoi 582 metri e con il profilo della basilica francescana eretta dall’architetto Antonio Barluzzi tra il 1919 e il 1924. Ma ormai è giunto il momento di introdurre il primo personaggio, il protagonista.
Egli dominerà per tutto lo svolgimento del “dramma” ed è subito presentato col suo nome proprio Iesous4 scandito quattro volte nel la redazione marciana (Mc 9,2.4.5.8). A lui saranno destinati altri titoli solenni che sono proposti nel prosieguo del racconto e nell’apparire dei vari attori dell’evento. Per ora ci accontenteremo di segnalare il trittico terminologico che è messo in bocca a un altro personaggio della Trasfigurazione, Pietro. Egli si rivolge a Gesù interpellandolo comeKyrie, “Signore”, secondo Matteo (Mt 17,4): è il riconoscimento della signoria suprema di Cristo sull’essere e sulla storia, ma è anche – allusivamente – il rimando alla divinità se è vero che nella Bibbia greca cristiana il nome sacro JHWH di Dio era reso proprio con Kyrios (cfr. Fil2,9-11). Gesù è invocato da Pietro secondo Marco (Mc 9,5) come rabbì, che nella sua radice ebraico-aramaica (rab, “grande”) ricalca il titolo precedente, ma che si carica pure della connotazione di “maestro” supremo della verità di Dio. E infine, secondo Luca (Lc 9,33), Gesù èepistáta (vocativo di epistátes), un appellativo peraltro caro al terzo evangelista (Lc 5,5; 8,24.45; 9,49; 17,13). Il termine può essere considerato come la resa greca del precedente rabbì: al concetto di “maestro” si intreccia quello del primato, della superiorità, della reggenza o ispezione. In questa luce potremmo dire che il trittico dei titoli cristologici converge nell’attribuire a Gesù la signoria non solo all’interno della scena della Trasfigurazione, ma anche sulla ribalta della storia intera e della verità (in pratica potremmo pensare al francese “maître” che in sé ingloba la funzione di “signore, padrone” e quella “magisteriale”).
Il ritratto di Gesù, comunque, sarà completato, anzi colto nella sua identità più intima e profonda dall’ultimo personaggio, come avremo occasione di vedere. Gli esegeti, infatti, sono concordi nel ritenere che la finalità ultima della scena è proprio quella di svelare la persona di Cristo come signore della gloria, maestro, figlio di Dio e la sua missione di profeta e legislatore perfetto e definitivo. In questa luce dobbiamo raccogliere una serie di particolari. Iniziamo con la collocazione spaziale della sua figura sul “monte alto” (Mt 17,1; Mc 9,2), un’evocazione anche simbolica non priva di una certa allusività biblica: come non pensare a una specie di Sinai galilaico o al monte dell’apparizione pasquale galilaica di Matteo (Mt 28,16)? C’è, poi, una coordinata temporale esaltata da Marco (Mc 9,2) e da Luca (Lc 9,28): secondo Marco è «dopo sei giorni» che si celebra l’evento, quindi siamo nel settimo giorno pasquale, mentre per Luca è l’«ottavo giorno», forse un modo di stampo più greco-romano per formulare la stessa idea di una pienezza temporale pasquale già raggiunta.
Non per nulla, anche se non si può pienamente rintracciare nel nostro evento lo schema delle apparizioni pasquali, è certo che la “metamorfosi” (Mt 17,2; Mc 9,2; Luca evita il termine per non creare equivoci nei suoi lettori abituati alle “metamorfosi” degli dèi sotto aspetto umano, come insegna Ovidio) è una cristofania in cui Gesù appare aureolato dalla luce pasquale. Infatti è il suo Volto immerso nello splendore (Mt 17,2) e divenuto “altro” nel suo aspetto (Lc 9,29) ed è la sua veste divenuta candida in modo sorprendente (è famoso il “tratto” di Marco, Mc 9,3) a segnalare la gloria della Pasqua e l’eternità divina. Persino François Rabelais, nel capitolo X del suo celebre Gargantua(1534), scriveva: «Il bianco significa gioia, giubilo, festa… Nella Trasfigurazione di Nostro Signore vestimenta eius facta sunt alba sicut lux e questo candore luminoso fece intuire ai suoi tre apostoli presenti, Pietro, Giacomo e Giovanni, l’idea e la sostanza delle gioie eterne»3. Intrecciando, dunque, elementi pasquali e apocalittici, evocando con la nube – che è segno della presenza divina esodica (Mt 17,5; Mc 9,7; Lc9,34), la teofania sinaitica (Es 19,9; 24,15-16; 33,9) sulla quale ritorneremo – si ha un profilo di Gesù dai contorni epifanici. A metà del suo itinerario terreno Cristo svela il suo autentico Volto, per ora celato sotto i lineamenti dell’uomo di Galilea. Non per nulla si parla di una “visione” (oftê in Mt 17,3; Mc 9,4; cfr. Lc 9,31 e Mt 17,9: si tratta del verbo tipico delle apparizioni pasquali, anche se ora non è applicato direttamente a Gesù).
Esiste però un altro particolare da segnalare per completare il ritratto del protagonista. È Luca, come sua consuetudine, a indicarlo quando annota che Gesù sale sul monte a pregare ed è durante la preghiera che si apre la visione. È noto che il terzo evangelista colloca gli eventi capitali della vita di Cristo in un contesto orante: è emblematica la scena del battesimo al Giordano (Lc 3,21), per molti versi analoga a quella della Trasfigurazione. Potremmo allora dire che l’evento che si consuma sul monte avviene nella cornice quasi di un’estasi mistica che è rivelazione e incontro con il mistero di Dio. Non per nulla gli spettatori resteranno abbacinati e avranno bisogno, alla fine, del tocco di Gesù (Mt 17,7) per essere riportati alla quotidianità. E in quel momento essi incontreranno autòn Iesoun mónon (Mt 17,8; cfr. Mc 9,8; Lc 17,36): è il solo Gesù che alla fine campeggia in tutta la scena, come era accaduto agli inizi. Ma là, dopo la cristofania, la sua sarà un’unicità simbolica che fa eclissare ogni altra presenza, pur grandiosa, come è quella di Mosè ed Elia. Lui solo ci basterà, lui solo sarà la meta verso cui convergerà il nostro “ascolto” – obbedienza (Mt 17,5; Mc 9,7; Lc 17,35).
  I TRE SPETTATORI, PIETRO, GIACOMO E GIOVANNI alla solenne epifania del protagonista assistono tre attori che nei Vangeli hanno un rilievo particolare. È un gruppo privilegiato che, a più riprese, riveste una posizione eminente così da costituire, come ha osservato un esegeta, Joachim Gnilka4, «i portatori speciali della rivelazione di Cristo». Nella stessa lista dei Dodici emerge questa specie di primato: «Simone, al quale impose il nome di Pietro; poi Giacomo di Zebedeo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanerghes, cioè figli del tuono» (Mc 3,16-17). Ad assistere alla risurrezione della figlia di Giairo Gesù «non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo» (Mc 5,37). Anche nella notte tenebrosa del Getsemani egli «prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni…» (Mc 14,33).
Nel nostro racconto l’elencazione ha qualche variante: Pietro, Giacomo e Giovanni (Mt 17,1; Mc 9,2); Pietro, Giovanni e Giacomo (Lc 9,28). Ciò che permane è il primato di Pietro (cfr. Mt 10,2) che anche nel nostro “dramma” ha la funzione di portavoce. Infatti è sua l’unica dichiarazione che sale dalla terra incrociandosi con quella celeste: “kyrie, rabbì,epistáta, è bello per noi essere qui”; ad essa segue, con variazioni lievi secondo i tre Sinottici, la proposta di erigere tre tende, una per ciascuno dei tre attori della teofania, Gesù, Mosè ed Elia. Non è nostro compito, in questa sede, cercare le ragioni di una simile reazione che, tra l’altro, è bollata come insensata da Marco (Mc 9,6), né isolarne la matrice simbolica o sinaitica o legata alla solennità delle Capanne (Lv 23,42; Zc14,16-19) o alle «dimore eterne» (Lc 16,9). Evidentemente le parole di Pietro sono segnate da un equivoco: il discepolo vorrebbe trattenere per sempre quella pregustazione della beatitudine celeste, evitando così la sequela della via della croce e cancellando la Passione e la Morte. I tre, infatti, sono avvolti dalla nube luminosa teofanica, partecipano quindi dell’intimità divina e, dopo aver ascoltato la voce celeste, sono prostrati a terra e pervasi dal timore (Mt 17,6-7) tipico delle esperienze epifaniche (Lc 1,12; 1,29; 2,9; 5,10; 8,35). Sono questi i tratti caratteristici delle “apocalissi” divine (Dn 8,17; 10,9-10; Ap 1,17).
I tre discepoli, perciò, vivono sul monte un vero e proprio ingresso nel trascendente e nel mistero, ed è Gesù a riportarli col suo tocco e con il suo appello a “non temere”, classico nelle teofanie, alla storia nella quale si deve compiere l’itinerario dell’Incarnazione. Una storia che comprende, appunto, la sofferenza (Mt 17,12) e la morte (Mt 15,23). Di quell’esperienza esaltante, comunque, rimarrà l’eco nel cuore di Pietro, come è attestato da un passo della seconda Lettera che la tradizione ha attribuito all’apostolo: «… noi siamo stati testimoni oculari della grandezza [del Signore nostro Gesù Cristo]. Egli ricevette onore e gloria da Dio Padre quando dalla maestosa gloria gli fu rivolta questa voce: “Costui è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”. Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte…» (2Pt 1,16-18).
I DUE GRANDI TESTIMONI, MOSÈ ED ELIA Al centro dell’epifania che ha per protagonista Gesù si collocano anche due grandi testimoni della Prima Alleanza, anzi, «gli estremi mediatori dell’Alleanza: rappresentano l’inizio e la fine della storia che si adempie in Gesù, giudice escatologico» (così scrive un commentatore del Vangelo di Matteo, Jean Radermakers5).
Curiosamente Marco inverte i due personaggi, forse per rimarcare la tipologia profetico-eliana con cui spesso è tracciato il Volto di Gesù nei Vangeli. L’ordine storico-tradizionale anticipa, comunque, la figura di Mosè, il legislatore del Sinai. Infatti, se si segue la guida dell’Esodo fino al Sinai, ci si accorge che non mancano allusioni possibili presenti nella nostra scena. Anche Mosè sale il monte accompagnato da tre discepoli scelti, Aronne, Nadab e Abiu (Es 24,1.9); anche nella teofania del Sinai c’è la menzione dell’ultimo giorno, quando Dio chiama Mosè (Es 24,16). La nube e il fuoco, simili alla nube luminosa della Trasfigurazione, appaiono come segno della Gloria del Signore (Es 24,16-17). E anche Mosè, come Cristo, avrà il volto risplendente dopo essere stato in comunicazione con Dio (Es 34,29).
Se Mosè è per eccellenza l’incarnazione della legge divina che egli rivela a Israele, Elia rappresenta la profezia che da lui prende idealmente l’avvio. Una profezia che è letta dal Nuovo Testamento come un indice puntato verso Cristo, tanto è vero che subito dopo la Trasfigurazione, «mentre discendevano dal monte», Gesù dichiara che «Elia è già venuto» e i discepoli comprendono che «egli parlava di Giovanni il Battista» (Mt 17,12-13). Elia, perciò, è il Precursore per eccellenza con la sua parola. Ma lo è anche con la sua morte gloriosa, che si svela come ascensione al cielo (2Re 2,11), anticipando quella di Cristo. Anzi, in questa prospettiva anche Mosè può essere coinvolto perché la sua morte dal sepolcro misterioso (Dt 34,5-6) è stata interpretata dalla tradizione giudaica come un’assunzione nella gloria divina (così l’apocrifo Assunzione di Mosè) e la stessa tradizione giudeo-cristiana (Gd 9) si è mossa in questa linea.
Non per nulla Luca – che è attento a porre come meta della vita di Cristo l’ascensione (cfr. Lc 9,51; 24,50-51; At 1,9-11) – nel suo racconto della Trasfigurazione introduce anche il tema del dialogo di Gesù con Mosè ed Elia che «appaiono nella gloria»: essi parlano dell’«éxodos che [Cristo] stava per portare a pienezza [pleroun] in Gerusalemme» (Lc9,31). Si delinea, così, l’esaltazione gloriosa del Risorto; la croce che attende Cristo e la sua morte sfociano nell’Ascensione, cioè nell’ingresso nell’orizzonte dell’eternità, dell’infinito e del divino. Un ingresso che era stato indicato dalla fine di Mosè ed Elia e che è attuato in pienezza (pleroun) da Gesù risorto ed esaltato nella gloria. Siamo ormai giunti alle soglie dell’ultimo atto del “dramma” della Trasfigurazione. Ora sarà dal cielo che si affaccerà l’ultimo personaggio a suggellare l’evento, rivelandosi come l’altro protagonista con Gesù.
IL PROTAGONISTA FINALE IL PADRE A decifrare in modo pieno il profilo del primo protagonista, Gesù, e a sciogliere l’enigma della scena della Trasfigurazione è una presenza-assenza, quella del Padre, il protagonista finale che pone il suggello all’intero “dramma” presentandosi con la sua voce. La sua parola è segno di trascendenza (il suo Volto, infatti, non appare), ma anche di vicinanza e di comunicazione. Essa ha come scopo quello di delineare il ritratto perfetto del Cristo elaborato attraverso il ricorso alle Scritture. È pure evidente che questo intervento rende la Trasfigurazione parallela al battesimo ove la stessa voce divina aveva solennemente presentato al mondo Gesù come figlio prediletto e inviato dal Padre (Mt 3,17; Mc1,11; Lc 3,22). Le dichiarazioni dei Sinottici nella Trasfigurazione riflettono sostanzialmente due schemi.
Lo schema di Matteo (Mt 17,5) ingloba anche la formula di Marco (Mc9,7) ampliandola: «Costui è il Figlio mio amato nel quale mi sono compiaciuto». C’è innanzitutto il profilo messianico del Figlio sulla scia del Salmo 2,7; c’è la proclamazione della sua unicità e predilezione divina con riferimento anche a Isacco, il figlio amato e sacrificato (Gn22,2); c’è il compiacimento che è adesione, approvazione, esaltazione con rimando al Servo sofferente del Signore «nel quale Dio si compiace» (Is 42,1). Ora l’altra formula, quella di Luca (Lc 9,35), si fissa maggiormente su quest’ultimo tratto: «Costui è il mio Figlio, l’eletto», espressione che ricalca proprio Is 42,1: «Ecco… il mio eletto in cui mi compiaccio»6. Dunque in tutti i Sinottici, sia pure con accenti diversi, il Padre rivela che il Figlio sarà glorificato, ma attraverso la via della sofferenza. Gesù è intronizzato nella sua persona divina, ma anche nella sua missione salvifica.
Il Padre, perciò, completa il ritratto del Volto di Cristo che è certamente Signore, rabbì, maestro, culmine della legge e della profezia, ma che è soprattutto Figlio e Salvatore. Verso di lui deve convergere tutta la scena e l’adesione dei tre spettatori che incarnano i discepoli dell’intera storia cristiana. L’imperativo finale: «Ascoltatelo!» non è solo l’appello a rivolgersi a Cristo come al profeta definitivo, secondo la rilettura messianica del Deuteronomio (Dt 18,15.19): «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto… Se qualcuno non ascolterà le parole, che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto». L’imperativo del Padre è un invito anche all’obbedienza piena al Figlio costituito come Signore della storia. Allora, come scriveva un esegeta, H. Baltensweiler, in un saggio dedicato proprio alla Trasfigurazione, «il vero discepolato di Gesù Cristo non consiste in una qualche insensata attività e in una vuota intraprendenza, quale quella che vediamo nei discepoli quando vogliono costruire le capanne, ma soltanto nell’ascolto adeguato del Kyrios, il Gesù trasfigurato»7.
Al centro della scena, dunque, si erge il Figlio intronizzato dal Padre. Quel Figlio che non perde la sua umanità facendola svaporare nella teofania. Alla fine egli, come si è visto, tocca per mano (Mt 17,7) i tre apostoli spettatori, avvicinandosi a loro, cancellando il loro timore sacro e ridiscendendo con loro le pendici del monte per ritornare a percorrere le valli e le pianure della storia ove si annida il male e il demoniaco (Mt17,14-21; Mc 9,14-29; Lc 9,37-42) e per puntare verso Gerusalemme, la città della sofferenza e della morte, ma anche dell’“esodo” (Mt 17,22-23; Mc 9,30-32; Lc 9,44-45). Giustamente Beda il Venerabile commentava: «Transfiguratus Salvator non substantiam verae carnis amisit»8, il Cristo glorioso non cancella la verità dell’Incarnazione. E noi abbandoniamo con lui la vetta del “monte alto” rievocando le sette presenze che hanno popolato quello spazio che è mistico e geografico, cioè trascendente e storico. Ecco per primo Gesù, Signore, rabbì, maestro, legislatore, profeta, Figlio unigenito e Servo sofferente. Ecco poi la Prima Alleanza con Mosè ed Elia, e i discepoli della Nuova, Pietro, Giacomo e Giovanni. Ed ecco, alla fine, il Padre che pone il primo protagonista Gesù di nuovo al centro della scena.

NOTE SUL SITO

Paolo filosofo nascosto – Giuseppe Barbaglio – Di Gianfranco Ravasi

http://www.giuseppebarbaglio.it/

RELIGIONE

Un saggio sul pensiero dell’Apostolo: per capirlo non resta che affidarsi alle sue «Lettere»: più che sistematicità si scoprirà una coerenza nella interpretazione del Vangelo

PAOLO FILOSOFO NASCOSTO

Gramsci l’aveva sbrigativamente definito «il Lenin del cristianesimo» e Nietzsche un «disevangelista». Nel suo discorso emerge la prospettiva di un cambio di mentalità

Di Gianfranco Ravasi

Chi prende in mano il volume di Giuseppe Barbaglio può forse credere di essere davanti all’ennesimo profilo della teologia di Paolo sul modello, per esempio, del sostanzioso e importante saggio dell’inglese James D. G. Dunn, La teologia dell’apostolo Paolo, tradotto da Paideia nel 1999. Il titolo e il programma dell’opera subito ci fanno capire che c’è qualcosa di diverso, anche perché lo stesso esegeta aveva già pubblicato una Teologia di Paolo, riedita dalle Dehoniane nel 2001. Il suo progetto non è quello di identificare a livello sincronico il piano teologico dell’Apostolo, isolandone il fulcro portante (Cristologia? Giustificazione per la fede? Mistica? Mistero pasquale? Tensione apocalittica verso il trionfo finale divino?…), ma di inseguire il suo « pensare » elaborato attraverso un processo molto fluido, diacronico, non costretto nello stampo freddo di un sistema né confezionato in un atélier teologico asettico ma sollecitato dalle urgenze e dalle istanze del ministero missionario e pastorale. La « vulgata » inconsciamente prevalente anche in molti cristiani è, infatti, quella di un Paolo freddo ideologo, «padre del sottile Agostino, dell’arido Tommaso d’Aquino, del tetro calvinista, del bisbetico giansenista», del tutto alieno da quel Gesù che è «padre di tutti coloro che cercano nei sogni dell’ideale il riposo delle anime loro», come scriveva enfaticamente Ernest Renan nel suo Saint Paul (1869). Nietzsche l’aveva poi bollato come un « disangelista », ossia l’antitesi di un « evangelista », Albert Schweitzer (sì, il famoso dottor Schweitzer era un teologo prima di essere un filantropo) lo esaltava come «il santo patrono di coloro che pensano» e Gramsci l’aveva sbrigativamente denominato «il Lenin del cristianesimo»! In realtà, Paolo era stato innanzitutto un pastore, un annunziatore e un testimone, anche se spesso i suoi testi erano rimasti quasi esclusivo appannaggio di teologi. Ebbene, Barbaglio vorrebbe cercare di individuare la vera qualità di questo particolare pensatore. È indubbio che quello paolino sia un pensiero teologico che ha un apriori che lo precede e una fonte che lo alimenta: la sua è una razionalità tutta interna alla stanza della fede cristiana, spesso ribadita da quel « sappiamo » che connota la tradizione della fede ancorata alla rivelazione divina. Ma quel pensiero, che pure è nutrito dell’eredità biblica e della stessa cultura grecoromana, secondo Barbaglio non è formulato attraverso un disegno previo e una trattazione conseguente bensì fiorisce attraverso un genere di sua natura « occasionale » come quello epistolare. Si ha, così, un pensare provocato dagli interlocutori (emblematici sono i capitoli 6 e 8 della Prima Lettera ai Corinzi) che diventa provocatorio nei loro confronti, interagendo con le loro istanze ma rappresentando anche quelle dell’Apostolo stesso. Egli, infatti, «intende suscitare in loro un cambiamento di mente e di vita e lo fa con la pienezza della sua autorità di apostolo e di padre della comunità, ma anche affidandosi alle risorse dell’argomentazione e alla funzione illuminante della ragione». Alle spalle di Paolo non c’è, dunque, un progetto antecedente e coerente. Su questa convinzione Barbaglio è radicale e indubbiamente solleciterà reazioni da parte di molti colleghi che coi loro saggi hanno spesso asserito il contrario (ritrovando, per esempio, sotteso alla Lettera ai Romani il nucleo preliminare dell’ideologia paolina). «La teologia di Paolo – scrive, invece, Barbaglio – è la teologia delle sue lettere. Un pensiero teologico dell’apostolo altro da quello presente nelle sue lettere è pura congettura soggettiva, in ogni modo per noi zona oscura e inattingibile». È così che il procedimento adottato dalla riflessione paolina e dalla relativa analisi di Barbaglio non si àncora a un disegno predeterminato ma a una prospettiva ermeneutica: «Il fattore di unità della riflessione di Paolo è piuttosto formale: consiste nel suo metodo di far teologia, nel processo di pensare Dio e Cristo; egli rilegge e ridefinisce i punti nodali della credenza primitiva cristiana, il vangelo nelle sue diverse valenze… Il suo è sempre unitariamente un pensare ermeneutico, teso a comprendere la ricchezze nascoste nel credo protocristiano… La coerenza del pensatore Paolo è di carattere ermeneutico: egli fa emergere le implicazioni dell’eschaton che si è fatto storia in Gesù morto e risorto». Con questa scelta metodologica Barbaglio procede all’identificazione del diagramma teologico in divenire dell’Apostolo, affidandosi obbligatoriamente a due traiettorie estrinseche ormai codificate, anche se non prive di qualche esitazione in sede storico-critica, quelle della selezione delle lettere direttamente paoline (escludendo quelle di « scuola ») e della loro sequenza cronologica. È ovviamente questa la sezione più sostanziosa dell’opera, articolata in dieci tappe che partono dal «vangelo della gratuita elezione divina» (1 Tessalonicesi 1-3) e avanzano attraverso le varie fasi in cui quel vangelo si ramifica e si anima: la croce di Cristo (1 Corinzi 1-4), la libertà dei gentili (Galati), la rivelazione della giustizia divina, la giustificazione e la vita nuova, la fedeltà di Dio a Israele (Romani), la morte e risurrezione di Cristo come primizia (1 Corinzi 15), la vita nello Spirito per approdare alla figura stessa dell’apostolo delineata in relazione al vangelo (2 Corinzi). La lettura di questa pagine, sempre costruite su un’esegesi fine e spesso originale del testo paolino, rivelano in modo inequivocabile la lunga e amorosa assuefazione dell’autore all’epistolario paolino, confermata per altro dalla sua bibliografia. Si ha, così, la possibilità di inseguire un pensiero affascinante nonostante i sentieri di altura che propone e le non poche asprezze e asperità. Naturalmente su alcune opzioni interpretative o sulla ricostruzione evolutiva del pensiero paolino potrà accendersi la discussione tra gli esegeti. Alla fine l’impressione che si ricava è piuttosto paradossale: pur scegliendo di essere un teologo occasionale, epistolare, pastorale, Paolo si rivela un pensatore coerente e capace di delineare un quadro teologico armonico. Certo, decisiva è stata la roccia su cui si è fondato, quella del vangelo di Cristo che lo precede, come consequenziale e cruciale è stata la prospettiva ermeneutica da lui adottata. Tuttavia si ha anche la sensazione di essere in presenza di un pensatore che sapeva tenere ben stretto il filo del suo pensiero, senza perdere di vista da dove era salpato e la meta verso la quale sarebbe approdato. L’opera di Barbaglio segna, comunque, con la sua tesi originale (e tutt’altro che peregrina) e col suo meticoloso vaglio testuale una tappa importante e per certi versi imprescindibile negli studi paolini contemporanei.


Giuseppe Barbaglio
Il pensare dell’apostolo Paolo

PORTARE IL PESO DEL DOLORE – 3: PAOLO E LA MALATTIA – TRATTO DA GIANFRANCO RAVASI

 http://www.fondazionegraziottin.org/pdf/articoli.php?ART_TYPE=SPIRIT&EW_FATHER=17671

AREA DIVULGATIVA – IL DOLORE E LA SPIRITUALITÀ 05/06/13

PORTARE IL PESO DEL DOLORE – 3: PAOLO E LA MALATTIA

TRATTO DA GIANFRANCO RAVASI, PORTARE IL PESO DEL DOLORE, EDIZIONI SAN PAOLO, 2013, P. 29-36

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura
Nella terza parte del volumetto “Portare il peso del dolore”, Gianfranco Ravasi parla della testimonianza che l’apostolo Paolo ha lasciato, nelle lettere, sul suo personale rapporto con la malattia: una testimonianza complessa, perché velata e allusiva, ed espressa – nelle sue  implicazioni spirituali – con frasi che, se non correttamente inquadrate nel messaggio evangelico, rischiano di alimentare opinioni aberranti sulla sofferenza. Ravasi chiarisce come Paolo non parli mai direttamente di malattia, ma di “debolezza” (in greco antico: asthéneia), scegliendo quindi un termine metaforico e al tempo stesso più ampio dal punto di vista semantico: nel concetto di “asthéneia”, infatti, possono rientrare i mali fisici ma anche quelli morali, il più minaccioso dei quali, nella logica biblica e cristiana, è rappresentato dall’orgoglio dello spirito, dalla presunzione di autosufficienza, dall’illusione di poter fare a meno di Dio. In questo contesto, e solo in questo contesto, la malattia può assumere una valenza positiva e Paolo può arrivare a dire «Quando sono debole, allora sono forte», rallegrandosi del fatto che Dio non lo liberi dal “pungiglione” che lo tormenta: perché, osserva Ravasi, «l’annunzio evangelico nella sua efficacia non è frutto solo di strategie umane», e quella malattia che impedisce a Paolo di essere missionario a tempo pieno lo obbliga a restare con i piedi per terra, a non insuperbire e a coltivare la consapevolezza che l’efficacia dell’annuncio evangelico – nell’ottica di fede propria del credente – è in ultima analisi nelle mani di Dio.Questa lettura arricchisce quanto osservammo nel luglio 2011, introducendo l’articolo di Luciano Manicardi su “Bibbia e sofferenza: quando una cattiva traduzione alimenta una spiritualità deviata”. Allora scrivevamo: «La celebre frase di Paolo contenuta nella seconda lettera agli abitanti di Corinto: «Quando sono malato, allora sono forte» (…) non significa che, in sé, la malattia sia sorgente o espressione di forza, e che vada dunque vista come un fatto positivo della vita, ma che – assunte nella fede in Cristo – la malattia, la sofferenza, e persino una preghiera di guarigione inesaudita, non hanno l’ultima parola sulla speranza dell’uomo». In quel brano la prospettiva era individuale ed esistenziale; in questo, si allarga alla missione dell’uomo nella società. E avvertendoci che non tutto, nella vita, è sotto il nostro controllo, esprime una verità antropologica che, trascendendo ogni assunto di fede, ci riconduce alla nostra reale dimensione di esseri contraddistinti dal limite: nel lavoro come nell’impegno sociale, nella salute come nella malattia, nella ricerca di noi stessi come nelle relazioni interpersonali.Fermiamoci qui, rispetto alle molteplici suggestioni che potrebbero affiorare attorno a una teologia cristiana della malattia, e puntiamo invece a offrire un piccolo contributo che forse comprende anche una curiosità, ma che si apre a una considerazione spirituale. Intendiamo della malattia sia in lui del tutto assente, sostituito da quello più metaforico dell’asthéneia, cioè della debolezza. Infatti ai Galati (4,13-14), ad esempio, confessa: «Sapete che a causa di un’infermità (asthéneia) fisica annunciammo il vangelo a voi per la prima volta; e per quello che costituiva per voi una prova nel mio fisico non dimostraste disprezzo né nausea, ma accogliesteme come un inviato di Dio, come Gesù Cristo stesso». Paolo, dunque, evoca gli esordi della sua predicazione in Galazia; nonostante la debolezza del suo fisico, fu accolto con grande affetto e solidarietà da quei cristiani con i quali poi avrà un rapporto difficile («Galati stolti», li apostrofa nella lettera). E questo avvenne perché essi manifestarono un’amicizia tale da essere pronti a «cavarsi gli occhi» per lui (4,15). La frase, che forse è uno stereotipo anche a noi noto, può però essere forse – secondo alcuni esegeti – un’allusione a una possibile sindrome oftalmica. Sta di fatto che lo stato di debolezza dell’Apostolo diventa a suo modo una forma di testimonianza: essa genera accoglienza calorosa non solo del malato, ma anche della sua parola. Si noti, infatti, l’iperbole della frase «accoglieste me come un inviato di Dio, come Gesù Cristo stesso». La malattia è, dunque, vista non come un ostacolo, bensì come un sostegno all’annunzio evangelico. Il pensiero può correre – per un’eventuale attualizzazione – alla figura di Giovanni Paolo II, tormentato nel corpo, stravolto nel viso, reso muto nel linguaggio, ma capace di essere un’icona vivente della Parola crocifissa. Analoga testimonianza mi è caro rievocare attraverso la memoria di padre David Maria Turoldo: dopo che “il mostro” del cancro gli si era insediato nelle viscere assottigliandogli il corpo, la voce e il tempo di vita, egli aveva iniziato un ancor più vigoroso annunzio del messaggio evangelico. La malattia, dunque, può essere generatrice di fede e di amore. Essa rende l’attestazione del vangelo molto più incisiva e autentica, compiendo quanto lo stesso Paolo affermava nella prima lettera ai Corinzi (1,27): «Dio ha scelto ciò che è debolezza (asthené) del mondo per confondere i forti». C’è, però, un altro passo particolarmente suggestivo nell’autobiografia dell’Apostolo, che dipinge se stesso come dotato di «una presenza fisica debole (asthenés)» e «una parola dimessa» (2 Corinti 10,10). Infatti nella stessa seconda lettera ai Corinzi egli confida che gli è stato conficcato «un pungiglione nella carne, un emissario di Satana che mi shiaffeggi, perché non insuperbisca. Tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me. Mi rispose: Ti basta la mia grazia; la mia potenza si esprime nella debolezza (asthéneia)» (12,7-9). In queste parole c’è indubbiamente tutta l’umanità dell’Apostolo che, come ogni sofferente, implora ripetutamente di essere liberato da quel male. Cosa sia questo “pungiglione” non è esplicitato da Paolo che, così, ha lasciato via libera alle ipotesi degli interpreti. Quasi tutti i Padri antichi della Chiesa si sono orientati su una malattia fisica, fino alla svolta di san Gregorio Magno che nel suo Commento morale a Giobbe propose una lettura spirituale, cioè la presenza di un male dell’anima. L’esegesi moderna in prevalenza è ritornata sulla dimensione fisiologica, variamente ipotizzata, basandosi appunto sul dato autobiografico sopra citato della lettera ai Galati. Tuttavia, proprio anche per la connessione là delineata tra infermità ed evangelizzazione, non si deve abbandonare l’idea della presenza di una sfumatura anche spirituale, come ha suggerito Lucien Cerfaux, importante studioso francese di Paolo. La debolezza della carne sofferente è apparentemente un ostacolo all’annunzio del vangelo, è un’umiliazione perché impedisce di essere missionario a tempo pieno e con  tutte e le forze, è una sorta di ostacolo satanico. Eppure ecco irrompere l’opera di Dio, che considera il terreno dell’asthéneia umana un luogo privilegiato per far brillare la potenza della grazia divina, come sopra già si diceva. L’annunzio evangelico nella sua efficacia non è frutto solo (e innanzitutto) di strategie umane, di abilità discorsiva, di propaganda umana. Lo ricordava lo stesso Paolo ai Corinzi allorché scriveva: «Quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza […]. Fui in mezzo a voi nella debolezza (asthéneia) e con molto timore e tremore; e la mia parola e il mio messaggio non ebbero discorsi persuasivi di sapienza, ma conferma di Spirito e di potenza» (1 Corinti 2,1.3-4). Quel Dio, che sceglie gli umili, i deboli e gli ultimi, riesce più agevolmente a rivelare la sua parola di salvezza attraverso la fragilità degli infermi. È il tipico paradosso evangelico degli ultimi che sono primi nel regno di Dio.In questa luce si comprende la considerazione immediatamente successiva al passo sul “pungiglione nella carne”. Continua infatti l’Apostolo: «Mi compiaccio delle infermità, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni, delle angustie, a motivo di Cristo; perché quando sono debole (asthenô), allora sono forte» (2 Corinti 12,10). Contro una visione utilitaristica ed efficientista, com’è quella in cui siamo immersi, le parole di Paolo risuonano con tutta la forza provocatrice che esse avevano anche nel mondo greco, ove era la forma psicofisica perfetta a essere segno di pienezza, di autenticità, di divinità. Il cristianesimo, che ha nella “stoltezza” e nello “scandalo” della croce – per usare una celebre locuzione paolina – il suocentro vitale, riabilita ed esalta il sofferente, ribaltando ogni interpretazione di  commiserazione.

RAVASI: SAPIENZA E BELLEZZA, PERLA PREZIOSA E COSA NUOVE

http://www.zenit.org/it/articles/ravasi-sapienza-e-bellezza-perla-preziosa-e-cosa-nuove

RAVASI: SAPIENZA E BELLEZZA, PERLA PREZIOSA E COSA NUOVE

L’omelia del presidente del Dicastero per la Cultura al Pantheon, in occasione dell’ammissione dei nuovi soci nella Pontificia Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi

Roma, 02 Luglio 2013 (Zenit.orgRossoporpora.org) Giuseppe Rusconi

A occhio l’occasione sembrava poter essere feconda di riflessioni. E lo è stata. A quattro giorni di distanza dalla santa messa presieduta in Santa Maria in Camposanto (e dall’omelia sui ‘verbi dei martiri’), il biblista porporato ha voluto dedicare la sua attenzione agli ‘uomini illustri’ congregati nell’Accademia per eccellenza “di belle arti e lettere” riconosciuta da Paolo III nel 1542.
Lo spunto è stato dato dapprima dalla lettura di un brano del Siracide, libro sapienziale che si riteneva contenesse il succo della cultura ebraica. Erano tempi quelli, ha subito annotato il prefetto emerito della Biblioteca ambrosiana, in cui per la cultura “c’era passione, ammirazione”, sentimenti che oggi “non si ritrovano nei confronti dell’intelligenza e della sapienza”. Gli “uomini illustri” del Siracide erano in grado di guidare il popolo, di dispensare saggezza, di inventare melodie, di comporre canti poetici: e vivevano nella pace interiore. Qui il presidente del Pontificio Consiglio della cultura ha fatto osservare che nella traduzione latina di san Gerolamo si aggiungeva un’altra virtù rispetto al testo ebraico e a quello greco: “erano uomini dediti alla ricerca della bellezza”.
Ogni artista, ha qui rilevato Ravasi, “ha una tensione verso il mistero della bellezza, che ha sempre due tagli: quello del dolore e quello della felicità, penetrando in ambedue i casi nell’intimo, trapassando il cuore”. Se la bellezza da una parte è la celebrazione dell’armonia, dall’altra è anche “il canto della tragedia”. Del resto, “se non ci fosse il dolore, i due terzi della letteratura non esisterebbero, come l’intero Dostoevskij”. Perciò la bellezza è grande quando sa esaltare anche la ferita, quella che sanguina. 
Rifacendosi al Vangelo di Matteo (13, 45: Il Regno dei Cieli è simile anche ad un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra e 13,52 Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del Regno dei Cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche), il cardinale Ravasi ha affermato che gli artisti la perla preziosa l’hanno avuta in dono e non la devono acquistare. E’ l’ispirazione che ha in sé una sacralità simile a quella della Parola di Dio.
Del resto “per certi versi il linguaggio dell’arte ha una grammatica analoga a quella della fede e a quella dell’amore”. Può apparire curioso che lo scriba della parabola estragga dal tesoro prima le cose nuove, poi quelle antiche. Ma è come per gli alberi, che “hanno il tronco e le radici spesso secolari… e però ogni primavera ecco la novità delle foglie sempre nuove e sempre diverse”. Le cose nuove vanno estratte prima dal tesoro, poiché “sono il segno della creatività” e tuttavia “bellezza e nuovo poggiano sulla tradizione” sempre valida. Come ha detto Bernardo di Chartres (o forse Giovanni di Salisbury): “Noi siamo nani sulle spalle di giganti”: e i nani, ha chiosato Ravasi, vedono più lontano dei giganti.
Considerati i contenuti dell’omelia si è inserita perfettamente nell’atmosfera del rito la francescana “Tu sei Bellezza/tu sei la Pace” (con la voce intensa della solista Mariangela Topa). Tra le altre melodie del coro (ringraziato ancora una volta dal cardinale all’inizio dell’omelia, poiché sa “rivolgere il suo sguardo verso l’infinito e l’eterno”), “Benedici il Signore anima mia” e il sempre suggestivo “Totus tuus” finale. Si è poi passati all’ammissione solenne di dieci nuovi soci (hanno promesso di servire la fede cattolica) nella Pontificia Accademia dei virtuosi, presieduta dal professor Vitaliano Tiberia: tre architetti, un pittore, tre scultori, tre letterati e poeti. I loro nomi (alcuni assai noti): Lorenzo Bartolini Salimbeni, Mario Botta, Maria Antonietta Crippa, Pedro Cano, Giuseppe Ducrot, Mimmo Paladino, Ugo Riva, Laura Bosio, Vincenzo Cerami, Luca Doninelli.
Avendo l’Accademia come patrono san Giuseppe, la celebrazione si sarebbe dovuta tenere il 19 marzo, ma quel giorno (e chi non se lo ricorda?) c’è stato in piazza san Pietro l’insediamento di papa Francesco, ricco di emozioni per la mente e il cuore. Da qui il rinvio al primo luglio.

PAOLO : IL CRISTIANESIMO INCANDESCENTE – DI GIANFRANCO RAVASI

http://www.santamariaregina.it/letto_e_scelto/2008/giugno/cristianesimo.pdf

PAOLO : IL CRISTIANESIMO INCANDESCENTE

DI GIANFRANCO RAVASI

Oggetto d’indomato amore e di ardente detestazione, Paolo traccia una discriminante soprattutto tra giudaismo e cristianesimo ma anche tra ellenismo e cultura cristiana, divenendo «scandalo» nel senso etimologico della parola greca, cioè pietra d’inciampo. La sua conversione fu un’assunzione esclusiva del Cristo come termine di ogni verità e di ogni giudizio. Una vera immedesimazione con la sua persona, fino a dire: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» «Come la fiamma che si abbatte tra le canne e il fieno trasforma nella propria natura ciò che arde – scriveva Giovanni Crisostomo – così Paolo tutto invade e tutto trasporta alla verità, torrente che tutto raggiunge e che schianta gli ostacoli.  Come atleta che insieme lotta e corre e sferra pugni, come soldato che combatte in campo aperto, così Paolo usava ogni genere di battaglia, spirando fuoco…» Paolo, Servo di Cristo Gesù, Apostolo per vocazione». Inizia proprio con questa autodefinizione la Lettera che san Paolo indirizza «a  quanti sono in Roma amati da Dio e santi per vocazione». Ed è partendo da  queste parole che noi ora vorremmo proporre in modo molto essenziale e sintetico un profilo dell’Apostolo per eccellenza, in occasione dell’«anno  paolino» che la Chiesa sta celebrando, anno simbolico non essendo a noi  nota la data reale della nascita a Tarso di colui che avrebbe inciso così profondamente nella storia della cristianità e dell’intera umanità. Come  scriveva il nostro grande poeta Mario Luzi, «il nucleo della forza di Paolo sta  nell’assunzione totale ed esclusiva del Cristo Gesù come termine di ogni verità e di ogni giudizio. Si tratta anzi di una vera immedesimazione con la sua persona e di una piena integrazione nel suo corpo avvenute (e predicate) mediante il battesimo nella morte di Gesù». Paolo, «il Lenin del cristianesimo»? Eppure non sempre la figura dell’Apostolo è stata esaltata. «Il vero cristianesimo, che durerà eternamente, viene dai vangeli, non dalle epistole di Paolo. Gli scritti di Paolo sono stati, in verità, un pericolo e uno scoglio; sono stati la causa dei principali difetti della teologia cristiana. Paolo è il padre del sottile Agostino, Paolo è il padre dell’arido Tommaso d’Aquino, Paolo è il padre del tetro calvinista, Paolo è il padre del bisbetico giansenista. Gesù è, invece, il padre di tutti coloro che cercano nei sogni dell’ideale il riposo delle anime loro». Così dichiarava nel suo Saint Paul (1869) Ernest Renan, iscrivendosi nella lista dei detrattori dell’Apostolo, come avrebbe fatto più tardi il «laico» Gide, insofferente per il Paolo calvinista della sua famiglia d’origine. Oggetto d’indomato amore e di ardente detestazione, Paolo traccia una discriminante soprattutto tra giudaismo e cristianesimo ma anche tra ellenismo e cultura cristiana, divenendo «scandalo» nel senso etimologico di questa parola greca, cioè pietra d’inciampo. Per secoli nel giudaismo Paolo è stato bollato come traditore e apostata; ma non è mancato più recentemente chi, come l’ebreo Richard I. Rubenstein, l’ha ritrovato «fratello» ( My Brother Paul, New York 1972) o, come si legge nel titolo di un’opera di Alan F. Segal, l’ha definito Saul the Pharisee (New Haven 1990), considerandolo l’unico scrittore fariseo del I sec. e il fervido annunziatore del monoteismo ai pagani, mentre un esegeta cristiano, Ed P. Sanders, allentava di molto le tensioni tra Paolo e la dottrina giudaica tradizionale, contrariamente all’opinione dominante. Anche nel cristianesimo l’Apostolo per eccellenza, come viene chiamato, non ha mancato di dividere. La stessa definizione di «secondo fondatore del cristianesimo», coniata nel 1904 da Wilhelm Wrede nel suo Paulus, è ambigua: può indicare un’opera benefica di rigenerazione rispetto al primo fondatore Gesù, ma pure un intervento devastante di degenerazione. In questo secondo senso si muoverà Nietzsche, che nel suo Anticristo bollerà Paolo come «disangelista», cioè annunziatore di una cattiva novella, al contrario degli «evangelisti»; mentre Gramsci sbrigativamente lo classificherà come «il Lenin del cristianesimo». Certo è che qualche riserva almeno per un uso improvvido delle sue teorie appariva già nel Nuovo Testamento quando nella Seconda Lettera di Pietro si leggeva: «[Nelle lettere del nostro carissimo fratello Paolo] vi sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli incerti le travisano, al pari delle altre Scritture, a loro rovina» (2 Pt 3,16). Non è mancato, però, chi ha abbozzato ritratti aureolati dell’Apostolo, come Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli, che nella XXV Omelia dedicata alla Seconda Lettera ai Corinzi, esclamava: «Come la fiamma che si abbatte tra le canne e il fieno trasforma nella propria natura ciò che arde, così Paolo tutto invade e tutto trasporta alla verità, torrente che tutto raggiunge e che schianta gli ostacoli. Come atleta che insieme lotta e corre e sferra pugni, come soldato che assedia le mura e combatte in La « conversione di San Paolo » di Caravaggio (1601)campo aperto e guerreggia sulle navi, così Paolo usava ogni genere di battaglia, spirando fuoco… Balzava in ogni luogo senza interruzione, accorreva presso gli uni, raggiungeva gli altri, assisteva questi e si affrettava da quelli, più veloce del vento. Governava come fosse una sola casa o una sola nave il mondo intero, sollevando i sommersi, consolidando coloro che turbati cadevano, comandando ai marinai; seduto a poppa, teneva fisso lo sguardo a prua, tirava le funi, manovrava i remi, tendeva le vele con gli occhi che scrutavano il ciclo, facendo tutto da solo, come nocchiero, prodiere, vela, nave. E tutto per portare fuori dalla sventura tutti». Lutero ha assunto la Lettera ai Romani come vessillo della sua Riforma, brandendo spesso una frase paolina come spada per la sua lotta teologica ed ecclesiale. Bossuet nel suo Panegirico di San Paolo (1659) esaltava «colui che non lusinga le orecchie ma colpisce dritto al cuore», mentre Victor Hugo nel William Shakespeare (1864) lo inseriva tra i genii, «santo per la Chiesa, grande per l’umanità…, colui al quale il futuro è apparso: nulla è superbo come questo volto stupito dalla vittoria della luce». Franz Werfel nel dramma Paolo tra gli Ebrei (1926) cercava, invece, di illustrare il fallito tentativo del giudaismo di non perdere questo suo figlio brillante. Il suo antico maestro Gamaliel lo supplica: «Per la libertà di Israele, confessa: Gesù era solo un uomo!»; ma Paolo ormai ha la vita attraversata dalla luce di Cristo e non può che respingere il pur amato rabbì Gamaliel. Si potrebbe a lungo continuare questo elenco di ammiratori di Paolo, giungendo fino ai nostri giorni. Pensiamo al Saulo dell’ungherese Miklos Meszöly, composto tra il 1962 e il 1967, diario autobiografico paolino in cui il persecutore si trasforma nell’uomo braccato dal mistero, «come se fossi sempre inseguito da qualcuno» che alla fine lo raggiunge per sempre. Ma vorremmo soprattutto evocare quell’«abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo (sotto forma di appunti per un direttore di produzione)», datato «Roma, 22-28 maggio 1968», che Pier Paolo Pasolini ha elaborato e ripreso nel 1974 senza mai concluderlo e che sarà pubblicato postumo nel 1977 con il titolo San Paolo. L’idea era di trasporre la vicenda dell’Apostolo ai nostri giorni, sostituendo le antiche capitali del potere e della cultura con New York, Londra, Parigi, Roma, la Germania. «Paolo è qui, oggi, tra noi» scriveva l’autore delle Lettere luterane «egli demolisce rivoluzionariamente, con la semplice forza del suo messaggio religioso, un tipo di società fondata sulla violenza di classe, l’imperialismo, lo schiavismo…. Il film, però, rivelerà la contrapposizione tra ‘attualità’ e ‘santità’: il mondo della storia che tende, nel suo eccesso di presenza e di urgenza, a sfuggire nel mistero, nell’astrattezza, nel puro interrogativo; e il mondo del divino che, nella sua religiosa astrattezza, al contrario, discende tra gli uomini, si fa concreto e operante». Sulla strada verso Damasco «Oltre ogni misura perseguitavo la Chiesa di Dio cercando di distruggerla»; così confessava Paolo ai Galati (Gal 1,13) in un vasto brano autobiografico (cc. 1-2), documento rilevante per la ricostruzione della vicenda personale dell’Apostolo, insieme con 1’«autoelogio» di 2 Corinzi 11-12. Una confessione che ribadirà ai Filippesi: «Ero uno zelante persecutore della Chiesa» (Fil 3,6). Negli Atti degli Apostoli, dopo la lapidazione di Stefano, il primo martire cristiano, si annota: «Saulo era compiaciuto della soppressione di Stefano» (At 8,1). Ma ecco la grande svolta che Paolo affida solo a tre verbi, due di illuminazione, uno di lotta: «[Cristo] è apparso anche a me … [Dio] si degnò di rivelarmi il suo Figlio… Sono stato afferrato da Cristo Gesù» (1 Cor 15,8; Gal 1,16; Fil 3,12). Tre sono anche le
narrazioni di quella celebre epifania sulla via di Damasco: Ace le offrono gli Atti degli Apostoli, alla terza persona nel c. 9 e alla prima nei cc. 22 e 26. Quell’evento è per Paolo discriminante: da allora ci sarà un «prima» sconfessato e un «poi» tutto segnato da Cristo. Prima c’era Saulo («Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», gli grida la voce misteriosa), poi ci sarà Paolo, l’apostolo di Cristo. Anche Felix Mendelssohn Bartholdy nel suo mirabile oratorio Paulus op. 36, ideato a partire dal 1831 ed eseguito per la prima volta a Düsseldorf il 22 maggio 1836 con ben 356 coristi e 160 strumentisti, ha diviso la storia paolina desunta dagli Atti degli Apostoli in due parti, affidandola a due bassi diversi, l’uno è Saulo e l’altro incarna Paolo. «Un’opera, quella di Mendelssohn» come riconosceva Robert Schumann «dell’arte più pura, un’opera di pace e di amore». Nei nostri occhi, invece, quell’illuminazione divina rimane fissa nella raffigurazione della tela del Caravaggio a Santa Maria del Popolo a Roma, con l’enorme cavallo che sogguarda Saulo disarcionato e accecato. Una conversione che diventa quasi il modello di ogni altro rivolgimento spirituale. Basterebbe pensare ad Agostino che muterà la sua vita proprio aprendo una pagina paolina, al c. 13 della Lettera ai Romani: «Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la carne nelle sue concupiscenze! Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata la lettura di questa frase, una luce di certezza penetrò il mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono» ( Confessioni VIII, 12,29). Osservava Victor Hugo nel citato William Shakespeare: «La via di Damasco è necessaria al cammino del progresso. Cadere nella verità e rialzarsi uomo giusto è una cadutatrasfigurazione: questo è sublime! Questa è la storia di Paolo e, dopo di lui, questa sarà la storia dell’umanità. Il progresso si attuerà solo attraverso una serie di illuminazioni». Anche August Strindberg nel suo audace dramma Verso Damasco, composto tra il 1898 e il 1904, trasforma quell’evento antico in una parabola del percorso della vita, ma per lo scrittore svedese la via che conduce a Damasco è un labirinto onirico ove le tracce si confondono, è una spirale ossessiva ove il passato a brandelli si mescola con il presente, ove ogni decorso lineare si aggroviglia in ripetizioni, ove ogni sbocco atteso si rivela un inganno, ove la folgorazione finale non accade. Così non è per Saulo che da quel giorno degli anni 32-35, a poca distanza dalla morte di Cristo, diventa il più appassionato missionario cristiano, soprattutto sulle strade dell’area geografica chiamata poeticamente da Deissmann «l’ellisse dell’ulivo», cioè la costa mediterranea che si dispiega da Antiochia, Efeso, Tessalonica, Atene, Corinto, fino a Roma. Proteso fin dall’inizio verso i pagani (Gal 1,16) e incline a scegliere i grossi centri (l’unica città di rilievo esclusa fu Alessandria d’Egitto), Paolo «evangelista» procede armato solo della parola, «come se Dio esortasse Iper mezzo nostro» (2 Cor 5,20), «non parola d’uomo ma parola di Dio, che effonde la sua energia in voi che avete creduto» (1 Ts 2,13). Il vangelo, però, non è solo una teoria, è anche e soprattutto un modo di esistere ed è per questo, come notava Dietrich Bonhoeffer nel suo Schema per un saggio scritto in carcere, che la parola dev’essere sostenuta dal «modello umano che trae origine dall’umanità di Cristo». Paolo, allora, si presenta proprio come un modello di vita da imitare: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1 Cor 4,16). Le sue Lettere sono questo intreccio tra parola e vita; non sono, come spesso erroneamente si crede, freddi trattati teologici. La lingua stessa è piegata all’azione, come riconosceva uno che se ne intendeva, Erasmo da Rotterdam nella lettera premessa alle due Epistole paoline ai Corinzi: «Se si suda a spiegare le idee di poeti e oratori, con questo retore [Paolo] si suda ancor di più a capire cosa vuole, a cosa mira», pronto com’è a farsi greco con i greci, giudeo con i giudei, «servo di tutti, per guadagnare il maggior numero« a Cristo (1 Cor 9,19-23). Il citato Wrede chiamava giustamente le Lettere paoline «frammenti di missione» e noi ad esse potremmo applicare la definizione che uno scrittore greco contemporaneo a Paolo, Demetrio, aveva coniato per il genere epistolare: è «l’altra parte del dialogo», che di sua natura è già intessuto con la presenza e la parola viva. Un mistero ancora da scoprire La lettura integrale degli scritti di Paolo rimane indispensabile per comprendere tutti i lineamenti di un volto originale e sfuggente. Ed è un limite grave che essi siano quasi del tutto assenti, sia nella predicazione ecclesiale sia nella conoscenza laica: quanti sono i cristiani che hanno letto con attenzione l’intera Lettera ai Romani? E quanti sono i cultori della storia dell’Occidente che hanno cercato di individuare e comprendere le radici paoline? Il vangelo di Paolo è centrato sul Cristo crocifisso e risorto, umiliato e glorioso: si pensi che delle 535 presenze nel Nuovo Testamento del nome di Gesù Cristo (di Gesù, di Cristo e così via) almeno 400 si trovano nell’epistolario paolino. Nella Lettera ai Romani egli confessava: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? No, in tutte queste cose noi stravinciamo per merito di Lui che ci ha amati. Sono, infatti, convinto che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39). l discorso teologico dell’Apostolo, radicato nel vangelo di Cristo, si allarga però fino ad abbracciare e ad illuminare orizzonti diversi entro i quali l’umanità si muove e si scontra continuamente. Il quadro generale potrebbe, essere così formulato secondo una sintesi suggerita da un esegeta, Pietro Rossano: «In un grande disegno salvifico Dio offre la salvezza a tutti, ebrei e gentili, in Cristo Gesù morto e risorto. Si diventa partecipi della salvezza unendosi a Cristo mediante la fede, morendo con lui al peccato e partecipando alla forza della sua risurrezione. La salvezza tuttavia non è ancora completa finché egli di nuovo ritorni; nel frattempo colui che in Cristo è stato affrancato al potere della legge e del peccato diventa un uomo nuovo per opera dello Spirito e la sua condotta si ispira alla nuova situazione in cui è venuto a trovarsi per la chiamata divina». Questo linguaggio teologico, pur accurato, risulta, però, uno stampo freddo che non può del tutto contenere l’incandescenza del pensiero e del sentimento dell’Apostolo.

MATERIALITÀ E SIMBOLOGIA BIBLICA DELL’ACQUA – di GIANFRANCO RAVASI – L’Osservatore Romano 2 settembre 2011

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MATERIALITÀ E SIMBOLOGIA BIBLICA DELL’ACQUA

di GIANFRANCO RAVASI – L’Osservatore Romano 2 settembre 2011

È questa la stagione nella quale riusciamo a comprendere in pienezza il valore di quella tetrade aggettivale che san Francesco ha dedicato nel suo Cantico a “sor’acqua”: “utile et humile et pretiosa et casta”. Tanti sono i profili che questa realtà presenta, soprattutto a livello sociale, come vediamo ininterrottamente nelle “lotte per l’acqua”, nelle tragedie legate alla siccità, nelle stesse politiche: si pensi, per stare vicino a noi, anche alla recente vicenda del referendum che l’aveva proprio per tema.
Si tratta, infatti, di una realtà veramente “utile et pretiosa”, principio della nostra composizione organica e della stessa sopravvivenza. Noi ora ci accontenteremo di lasciare spazio alla Bibbia che ci parlerà non solo della “materialità” dell’acqua ma anche e soprattutto della sua “simbolicità”. … Un panorama assolato, una steppa arida, un’oasi verdeggiante incastonata in una valle, una pista che si dipana negli spazi solitari, qualche raro albero e cespuglio: può sembrare uno stereotipo paesaggistico orientale, ma è effettivamente questo l’habitat prevalente dell’uomo della Bibbia ed è così che l’acqua costituisce, ieri e oggi, il cardine dei desideri e delle contese, l’archetipo dei simboli e delle idee del nomade e del sedentario.
La parola majim, “acqua”, risuona oltre 580 volte nell’Antico Testamento, come l’equivalente greco hydor ritorna un’ottantina di volte nel Nuovo (metà di queste occorrenze sono nel solo Vangelo di Giovanni); circa 1.500 versetti dell’Antico e oltre 430 del Nuovo Testamento sono “intrisi” d’acqua, perché oltre ai vocaboli citati c’è una vera e propria costellazione di realtà che ruotano attorno a questo elemento così prezioso, a partire dal pericoloso jam, il “mare”, o dal più domestico Giordano, passando attraverso le piogge (con nomi ebraici diversi, se autunnali, invernali o primaverili), le sorgenti, i fiumi, i torrenti, i canali, i pozzi, le cisterne, i serbatoi celesti, il diluvio, l’oceano e così via. Per non parlare poi dei verbi legati all’acqua come bere, abbeverare, aver sete, dissetare, versare, immergere (il “battezzare” nel greco neotestamentario), lavare, purificare…. Un filo d’acqua scorre idealmente attraverso le pagine delle Sacre Scritture, testimoniando una sete ancestrale, legata a coordinate geografiche ed ecologiche segnate dall’aridità.
Non per nulla la Bibbia si apre con la creazione della luce e dell’acqua (Genesi, 1, 3-10) e con le piogge e la canalizzazione delle sorgenti (Genesi, 2, 4-6) e si chiude con “unfiume d’acqua viva limpida come cristallo che scaturisce dal trono di Dio e dell’Agnello” (Apocalisse, 22, 1). E in mezzo c’è sempre l’ansiosa ricerca dell’acqua e la sete. Basti solo pensare a Israele nel deserto e al suo grido: “Dateci acqua da bere!” (Esodo, 17, 2), o alla siccità vista come una maledizione celeste pronunziata dal profeta in nome di Dio: “Per la vita del Signore, Dio d’Israele, alla cui presenza io sto – minaccia Elia – non ci sarà né rugiada né pioggia se non quando lo dirò io” (1 Re, 17, 1).
Geremia ci ha lasciato uno dei più vivaci e drammatici ritratti di questa piaga endemica del Vicino Oriente: “I ricchi mandano i loro servi in cerca d’acqua; essi si recano ai pozzi ma non la trovano e tornano coi recipienti vuoti. Sono delusi e confusi e si coprono il capo. Per il terreno screpolato, perché non cade pioggia nel paese, gli agricoltori sono delusi e confusi. La cerva partorisce nei campi e abbandona il parto perché non c’è erba. Gli onagri si fermano sulle alture e aspirano l’aria come sciacalli; i loro occhi languiscono perché non si trovano erbaggi” (14, 3-6)…. È per questo che, quando s’affacciano le nubi e cade la pioggia, si è convinti di ricevere una benedizione divina, come si legge nel Deuteronomio: “Il Signore apre per te il suo benefico tesoro, il cielo, per dare alla tua terra la pioggia a suo tempo e per benedire tutto il lavoro delle tue mani” (28, 12).
Tuttavia il Creatore, che è Padre di tutti, si preoccupa di ogni sua creatura prescindendo dal merito, come dirà Gesù: “Il Padre vostro celeste fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Matteo, 5, 45). E quando arriva la primavera con le sue piogge, il Salmista – in un dipinto poetico di straordinaria fragranza (65, 10-14) – immagina che il Signore passi col suo carro delle acque “dissetando la terra, gonfiando i fiumi, irrigando i solchi, amalgamando le zolle, bagnando il terreno con la pioggia: al suo passaggio stilla l’abbondanza, stillano i pascoli del deserto (…) e tutto canta e grida di gioia”.
L’uomo dà il suo contributo con le canalizzazioni e la tecnica idraulica: basti solo visitare nella fortezza di Meghiddo in Galilea l’imponente acquedotto o seguire la galleria (di 540 metri) scavata nell’VIII secolo prima dell’era cristiana, dal re Ezechia per portare l’acqua dalla sorgente di Ghicon fino alla riserva di Siloe a Gerusalemme (una lapide, conservata ora al museo archeologico di Istanbul evoca il momento emozionante della caduta dell’ultimo diaframma e dell’incontro delle due squadre di operai che da lati opposti avevano condotto lo scavo)…. Proprio perché è al centro della esistenza fisica, l’acqua diventa un simbolo dei valori assoluti, della vita anche nella sua dimensione spirituale, della stessa trascendenza.
Melville in quel particolare “romanzo d’acqua” che è Moby Dick scriveva: “Perché gli antichi Persiani consideravano sacro il mare? Perché i Greci gli assegnarono un dio a sé, fratello di Giove? Certo tutto questo non è senza significato. E ancora più profondo è il senso della favola di Narciso che, non potendo afferrare la tormentosa, dolce immagine che vedeva nella fonte, vi si immerse e annegò. Ma quella stessa immagine anche noi la vediamo in tutti i fiumi e oceani. È l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita, e questa è la chiave di tutto”. La stessa chiave è, dunque, adottata anche nella Bibbia e secondo uno spettro molto variegato di significati, non solo positivi. Pensiamo solo al segno del diluvio come atto giudiziario divino compiuto attraverso l’acqua e allo stesso esodo nel mar Rosso che si chiude come un sepolcro di morte sugli Egiziani oppressori o al citato jam, il “mare”, che meriterebbe una trattazione a sé stante, essendo per Israele il simbolo del caos, del nulla e persino del male: per questo Cristo cammina sulle onde e fa piombare i porci, animali impuri, nel mare e riesce a sostenere su quelle acque anche il discepolo impaurito, Pietro (Matteo, 14, 24-31)….
L’acqua è, però, prima di tutto e sopra tutto segno di vita e di trascendenza. Noi ora ci accontenteremo di mettere quasi in fila, in una sorta di elenco, alcuni dei tanti valori metaforici che le acque acquistano: esse, infatti, nella Bibbia non sono mai dolcemente contemplate come “chiare fresche dolci acque” alla maniera petrarchesca, ma sono celebrate come rimandi a realtà nascoste più alte. Così, l’acqua è per eccellenza simbolo di Dio, sorgente di vita. Basti solo evocare l’indimenticabile comparazione geremiana: “Essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate che non tengono l’acqua” (2, 13). L’acqua è segno della Parola divina senza la quale si soffoca e si è aridi: “Verranno giorni – dice il Signore – in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete d’acqua, ma di ascoltare la parola del Signore… Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca” (Amos, 8, 11 e Isaia, 55, 10-11)….
L’acqua è simbolo della sapienza divina effusa in Israele: “Essa trabocca come il Tigri nella stagione dei frutti nuovi, fa dilagare l’intelligenza come l’Eufrate e come il Giordano nei giorni della mietitura, espande la dottrina come il Nilo, come il Ghicon nei giorni della vendemmia (…) Io sono come un canale derivante da un fiume e come un corso d’acqua sono uscita verso un giardino. Ho detto: Innaffierò il mio giardino e irrigherò la mia aiuola! Ed ecco il mio canale è divenuto un fiume e il mio fiume un mare” (Siracide, 24, 23-25.28-29).
L’acqua annunzia l’era messianica e la rinascita dell’umanità: “Scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa; la terra bruciata diventerà una palude e il suolo riarso si muterà in sorgenti d’acqua” (Isaia, 35, 6-7). Anzi, l’acqua diventa l’emblema di Cristo, come si intuisce nel celebre dialogo con la Samaritana: “Chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà più sete, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Giovanni, 4, 14). È per questo che l’evangelista testimonia con insistenza che dal costato del Cristo crocifisso “uscì sangue e acqua” (19, 34). E come si intuisce nelle parole destinate alla donna di Samaria, l’acqua diventa anche il segno della vita nuova del credente nel quale è effuso lo Spirito di Dio. Gesù, durante la festa ebraica delle Capanne (che comprendeva proprio un rituale con l’acqua di Siloe), aveva esclamato: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui” (Giovanni, 7, 7-39).
L’acqua, allora, è immagine della vita nuova del fedele che con essa si purifica il cuore del male (“Lavami da tutte le mie colpe”, Salmi, 51, 4), secondo quel rito lustrale che è presente in quasi tutte le culture religiose. Essa rappresenta, così, anche la rigenerazione interiore, destinata a dare frutti di giustizia: “Il giusto sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua; darà frutti a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai” (Salmi, 1, 3).
Ma l’acqua rimane soprattutto il simbolo supremo di quel Dio di cui l’uomo ha sempre sete ed è questa la costante preghiera di tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia (letteralmente “la mia gola”) ha sete di Dio, del Dio vivente (…) O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua…” (Salmi, 42, 2-3; 63, 2).

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